Tutti gli articoli di poliscritture

Il professor Franco Fortini (4)

di Ennio Abate

Questo quarto capitolo  tiene conto di due accurate ricerche pubblicate di recente: quella di Lorenzo Tommasini, “Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università” (qui): e quella di Chiara Trebaiocchi, “Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini” (qui).  In esse ho trovato notizie importanti e da me finora ignorate sul periodo in cui Fortini è stato insegnante. La lettura delle due tesi mi ha offerto spunti per ragionare su alcune contraddizioni che a me pare di cogliere nel rapporto di Fortini con gli intellettuali. Ne approfondirò le implicazioni nel prossimo capitolo 5 e – spero – nel libro  “Nei dintorni di Franco Fortini” a cui sto lavorando. Continua la lettura di Il professor Franco Fortini (4)

Le armi segrete dell’impero, e la sua nemesi

di Paolo Di Marco Continua la lettura di Le armi segrete dell’impero, e la sua nemesi

“Dove c’è fumo c’è arrosto”

Un po’ per celia e un po’ per non morir” (Ettore Petrolini)
Riflessioni sotto forma di filastrocche

di Rita Simonitto

A una volpe saputella
Borbottavan le budella.
Da più giorni non mangiava
Le saliva già la bava
All’idea di un bel desco
Con qualcosa di fiabesco:
Un galletto tenerello
Da mangiar senza coltello.
Ma pollai bene blindati
Vietavano attentati
A piumaggi ed a creste
Cui volevasi far feste.
Giust’allor un odorino
Che veniva da vicino,
O almen cosi sembrava,
Dietro cumuli di biava.
Alla nostra bestiolina
Già veniva l’acquolina.
Andar là verso l’oriente
Doveva immantinente.
Naso in su, trotta, trotta
Inseguendo quella rotta.
Oh, Mon Dieu, che gran disdetta!
Quando meno se l’aspetta
Il profumo dell’arrosto
D’improvviso cambiò posto
Un ventaccio d’improvviso
Rovesciò quel paradiso
Che la volpe pregustava
Ma sul fumo si basava.
E affranta, tutta sola
Schivò giusto la tagliola
con coscetta di gallina
invitante lì in vetrina
Quell’inganno conosceva
Ma dell’altro non sapeva.
I profumi, le parole
Fan sentir ciò che si vuole
E non sempre la fragranza
Corrisponde alla sostanza.

