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Sempre di moda la lagna generazionale?

di Ennio Abate

Mio commento a Massimo Morasso, Poeti italiani nati negli anni ’60 di Francesco Napoli  (qui)

Me la volete spiegare questa «consapevolezza di essere generazione»? Cosa significa? Quanto mai una generazione non ha tratti simili e altri differenti da quelle precedenti? Quanto mai si può illudere di avere una identità tutta sua e soltanto“generazionale”? A leggere l’articolo di Morasso, oltre alla solita lagna (“nuova generazione perduta”, “generazione mancata”), non accompagnata daalcuna onesta spiegazione sul perché essa sia “perduta” o “mancata”, vedo soltanto la solita accusa generica – ai “padri” o ai “fratelli” maggiori? – perché sarebbe stata – in blocco? come singoli/e? – ”occultata […] fra le pieghe meno esposte del sistema cultural-aziendalista che ha forze economiche e mediatiche “), su cui da decenniparecchi s’intrattengono per consolarsi e smaltire la propria bile pensando di essere “critici”. E mi volete spiegare perché, secondo voi, “gli anni ’60 siano stati un giro di boa tra un mondo vecchio e un mondo nuovo”? Quale sarebbe per voi il “mondo vecchio”, quale il “mondo nuovo”? No, cari non miei e non mie amici/amiche, la vostra “colpa” non è quella di non essere riusciti – come sfacciatamente confessa Morasso -a farvi “lobby degna di rispetto” [1], che a me pare quasi un’apologia dei metodi mafioso-letterari vigenti nelle università e nelle “Grandi” Case Editrici (ma anche in molte delle “piccole”). Né dovete prendervela con un generico destino peressere incappati “in una sorta di faglia epocale sfortunata”. La vostra vera colpa – questa è la mia opinione – è di aver messo a servizio “ carattere, personalità e giusta ambizione” in progetti minuscoli, rigorosamente impolitici/apolitici (“qui non si fa politica!”), fingendo di non vedere che cosa accadeva o accadenella realtà sociale di questo Paese (e nel Mondo) o di non sapere cosa sia accaduto negli anni ‘70 del Novecento. Masoprattutto di aver rimosso, di non aver voluto ragionarci su [2], continuandoa gingillarvi sui vostri blog e pagine FB con la “Poesia Pura” senza riconoscere mai la Crisi della Poesia (e del Mondo in cui boccheggiamo tutti/e) .

Note [1]

“quel “contar poco” è anche l’effetto di una loro colpa consiste nel non essere stati in grado di costruire una societas generazionale e, di conseguenza, di non essere stati capaci di stringersi “a coorte” e immaginare almeno l’aura del fantasma di una “opera comune”, spalleggiandosi l’un l’altro, come accade in ogni lobby degna di rispetto”.

[2] Cfr. https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/06/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano.html

Il Ramarro

Un po’ per celia e un po’ per non morir” (Ettore Petrolini)
Riflessioni sotto forma di filastrocche

di Rita Simonitto

Il ramarro sul balcone
Era preso dal magone.
La finestra come specchio
Lo turbava di parecchio
La livrea sia pure bella
Al fin era sempre quella…
Diventar camaleonte
Suo parente, là dal ponte!
Così stretto dal bisogno
La notte fece il sogno
D’una donna mascherata:
“Son Invidia. M’ha chiamata?
Come lei verde vestita
Vuol giocare la partita?”
“Oh! Niente maschera con me,
Tanto ormai lei so chi è”
“Non si può, no. Anche per lei
Sono enigma. Santi Dei
Ma le devo spiegar tutto?
Questo vizio è sì brutto
Che nessuno vuol avere…
Ma mi faccia il piacere!
Ha mai visto che qualcuno
Se ne vanti?  Ma più d’uno
Mi rinnega, mentitore,
per aver salvo l’onore.”
“Meglio il camaleonte?
Lui ha le risposte pronte.
Realpolitik e altro
Così sgama. Molto scaltro”
“Non facciamo paragoni
Fra i più e meno buoni
Ma il fine che li spinge.
L’invidia è una sfinge
Che nasconde con l’affetto
Il terribile progetto
Di voler la distruzione
Delle cose belle, buone”.
“Ciò che afferma non mi va
Sono soltanto falsità”
“Non crede? Pensi a Jago
Dell’invidia vero mago
E veder come si gode
Quando Otello si corrode!”
“Ma se lei mi fa vedere
Questo tristo suo potere
Se lei si confessa a me
Vorrà dir che amore c’è”
“O ingenuo mio ramarro
Il mio non è uno sgarro
Dalla linea di condotta.
Io esulto per la lotta
Disperata di chi non sa
Se è bugia o verità”.

Ed il sogno si dissolse
Sì veloce che non colse
Lì per lì e per l’appieno
Il poter di quel veleno.

