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senza nulla capire della morte

di Gianfranco La Grassa (Franco Nova)

L’INUTILITA’ DEI DESIDERI
 
Sempre avanti verso le nostre voglie,
eppure mai giungono a conclusione.
Camminano lenti e incerti i fantasmi
di vecchie conoscenze senza successo.
Le amicizie tremano e non ricambiano
temendo un prossimo fallimento
perché i colloqui densi di ricordi
scorrono verso un ben amaro finale.
I sentimenti sono tanto provati
in questi tempi dal passo sicuro e
si rapprendono in blocchi omogenei
cambiando l’abito delle nuove mode.
Dentro di noi è tutto in movimento
verso la fine mai prima pensata.
Non giungeremo agli obiettivi
sempre voluti e mai realizzati,
mentre intorno una fitta nebbia
sfuma i desideri tanto provati
da immergere il nostro animo
in un liquido denso di passioni
irrefrenabili ma mai soddisfatte.


MEGLIO DISTRARSI CON L’INUTILE
 
Senza rimorsi né pentimento
la temuta morte entra nel Nulla;
il cuore batte e ribatte sul
pensiero piegato al male.
Quanti ricordi del malato
implorante una benedizione
nel suo inutile credere ad
una morte ancora lontana.
La mia è in avvicinamento,
subdola mentre piega il lembo
della vita sopra ogni pensiero.
Quanto inutile quel tremare
dolente solo nella fantasia,
perché mentre si affila l’arma
la decisione sarà inaspettata.
Ci svegliamo paurosi la mattina,
la megera medita il giusto momento.
 
NON VEDIAMO LA REALTA’
 
Il crescendo dell’odioso gracidare,
senza presenza degli orridi animali,
è la vita che muta la sua prospettiva
e assume il suo vero essere.
Quante illusioni nella giovinezza
e quante ancora nel sopravvivere
mentre s’allarga il burrone nella
prospettiva della caduta finale.
Continuiamo ad essere speranzosi
senza accorgerci che l’animo
ha invertito la sua direzione
avviandosi alla bufera finale.
Siamo sempre allegri e fiduciosi
mentre in noi cupa incombe
la nera nube viepiù riottosa,
che mai sparisce pur non vista.
Ci apparirà improvvisa e noi
non lo crederemo se non quando
ci avvolgerà per intero soffocandoci.
Sempre così la nostra misera vita,
si mostra cinguettante e gioiosa
mentre prepara la nera prospettiva
di una fine priva d’ogni fiore, che
gli amici ci metteranno ancor vivi
senza nulla capire della morte.

Città greche dell’Asia Minore

di Eugenio Grandinetti

“Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco / verso il paese dov’è silenzio e gioia. / Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere / le mie spoglie mortali per il viaggio” scriveva nel 1924 Sergej Esenin in versi che mi tornano sempre in mente ogni volta che penso agli amici che se ne sono andati. Eugenio Grandinetti è uno di questi. Sto cercando di seguire la vicenda della prevista, ma purtroppo ritardata, pubblicazione di un’antologia delle sue poesie a cura di Luciano Aguzzi. Ho saputo che il 23 aprile scorso al Cenacolo Sant’Eustorgio di Milano sono state lette sue poesie per ricordarlo. E, grazie al paziente lavoro di Rosa De Meo, dispongo ora della trascrizione di alcuni testi manoscritti (per lo più bozze di poesie già edite) recuperati da Anna Maria, la sorella di Eugenio. Più avanti ne pubblicherò qualcuno. Oggi voglio ricordarne la figura ai lettori di Poliscritture con questa sua ampia poesia tutta immersa nel sogno di un’antica civiltà sepolta. [E. A.]

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Al Crocevia

Filastrocche

di Rita Simonitto

Un bel dì a un crocevia
Si trovò una compagnia
Che volea saper del mondo.
S’era piatto, s’era tondo.
Se qualcun l’avea creato
O se il caso fosse stato.
Si poteva trasformare

O soltanto interpretare?
Senza poi passar per matto
Truffaldino, inadatto.
A cambiare quelle sorti
Che ragion danno ai più forti!
Un di loro silenzioso
Dai suoi dubbi era corroso.
Come può l’esser umano
Disbrogliarsi dal pantano:
Se il bene personale
Non concorda col sociale?
Cinque  cardini a rapporto…

Ma “stridea l’uscio dell’orto”*
Con l’amore che t’acceca
E silenzia in bacheca
Cineraria la ragione
E addio rivoluzione.

*Da “La Tosca= di Puccini

R ita Simonitto 
30.05.24

Rifacimento di una poesia di “Immigratorio” (2011)

di Ennio Abate

Ué, Salierne, ire china e zitelle 
cu l’uocchie triste. Cummannata 
ra prievete e avvocatuzze smuorte.
T’assaggiaie. ‘Na cirasa acre ire.

Po sì maturate. E sò maturate 
e figliole ca, qunn’ere giovane
e me ne jette, nun permesse 
accuvate, luntane  viriette. 
 
Mò si e sere so cumm’allore 
e pe vie toie nu poche chiove 
ancore, a piaghe nun se sana 
chiù e ma porte appriesse.
 
Nun chiù presepie,  munne sì. 
Cumm’ati munni  scumbinate.
E a lengua - mia e toia - accussì 
antiche? E' raggia. O è niente.

4 giugno 2024

Ué, Salerno, eri piena di zitelle / dagli occhi tristi. Comandata/ da preti e avvocatuci pallidi. / Ti assaggiai. Una ciliegia acre eri. // Poi sei maturata. E sono maturate / le ragazze che, quand’ero giovane e me ne andai,/ vidi proibite,/ nascoste, da lontano. //Ora se le sere sono come una volta e per le tue vie nu poche chiove * ancora, la piaga non guarisce e me la porto con me. Non più presepio, mondo sei. Come altri mondo scombinata. E la lingua – mia e tua – tanto antica? E’ ira. O è niente.

* da Salvatore Di Giacomo.

Appendice

Versione pubblicata in “Immigratorio” (CFR 2011)

Uè, Salierne!

Che città cummannate ra prievete
chiene r’avvocatucci pallid’e zitelle 
cu l’uocchie triste 
ca ire! 

T’assaggiaie, ‘na cirasa acre ire. 
Sì maturate. Sò maturate 
e figliole ca viriett’e studentess’e 
ma cose nascoste, punizione
sì state 
e sì rimaste! 

Me ne jette nu juorne 
e mò torne ancore. 
È sere, nu poche chiove 
ma rammelle jà 
chelle ca m’accuvaste
quann’ere guaglione 
e ‘mparave a vulà 
cumm’a n’aucielle.

 Sì, vulave, vulave 
e vulive ì luntane!
Ma e scelle erene debbule 
e te l’aje spezzate partenne
prime ro tiempe. 
A piaghe ca te sì purtat’appriess’e 
nun t’a pozze curà cchiù. 
Tuorne viecchie. E vecchia 
me truove. 
Nun sò chiù presepie 
ma munne cumm’ati munni 
tutta scombinate.
Chelle ca teneve to diette: 
sta lengua antiche
lengua e malincunie
ca parlavene e pariente tuoje
pe rusculià storje e mmuorte
ambresse ambresse
accussì strengevene meglie
a raggia mmiezz’e riente.



