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Perché “Poliscritture Colognom”

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di Ennio Abate

In anni passati il tema della città riuscivo a esplorarlo con passione. Non per interessi professionali – non sono architetto, urbanista o sociologo o storico locale – ma politici.
Eravamo giovani, quasi tutti immigrati. E ci eravamo incontrati e organizzati, nel 1969, in un Gruppo Operai e Studenti di Cologno Monzese. Per anni tessemmo rapporti coi suoi abitanti, immigrati quasi tutti anche loro: operai di piccole fabbriche, donne e ragazzi dei quartieri, studenti delle superiori o di università.
Conobbi allora anche Danilo Montaldi, l’autore di Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Anzi, essendogli arrivato chissà come  tra le mani un nostro volantino, venne lui stesso a  cercarci a Cologno.
Nella postfazione alla nuova edizione del suo libro (1975) parlò anche di noi, “i giovani scattati col ’68-69”, e  fece  un ritratto secco, realistico, della città di allora  in drammatica trasformazione.  Lo ricopio: Continua la lettura di Perché “Poliscritture Colognom”

Essere il peggio

di Gianfranco La Grassa (Franco Nova)

ESSERE IL PEGGIO DEL PEGGIO
 
I sentimenti, che tali non sono,
ridono di me e del  mio essere
uno spudorato mentitore.
Amo eppure nulla sento in me;
corro dalla solo presunta amata
e dalla mia contorta psiche
nascono timori assai pressanti
di non trovarne nemmeno una.
Ed infatti è proprio così e
mi siedo godendo d’essere solo.
Non ho ben capito chi sono
e se veramente io vivo o
si tratta di immaginazione.
Non mi piaccio per nulla
e vorrei essere cancellato
da ogni luogo abitato.
So che non è possibile
ma non ha importanza,
quelli che incontro per la via
sono puri arbusti ingombranti
 
 
TENIAMO VIVO IL NOSTRO EGO
 
Quanto sonno eppur non dormo
per l’incidente all’amata
che ha rischiato di morire
ed è ancora sotto anestesia.
Sorride e non sembra soffrire,
la colpa è stata tutta mia
e mi sento un uomo solo
che ha rischiato la tragedia.
Per rara fortuna anche
l’amputazione è stata evitata
ma la colpa mi ha reso
un automa senza più energia.
Dovrò riprendere la mia vita,
ma solo per darla tutta a lei?
Non so se ne sarò capace,
l’altruismo è stato d’animo
che dura uno schiocco di frusta.
Forse dovrò darmi alla ricerca
di sentimenti tutti nuovi;
la mia donna avrà il rispetto,
ma oltre ad essa quale altra?



Echi di Eco

Potrebbe essere un'immagine raffigurante testo
di Samizdat
E’ stato appena pubblicato un libro “Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra” di  due giovani studiosi Claudio Capris e Giandomenico Capris, che, secondo la locandina della  Casa Editrice La nave di Teseo, “ricostruisce una stagione irripetibile della politica e della cultura italiane, tra la nascita delle neoavanguardie e l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa”.  Se dovessi trovare il tempo per leggerlo, mi porrei questa domanda: di quale Eco parlano: del giovane “incendiario” o del vecchio “pompiere” e terrei in mente questi due stralci che sono andato a ripescare in “Insistenze” di Fortini:

1.
Nei vent’anni che vanno dal 1945 al 1965 (circa) il tema dei rapporti fra intellettuali e politica si venne modificando col mutare dei due termini. Gli intellettuali divennero massa (con una giungla di “livelli”), la politica diventò tenacissimo sistema dei partiti e dei sottopartiti: mulino dell’identico. Nel quinquennio 1967-1972 a tutta una larga parte di quella che fu la nuova sinistra apparve chiaro che si trattava di comprendere e di controllare, per giugere a modificarli, i meccanismo della trasmissione intellettuale, culturale e ideologica: la scuola, la università, i centri di ricerca, gli audiovisivi, gli spettacoli, l’editoria nelle sue diverse forme. E che ciò poteva essere fatto soltanto dall’*interno* degli organismi (questa la “lunga marcia”, non quella di avvicinamento al potere politico esistente!) con una varietà di strumenti: ad esempio, la conoscenza dei meccanismi della informazione, la elaborazione di tecniche operative sui linguaggi e la loro circolazione, le attività sindacali ecc. Nell’area della cosiddetta letteratura si sarebbe trattato di conoscere l’economia e la politica del sapere e della cultura, l’albero delle decisioni editoriali, quello della distribuzione, della critica, e della ricerca, delle traduzioni, delle centrali del gusto ecc. Questo programma urtò tanto contro l’insipienza politica di chi, nelle nuove sinistre, lo credette meno importante delle chiacchiere sulla presa del potere, quanto contro la più che naturale volontà politica ed economica di chi non era disposto (a destra, al centro o a sinistra) a cedere un millimetro del proprio potere di gestione e controllo e che quindi si batté, nel decennio successivo, non solo per spegnere quelle tendenze ma per ridicolizzarne o criminalizzarne origini e motivi, obliterarne il ricordo presso le nuove generazioni, cooptare intellettuali “pentiti”.

(F. Fortini, “Il mercato delle lettere” (maggio 1981), in “Insistenze”, pagg. 82-83, Garzanti, 1985)

2.
Avete notato la scomparsa (ossia la riduzione a specialità universitaria) dei discorsi sull’industria della cultura e sulla manipolazione dell’opinione tanto correnti fino a pochi anni fa? I sociologi seri hanno disputato, negli scorsi anni, sulle tecniche di rilevazioni degli effetti delle forme culturali di massa; ma ora stanno pensando alla bibliografia. Anche Eco, mi pare, dopo aver lavorato in avanscoperta a destrutturare criticamente le comunicazioni di massa e a proporre vie anche politiche volte a mutarne i linguaggi, sembra trascorso a ragionamenti difensivi, profilattici; non si va più dal momento della critica ideologica a quello dell’azione politica ma (più tradizionalmente) dalla critica ideologica all’intento di influenzare l” “opinione”. La verità onde dire è fare si accompagna alla bugia onde sapere è potere.

(F. Fortini, L’informazione inutile (luglio 1976), in “Insistenze”, pagg. 181- 182, Garzanti, 1985)