21.08.24

Lavorando a “Nei dintorni di Franco Fortini”

 

di Ennio Abate

Su Disobbedienze

E ora – con uno schematico elenco – direi che per me Fortini disobbediva:
– al gergo, al cosiddetto «politichese» o «sinistrese»;
– alle burocrazie di partito con la loro «boria degli «eredi» e dei «saputi»»(24, I);
– al marxismo «di uso corrente», che, almeno da dopo Lenin, non ha saputo parlare più «del valore che si sposa alla disperazione (la solidarietà, il coraggio, la lealtà, l’amicizia, l’amore» (28, I);
– alla cancellazione della memoria e al sogno/utopia di abolirla (37, I);
– allo stacco fra parole e azioni; e quindi alla «riduzione a «cultura» delle opere, cioè, a erudizione, a nozione, a sapere slegato dai bisogni sentiti oinespressi o mal espressi.(«Da noi… puoi dire quasi tutto ma non puoi fare nulla senza l’immediato intervento del nemico», 39, I);
– a un «modo astratto e dottrinario» o, per contrasto, leggero e disincantato di guardare il mondo e gli orrori della storia;
– all’estetismo, che giudica bello anche «il falso», mentre per Fortini «non è possibile un «bellissimo» che sia falso» (49, I), essendo la bellezza per lui un valore, «non […] una decorazione, una gala, un vestito della festa, una consolazione» e,perciò, non slegata dal fare, dalla politica, essendo «ogni opera di poesia è una proposta politica perché ogni poesia è una notizia sui modi di essere degli uomini» (50, I), mentrearte e poesia sonosoltanto casi particolari della «più generale capacità formativa e formale» degli uomini; – alla visione illuministica dell’uomo tutto Ragione; e, quindi, alla riduzione della religione a «misticismo e irrazionalità» (48, I), del marxismo a giacobinismo, del comunismo ad antifascismo (49, I);
– a chi vuole «vivere di analisi già fatte, di sintesi che invecchiano»;
– alla faciloneria con cui si affronta di solito il rapporto vecchio/nuovo o «il mai concludibile discorso sul rapporto fra azione politica e azione intellettuale e morale» (90, I);
– alla tradizione ebraica paterna, per cui scelse posizioni sempre nettamente critiche nei confronti della politica di Israele verso palestinesi e arabi. ( Cfr. Cani del Sinai, ma anche Un luogo sacro in Extrema ratio, Garzanti 1990).
Potrei riassumersi così la sua posizione: Dire tutto il dicibile e tentare, il più possibile, di scavare nell’indicibile.


Sui futuristi

3. Essendo prevalsa con la Prima Guerra Modiae la faccia distruttrice e dominatrice del Capitale, quella esaltata dai futuristi italiani e marinettiani, e avendo visto che anche quella dei futuristi russi o di Gramsci fu proletaria e socialista solo nella Russia di Lenin del 1917 e davvero per poco tempo, si possono alimentare, a Novecento concluso, ancora speranze su una modernizzazione «buona» o «dal basso» (o pensare a dei futurismi buoni e dal basso), tipo quelle diffuse tra i primi gruppi operai torinesi raccolti attorno a «l’Ordine nuovo» di Gramsci?
Direi di no. Ed ecco perché tra un Sanguineti, che si attesta sul giovane Gramsci «movimentista» o sul Majakovskij antimperialista o sull’anarchismo Dada e un Fortini che tiene conto del Lukács de «La distruzione della ragione» mi pare più attuale e interessante il giudizio radicalmente negativo che Fortini dà non solo del futurismo italiano ma di tutte le avanguardie del primo Novecento (l’espressionismo, il futurismo russo, il surrealismo), perché indica il limite nichilista di fondo di tutti questi movimenti in cui almeno una parte della piccola borghesia intellettuale ,anche quando non fa la scelta bellicista e poi fascista dei futuristi italiani, con la sua esaltazione acritica e neutra del “nuovo” a tutti i costi si brucia o confluisce nella incessante “rivoluzione capitalistica”.
Fortini, infatti, coglie i gravi equivoci in cui incapparono sia l’avanguardia russa che i surrealisti, quando ebbero legami «molto complessi e talvolta tragici e sanguinosi» con anche con la rivoluzione socialista.
Majakovskij e l’avanguardia russa degli anni Venti, Brecht e una parte degli scrittori tedeschi dell’età di Weimar, i surrealisti francesi fra il 1925 e il 1935 e pure la neoavanguardia italiana degli anni ‘60 del Novecento «dimostrano che l’arte e la letteratura d’avanguardia esistono solo in quanto antagoniste di qualsiasi ordine» ma si ritrovano poi spiazzati o inerti quando o il fascismo o lo stalinismo o il neocapitalismo impongono loro il “ritorno all’ordine”.