____________________________ 
Ué, Salerno! 

Che città comandata da preti/ affollata da pallidi avvocatucci e da zitelle/ dall’occhio triste/ fosti //Ti assaggiai, eri una ciliegia acre./ Sei maturata./ Sono diventate mature/ le fanciulle che vidi studentesse/ ma cosa non svelata, punizione/ sei stata/ e sei rimasta!// Me ne andai un giorno/ e adesso torno ancora. È sera, nu poche chiove/ma dammelo (suvvia)/ ciò che mi nascondevi/quand’ero ragazzo/ e imparavo a volare/ come un uccellino. //Sì, volavi, volavi/ e volevi andare lontano!/ Ma le tue ali erano deboli/ e te le spezzasti partendo/ prima del tempo./ La piaga che ti portasti dietro/ io non posso più curartela./ Torni da vecchio. E invecchiata/ trovi anche me.// Non sono più presepe/ma mondo come altri mondi/ tutta in disordine./Quello che avevo te lo diedi:/questa lingua antica/ lingua di malinconia/ quella che parlavano i tuoi parenti/ per rovistare nelle storie dei loro morti/ansiosamente,così stringevano meglio/ la disperazione tra i denti. 

… la guida turistica del bar Brio …

di Angelo Australi

Ogni domenica mattina in quella casa si consumava una scena che sconfinava nella forzatura di un film della commedia all’italiana, alla fine del quale, davanti alla banalità di ciò che verrà raccontato, non sappiamo se conviene ridere o piangere per disperazione. Nel nostro caso Virginia spolverava la mobilia fischiettando all’infinito una delle sue canzoni preferite mentre Simone fantasticava nel suo letto, disteso come un ciocco di legno. Lasciava indietro la stanza del figlio, fino a quando non lo avvisava iniziando quell’ossessiva cantilena che spazientiva tutto il vicinato. Virginia era costretta a fare la pulizia a fondo della casa ogni domenica mattina, per sentirsi libera il pomeriggio di incontrare le sue amiche al Circolo Arci, dove avrebbero giocato a tombola per soldi fino all’ora di cena. Lavorando in una fabbrica di confezioni dalle otto del mattino alle sei di pomeriggio, con pausa pranzo di due ore, per fare le pulizie di casa non le restava che il fine settimana. Il sabato mattina faceva la spesa e dedicava le ore del pomeriggio a stare in compagnia degli anziani genitori. Essendo figlia unica nessuno le dava un aiuto, così per dedicarsi alle pulizie non restava che la mattina dei giorni di festa. Per Simone invece la vita di un giorno festivo iniziava all’ora di pranzo, sempre ammesso che sua madre avesse cucinato qualcosa di buono e non fosse andata in rosticceria a prendere alcune porzioni di untuose lasagne al ragù o un pollo cotto alla griglia, o dei pezzi di arrosto girato. Omero, l’uomo di casa, marito e padre, non era di nessun aiuto perché la domenica per lui aveva un significato solo se usciva per andare a caccia con la squadra degli amici. Erano un gruppo così affiatato che quando si chiudeva la stagione venatoria, per non perdere il vizio di andare nei boschi insistevano con la raccolta dei funghi porcini in quel tesoro di fungaie disseminate sulle catene montuose che recintavano la valle, dove anche l’intensità dell’aria che arrivava dal mare dava ai frutti del terreno un diverso sapore. Fungaie rimaste nel mistero per decenni, anche se in molti si riempivano la bocca giurando di averle individuate. Non tutte, ma solo alcune. Da quando il figlio lavorava negli uffici delle Poste Italiane presso la stazione ferroviaria della città, dove smistava la corrispondenza in partenza e in arrivo, le aspettative sul suo oggi e del suo domani si esaudivano parlando di selvaggina e di boschi. Prima o poi si sarebbe aspettato il matrimonio del figlio, di diventare anche lui nonno, ma per il resto non c’erano altri passatempi. Per esempio, di politica, pur avendo sempre votato PCI, si appassionava solo a ridosso delle elezioni, quando anche lui andava al circolo ARCI per capire il clima che si respirava tra i compagni, eventualmente chiedere informazioni sulle persone che componevano la lista elettorale del suo partito. Omero lavorava in una fonderia, mestiere faticoso e pieno di rischi, dove bisognava stare sempre con gli occhi bene aperti perché una banale svista o distrazione potevano costargli molto care, ma nonostante tutto la domenica si organizzava per andare a caccia con gli amici, alzandosi almeno due ore prima di quando si recava al lavoro; proprio in piena notte. Il luogo dove la squadra dei cacciatori si dava appuntamento la domenica mattina era il bar Brio, lo stesso che in altri orari del giorno e della notte frequentava Simone.

I pomeriggi domenicali di suo figlio iniziavano sempre da questo ritrovo abituale per tanti gruppi di persone più o meno giovani. Non a caso il bar era situato in un punto della circonvallazione che stava al centro di un triangolo composto da una sala cinematografica, dalla discoteca, dall’incrocio che immetteva sul viale della stazione dei treni. E poi il bar Brio era il primo che apriva al mattino per servire i numerosi turnisti che prendevano servizio alle sei in due grandi fabbriche dell’area industriale: la vetreria, lo stabilimento che produceva le corde metalliche dei pneumatici. Il proprietario si chiamava Leandro, garantiva la sua presenza dalle cinque del mattino fino mezzogiorno, poi faceva un riposo che gli avrebbe consentito di coprire in serata gli arrivi al cinema, lasciando gestire alla moglie e una commessa quel poco movimento che ci sarebbe stato nelle ore pomeridiane. A detta del proprietario, criterio grazie al quale valutava in un prossimo futuro di vendere locale e licenza, nel suo bar si facevano ogni giorno dai sei ai settecento caffè. Cifre stratosferiche, se è vero che per ogni caffè c’è sopra un margine di guadagno davvero esagerato.

Senza considerare i più saltuari perché avevano la fidanzata, gli amici di Simone che si davano appuntamento al bar Brio saranno stati una dozzina. Dopo il diploma alle superiori la maggior parte di loro si era subito trovato un lavoro. In pochi avevano scelto di iscriversi all’università, Filippo a medicina, Enzo scienze politiche, Graziella architettura. In quel gruppo solo Spartaco e Ivano – che tutti chiamavano Salamandra – lavoravano ormai da diversi anni, essendosi fermati all’esame di terza media; ma Ivano era morto facendosi asfaltare da un camion mentre azzardava il sorpasso di un’auto in curva, e Spartaco in quel periodo della vita stava facendo il servizio militare. Nel gruppo degli amici la morte di Salamandra rappresentò un trauma spaventoso, anche se guidava la sua moto come un forsennato nessuno si sarebbe mai aspettato facesse quella fine. Si erano salutati sul tardi quel venerdì di fine luglio del 1974, davanti al bar Brio, e il giorno dopo la notizia del suo incidente mortale. Spartaco, classe 1954, era partito militare con il terzo scaglione, verso la metà di giugno, con addosso lo spirito costruttivo di chi si sente condannato ingiustamente aveva cercato in tutti i modi di scansare l’anno di naia, ma poi si era rassegnato. Non gli fu consentito di partecipare al funerale di uno dei suoi migliori amici neppure con un breve permesso giornaliero. Il loro gruppo di adesso si era formato intorno al bar Brio da pochi anni, più o meno quando avevano iniziato a frequentarlo nell’attesa di entrare al cinema, ma con Ivano la cosa veniva da molto più lontano, lui e Spartaco erano legati fin dai giochi dell’infanzia.