04.07.24

Per Gianfranco

di Roberto Bugliani

    “La crisi del movimento operaio ha influenzato in maniera eccentrica la poesia italiana che ha poco discusso il chiudersi di un’epoca pur così ricca e intensa come quella segnata dalla lotta di classe. Tra le eccezioni figura l’esperienza di Gianfranco Ciabatti, sindacalista, quadro politico e autore di cinque raccolte poetiche” (Giuseppe Andrea Liberti, “Nel riflusso. Gianfranco Ciabatti tra poesia e critica politica”, abstract; 2002).
    Sono trascorsi tre decenni dalla prematura scomparsa di Gianfranco Ciabatti. Questi trent’anni hanno pesato come il proverbiale masso di Sisifo sopra ogni ambito della realtà socio-politica e culturale italiana; in sostanza, essi hanno rappresentato un cruciale lasso di tempo nel corso del quale sono stati portati a termine processi di progettazione strutturale e di ri-configurazione capitalistica, processi le cui peculiari caratteristiche l’opposizione di classe (o quel che ne restava dopo il suo riflusso politico) non aveva saputo cogliere.
xxxxOra, se nella “presentazione” del primo volume di poesie di Ciabatti, Preavvisi al reo (1985), Romano Luperini riteneva “necessario partire dalla biografia” di Ciabatti per avviare una riflessione sul suo verso, e se Fortini, nella sua “Prefazione” a Niente di personale, scriveva degli “scorsi [siamo nel 1989] tre decenni”, durante i quali “Ciabatti è vissuto in un giusto e duro conflitto con la società e dunque in termini etici e politici”, questo medaglione artigianale su Gianfranco Ciabatti inizierà parlando invece, sia pure per sommi capi, di taluni dei principali lineamenti che hanno informato la fisionomia complessiva di questi trent’anni senza Gianfranco; lineamenti allora già in embrione, di cui Ciabatti sapeva leggere con lucida intelligenza politica i punti di forza e le aperte contraddizioni.
xxxxNel 1994 l’Italia si trovava sotto l’effetto devastante della serie di inchieste giudiziarie iniziate nel febbraio 1992 e mediaticamente raggruppate sotto il nome di ”Mani pulite”, le quali terremotarono tutti i partiti che avevano governato il paese per quasi cinquant’anni, ma che in quello specifico frangente storico si rivelavano inadatti alle nuove “attitudini” geopolitiche richieste dai temporamores in fase di monopolarismo; terremoto che, con l’”affare” Greganti, lambì soltanto il PDS, il fiducioso Partito democratico della sinistra sorto nel 1991 dalle disiecta membra del PCI a seguito della caduta del muro (già marcio da un pezzo) di Berlino e alla vigilia della dissoluzione (ufficiale) dell’URSS. Il 1994 è inoltre l’anno dell’entrata in politica di Silvio Berlusconi, che col raggruppamento politico di sua proprietà, “Forza Italia”, vinse le elezioni politiche ridimensionando le decennali aspirazioni a partito di governo del PCI-PDS, salvo poi, nel novembre dello stesso anno, il suo governo venire sfiduciato, oltreché dall’opposizione, dall’ex alleato: la Lega Nord di Bossi; sfiducia che aprì la strada al governo “tecnico” Dini, il secondo dei quattro governi “tecnici” avuti finora, la cui forza è consistita nell’operare al riparo dal processo elettorale, e per ciò di questo noncuranti. Per cui, se la nascita della c.d. Seconda Repubblica è avvenuta in modo piuttosto tumultuoso, non ritengo che sia a ciò estraneo il persistere tra i poteri dominanti di contrastanti vedute su quali fossero le forze politiche sulle quali contare, ossia quali le più adeguate a supportare l’Italia nel suo cammino verso la globalizzazione produttiva, commerciale e finanziaria.
xxxxNel cercare di rinvenire altri fil rouge componenti la trama di quel periodo-chiave che ha concorso a comporre l’odierna raffigurazione neoliberista del sistema-Italia, non va dimenticato che nel 1994 erano trascorsi quindici anni dall’adesione dell’Italia allo SME (Sistema monetario europeo, il padre dell’euro), adesione avvenuta per mutata volontà della DC, inizialmente contraria alla tempistica dell’adesione che si voleva “immediata”, di cui dà conto la Gazzetta ufficiale del 13 dicembre 1978 riportando il memorabile dibattito tenuto alla Camera dei deputati, nel corso del quale l’allora capogruppo del PCI, on. Giorgio Napolitano, pronunciò un discorso duramente critico sull’operazione SME che, pur facendo salvo l’impegno europeista del suo partito, denunciava gli aspetti decisamente negativi e le grosse limitazioni di politica economica posseduti dal nuovo sistema monetario che, mutatis mutandis, puntualmente si sono avverati in questi nostri decenni di moneta unica. Come, ad esempio, il fatto che lo SME avrebbe garantito “il paese a moneta più forte [i.e. la Germania], sospingendo l’Italia alla deflazione”, e che i “vincoli del sistema monetario quale è stato congegnato” avrebbero prodotto “effetti opposti” all’obiettivo d’un “più alto tasso di crescita”, col risultato di “mettere il ‘carro’ di un accordo monetario davanti ai ‘buoi’ di un accordo per le economie”.
xxxxMa non era soltanto il partito di Napolitano contrario allo SME qual era stato concepito in quel di Bruxelles, ma l’intero arco della sinistra parlamentare, da quella liberal-progressista a quella radicale, lo era: da Lucio Magri (“la scelta […] non è tra europeismo e chiusura nazionale, la scelta è se aderire a un certo sistema che per gli attuali rapporti di forze si presenta economicamente diretto dall’intesa tra Giscard d’Estaing e Schmidt”) a Massimo Gorla (con l’assunzione comune d’una moneta forte “la perdita di concorrenzialità […] si distribuirà tra tutti i paesi del sistema monetario europeo anziché gravare sulla sola Repubblica Federale Tedesca. Inoltre […] non va trascurato il fatto che i paesi con alti tasi d’inflazione perderanno concorrenzialità anche nei suoi [della RFT] confronti; cosa, questa, che oggi viene impedita dal movimento dei tassi di cambio”) a Luciana Castellina (“la scelta di aderire allo SME è destinata […] a incidere profondamente sul futuro del nostro paese ed in questo senso è scelta politica […] destinata a mutare gli equilibri stessi su cui si fonda la nostra democrazia”), tutta la sinistra aveva concorso a mettere in luce le forti criticità e la natura di classe dello SME nel comune rifiuto di aderirvi (va detto che il PCI, nella votazione finale, per considerazioni politiche sue proprie, si astenne assieme al PSI, ma non è questo il punto, il punto è la lucida analisi predittiva dell’intervento di Napolitano).
xxxxMai discorsi furono insieme tanto veementi e tanto dimenticati nel giro d’un pugno anni, allorché la moneta unica venne sdoganata in nome della vulgata che “l’euro è solo una moneta”, senza più considerare il fatto che proprio la scomparsa del “cambio flessibile” che l’adesione allo SME avrebbe comportato, era stata uno dei motivi di voto contrario del cartello elettorale della sinistra radicale (DP). Per cui, come ricorda Sergio Cesaratto, “l’adesione al sistema monetario europeo, lo SME, fu il segnale ai sindacati che la politica economica non avrebbe più accomodato il conflitto sulla distribuzione del reddito attraverso il tasso di cambio, in un percorso suicida con cui il paese “s’è legato le mani” prima di gettarsi in acqua” ( qui); e in tal modo la marcia di avvicinamento della “sinistra” a Maastricht poté seguitare senza che nessuno di quegli attori politici s’incaricasse di chiarire le ragioni di tale cambiamento epocale di rotta.
xxxxMa il 1994 è stato anche l’anno in cui s’è levato prorompente, e da un “buco di culo” (copyright Antonio Lobo Antunes) del mondo: lo stato messicano del Chiapas, uno degli stati più poveri e disattesi del Messico benché le materie prime di cui è ricco vadano ad alimentare la ricchezza delle classi dominanti messicane, il grido di “Ya basta!” (Adesso basta) lanciato dalle popolazioni indigene di etnia maya e risuonato mediaticamente nel mondo intero. Cosicché uno dei principali risultati ottenuti dall’insurrezione zapatista è di aver riportato sulla scena storica tanto messicana quanto mondiale un attore sociale altrimenti rimosso: il popolo indigeno.
xxxxQuel 1° gennaio 1994 il Messico era sul punto di festeggiare la sua entrata nel primo mondo dalla porta del Trattato di libero commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico, i bicchieri erano in procinto di levarsi nel brindisi augurale quando l’insurrezione indigena chiapaneca guidata dall’EZLN (Esercito zapatista di liberazione nazionale) che in armi, con fucili funzionanti o, chi non li aveva, di legno, nel corso della notte aveva occupato quattro capoluoghi tra cui l’antica capitale San Cristòbal de Las Casas, entrò a gamba tesa nei festeggiamenti, rovinandoli.  E dopo trent’anni (o cinquecentotrenta, come contano loro) di resistenza e di lotta contro l’”idra capitalista” (Marcos), gli zapatisti sono ancora lì, a governare e consolidare i territori da loro liberati durante l’insurrezione sfidando quotidianamente il Potere, in barba a tutte le finis historiae preconizzate dai vati del monopolarismo.
xxxx“Nelle terre zapatiste non comandano le multinazionali, né il FMI, né la Banca Mondiale, né l’imperialismo né l’impero, né i governi dell’uno o dell’altro segno. Qui le decisioni fondamentali sono prese dalla comunità. Non so come si chiami tutto ciò. Noi lo chiamiamo zapatismo” (Subcomandante Insorgente Marcos, “La velocità del sogno”; 2004).