Abbazia Di Calena

di Angela Villa

«Io vengo anche quando non ci sono prenotazioni».
Così, Carmela Pupillo, guida turistica abilitata della regione Puglia, racconta la sua resistenza culturale a Peschici. Quotidianamente lotta, per promuovere le bellezze artistiche e culturali di questa località turistica, contro le tante difficoltà che rendono difficile il suo lavoro, a cominciare dalla necessità di collocare un piccolo cartello per segnalare la presenza di un bene culturale e storico così prezioso. Sto parlando dell’Abbazia di Calena. Scendiamo dalla macchina e aspettiamo il custode che venga ad aprire il grande portone antico, di qua le piante, di là il pozzo secolare. Siamo un piccolo gruppo di turisti, curiosi e desiderosi di conoscere la storia di questa Abbazia. Un raggio di sole colpisce il campanile e illumina l’immagine dell’antica madonnina, ha una forma strana del vestito, sembra quasi una sirena bicaudata, come se ne vedono tante nei paesi del sud che si affacciano sul mare. Seguiamo Carmelina all’interno dell’edificio, i lunghi capelli ricci le incorniciano il volto racconta con amore e passione di un luogo che pochi conoscono. L’Abbazia di Calena è un vero gioiello di architettura, ricco di storia e bellezza. Come nasce questa Abazia? Grazie ai Benedettini che arrivarono a Calena, da un altro luogo molto importante, dall’abbazia principale, Santa Maria a Mare delle isole Tremiti che era già molto importante e grandiosa. Poi è divenuta autonoma. La parola Calena in greco vuol dire “Bella” e quindi si può capire l’intenzione dei monaci di stabilirsi in quella zona. Il primo documento in cui si parla di questa antica Abbazia risale al 1023. Un vescovo di Siponto, l’antica Manfredonia, dona questa località compresa l’abbazia, alla più grande chiesa madre che si trovava sulle Tremiti. Questo ci fa capire che l’abbazia esisteva da tempo, non abbiamo fonti sicure ma probabilmente già Federico II di Svevia la conosceva. Intorno al 1100-1200 arrivano i monaci cistercensi. Dal 1450 fino al 1500 l’abbazia diventa sempre più florida, prende tributi da terre e paesi limitrofi. Tutto apparteneva all’abbazia, i due laghi costieri, le chiese di Ischitella di Vico, i territori di Peschici stessa, alcune chiese di Vieste. I frati gestivano tutta questa grande parte territoriale e raccoglievano le tasse. Durante le diverse dominazioni l’abbazia è passata sotto il controllo dei Borboni che lasciarono ai frati solo le chiese e acquisirono i tributi, con i Francesi la situazione si impoverisce, poiché il governo francese acquisisce anche le chiese e tutto viene messo in vendita, così alla fine del 1800 questo gioiello architettonico, diventa un bene privato e viene acquisito dai Martucci che avevano già molti terreni in queste zone. D’allora passa da ruolo di abbazia ad azienda agricola, viene collocato nei locali di Calena un grande frantoio aperto a tutti. Le porte erano sempre aperte e si dava il diritto di entrare a tutti, perché c’era il grande pozzo nel cortile. Nella grande chiesa per tantissimo tempo si celebrava la messa. Calena nell’antichità, inoltre, era un punto importante di passaggio, i frati accoglievano i viandanti che andavano a Monte Sant’Angelo a vedere la grotta di San Miche Arcangelo. Si partiva da Mont Saint-Michel o da Santiago de Compostela, si scendeva poi fino a Brindisi per andare a Gerusalemme. Erano percorsi che duravano tre o quattro anni. Questi pellegrini spesso lo facevano per scelta, oppure obbligati dal padrone che gli chiedeva di farlo al posto suo. Ci sono molti segni e graffiti lasciati da questi viandanti, partivano scalzi, con pochi denari e tornavano, dopo diversi anni, ricchi di esperienze e di conoscenze rispetto al loro padrone che era rimasto a casa. Per testimoniare il loro passaggio, lasciavano segni, impronte delle mani o dei piedi, semplici croci. I segni più antichi in assoluto, trovati anche a Calena sono quelli esoterici e di iniziazione, spesso difficili da spiegare. Ce n’è uno che appartiene alla Triplice Cinta Sacra. Simboli concentrici rettangolari, che hanno una datazione remota e sono stati ritrovati anche in Afghanistan. Simboli lasciati da cavalieri antichi ad indicare che quel luogo aveva un valore importantissimo dal punto di vista spirituale. Un luogo dove tempo e spazio assumono una dimensione più ampia, in collegamento con altri luoghi delle Terra. Chi per caso si trova a Peschici per villeggiare può recarsi alla Pro Loco del paese e scoprire le altre iniziative alla scoperta delle tradizioni del Gargano, come la visita al centro storico di Peschici e di Vico.

Il tempo è scaduto, saluto Carmelina Pelullo, per qualsiasi altra informazione si può consultare il suo blog www.carmelapulillo.it , mi ha lasciato dentro una piccola gioia perché mio nonno, Don Peppino (così lo chiamavano a Peschici), ha dedicato molti anni della sua vita a studiare la storia antica delle famiglie di Peschici, e le vicende di questa abbazia, da ragazza l’ho accompagnato diverse volte, a visitare le mura antiche, poi non sono più riuscita a tornare, la vita ci prende nel vortice dei desideri che non conosciamo. Ritorno a casa prendo il sentiero che fiancheggia la Foresta Umbra, i grandi pini marittimi con le chiome curve verso il mare, se ne vanno in fila come i pellegrini, compagni del mio ritorno.