Visto faceva angolo con il cinematografo e la stretta strada che conduceva alla discoteca, il bar Brio si trovava in una posizione strategica anche per osservare il movimento. Non solo la domenica pomeriggio e il fine settimana, quando apriva il locale da ballo, il bar era frequentato ogni sera perché, qualsiasi pellicola fosse in programmazione, in molti andavano al cinema. Era insomma uno dei luoghi favoriti dai giovani per passare il tempo libero dallo studio e/o dal lavoro. Un punto cruciale, in chi aspirava a fare degli incontri interessanti. Nel gruppo degli amici di Simone erano tutti appassionati di cinema, prima di entrare a vedere un film nasceva naturale darsi appuntamento al bar. Prendevano il caffè alla spicciolata e nell’attesa parlavano un po’ dei fatti del giorno, e appena uscivano, dopo il film, per consentire al tempo di dilatarsi nella notte si fermavano a bere una birra, illudendosi che il momento di farsi sopraffare dal sonno e dalla stanchezza non dovesse mai arrivare. Avevano un’età che non sentivano mai il bisogno di tornare a casa. Era Leandro, il barista, che verso l’una di notte cominciava a brontolare perché liberassero i tavoli. Visto già alle cinque del mattino ci sarebbe stato da gestire in solitaria un fitto via vai di persone, prima di andare a letto voleva pulire il locale. Anche la stazione dei treni era nei pressi del bar Brio, per chi la raggiungeva a piedi bastava arrivare al semaforo e svoltare a sinistra, cinquanta metri, non di più, e subito appariva davanti con tutta la sua ampia facciata. Leandro a quell’ora tarda della notte, tra una bestemmia e l’altra confessava a quel gruppo di ragazzi che aveva calcolato di farsi un culo della madonna per dieci anni, però alla fine avrebbe venduto locale e licenza a condizioni così vantaggiose che nessun altro bar del paese poteva illudersi di ottenere.

E comunque, nelle rare occasioni che decideva di andare in discoteca nel pomeriggio dei festivi, Simone cercava sempre di evitare la calca dell’apertura, gli dava fastidio fare la fila davanti alla biglietteria, in quell’attesa mescolarsi a chi non voleva perdersi neanche un giro di canzoni per scatenarsi sulla pista da ballo, tra tutte quelle sedicenni che si muovevano in branco intorno ai “bellocci” in una competizione per attrarre l’attenzione e appartarsi a pomiciare nei separé del locale, una concorrenza fatta di invidie e cattiverie che nel tempo di una danza poteva distruggere amicizie consolidate e formare nuove alleanze strategiche nella frenesia schizofrenica della luci psichedeliche che inseguivano il ritmo del brano dal centro della pista da ballo fino agli angoli più distanti, rendendo quei movimenti della danza una fibrillazione meccanica di luci bianche e azzurre. Ma quando la domenica pomeriggio non sapeva dove sbattere la testa, verso le sei, visto che a quell’ora non facevano pagare il biglietto, anche lui entrava a curiosare un po’ sul movimento.

Di norma quelli nati dopo il 1950 bazzicavano la discoteca il venerdì, giorno che chiudeva la settimana di lavoro. Arrivavano passata mezzanotte, tutti alla spicciolata, dopo essere stati al cinematografo o a mangiarsi una pizza, per ritrovarsi a parlare come dei nottambuli incalliti, bere della buona birra, fumare qualche spinello. Quella che passava il disc jockey per Simone era della buona musica, stimolante per conoscere meglio se stessi, ma anche per fare dei nuovi incontri; non era fatta solo per ballare, nonostante il volume altissimo creava un’atmosfera che potevi abbozzare ogni forma di pensiero senza sentirti fuori posto. A gente come lui, che aveva superato i vent’anni, quello sembrava l’ambiente ideale per ritardare il momento di tornare a casa perché a quell’ora si poteva parlare di tutto, anche di uccidere un’idea di paese che si costruivano i propri genitori, e se entravi in questo giro di pensieri ossessivo potevi tirare avanti fino allo sfinimento. Il gruppo dei suoi amici appariva alle ore più strane, spuntavano tra la folla come fantasmi, alle due, alle tre di notte, quando Leandro aveva già spento l’insegna del bar Brio.
Il sabato neanche a parlarne perché, a parte la necessità di smaltire i postumi della sbronza che lo avrebbero assillato fino al tardo pomeriggio, ormai da alcuni anni la discoteca era diventata il ritrovo di tardone e di tardoni allupati, un superaffollamento anacronistico di ormoni che volteggiava nelle danze con l’unico scopo di sfruttare ogni occasione per costruire una relazione duratura. Mariti frustrati, affamati di sesso, donne ormai rassegnate ad accettare quello che avrebbe passato il convento, pur di creare una famiglia. Il sabato notte c’era tutto un mondo nascosto che finiva per svelare le sue modeste aspettative esistenziali, che sognava di essere ancora in tempo a stravolgere le proprie abitudini, e contemporaneamente si assisteva ad un ciondolare ingiusto di Simone e degli altri ragazzi intorno al bar Brio, che finito il film si sedevano a ridosso della vetrata e guardavano il tratto di mura medioevali restaurato di recente, esaltato dalle luci di una nuova illuminazione. Mura alte dieci metri e forse più, dove erano state ricreate le antiche merlature della fazione dei guelfi. La cinta muraria misurava un paio di chilometri abbondanti. La fortificazione che chiudeva l’abitato anticamente aveva un fossato bello largo, diciannove torri, il cassero, quattro porte di accesso. Di tutte le alte torri ne restavano in piedi ancora tredici, alcune inglobate nelle abitazioni, due o tre ben visibili dal bar Brio, mentre l’interno del Cassero era stato trasformato in un teatro a palchetti con la capienza di seicento posti. Del fossato e dei ponti levatoi invece si era persa ogni traccia. Quella di Oriale era una cinta muraria realizzata per custodire le aspettative di una comunità che grazie al suo commercio immaginava di moltiplicare velocemente il numero dei suoi abitanti, ma quel progetto ambizioso dal medioevo non si era mai realizzato, visto che, nonostante lo sviluppo urbanistico, tra il perimetro delle mura, la viabilità interna e le abitazioni, rimaneva ancora tanto terreno coltivato con gli orti del convento delle monache, dei frati francescani, con i tanti che mantenevano in vita i privati.

 maggio 2024

La pioggia a Foggia

Filastrocche

di Rita Simonitto

Un bel dì in quel di Foggia
Affacciati ad una loggia
Si vedea salir la pioggia.
“Metti in salvo la tramoggia,
presto su, corri alla roggia
alle oche grida ‘sloggia’”.
E c’è chi invece sfoggia
l’equilibrio ché s’appoggia
sugli assunti in cui alloggia
un sapere non da foggia
ma si basa su esperienza
di cui l’uom non può far senza
e ti dice ‘abbi pazienza’
analizza con coerenza
mica vai con una lenza
se pescar vuoi la Lorenza!
Così fu che l’uragano
Intravisto da lontano
Si distrasse da una bella
Che giocava da monella
Proprio lì in mezzo al mare
Dove lui andò a cascare.
La moral del “jamme jamme”

Sempre è “cherchez la femme.”!


19.05.24

Riordinadiario 2006. “Prossimamente” di Giancarlo Majorino

Intervista di Ennio Abate a Giancarlo Majorino (2006)

Alla rilettura d’oggi (2024) due cose colpiscono: – l’affermazione amarissima di Giancarlo Majorino: «il comunismo dovunque arretrato /non il terrorismo!» (p.75);  la sua speranza (ancora blochiana) che “la torcia”, esprimente una distruttività crescente (essendo, allegoricamente, una torcia, può tuttavia tanto disgregare e annientare, quanto rischiarare). [E. A.]