Gianfranco Ciabatti, dunque.

xxxx“Nato a Ponsacco (Pisa), nel 1936, Gianfranco Ciabatti si è laureato in giurisprudenza nel 1959. Ha collaborato da prima con Danilo Dolci e successivamente è stato operaio in cantieri edili e insegnante nelle scuole medie. Dal 1969 è redattore presso una casa editrice fiorentina”. Così recita la sintetica nota bio-bibliografica dell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani (1980), nella quale figura una selezione di suoi testi poetici, dal 1960 al 1977.
xxxxSe in quella antologia Ciabatti veniva presentato al grosso pubblico en poète, a quella data però egli aveva già all’attivo una lunga e rigorosa attività di militante politico e di teorico marxista che lo portò nel 1965 a fondare, assieme a Romano Luperini, Franco Petroni e Carlo Alberto Madrignani, la rivista pisana Nuovo Impegno, divenuta in seguito l’organo teorico della Lega dei comunisti, e a intervenire puntualmente nel dibattito politico-culturale degli anni Sessanta e Settanta con articoli e scritti di taglio saggistico (quelli sul movimento sindacale italiano vennero accolti nel 1981 nella miscellanea feltrinelliana Lavoro scienza potere). Tappa successiva del suo impegno politico sempre attestato su più fronti e più prassi, fu la fondazione, assieme a un gruppo di intellettuali e ricercatori marxisti tra cui Gianfranco Pala e Carla Filosa, del bimestrale di netta ispirazione marxista la contraddizione, il cui primo numero uscì nel giugno-luglio 1987.
xxxxNel 1985 le edizioni Manni di Lecce hanno pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Preavvisi al reo, nella cui prefazione Romano Luperini – che in quella sede e altrove ha detto parole importanti sull’uomo-poeta-quadro politico Gianfranco Ciabatti -, ha definito quei versi d’“aspro sentenziare” e di “timbro illuministico” estranei “sia al filone della tradizione simbolista e postsimbolista, sia a quello dello sperimentalismo avanguardistico”, riconducendoli al “solco europeo” di “Brecht, Attila Jòzsef, Auden”, non senza aggiungere che la poesia dell’”isolato” Ciabatti “che tesse solo il filo della propria coerenza”, va a comporre il “romanzo esistenziale” di “uno degli autori più forti e originali della generazione che ha esordito intorno al ‘68”, e che essa, “in un momento come questo di facili riflussi e di compiaciute retoriche”, ha anche grande “valore culturale e politico: il valore d’una alternativa”.
xxxxQuattro anni dopo l’editore Sansoni darà alle stampe la raccolta Niente di personale prefata da Franco Fortini (“le sue [di Ciabatti] poesie nascono […]  da una sovrabbondante e indignata energia di prosa. Le sue figure sono quelle della scansione epigrafica e della iterazione, ma più da orante che da oratore”), mentre l’anno prima, Ciabatti aveva dato affidato alle piccole “edizioni di contraddizione” le sue “non-poesie civili o refutabili 1959-1988”, inizialmente facenti parte della raccolta destinata a Sansoni, ma in seguito da lui estrapolate e riunite sotto il titolo Prima persona plurale; vicissitudine editoriale, questa, che renderà il libro del 1989 matrice di quello del 1988. Quindi, nel 1997, a cura di Sebastiano Timpanaro, sono uscite per i tipi della Città del Sole le poesie di taglio epigrammatico Abicì d’anteguerra, corredate da foto in b/n di personaggi politici dell’epoca e tratte dall’omonima rubrica che Ciabatti teneva nel periodico “la contraddizione”. Nel 1998, infine, Marsilio ha pubblicato In corpore viri, dove “la vile cosa che è il corpo”, ha osservato Giovanni Commare, diviene per Ciabatti “l’unico bene certo”, mentre  sulla dialettica nobile vs ignobile già Fortini aveva rilevato che, anche “a correttivo d’una certa cadenza sacerdotale” del verso, la poetica di Ciabatti ha necessità di  “far cozzare il nobile e l’ignobile”, ma siffatto scontro non avviene “fra il letterato e il colloquiale, bensì fra due livelli di linguaggio parimenti alti, quello che Brecht chiama ‘ignobile’, dell’economia politica e dei saperi tecnici, e quello ‘nobile’, e dunque schernevole degli arcaismi e dei latinismi”.
xxxxOra, se la veste en poète a Ciabatti andava stretta, l’”antilirismo” (Luperini) della sua poesia “in rotta con l’eredità della lingua alta” (Fortini) non ha mai trovato sbocco nella poesia-volantino (semmai i volantini a contenuto politico-sindacale lui li distribuiva) o nel verso-messaggio; del resto, come ha dichiarato Sebastiano Timpanaro nella “premessa” ad Abicì d’anteguerra  “la poesia non è stata mai per Ciabatti mera invettiva” (il che non toglie che, come per Giovenale, anche per lui facit indignatio versus), ma è “nell’elaborazione stilistica la ragion d’essere dei suoi epigrammi”. Ciabatti sa bene che la poesia non è solamente comunicazione, che il grumo del suo dire non si scioglie nel ‘voler dire’, ma che in essa permane un residuo, un di più, un qualcosa di marginale e strutturale insieme, inesauribile nel, e di irriducibile al messaggio: fonosimbolismi, valori metrico-ritmici e semantici non mediati dalla grammatica.
xxxxA questo proposito, e a titolo esemplificativo, nella poesia Funzione della poesia (inclusa nel regesto sottostante), Ciabatti, con sottile ironia ‘dialettica’ e robusta vis polemica, denuncia come propria dell’ottica riduttiva del nemico di classe, la valutazione del testo poetico (“il canto”) unicamente in ragione del messaggio politico da esso veicolato: “quando si combatteva, le poesie  / vergate dal pugnante / erano didascaliche, retoriche, propagandistiche”, delle “non-poesie”, insomma (termine che Ciabatti provocatoriamente assumerà nel sottotitolo che definisce la raccolta), mentre adesso, nella sconfitta del pugnante (e nella valutazione ideologica del nemico), “il guerriero, dalle riserve, / si dice mandi versi migliori” (c.n.). Cosicché la coppia di versi in chiusa, con tono icastico e beffardo, porta a compimento la diagnosi: “Saremmo apologetici se cantiamo vittorie / e solo da sconfitti ci gradiscono: autentici”
xxxxRiconoscere tuttavia l’alterità del linguaggio poetico, la sua collocazione altra rispetto a quella del linguaggio comunicativo di qualsivoglia natura, non significa accettare altresì l’alterità (sociale) del poeta. Contro “la collocazione eccentrica del poeta nei confronti del reale” Ciabatti ha condotto una “critica radicale”, ricorda Fabrizio Bagatti nell’”Introduzione” a Prima persona plurale. Critica radicale e incessante, perché l’auréole non è caduta una volta per tutte (1869) dalla testa del poeta, ma ha una spiccata propensione a riposizionarsi, generazione dopo generazione, in capo ai “poeti laureati”, ogni volta assumendo la forma più consona all’epoca data, compresa quella del c.d. “mandato sociale” dell’artista, che altro non è (stato) che il tentativo ‘democratico’ e post-moderno di recupero dell’auréole nella sua più piena autorevolezza.
xxxxDal punto di vista strettamente biografico non saprei dire quanto d’impulso istintivo o di carattere maturato nella prassi, di sfida e/o di meditata scelta intellettuale abbia consentito a Ciabatti di coniugare militanza politica, lavoro teorico e prassi poetica, ma so che la critica serrata di quell’io che la psicoanalisi vuole scisso e la letteratura novecentesca decentrato, congiuntamente al netto rifiuto di vestire i panni del soggetto lirico chiuso nei confini della propria individualità, hanno reso possibile al suo dire poetico di esprimersi nelle forme del “noi” collettivo e di classe, e al suo verso di aprirsi alla tensione dialettica modellata sull’universalità dei destini generali muovendo anche dalla dimensione epigrammatica di situazioni ed episodi di taglio spicciolo, di quotidiana conflittualità.