Peschici, 15 agosto 2024

 

AI, Lavoro e Capitale

di Paolo Di Marco

1- AI

Ne suo articolo seminale (Computer Machinery and Intelligence, Mind 1950) Turing non chiede cosa sia l’intelligenza -compito disperato, dice- ma sostituisce la domanda con un’altra, rappresentata dal ‘gioco dell’imitazione’: una persona in una stanza deve indovinare mediante una serie di domande se il soggetto al di là della parete sia uomo o donna o, successivamente, macchina. Questo verrà poi chiamato test di Turing e rappresenta tuttora il criterio principe del riconoscimento di una Intelligenza Artificiale (in breve AI).
Ma c’è un problema: l’equivalenza fra le due domande è ingannevole; Turing non ci dice che la macchina al di là della parete è intelligente, ma che è indistinguibile. E nel 1950, dato lo stato delle conoscenze sull’intelligenza, questo poteva essere considerato soddisfacente.
Questa attenzione al risultato (il cosa), indipendentemente dal modo di raggiungerlo (il come), viene mantenuta in tutti gli sviluppi successivi, a partire dal convegno ‘fondativo’ del ’56 organizzato a Dartmouth da McCarthy, dove filosofia e scienze neurocognitive sono del tutto marginali rispetto al nucleo matematico-ingegneristico (‘quando il seminario inizierà avremo un accordo eccezionale sulle questioni filosofiche e linguistiche così potremo perdere poco tempo con quelle quisquilie’ scrive Minsky). Il risultato principale del convegno è porre le basi della ‘AI simbolica’ come insieme di regole per la manipolazione di simboli matematici.
Grazie a questo percorso nascono i primi ‘sistemi esperti’: un esempio interessante è il programma ELIZA (dello psicoterapeuta Weizenbaum) che alla affermazione del paziente ‘Io sono Giuseppe’ risponde ‘Da quanto tempo sei Giuseppe?’ e una successione di domande che rimandano sempre la palla al soggetto, lasciandogli la forte impressione di un colloquio oracolare. (Come un famoso programmino per ragazzi degli anni’60, ‘Pangolino’ che faceva credere al fruitore di avere un programma intelligente).
Come osserva Ross Ashby a Dartmouth ‘quando parte di un meccanismo è nascosta all’osservazione il comportamento della macchina appare notevole’. Ma su questa strada della manipolazione di simboli nascono anche macchine per la ricerca automatica di antibiotici come pure giocatori automatici di scacchi (Deep Blue di IBM) capaci di battere il campione del mondo.
A questo percorso se ne aggiunge in parallelo un altro, tradizionalmente legato al termine di cibernetica: sono tutti i meccanismi a retroazione (feedback) che forniscono i sistemi meccanici di capacità di autoregolazione. Dalla antica chiaccherina dei mulini all’umile sciaquone del wc al termostato questa capacità, aiutata e sviluppata dall’aggiunta di piccoli calcolatori programmabili, oltre a sviluppare l’automazione delle macchine fornisce ai robot un’altra vestigia umana.  McCarthy ci gioca (!973, ‘The Little Thoughts of Thinking Machines’) parlando dei termostati che spengono le caldaie perchè ritengono la temperatura troppo alta, e inizia un’abitudine nominale che si attaccherà alle ‘smart machines (le macchine furbe/intelligenti)’ di oggi.
Anche combinando questi due percorsi il risultato, però, resta insoddisfacente in elementi cruciali, come il riconoscimento delle immagini e del linguaggio: un bambino di un anno ha abilità inimmaginabili anche per le macchine più potenti.
Ma, visto che all’origine della ricerca era stato di fatto esclusa la parte sulla struttura dell’intelligenza umana, il cammino riparte dal gioco dell’imitazione e lo eleva a paradigma; si danno in pasto molti esempi di foto contenenti facce ad una macchina (simbolica) a reti neurali insieme ad un esempio di faccia, e si fanno variare le configurazioni della rete selezionando darwinianamente quelle che che restituiscono la maggior parte di corrispondenze vere, in un processo di affinamenti successivi. È un classico esempio di forza bruta: più esempi si hanno e maggiore è il successo. Altrettanto per il linguaggio. Il successo clamoroso di ChatGPT nell’imitare un colloquio umano è dovuta alla mole enorme di dati che ha avuto in pasto.
Questo però è accompagnato da distorsioni (bias) ed ‘allucinazioni’, che errori non sono ma caratteristiche intrinseche dell’imitazione. (Se pensiamo a un oggetto funzionale con una struttura articolata, un’imitazione può somigliarvi moltissimo ma non cogliere quei particolari che sono essenziali alla funzionalità..si veda anche qui ).
Potremmo dire che l’imitazione produce un linguaggio stereotipato, pieno di tutte le idiosincrasie e presupposti nascosti (che sono parte caratterizzante di ogni linguaggio) mescolati a caso. Come nelle immagini il passaggio dalla Gioconda ad Andy Warhol.
Come sempre poi c’è il diavolo nei dettagli: i modelli basati su una grande messe di dati (LLM) prendono il linguaggio di massa , più facilmente accessibile, e quindi anche privo di parole e costrutti rari. Quindi quello con minor quantità di informazione. E per risparmiare vengono assunti a valutare le parole e i costrutti dei giovani kenyoti sottopagati, come in ChatGP: uno strato di presupposti nascosti sovrapposto ad un altro.