Perché questo titolo ambiguo, che fa pensare sia a una “profezia” sia – come si dice nel risvolto di copertina – ad un anticipo del [tuo] poema? [1] Continua la lettura di Riordinadiario 2006. “Prossimamente” di Giancarlo Majorino

“No, no, ch’io non mi pento”

di Alessandra Pavani

Ricordo il quadro vivente che vidi una volta. Un bellissimo giovane, proprio un beniamino delle ragazze: scherzava con alcune fanciulle, tutte in quell’età pericolosa in cui non sono né donne né bambine. Tra l’altro si divertivano a saltare un fosso. Il giovane stava presso all’orlo di questo fosso e le aiutava nel salto, e così facendo cingeva loro la vita, le sollevava leggermente per aria e le deponeva dall’altra parte. Era uno spettacolo graziosissimo; godetti tanto a guardar lui come a guardar le fanciulle. E pensavo a Don Giovanni. Sono esse stesse che gli corrono nelle bracciaegli le afferra e, non meno svelto, non meno agile, le depone dall’altra parte del fosso della vita.”

   (da S. Kierkegaard, “Don Giovanni. Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale erotico”)  
Quando giù all’onda sotterranea sceseDon Giovanni, e a Caronte ebbe pagatoL’obolo, un triste mendicante, l’occhioCome Antìstene fiero, afferrò i remiCon braccio fermo, da vendicatore.Come d’offerte vittime una grandeGreggia, coi seni penduli e le vestiDischiuse, sotto il nero firmamentoDonne si contorcevano traendoDietro di lui un muggito prolungato.Ridendo gli chiedeva SganarelloLa paga, e Don Luigi, con il ditoTremante, ai morti erranti sulle riveIndicava quel figlio tanto audaceChe rise della sua candida fronte.Rabbrividendo sotto le gramaglie,La casta e magra Elvira, accanto al perfidoSposo che fu suo amante, domandargliSembrava quasi un supremo sorrisoIn cui brillasse tutta la dolcezzaDel primo giuramento. Dritto e fermoNell’armi, divideva il nero fluttoAlto un uomo di pietra sorreggendoLa barra del timone. Ma l’eroeCalmo guardava, chino sulla spada,La spuma, e disdegnava altro vedere.

(da C. Baudelaire, “I fiori del male”, Don Giovanni agli Inferi
Non si picca se sia ricca/ Se sia brutta, se sia bella/ Purché porti la gonnella/ Voi sapete quel che fa”   

(da Lorenzo Da Ponte, “Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni”)  

Doveva possedere una ben straordinaria carica seduttiva il leggendario Don Juan Tenorio, ovvero Don Giovanni, se, oltre alle migliaia di donne che conquistò, riuscì per secoli e secoli ad ammaliare fior di artisti e di intellettuali che si ispirarono a lui per le loro opere. Drammaturghi, romanzieri, poeti, filosofi e compositori vollero celebrare le sue gesta eroiche e soprattutto “erotiche”, poiché Don Giovanni, il libertino di Siviglia, questo era e ancora è: Amore e Morte, Eros e Thanatos. Approfondirò però più avanti tale questione. Cominciamo invece dall’inizio. Le origini del mito del diabolico ammaliatore si perdono nella notte dei tempi, tanto che viene da pensare che sia sempre esistito. Azzardando un’enorme e rischiosa forzatura, si potrebbe perfino ravvisare nel dio Zeus, il cui culto si sviluppò intorno al secondo millennio a. C., un prototipo del nostro donnaiolo spagnolo, per l’insaziabile appetito sessuale che li accomuna. Secondo il filosofo danese Søren Kierkegaard l’idea del Don Giovanni “appartiene al cristianesimo e, attraverso il cristianesimo, al medioevo”; così giustifica la sua ipotesi: “Se io ora penso all’erotico sensuale come principio, come forza, come regno, determinato dallo spirito, cioè, determinato in modo che lo spirito lo escluda, se lo penso concentrato in un unico individuo, ho il concetto della genialità erotico-sensuale. Questa è un’idea che i greci non avevano, che è stata introdotta nel mondo soltanto dal cristianesimo, anche se solo indirettamente”. Quello che è certo è che nel medioevo esisteva una figura che per alcuni versi ne era precorritrice: era il giovane cavaliere innamorato, protagonista di farse e leggende, una marionetta come tante altre, priva di spessore e di drammaticità. Il primo a dare concretezza a Don Giovanni, mettendo nero su bianco le sue avventure e a trasformarlo in “personaggio” (sia pure fittizio), è Tirso de Molina, che nel 1632 scrive la commedia El burlador de Sevilla y convidado de piedra.

La trama è a grandi linee quella che, con alcune varianti, verrà ripresa anche da vari artisti successivi: Don Giovanni, un licenzioso avventuriero, dopo una serie di inganni, seduzioni, travestimenti e l’uccisione del padre di una delle sue donne, si scontra con la statua di quest’ultimo, e senza alcun rispetto per il defunto si prende gioco di lui, e addirittura invita a cena la statua stessa (il convitato di pietra), per poi ricambiare il favore. La commedia si conclude con la statua che, rivelatasi simbolo della giustizia divina che pretende il castigo del burlador, trascina il peccatore tra le fiamme dell’inferno. In quest’opera teatrale, il personaggio di Don Giovanni ha già tutte le caratteristiche che lo renderanno immortale: il fascino, il coraggio, la temerarietà, ma c’è anche qualcosa di più profondo: una costante infatti del suo temperamento, oltre alla ben nota lussuria, è, fin da questa sua prima “apparizione”, l’empietà, la scelleratezza, il disprezzo per ciò che è sacro (non dobbiamo dimenticare che Tirso de Molina era un ecclesiastico). Se nel Settecento, secolo dei Lumi, questa peculiarità finirà per passare in secondo piano (senza tuttavia sparire), nel 1665, quando Molière scrive la tragicommedia in prosa Dom Juan ou le Festin de pierre, la tematica è ancora ben presente e fortemente sentita; è soprattutto la natura sacrilega del suo Don Giovanni a condurlo alla morte, non tanto il suo insaziabile appetito sessuale.