Propongo qui di seguito un piccolissimo regesto di poesie di Ciabatti, pur con la consapevolezza della difficoltà, se non dell’impossibilità, di dar conto con limitati exempla dell’opera poetica di un autore.

 

Da Preavvisi al reo (poesie 1958-1984)

“OTRA COSA…”

Se si va via, se si parte,
senza piangere bisogna andarsene.

Ci crescerà la barba,
i denti la carie li scaverà,
le mani s’enfieranno d’acqua putrida, ma presto
sarà pietra di callo.
Attenti, però: partire
non è come scrivere un verso.


Muratore

Andar per aria.
Mi è sempre piaciuto.
Dai miei alberi di un tempo hanno segato
tavoloni per i ponti dei cantieri.
Ma c’è anche la terra,
l’acqua marina, l’ombra
e il sonno.
Mi piace anche questo.
La corsa sulla sabbia rassodata
della battigia, il tuffo,
la salita che regola il polso,
il riposo nell’erba.


Preavviso al reo

La forza che ti serve nel momento decisivo
è quella di chi è solo con la sua speranza
di rimanere solo sempre più.
I limiti che lo dividono
dal resto del mondo hanno inizio laddove
il suo fiato finisce.
Tutto quanto li varca per venire a lui
è l’assoluta dimenticanza.
E quando la pena si sconta nel corso del sangue,
ride tutto il difuori
con la sua tremenda innocenza d’infante.


Autodifesa
                            a Romano Luperini
Se è vero che siamo inumani
non è solo perché trascurammo l’omaggio
di un mazzo di rose,
ma anche perché assolvendo la nostra parte d’obblighi
non domandammo doni.

Ci rinfaccia la nostra scortesia
soltanto chi dimentica
che nuda è l’aratura del dolore
sui nostri campi dove anche il suo ferro
come quello degli altri ha inciso il solco.

L’inumanità nostra
cacciò dai boschi l’uomo col peso del suo sapiens,
attributo di pena che sconta
la colpa della fame indifferente,
la negligenza dei duri perché.