2- lavoro
avvertenza: le previsioni sono basate su calcoli già distorti dalle assunzioni originarie: non si parla infatti tanto di AI quanto di un insieme di AI, automazione, sistemi esperti e simili.
le più accurate sembrano le previsioni IMF, laddove le indagini per paese (Francia, Italia, Cina) sono le più contaminate

A differenza dei redditi da lavoro dove i divari diminuiscono, con l’AI aumentano i divari nei redditi da capitale e nelle ricchezze. La ragione principale è che l’AI porta ad una sostituzione del lavoro e ad un aumento della domanda per capitale in AI, aumentando i redditi da capitale e i valori dei beni di investimento. In ogni scenario i tassi d’interesse (= profitto) di quasi 0,4 punti percentuali, col potenziale di compensare parzialmente la tendenza naturale alla discesa dei tassi di interesse in UK e in genere nelle economie avanzate

Come dicevamo queste previsioni mettono insieme automazione ed AI;

Dato quanto abbiamo detto sulla natura dell’AI, il lavoro più a rischio è quello
-dei livelli bassi del lavoro d’ufficio,
-delle agenzie di viaggio
-fino alle banche, alle agenzie di assicurazioni
-i contabili, rappresentanti di commercio
-gli addetti al ricevimento, i magazzinieri
-cassieri e commessi

non cambia la struttura dei call center e delle assistenze, che sono già state ridotte al momento a programmini tipo Pangolino fatti per impedire contatti telefonici reali;
anche con l’AI la funzione rimane la stessa, solo con un po’ di cipria in più.
Il World Economic Forum stima che l’AI sostituirà 85 milioni di lavoratori entro il 2025.
FreeThink ritiene che il 65% dei posti di commesso potranno essere stati automatizzati per quella data.
PwC valuta che a metà anni ’30 il 30% dei posti di lavoro potrebbero essere automatizzati, vuoi per automazione dei macchinari vuoi per sostituzione di impiegati.

Per il lavoro manuale semplice (dai campi alle città) è la solita automazione e le sue convenienze, l’AI rimane distante.

i limiti
Qualcuno sostiene che insegnanti e dirigenti, per fare due esempi, non saranno sostituibili, ma sicuramente ci proveranno.
Per il lavoro d’ufficio complesso qualcuno può illudersi all’inizio e affidarsi all’AI invece che agli umani, salvo poi , in genere, ricredersi.
Tutto dipende da quanto affamato è in quel momento il capitale finanziario e quanto è disposto a scommettere su di un bluff.

Se andiamo ad immaginare il risutato come sostituto di un nostro interlocutore di un ufficio significa che anche noi dovremo adeguarci a questa povertà informativa, in un continuo ciclo perverso. Ma è un modello di impiegato che entra in crisi ad ogni elemento nuovo od imprevisto; e la cosa si può estendere anche a lavori più impegnativi ma standardizzabili; un radiologo sostituito da un sistema esperto AI addestrato alla lettura delle lastre: funziona mediamente bene..finchè non arriva una malattia nuova (tipo Covid) i cui effetti non sono ancora codificati: o tutti i radiologi licenziati vengono riassunti (ma ormai non si trovano più) o la fiducia nei risultati crolla..e vengono licenziati anche gli amministratori.