In Moliére, la vicenda non si discosta molto da quella messa in scena dal suo predecessore spagnolo: anche qui donne e ragazze sedotte e abbandonate, intrighi, duelli, e infine la statua vendicatrice. Fanno però la loro comparsa una schiera di personaggi comici che controbilanciano quelli nobili e tragici: il servo buffonesco Sganarello, ad esempio (erede diretto degli zanni della commedia dell’arte), che non nutre alcuna stima per il suo padrone ma lo teme, la coppietta di contadini che, nella loro ignoranza, storpiano le parole (lei ingenua e civettuola, lui pavido e geloso), la paesana invidiosa, e il creditore che, per quanto faccia, non riesce a riavere i soldi prestati all’astutissimo Don Giovanni, maestro nell’arte di liberarsi degli scocciatori. In questa commedia c’è anche il vecchio padre del protagonista, ed è proprio nelle scene in cui i due si fronteggiano che il libertino mostra il suo lato peggiore e sacrilego. Già nel terzo atto, discutendo di religione con Sganarello, afferma che la sua unica fede è che “Due e due fanno quattro (…) e che quattro e quattro fanno otto” (la traduzione è mia); inoltre, a un devoto eremita che chiede l’elemosina, risponde che gli regalerà una moneta d’oro purché egli bestemmi di fronte a lui (al rifiuto del povero, Don Giovanni gliela dona ugualmente, in quanto si tratta pur sempre di un personaggio che possiede una sua nobiltà e un forte senso dell’onore). Io credo che in qualche modo sia opportuno considerare questo lato del carattere di Don Giovanni senza preconcetti o bigottismi; nel contesto in cui il personaggio vive e agisce, la cattolicissima Spagna (o, nel caso di Molière, la Sicilia), il suo atteggiamento ribelle ed empio può essere visto come un atto di coraggio. In fondo, chi non è credente, se da un lato non teme la giustizia divina, dall’altro rinuncia anche al conforto che la fede può dare. Per questo motivo il comportamento del Don Giovanni di Molière ne fa, almeno fino al quarto atto, un “eroe”, anche se sui generis. Ma la tragica svolta (e la vera novità rispetto a de Molina) avviene nel quinto e ultimo atto; è qui che assistiamo alla sua definitiva degradazione, quella che gli costerà la discesa agli inferi. La finta conversione, recitata davanti al padre, e il successivo elogio dell’ipocrisia segnano il suo destino (e anche quello della commedia stessa, che infatti verrà messa al bando non molto tempo dopo). A Sganarello che esclama scandalizzato: “Come? Voi non credete a niente di niente, e volete tuttavia erigervi a uomo di sani principi morali?” il libertino risponde: “Perché no? Ce ne sono tanti come me, che si impicciano di questo mestiere, e che si servono della stessa maschera per ingannare il mondo! (…) L’ipocrisia è un vizio che va di moda, e tutti i vizi che vanno di moda passano per virtù”. L’ultima malefatta di Don Giovanni lo condanna definitivamente. “Padrone (…) questo è molto peggio del resto, e vi preferirei di gran lunga come eravate prima. Ho sempre sperato nella vostra salvezza; ma è adesso che non ci spero più; e credo che il Cielo, che vi ha sopportato fin qui, non potrà assolutamente tollerare quest’ultimo orrore”. E infatti è così che si conclude la commedia: la statua afferra la mano di Don Giovanni per trascinarlo nel fuoco, e in scena rimane solo Sganarello, disperato per non aver ricevuto il suo sudato salario. Scrive Sandro Bajini (drammaturgo, traduttore e scrittore dei giorni nostri): “La società devota non viene più derisa nelle persone, ma si sente offesa nei sentimenti. Invano il diavolo si è fatto frate, e Molière, diventando a sua volta ipocrita, ha affidato la provocazione a un personaggio che, essendo ateo, deride i devoti per istituzione. Ma il linguaggio di Don Giovanni non ha indulgenze e Molière non prende sufficientemente le distanze dal suo personaggio. Lo manda all’inferno ma, per così dire, senza condannarlo in proprio. Viene il sospetto che l’irrisione di Don Giovanni per le cose sante sia l’irrisione di Molière per chi crede in esse (…) Benché il poeta non lesini gli elementi farseschi, la ferocia rimane intatta in molte situazioni, e la famosa scena in cui Don Giovanni invita il mendicante a bestemmiare è sconvolgente: Molière la sopprime alla seconda rappresentazione. Il sacrificio non basta, il resto dell’opera parla a sufficienza”. 

Se la commedia di Molière è legata a doppio filo a quella di Tirso de Molina, esiste un dramma per musica con protagonista Don Giovanni (scritto nel 1651 da Giovan Battista Andreini e intitolato Il nuovo risarcito convitato di pietra), che, nonostante abbia più o meno la stessa trama delle due opere già analizzate, la inserisce in un contesto tipicamente barocco, con tanto di personaggi allegorici (Furore, Vendetta, Punizione, ecc.) o tratti addirittura dalla mitologica classica (Giove, Vulcano, i Titani e altri). Questa “cornice” fiabesca a volte si intreccia alle avventure di Don Giovanni, a volte è invece un mero pretesto per intermezzi musicali e balletti, tanto cari al teatro del Seicento. Di certo uno spettacolo di questo tipo doveva rappresentare una vera delizia per gli occhi e le orecchie del pubblico di allora; oggi, probabilmente, questa ridondante sovrapposizione di livelli narrativi, insieme ai relativi “inserti” celebrativi, risulterebbe indigesta. Il nuovo risarcito convitato di pietra nasce come opera barocca, e nei confini del barocco rimane intrappolata; questo Don Giovanni, novello Titano, si rivela troppo distante dalla nostra sensibilità, e troppo poco umano per coinvolgerci o affascinarci. Questo, tuttavia, non ha impedito al regista Massimo Machiavelli di portare in scena, quattro anni fa, (con qualche taglio e con la musica del nostro contemporaneo Umberto Cavalli) il Don Giovanni creato da Giovan Battista Andreini; è stata un’operazione coraggiosa, e in un certo senso rischiosa, ma, fortunatamente, grazie all’intelligenza e all’impegno di chi vi ha lavorato, è riuscita a ottenere un discreto successo, con grande soddisfazione degli autentici appassionati delle varie forme di teatro attraverso i secoli.

Sono passati una settantina di anni dalla prima messa in scena del Dom Juan di Molière (e più di ottanta da quella del Nuovo risarcito) quando Carlo Goldoni scrive il suo Don Giovanni Tenorio. Siamo infatti nel 1735, all’alba dell’Illuminismo, e l’autore dichiara fin dalla prefazione alla versione stampata di volersi allontanare dai cliché dei suoi predecessori: il protagonista della sua opera deve essere “realistico”, non ci saranno buffonerie da commedia dell’arte, e nemmeno statue che vengono invitate a cena. Il suo Don Giovanni non ha nulla di eroico, anzi, è addirittura un vigliacco, e il castigo finale è necessario affinché (sempre secondo Goldoni) nessuno degli spettatori si illuda di poter condurre una vita dissoluta senza pagarne le conseguenze. Ovviamente non mancano i tradimenti, le seduzioni, e nemmeno le situazioni comiche, ma tra questa tragicommedia e le precedenti si apre un vero e proprio abisso, che il pubblico dell’epoca non gradisce. In Andreini, Don Giovanni era lontano anni luce dal mondo degli umani, in Goldoni, viceversa, si rivela fin troppo umano. Probabilmente, per conquistare definitivamente la sua consacrazione a mito immortale il cui fascino non avrà mai fine, Don Giovanni ha bisogno che qualcuno lo collochi in quella dimensione che sta tra la Terra e il Cielo, tra l’umano e il divino (o, meglio, il diabolico), tra pulsione di vita e pulsione di morte; in breve, come anticipato, tra Eros e Thanatos. Evidentemente, il pur validissimo e moderno Goldoni non possedeva la necessaria genialità, oppure i tempi non erano ancora maturi. Dovrà passare ancora qualche anno.

Antefatto: siamo nel 1787, a Venezia, e al Teatro Giustiniani di San Moisè va in scena Don Giovanni o sia il convitato di pietra, opera lirica composta da Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertati. E’ il 5 febbraio, e fin dalla prima sera l’opera riscuote un enorme successo, tanto che nei due anni successivi verrà rappresentata nei teatri di tutto il nord Italia. La trama riprende a grandi linee la commedia di Tirso de Molina, i vari tentativi di seduzione, il duello con il Commendatore e la statua di quest’ultimo che punisce il libertino.

Siamo sempre nel 1787. Per effetto dell’entusiasmo suscitato dal lavoro di Gazzaniga, il Nationaltheater di Praga commissiona un nuovo Don Giovanni a Wolfgang Amadeus Mozart. Come librettista viene scelto l’abate Lorenzo Da Ponte, che vi lavora febbrilmente, essendo contemporaneamente impegnato nella scrittura di altri due libretti. Anche Mozart, che per motivi economici deve comporre più musica possibile, si dedica al nuovo compito a un ritmo forsennato, perché l’opera deve necessariamente andare in scena in concomitanza col passaggio della duchessa di Toscana per la città di Praga. Scrive Claudio Casini nel suo Amadeus, biografia del celebre compositore: “Il tempo stringeva, e Mozart e Da Ponte ricorsero al più diffuso metodo per scrivere rapidamente un’opera: il plagio. Copiarono a man salva dal libretto intitolato Il Convitato di Pietra che Giovanni Bertati aveva scritto per un musicista minore, Giuseppe Gazzaniga: l’opera era stata rappresentata nel gennaio (sic!) di quell’anno 1787 a Venezia. Il nuovo libretto ebbe il titolo di Don Giovanni o il dissoluto punito“.