Chi cerca garbati consensi rituali
in noi, oppure compagni d’innocui trastulli,
chiede poco alla pianta contorta del cuore
che pretende per sé ogni nostra cura
perché i frutti perdonino la sua ingratitudine.


(ordine di necessità)

Per l’ennesima volta trascrivi in pulito
I superstrati delle correzioni,
come se il lavoro manuale riscattasse
la povertà della materia.
Puoi dire, molto
necessariamente,
rosa alla rosa macchina alla macchina,
finché viene in questione la stessa
necessità della rosa, la stessa
necessità della macchina,
e vedi che la scelta decisiva non è fra l’uno o l’altro
dei tuoi discorsi, ma fra l’una o l’altra
delle loro premesse.


Vigilia di guerra

Nel posto che tiene
è prelevato ognuno da un lampo impreveduto
nei suoi occhi di bimbo innocente.
Era dolce menare la vita sui verdi viali
Sputando indifferenti nel fiume che trascorre
Da un ponte all’altro, ignorando la foce.

Come quando drappelli di danze rincasano
nel freddo dell’alba
e incredule ravvisano il silenzio che inatteso
compare dietro un angolo lontano pedalando
alacremente
sul triciclo del pane.



Alla sua compagna

Il rischio non è che tu rompa con me.
C’è il caso che tu te ne vada
guardando la mia schiena diminuire lenta,
e indietro tu ritorni per ripassare il limite
che varcò il nostro amore.

Più difficile è prendere con te
gioia più ardente o più fredda coscienza
e così provveduta lasciarti alle spalle
quel limite che è il nostro amore,
e me con lui.


III. Conoscenza materialistica postuma

1. (agli amici putativi)
Come siete buoni!
Tollerate tutto,
tollerate tutti,
tranne quelli
che non possono tollerare
e a tollerare sono costretti.

2. (conoscenza materialistica postuma)
Quando combatti, pensi
di color che sbagliano:
giorno verrà che anch’essi capiranno.
Ma quando i fatti smisurati mostrano
dei loro errori intera la misura,
da erranti essi si mutano in furfanti,
e allora tutto è chiaro: eri tu che non capivi,
sei tu che ora capisci.

3. (epoca)
I compagni hanno scoperto
la poesia
e della poesia la teoria fondabile
su materiale incerto
e segno inaccessibile. Dio,
come siamo caduti in alto!

4. (agli amici putativi)
Da una parte il potere. Dall’altra
(si fa per dire)
la magia, la demenza, il gioco, la pietà.
Io non sto né di qui né di là.

5. (in via subordinata)
Per voi niente è serio,
per me è serio tutto,
compreso il fatto
che niente è serio.
E ora, se potete,
datemi un punto di contatto.

6. (ai tolleranti)
Stando ai tolleranti,
avere ragione non ha importanza.
Si appagano del torto
di tollerare la ragione dei potenti.

7. (et pour cause)
Idearono il riflusso, cosicché
prima sono rifluiti
e poi sono confluiti.

8. (corso di perfezionamento)
Solo ai buoni darai
spiegazioni,
soprattutto quando
non le chiedono.
Ai cattivi mai,
specialmente se le chiedono.
Allora soltanto potrai diventare
il peggiore di tutti.

9. (ecco)
Cosa vi ho dato? Niente.
Che potere vantarvi
di avermi regalato
le più alte sofferenze.
Ecco cosa vi ho dato.

E che vi ho tolto? Molto.
Io le ho prese e le ho scritte
così com’erano
e me ne sono liberato.
Ecco cosa vi ho tolto.

10. (frammento di canzone razionale)
Mi chiedono perché non mi rattristano
le vostre offese.
E’ tanto tempo che vi ho detto addio:
è per questo che vi amo, mi rallegra
la vostra compagnia.


Da Prima persona plurale (1959-1988)

Riti

Prima o poi giungeranno
a confondervi,
citandovi davanti a un giudice imparziale.

Sciameranno dai sordi pianori
nei sussulti del sole
col secco scroscio delle cavallette.

La polvere scuotendo dai coperchi
delle loro tombe riservate,
memorandum segreti, carogne
riesumeranno,
che rovesciano il gioco delle colpe
levando una babele di ragioni.


Sciacca

Si vive
sotto la lama delle chiglie azzurre
profumate di pesci marci?

Dove il colpo sfugge di mano ai fanciulli.

I grassi capelli del servo assassino.

Sotto il volo indifferente dei gabbiani
Sul filo teso del vento marino.


Conato normativo

Volgarità:
concetto ausiliario
nel difetto di epiteti apponibili
alle variabili della perversità,
ricorso d’emergenza per respingere
merce che il nemico contrabbanda
sotto il vuoto di un nome,
criterio integrativo del bisogno negatore illetterato
per riconoscere l’alimento di cattiva qualità.
Bocca che sbava
senza un abbozzo di motivazione,
logorrea cristiana che risucchia
liquido seminale in senso inverso,
beccaio che commisera la bestia,
e ne metta chi più ne ha
della brigata esemplare.


Intifada

Noi, bastardi seguaci della scienza dialettica
delle terrene guerre,
chiedemmo molto, lo riconosciamo:
che dietro i loro volti quindicenni
la merce e le classi si mostreranno nel vero
groviglio dirimibile
delle colpe occultate dai simboli,
la stella di Davide, la mezza luna, la croce,
in filigrana del dollaro l’ordito dei vessilli.
Ma loro, che senza saperlo
Erano della dialettica corpi costitutivi,
molto meno domandarono alla mansuetudine
dei fedeli legittimi del nume oltremondano:
solo che l’apparenza adolescente
fosse riconosciuta come una realtà.



II. Prima persona plurale

Di necessità noi proletari
virtù non si può fare:
delle nostre virtù gli sfruttatori
hanno già fatto necessità.

Non siamo quei capaci
produttori che siamo al solo fine
di campare: che si campi
è un altro risultato delle nostre abilità.

La destrezza che incorpora nel pezzo finito
il processo distinto d’ideazione
non a torto
la ascriverete alla coercizione:
ma lo stato di schiavi salariati
della nostra sagacia non è che una scoria.

Alla nuda pazienza
nostra non imputate la coazione
dell’arbitrio vigente, ma i vincoli pure
che lo impastoiano considerate
come ordì lungamente la nostra tenacia.

Siamo la classe che sa raddrizzare i rovesci.
Sono oggi la nostra debolezza
le virtù
che preparano il domani
dove saranno la nostra forza. 



Funzione della poesia

Quando si combatteva, le poesie
vergate dal pugnante
erano didascaliche, retoriche,
propagandistiche press’a poco,
pur della rissa segnalando i dolori.
E, se proprio dir vuoi, non-poesie.

Ora, il guerriero, dalle riserve,
si dice mandi versi migliori.
Del vinto (che non sottoscrisse la resa)
si apprezza meglio il canto, se non quanto
le gioie postsalmodiate
dei vecchi monaci ai vincitori.

Saremmo apologetici se cantiamo vittorie
E solo da sconfitti ci gradiscono: autentici.


Da Niente di personale

In morte di una compagna

Dicono che non sia da nominare
quanto  non è comune
a tutte le creature,
ma piango il manto rosso
che avvolge la tua bara
mentre la poesia diserta pavida
il canto, e fugge nell’universale
che dalla nostra guerra la ripara.


Sette parole postume di spiegazione

Perché la distrazione ti urta con la folla,
perché sono smarriti gli strumenti comuni
dai destinatari dei loro benefici, perché le arti che a noi filano
il filo delle vite
vengono trasmesse per approssimazione, perché i nostri appartamenti
sono disseminati di vestiti il cui cassetto
a chi competa è dubbio ma a chi incombe
è certo,

scelsi la poesia per amore di precisione.

Sicut in principio
L’arte essendo una parte delle cose,
è proprio all’arte
quanto è proprio alle cose.
E quello che è impossibile alle cose,
è impossibile all’arte.


Referenze in corpo 8

Attraverso la selva
dei confronta, degli ibidem, dei vedi,
delle interpolazioni, degli indici analitici,
dei corsivi che levano nebbie alludenti,
delle indebite appropriazioni
di anteriore bellezza
sanate dalle doppie virgolette
che addensano di numeri l’impasto dei paragrafi
e in calce l’occhialuta debolezza della vista
rimandano,
lungo le invalicabili distanze
dei saggi critici
fuggono i malfattori e si nascondono, e la vita
non è mai stata così breve, e il tempo
manca, e bisogna far presto
a dire tutto.

Celle d’isolamento

Dati in balia degli alberi e del sole
che nessuna mansione vi commettono,
né ingiungendo si sollevano
né rispondendo si rassicurano, abbandonati
al vostro arbitrio che nulla vi elargisce
e tutto
di quanto è oscuro esige, vi dà il panico
la vuota tenerezza dei regni creaturali,
voi che il detenuto restringeste
entro un castone cubico di buio ricavato
nello sterminio della luce bianca
dalle terrazze dei mediterranei,
senza vangelo
senza risonanza

Declinando un’offerta di collaborazione

Non ho con l’arte
il tuo stesso rapporto.
Te l’arte diverte,
 me deride.
A yte dà di che vivere,
a me ne toglie.

Pensiero debole

Ambizione delusa
della debole mente 
non avere princìpi,
dei quali ti è concesso
il minimo di uno:
a lui non puoi sfuggire.
Non avere princìpi 
Chiàmalo impropriamente
tendere omaggio a lui,
principio dominante.

Il materialismo incompiuto di Giacomo Leopardi

L’anima umana, disse,
desidera il piacere, unicamente.
E come il desiderio è infinito, infinito è il piacere
desiderato,
e quello solo estingue con la morte infinita
non questo con sorsi finti di vita
la natura matrigna.
Benigna, allora, da misericordia
verso noi fatta,
ci donò la virtù d’immaginare l’infinito
e infinito il piacere e illusioni a saziare
lui sitibondo.
E misericordioso questo vano
sorridere del mondo ai fanciulli, pertanto,
illuminava l’anima e, più che ai conoscenti,
agl’ignoranti.

E proprio così disse, “l’uomo”, “l’anima”.
E non vide, il poeta, il plurale indistinto
dei corpi dominati, non vide il piacere, disceso
da cieli impenetrabili,
fermarsi a questa soglia, disperare di raggiungere una qualche
soglia d’anima, oltre la piaga torpida
del bisogno assordante,
un qualche uomo che fosse
meno che creatura.

Nuove scoperte

La scienza ha incontrato la bestia
           (verso lei procedendo da lungi
            sulle orme perdute davanti all’umana congrega,
            ma anche da amore sospinta del corpo di lei
            con il quale non ebbe commercio
            mentre ne vagheggiava la coscienza
            confusa nello stridulo coro delle babeli)
accovacciata sopra i nutrimenti
del suo sterco, la bestia
che la scienza credeva soltanto capace
d’ignorare, mentire.
Di obliare.