La trama è pressoché identica: tre donne ingannate da Don Giovanni, i compagni di due di esse e il fantasma del Commendatore ucciso dal protagonista che gridano vendetta, e la vicenda che si conclude seguendo il solito copione, con Don Giovanni che viene inghiottito dalle fiamme dell’inferno. Apparentemente non v’è alcuna novità. Se non fosse che la musica di Mozart raggiunge qui una tale perfezione, una così indescrivibile potenza ultraterrena, che il personaggio di Don Giovanni viene trasfigurato, quasi perde la sua identità individuale per farsi assoluto, sintesi ultima dei succitati Eros Thanatos. “L’Ouverture del Don Giovanni inizia sugli ampi, solenni accordi, neri come barbagli di fuoco, della Punizione mediante la Morte. Accordi (…) simili -ma consonanti- a quelli che, dissonanti, sottolineeranno l’ingresso del Commendatore, il Convitato di Pietra, nella sala della cena funebre (…) L’opera che inizia è una cruda tragedia. Ma (…) ecco irrompere all’improvviso, brillante e terso, uno spensierato uragano di desiderio, la vita lanciata all’inseguimento (…) Don Giovanni (…) ha iniziato la sua corsa(…) Fin dalla sua prima espressione orchestrale, questa Musica dà quindi l’impressione di un irrompere; è nata con il potere di sedurre e di soggiogare. Ci sentiamo pervasi e trascinati dalla sua forza, carica di una straordinaria tensione (…) Una simile tensione quasi travalica l’umano (…) Se in certi momenti è paragonabile alla misteriosa concitazione del delirio, in altri può essere vista come la potenza naturale del fiotto di sangue che sgorga da un petto (…) Don Giovanni non ha tregua; l’amore non ha limiti; la felicità e il dolore non avranno né risoluzione né termine, se non in Don Giovanni stesso e nella sua esistenza”. Così scrive il poeta e romanziere francese Pierre-Jean Jouve a proposito dell’Ouverture del Don Giovanni mozartiano (Ouverture che, ricordiamolo, Mozart compone di getto la notte prima dello spettacolo).

A Praga l’opera ottiene un successo straordinario (“Il 29 ottobre è andata in scena la mia opera Don Giovanni, accolta con il più vivo entusiasmo. Ieri è stata rappresentata per la quarta volta (a mio beneficio)”, scrive Mozart in una lettera all’amico Gottfried Von Jacquin il 4 novembre del 1787).

(…) vorrei che i miei buoni amici (…) potessero essere presenti, anche una sera soltanto, per prendere parte alla mia gioia. Ma forse verrà rappresentata anche a Vienna? Me lo auguro.” In effetti, nel maggio del 1788, l’opera va in scena anche a Vienna, ma sfortunatamente non incontra il favore del pubblico della capitale austriaca. Le due versioni (quella praghese e quella viennese) presentano alcune differenze; Mozart infatti, consapevole della mentalità conservatrice e, in qualche modo, più “chiusa” degli austriaci, opera alcune modifiche e taglia qualche scena, in particolare il sestetto finale che “celebra” la morte di Don Giovanni. Inutilmente. All’imperatore Giuseppe II e al suo pubblico il Don Giovanni non va a genio, almeno inizialmente. Scrive l’abate Da Ponte nelle sue Memorie: “Io non avea veduto a Praga la rappresentazione del Don Giovanni; ma Mozzart (sic!) m’informò subito del suo incontro maraviglioso, e Guardassoni mi scrisse queste parole: ‘Evviva Da Ponte, evviva Mozzart. Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli. Finché essi vivranno, non si saprà mai che sia miseria teatrale.’ L’imperadore mi fece chiamare e, caricandomi di graziose espressioni di lode, mi fece dono d’altri cento zecchini, e mi disse che bramava molto di vedere il Don Giovanni. Mozzart tornò, diede subito lo spartito al copista, che si affrettò a cavare le parti, perché Giuseppe doveva partire. Andò in scena, e… deggio dirlo? il Don Giovanni non piacque! Tutti, salvo Mozzart, credettero che vi mancasse qualche cosa. Vi si fecero delle aggiunte, vi si cangiarono delle arie, si espose di nuovo sulle scene; e il Don Giovanni non piacque. E che ne disse l’imperadore? ‘L’opera è divina; è forse forse più bella del Figaro, ma non è cibo pei denti de’ miei viennesi.’ Raccontai la cosa a Mozzart, il quale rispose senza turbarsi: ‘Lasciam loro tempo da masticarlo.’ Non s’ingannò. Procurai, per suo avviso, che l’opera si ripetesse sovente: ad ogni rappresentazione l’applauso cresceva, e a poco a poco anche i signori viennesi da’ mali denti ne gustaron il sapore e ne intesero la bellezza, e posero il Don Giovanni tra le più belle opere che su alcun teatro drammatico si rappresentassero”.

Al di là della pur interessante aneddotica circa le fortune o le sventure che ebbero le rappresentazioni dell’opera all’epoca di Mozart, quella che rimane ancora oggi una verità incontrovertibile è che solo grazie al compositore di Salisburgo il Don Giovanni diventa Don Giovanni, assurge all’immortalità, si fa Ideale quanto più è percepibile il suo lato carnale. Al suo confronto, il Burlador di de Molina, l’empio ipocrita di Molière, il Titano di Andreini, il vigliacco di Goldoni e il donnaiolo di Bertati si riducono a più o meno riuscite variazioni sul tema del peccatore irredento. E’ solo per mano di Mozart che Don Giovanni prende letteralmente vita e ne gode tutti i piaceri, mai sazio, mai in pace, quasi in lotta contro il tempo: egli vuole possedere ogni donna, ma nel momento in cui l’ha posseduta non ha nemmeno modo di gloriarsene, che l’istinto lo spinge già verso la donna successiva. Ecco perché parlavo di Eros Thanatos: Don Giovanni si auto-distrugge ogni volta che porta a termine una nuova conquista; nell’amplesso è un effondersi di forza demoniaca, di energia cosmica e generatrice, di gioia sublime, e nell’orgasmo si auto-annulla, si esaurisce, muore. Ma Don Giovanni non può morire per amore, e allora ecco che il desiderio si riaccende, la vita ricomincia, c’è ancora una nuova femmina da sedurre… Qualcuno può obiettare (e in effetti qualcuno ha obiettato) che durante l’opera mozartiana, il protagonista in realtà fallisce in tutti i suoi tentativi di conquistare i personaggi femminili (Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina, e altre tre donne che non appaiono mai sul palcoscenico, ovvero “Una bella dama” che, dice Don Giovanni “meco al casino questa notte verrà”, la cameriera di Donna Elvira, e “una fanciulla bella, giovin, galante” incontrata nei pressi del cimitero). A questo proposito il libretto di Da Ponte è piuttosto ambiguo: Donna Anna entra in scena ad opera appena iniziata, dopo che Don Giovanni ha tentato un approccio di tipo sessuale con lei, ma se l’impresa sia riuscita o no è un mistero che rimane irrisolto (diversi studiosi hanno cercato di svelare l’arcano basandosi sul testo e sulla musica, così come si sono interrogati sui reali sentimenti che Donna Anna prova per il protagonista). Per quanto riguarda Donna Elvira, è lei stessa ad informarci di essere stata sedotta e addirittura sposata prima di essere abbandonata; durante lo svolgimento dell’opera Don Giovanni se ne tiene lontano il più possibile, quindi, ai fini della storia, non possiamo annoverarla tra le sue conquiste. Anche Zerlina, come Donna Anna, rappresenta un enigma: di certo è attratta da Don Giovanni, accetta perfino di sposarlo, ma poi la tentata seduzione avviene dietro le quinte, e anche in questo caso lo spettatore è libero di interpretare la scena a suo piacimento. Si tratta tuttavia di questioni di lana caprina; il fatto che Donna Anna sia riuscita o no a difendersi, che cosa cambia nell’economia della narrazione? Come scrive Kierkegaard: “Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! (…) Quando Don Giovanni viene interpretato in musica, io sento in lui tutta l’infinità della passione, e nello stesso tempo la sua sconfinata potenza, alla quale nulla può resistere; sento il selvaggio ardore del desiderio, ma nello stesso tempo la sua assoluta invincibilità, contro la quale sarebbe vana ogni resistenza.” Qualcuno ha voluto mettere il personaggio di Don Giovanni in relazione con Giacomo Casanova, l’avventuriero veneziano divenuto celebre soprattutto per le sue doti da tombeur de femmes (grande amico, tra l’altro, dell’abate Da Ponte), o con un altro libertino (frutto, quest’ultimo, di fantasia), il visconte di Valmont protagonista de Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos.