Da Abicì d’anteguerra
(decifrazione in versi delle immagini del presente; 1987-19949)

Omaggio a Bertolt Brecht

Analisi
Ehi, Bertolt, ricordi
La tua sfida?
“Parliamo dei rapporti
di proprietà”. (Da allora
anche la nostra letteratura
è cresciuta in sogghigni
sotto i baffi,
di conserva con le analisi)
E il punto resta quello,
senza dubbio.
Ma un fatto sopravvenne dipoi, che fa le analisi
superflue con la sua misura nuda:
sono, costoro,
ridicoli e volgari.

Centro studi confederale

Il salario non è
una variabile indipendente.
        Che significa, concretamente?
Intendo che il salario non è libero
di crescere a suo piacimento.
        E di diminuire?
Questo sì, purché naturalmente
lo faccia col sindacato.
       Ma da cosa dipende il salario?
Il salario è soggetto alle leggi
Economiche del sistema.
       E il sistema cos’è?
La variabile indipendente,
che altro?

Nelle foto:


(Vittorio Foa)

Auspica il compiuto
credendolo il daffare,
non ricorda più ciò che accadrà,
desidera che accada l’accaduto
colui che non veniva dal futuro,
colui che non andava nel passato.


(Giulio Andreotti)

Scossi dai palcoscenici
di una sinistra assenza
siamo caduti ai vertici
di questa intelligenza.


(Giovanni Agnelli e Carlo De Benedetti)

Sono l’Uno,
mi servono due scolte
che guardino le opposte direzioni
a evitare che l’Altro
possa imboccarne alcuna.


(Silvio Berlusconi)

                  eppure
non scrisse il terzo Faust,
non seguitò la Nona Sinfonia,
non aggiunse ritocchi
a sistine figure,
né alcun Rubicone varcò.
                               Tuttavia
si può non credere ai propri occhi?


(Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov) 

Dove si mostra la democrazia
giunta ai vertici delle cervici
che diresti ugualmente dementi
se tu ignorassi che inegualmente
padrone e servo son colludenti.


(Bill Clinton)

Per postuma
legittima difesa
da pregresso attentato fallito
fatuo assassino
coregge all’estero il sondaggio
sfavorevole in patria all’imbelle
sessantottino pentito.


(Boris Eltsin)

L’esecuzione di Marx
In tal caso è sospeso
il loro habeas corpus.
Il processo riprende
dopo il terzo giudizio.
Accertata la morte,
si replica l’inizio.
A ogni nuova condanna
segue l’esecuzione
dello stesso fantasma.

Omaggio a Gianfranco Ciabatti 
(Gianfranco Ciabatti)

Épitaphe
animale caduco,
per tutta la vita
se la prese con l’assoluto
accusandolo di non esistere.

Una lettera del 2001 a Renato Solmi


Riordinadiario 2001/ Lavorando a “Il professor Franco Fortini”

di Ennio Abate

La lettura di “Allora comincerò…”, di cui sto dando un resoconto a puntate,  mi ha rimandato a persone e temi riguardanti il ’68, la scuola e la mia stessa esperienza di insegnante nelle secondarie superiori. E, perciò,  ho deciso di affiancare al  discorso  che sto facendo su “Il professor Franco Fortini” alcuni documenti che mi sembrano ad esso complementari. Comincio da questi due, presi dal materiale del mio (purtroppo breve) carteggio con Renato Solmi: una mia lettera a lui del 16/22 febbraio 2001 e, in Appendice, la sua risposta del 24 febbraio 2001.
Continua la lettura di Una lettera del 2001 a Renato Solmi

I tetti rossi

Emeroteca – Fantastica in esercizio

di Filippo Nibbi

Quando frequentavi l’ambiente hai mai conosciuto fra i degenti un certo Pasquale Maceroni? Chiacchieravamo ore e ore ma non sono riuscita mai a farmi raccontare la sua storia e perché fosse finito lì. Quando era nei suoi momenti bui in cui sragionava ripeteva ossessivamente qualcosa su Hitler e le punizioni. Io pensavo che forse era stato in un campo di concentramento e lì il sistema nervoso era saltato. Un altro, che invece non stava ai Tetti Rossi ma chiuso da anni e anni chiuso in casa sua in una stanza buia qui a Cortona e che dopo anni il mio babbo che da barbiere andava a fargli barba e capelli lì in quella stanza, ripeteva in continuazione “Paradiso sorriso”. I suoi dicevano che era caduto nella pazzia perché era stato chiuso dai tedeschi in un forno crematorio. Dopo anni mio padre riuscì a convincerlo ad uscire da quella stanza e in seguito ad accompagnarlo all’aperto. Ma la gento lo schivava perché ne aveva paura. Non so perché queste persone con problemi simili a me si sono sempre attaccate come il Bostik e io non ricordo di avere avuto rapporti così soddisfacenti come quelli che ho avuto con loro.

Italicus, la P2 e la verità di Alessandra De Bellis

6 Agosto 2021 di Luigi Ferro

I Balcani producono più storia di quanta ne possono digerire”. La frase di Winston Churchill può valere anche per l’Italia e mi è tornata in mente vedendo su Raiplay il documentario Spotlight La pecora nera, inchiesta di Valerio Cataldi e Andrea Palladino, dove in mezz’ora si racconta la storia di Alessandra De Bellis, moglie di Augusto Cauchi, figura centrale della destra neofascista toscana. Così accade che uno come il sottoscritto che per anni legge libri, si tiene al corrente con le notizie di cronaca, vede documentari, Report e tutta questa roba, con i misteri d’Italia fra mafia, terrorismo e Ustica che lo accompagnano per una vita, improvvisamente scopre una storia mai sentita. Che assume ancora più importanza in questi giorni di rievocazione della strage di Bologna dove dal processo emerge con sempre maggiore chiarezza il ruolo di Licio Gelli e della P2.
Questo Paese, instancabile produttore di storia e di storie, propone infatti la vicenda di Alessandra De Bellis, esemplare per spiegare cos’era l’Italia degli anni ’70 e ’80, l’Italia della P2 e anche per capire che la strage di Bologna era forse il punto finale o un’altra tappa di un percorso iniziato molti anni prima.
La storia della De Bellis è infatti legata all’attentato al treno Italicus. È la notte fra il 3 e 4 agosto 1974 quando sul treno che, risalendo la penisola, sta attraversando la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, scoppia una bomba che causa la morte di 12 persone e il ferimento di altre 48. Non è l’unico attentato di quel periodo. Il 21 aprile c’era stata l’esplosione a Vaiano (Prato) sulle rotaie della linea Bologna-Firenze; il 28 maggio la bomba in piazza della Loggia a Brescia; il 30 maggio a Pian del Rascino veniva ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri Giancarlo Esposti che secondo alcune testimonianze stava preparandosi per andare a Roma per attentare alla vita del Presidente della Repubblica, che avrebbe dovuto colpire spettacolarmente a fucilate durante la parata del 2 giugno. Tutta roba dei neofascisti.
Questo il contesto dell’epoca: il 9 agosto 1975 Alessandra De Bellis racconta alla Polizia che suo marito Augusto Cauchi, noto estremista, nel loro breve matrimonio (naufragato dopo percosse e altro) le aveva confidato la sua attività nelle organizzazioni di estrema destra. La De Bellis depone a Cagliari dove si era rifugiata dopo la separazione. Dice che il marito le aveva parlato di un attentato da mettere in atto al treno Italicus e che alla fine di luglio del 1974 a casa sua c’era stata una riunione preparatoria.
Allora Alessandra De Bellis aveva 23 anni e da quel momento – a lei che diventa “la pecora nera” – la vita cambia decisamente in peggio, diventando un incubo.
In Sardegna le rubano i soldi, ha bisogno di aiuto, va in una sede del PCI e dice di voler raccontare tutto sui fascisti. La mandano alla Polizia, da quello di Stato che la dovrebbe proteggere e invece le massacra la vita. Entra infatti in azione la parte deviata dello Stato, la prelevano in Sardegna e grazie a magistrati e medici compiacenti, nel silenzio totale della stampa, fanno scempio della sua vita.
Nell’Italia democristiana che dava lezioni di democrazia ai comunisti era possibile subire violenze come in Unione Sovietica. Per Alessandra De Bellis si aprono le porte dell’ospedale psichiatrico fino a quando, un giorno, dice di non ricordare più la sua deposizione. Così può tornare a una vita normale.
Una vicenda agghiacciante e alla fine ti chiedi: è successo molti anni fa in un’Italia diversa, ma potrebbe succedere ancora?
La faccenda dell’Italicus è finita in nulla: a oggi non ci sono colpevoli perché quelli portati in processo sono stati assolti

L’insostenibile trionfo della leggerezza

di Donato Salzarulo

In provenzale antico “leujaria” significa letteralmente “leggerezza”. Per uno di quegli scarti tipici della storia delle lingue, in italiano diventa “leggiadria”. Con quest’ultimo termine non ho problema: la grazia, la bellezza, l’eleganza mi piacciono molto.

Clicca qui  per continuare la lettura

qui per notizie su Orione, rivista culturale della Fondazione Sinapsi

 

Poesia e politica

di Ezio Partesana

Il contenuto politico della scrittura non coincide con il contenuto materiale anche se, quando accade, il problema è risolto; il dubbio resta per quei testi che parlano d’altro, dal timbro lirico o personale. Se ogni forma è un contenuto storico sedimentato, tuttavia non si può rispondere alla domanda di ordine sociale, se un componimento sia o meno “politico”, limitandosi alla ricostruzione interne delle sue ereditate forme; scrivere sonetti nell’età contemporanea, per esempio, è certo una scelta di opposizione e distanza dal poetare di tutti e chiunque, ma si possono scrivere quartine e terzine anche dicendo sciocchezze reazionarie. L’opposizione tra sentimento privato dell’esistenza e impegno civile è appunto una opposizione e in quanto tale non genera nulla; si prende partito, uno tra i disponibili, e se ne rivendicano le ragioni come in sogno di fronte a un giudizio universale. L’astrazione del recente discutere sul tema nasce da questo: dall’ipotesi che ogni individuo sia libero di scrivere, e leggere, quello che vuole, l’illusione cioè che la lingua sia una forma inerte e pura della quale ci si può servire (o a lei ubbidire, a seconda) affinché questa o quella cosa vengano dette. Si dimentica volentieri, insomma, che la trama e le parole, il ritmo e il nome, sono prodotti collettivi di una struttura sociale che nasconde le contraddizioni anche con il linguaggio, e i suoi derivati prodotti. Non si può dire tutto, in fine, non solo perché le condizioni di chi ascolta sono controllate dal lavoro, dall’educazione, dall’etnia, e via dicendo, ma anche perché la scrittura (o il disegno, o la musica) è soggetta alla stessa ideologia entro la quale vivono gli uomini. Però si può sedurre e mentire, vale a dire escogitare una lingua che, in obbligato e apparente ossequio allo stato di cose, lasci però l’amaro in bocca del “non dovrebbe essere così”; una poesia (nel senso più ampio possibile del termine) che avveleni i pozzi del dominio scherzando con le pozzanghere. La mia modesta risposta alla domanda su quale sia una scrittura politica è dunque questa: chi dice la verità in un mondo di menzogna è sempre rivoluzionario.