Tuttavia non hanno nulla in comune: mentre Casanova e Valmont sono figli del loro secolo, e quindi ragionano, calcolano, scelgono, e pianificano, Don Giovanni è istinto allo stato puro. Casanova è raffinato, attento al temperamento della sua amante di turno, vanitoso e quindi desideroso di donare piacere non meno che di provarlo, affinché venga preferito a ogni altro uomo; Valmont è malvagio, seduce per punire, e più che alla quantità è interessato alla qualità delle sue vittime; Don Giovanni invece è una fiamma che travolge l’intero universo femminile. Basti pensare all’aria “Finch’han dal vino”, spesso denominata aria dello champagne per comprendere la sua forza primordiale, virile, diabolica; qui testo e musica si sposano in un connubio perfetto di passione ed erotismo:

Finch’han dal vino/ Calda la testa,/ Una gran festa/ Fa’ preparar./ Se trovi in piazza/ Qualche ragazza,/ Teco ancor quella/ Cerca menar./ Senza alcun ordine/ La danza sia:/ Chi’l minuetto,/ Chi la follia,/ Chi l’alemanna/ farai ballar./ Ed io frattanto,/ Dall’altro canto,/ Con questa e quella/ Vo’ amoreggiar./ Ah! la mia lista/ Doman mattina/ D’una decina/ Devi aumentar.

(Nel 1998 l’ex finanziere Orazio Bagnasco scrive un romanzo in cui personaggi reali come Da Ponte e Casanova si incontrano con Don Giovanni e altre figure dell’opera mozartiana. Uno dei temi principali è proprio la sfida che Don Giovanni lancia all’avventuriero veneziano, basata su chi riuscirà a conquistare per primo un determinato numero e tipo di donne. Il romanzo si intitola “Vetro”.)

Nonostante si sia detto e ripetuto che il personaggio di Don Giovanni, in Mozart, non ha nulla di settecentesco (nulla, quindi, di razionalistico, di illuminato, di ordinato), l’opera in realtà strizza l’occhio ai temi più scottanti dell’epoca, anche se in maniera nascosta. Scrive infatti Charles Rosen: “Anche la politica può entrare nella musica. Quando Don Giovanni saluta i suoi ospiti mascherati con la frase Viva la libertà, il contesto non implica specificamente una libertà politica (…) Ma (…) nel 1787, durante i fermenti che avevano seguito la Rivoluzione americana e preparavano quella francese, difficilmente un pubblico poteva mancare di cogliere un significato sovversivo in un passaggio che dal solo libretto poteva apparire assolutamente innocuo, particolarmente dopo avere udito le parole ‘Viva la libertà’ ripetute una dozzina di volte in fortissimo da tutti i solisti, accompagnati dalle fanfare dell’orchestra.” Scrive poi, più avanti: “La grande scena del ballo del primo atto, con le tre orchestre separate sulla scena e il complesso incroci dei ritmi di danza, non è soltanto un brano di virtuosismo compositivo. Ognuna delle tre classi sociali- il proletariato contadino, la borghesia e l’aristocrazia- ha la propria danza, e l’indipendenza assoluta di ciascun ritmo riflette la gerarchia sociale; e sono questo ordine e questa armonia che vengono distrutti quando Don Giovanni tenta di portare via Zerlina_ L’ambientazione politica del Don Giovanni assume poi maggiore peso a causa degli stretti rapporti che nel Settecento vi erano tra pensiero rivoluzionario ed erotismo (…) le connotazioni politiche della libertà sessuale erano ben vive al tempo della prima rappresentazione del Don Giovanni, e il pubblico non poteva sfuggirle: una parte dello scandalo e dell’attrazione che quest’opera ispirò per anni interi va probabilmente vista in questo contesto”.

Don Giovanni dunque libidinoso, impavido, incurante delle regole, bugiardo, violento, e oltre a ciò anche rivoluzionario, eroico, tanto da sfidare la morte stessa; quando la statua del Commendatore gli chiede, gli ordina, quasi lo supplica di pentirsi, lui risponde con nobile disprezzo: A torto di viltate/ Tacciato mai sarò. Sa cosa lo aspetta, ma non intende servirsi di facili scappatoie per evitare il castigo; quale che sia il suo destino, lui è risoluto a seguirlo. No, no, ch’io non mi pento! è la sua risposta all’avvertimento del Commendatore che quella è la sua ultima possibilità di salvarsi. Lui affronta la morte come ha affrontato la vita: a viso aperto, senza mai tirarsi indietro, consegnandosi interamente alla dannazione come interamente si è consegnato al piacere. Non si può non provare ammirazione davanti al suo ardimento, e quando, dopo la sua morte, tornano sul palcoscenico tutti gli altri personaggi, soddisfatti di essere stati vendicati dal Cielo, allo spettatore rimane un senso di amarezza. Nel descrivere la morte di Mozart, il biografo Claudio Casini la paragona a quella del suo Don Giovanni, e a mio parere usa una similitudine geniale: “Quando fu morto, al termine di una terribile agonia, accadde come nel suo Don Giovanni: dopo la scomparsa del protagonista restano in scena personaggi opachi, sbigottiti dall’aver assistito a un’esistenza turbinosa, finita in maniera conturbante e piena di misteri”. Chapeau, signor Casini! _ Qui di seguito citerò alcuni tra gli innumerevoli saggi dedicati al capolavoro mozartiano.

                                                                          

Verrebbe da pensare che, raggiunte grazie a Mozart le vette del sublime, Don Giovanni abbia concluso in gloria la sua esistenza artistica, e a che nessuno possa venir l’idea di scrivere o comporre nuove opere che lo vedano protagonista, per dover poi subire l’umiliazione dell’inevitabile confronto con l’eroe mozartiano. Eppure le cose vanno diversamente, Don Giovanni continua ad affascinare e a ispirare artisti di ogni tipo. Tra il 1818 e il 1824, Lord Byron lavora al poema Don Juan; l’opera rimane però incompleta a causa della morte dell’autore. La trama si distacca da quelle che abbiamo analizzato finora: qui Don Giovanni è un adolescente, affascinante ma ingenuo, che tra schiavi, pirati, sultani e odalische, vive una vita avventurosa, ricca di erotismo, attraverso l’intera Europa, dalla Spagna alla Turchia, alla Russia e all’Inghilterra. Al di là del nome e dell’intensa attività sessuale, questo personaggio ha poco in comune con i suoi omonimi predecessori, ciononostante rimane un’opera poetica di ampio respiro che ha i suoi estimatori.

Anche lo scrittore, poeta e drammaturgo russo Aleksandr Sergeevich Puškin scrive un microdramma ispirato a Don Giovanni, dal titolo Il convitato di pietra, la cui sostanziale differenza con la trama classica è che il Commendatore non è più il padre ma il marito di Donna Anna, ma il finale non cambia.

Byron e Puškin non sono comunque i soli a cimentarsi nell’ardua impresa di dare nuova vita a un personaggio che già è stato consegnato all’immortalità. L’Ottocento conta numerosi artisti che ne seguirono l’esempio. Ne citerò solo alcuni:

_ E. T. A. Hoffmann: Racconti fantastici, 1814 

_ Honoré de Balzac: L’elisir di lunga vita, 1830 

_ Prosper Mérimée: Le anime del Purgatorio, 1834 

_ José Zorrilla: Don Giovanni Tenorio, 1844 

_ J. A. Barbey d’Aurevilly: Le diaboliche, 1874 

_ Remy de Gourmont: Storie magiche, 1894 

Per quanto riguarda il Novecento, degno di nota è L’ultima notte di Don Giovanni di Edmond Rostand: qui, in una Venezia che funge da “viale del tramonto”, un disilluso Don Giovanni prende coscienza del proprio fallimento quando una specie di demone gli fa apparire di fronte tutte le donne da lui sedotte, che gli rivelano di non averlo mai amato. E come se l’umiliazione non fosse già un castigo sufficiente, Don Giovanni viene infine trasformato in un burattino, una caricatura di se stesso, costretto a recitare in eterno il suo fasullo ruolo di tombeur de femmes. In quest’opera teatrale viene operata una lettura psicanalitica del mito di Don Giovanni; in fin dei conti siamo nel 1922, e il saggio Al di là del principio del piacere è stato dato alle stampe appena due anni prima.

Da segnalare anche Don Giovanni ritorna dalla guerra dello scrittore e drammaturgo austriaco Ö. von Horvàth, del 1936, e Don Giovanni o l’amore per la geometria dello svizzero Max Frisch, 1953, in cui Don Giovanni è costretto ad accettare di essere sempre stato sedotto quando invece credeva di sedurre.

Nel nuovo millennio, infine, Don Giovanni ottiene una sorta di riabilitazione grazie al portoghese José Saramago e al suo Don Giovanni, o il dissoluto assolto, scritto nel 2005 e trasposto in musica qualche anno più tardi dal compositore Azio Corghi. Non ci sono più le fiamme dell’inferno ad attendere il protagonista, che in questa versione è perseguitato non dal Commendatore (esponente di un ipocrita moralismo ormai antiquato) ma da due “non tanto innocenti” Donna Anna e Donna Elvira; la statua non ha alcuna funzione, e Don Ottavio è rappresentato in tutta la sua sciapa vigliaccheria. Don Giovanni, che, al contrario, è un eroe (“Don Giovanni sa che mentirebbe contro se stesso se si pentisse, e che nessun pentimento può cancellare le mancanze commesse”, dice Saramago durante un’intervista concessa a Leonetta Bentivoglio, nella rubrica Cultura di ‘Repubblica’, 2 aprile 2005), viene salvato inaspettatamente da Zerlina. E riguardo l’opera di Mozart- Da Ponte asserisce: “Metto il Don Giovanni di Mozart al di sopra di qualsiasi altra opera di qualsiasi altro autore o epoca. Se c’è un’opera al mondo capace di mettermi in ginocchio, vinto, sottomesso, è proprio questa. Gli otto minuti che trascorrono fra l’entrata della statua del Commendatore e la caduta di Don Giovanni all’inferno appartengono ai domini del sublime”. 

Saggi critici sul personaggio di Don Giovanni:

_ P. Brunel: Dictionnaire de Don Juan 

_ U. Curi: Filosofia del Don Giovanni 

_ G. Macchia: Vita, avventure e morte di Don Giovanni 

_ R. Raffaelli: Variazioni sul Don Giovanni 

_ J. Rousset: Il mito di Don Giovanni 

Nemmeno i compositori si lasciano scoraggiare dal successo del Don Giovanni di Mozart, e tanta altra musica viene scritta nei secoli successivi, ispirata al seduttore di Siviglia. Nel 1832, il catanese Giovanni Pacini compone la farsa musicale Il convitato di pietra su libretto di Gaetano Barbieri. La trama è quella tradizionale, con qualche personaggio eliminato o ridotto di spessore, e l’organico strumentale è quello di un’orchestra da camera.

Anche l’ungherese Franz Liszt si cimenta nell’impresa, e nel 1841 compone Réminescences de Don Juan, una fantasia per pianoforte su temi dal Don Giovanni di Mozart: dell’opera di Liszt, il collega F. Busoni dice che contiene “un significato quasi simbolico come il punto più alto del pianismo”. Nel 1877, il compositore ungherese ne scrive una nuova versione per due pianoforti.

Nel 1888 è la volta del tedesco Richard Strauss, che compone un poema sinfonico ispirato a Don Juan Ende del poeta Nikolaus Lenau, ennesima variazione sul tema che vede, questa volta, il protagonista impegnato nella ricerca della sua donna ideale, e infine suicida per la sua impossibilità di trovarla. L’opera riscuote un grande successo.

E per quanto riguarda il cinema? Possibile che la settima arte rimanga estranea alla celebrazione di un personaggio così leggendario? Naturalmente no. Nel 1948 esce Le avventure di Don Giovanni, con Errol Flynn nella parte dell’eroe; nel 1960 è Ingmar Bergman a riportare sulla Terra (in tutti i sensi) il diabolico seduttore col film L’occhio del diavolo; dieci anni più tardi tocca a Carmelo Bene che, nel 1970, traspone sul grande schermo il Don Giovanni di J. A. Barbey d’Aurevilly; infine, nel 2009, Carlos Saura gira una pellicola incentrata sulla figura di Lorenzo Da Ponte e sulla sua vita da libertino, intitolata Io, Don Giovanni 

Cosa rimane da dire? Beh, in realtà si potrebbe continuare all’infinito. Io, da grande estimatrice di Mozart, e innamorata del suo Don Giovanni, voglio concludere questo articolo con le parole che Kierkegaard dedica a quel grande capolavoro, e che potrebbero benissimo essere le mie:

Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! Perciò non voglio descriverlo ma limitarmi a dire: ascoltate Don Giovanni! E se ascoltandolo non siete capaci di farvi un’idea di lui, non potrete farvela mai. Ascoltate come la musica racconta la sua vita: come il lampo dall’oscura nube temporalesca, così egli guizza dalla profonda serietà della vita, più veloce del lampo, più incostante di questo, eppure ugualmente sicuro di sé; ascoltate come egli si precipita nella prodiga ricchezza della vita, come egli lotta contro le sue solide dighe; ascoltate le leggere ed aeree melodie del violino, il festoso sorriso della gioia, il giubilo del piacere, i beati tripudi del godimento; ascoltate la sua fuga selvaggia, egli corre oltre se stesso, sempre più veloce, sempre più selvaggio; ascoltate la sfrenata concupiscenza della passione, il sussurrare dell’amore, il mormorio della tentazione, il vortice della seduzione; ascoltate il silenzio dell’attimo – ascoltate, ascoltate; ascoltate il Don Giovanni di Mozart!”

Nota
L’articolo è ripreso da La culla della strega di Alessandra Pavani con l’autorizzazione dell’autrice