Non solo il modello statistico dell’AI codifica tutti i pregiudizi e stereotipi riproducendoli con un’aura di oggettività computazionale. Ma, come dice O’Neil (Weapons of math destruction, 2016) il paradigma dell’AI, che si può leggere come proiettare il passato nel futuro, non funziona proprio in campi che cambiano o si evolvono.

3- il capitale barbone

La svolta avviene a cavallo degli anni ’70: le imprese ai piani decennali, poi quinquennali sostituiscono progressivamente termini sempre più brevi per i rendiconti;
il cambiamento è funzionale al capitale finanziario che diventa predominante, e si arriva fino ai rendiconti trimestrali.
L’attenzione si sposta dal processo produttivo e dall’oggetto al profitto disponibile a breve. La proprietà delle imprese si sposta progressivamente dall’imprenditore al capitale finanziario, la cui presenza dominante nei consigli di amministrazione diventa la norma (BlackRock controlla oggi un terzo delle imprese mondiali, e non è solo).
Il fuoco sul profitto immediato va anche a cambiare la forma del processo produttivo: il percorso laboratorio->fabbrica>grande fabbrica automatizzata non è più la norma, sostituito da processi mirati alla massimizzazione del profitto circolante (come il decentramento in tutto il mondo in cerca del lavoro a minor prezzo; v. la crisi e l’abbandono in Italia di Comau, l’impresa che per un certo periodo era la più avanzata per i processi di automazione).
L’innovazione tecnologica si manifesta sempre più come fuoriuscita dall’impresa madre di singoli o rami eretici, mentre il grosso si riduce a cambiamenti cosmetici che assicurino un rapporto indolore col ciclo del consumo.
Il capitale finanziario nutre una massa di renditieri, di cui alcuni (l’1!%) assorbono cifre paperonesche, ma coinvolge nella propria logica larga parte della popolazione: chi ha un piccolo risparmio, o vende casa ed è in attesa di comprarne un’altra, o ha dei soldi superiori alle necessità immediate lo affida alle finanziarie o alle banche (che lo passano alle finanziarie) e diventa compartecipe della stessa logica: non importa dove e in cosa sia investito, importa che renda il più possibile.
Così la mobilità del capitale finanziario, che dismette e riacquista per il solo tornaconto immediato diventa logica universale. Quella che una volta si chiamava la logica del barbone: meglio un bicchiere oggi che una bottiglia domani.

Questa fluidità del capitale finanziario è l’elemento più appariscente, anche se, volendo completare il quadro, dovremmo parlare delle isole intorno a cui questi flussi girano, dei mescolamenti, dei vortici e coaguli. Che poi descrivono la struttura del potere. La mappa ruota necessariamente intorno a questo capitale che generato dal lavoro se ne autonomizza e lo domina, e da qui allarga la sua sfera a inglobare anche ciò che  all’origine non ne era parte. Allargando anche radici e dimensioni della sua nemesi.
Ma, ricordando come Arrighi ha descritto il flusso del commercio e denaro genovese nel ‘500 (Giovanni Arrighi, Il lungo secolo XX, 2014) e come da questo nacque la Spagna e l’impero di Carlo V, la parte iniziale del lavoro è capire in che acque stiamo navigando.
Che, per tracciar rotte, è parte ineludibile.

Una nota

Quando Marx parla delle merci, osserva come per il capitalista non conti più il loro valore d’uso ma solo il valore di scambio. Che possiamo anche aggiornare dicendo che la presentazione, la pubblicità, la forma sono molto più importanti della funzionalità dell’oggetto.
Questa considerazione vale anche per l’AI. L’interpretazione del gioco dell’imitazione come Santo Graal dell’AI va a braccetto colla natura del capitalismo; e fa ben vedere come l’AI è entrata in sinergia coi mercati ed è evoluta in una disciplina dominata dai giganti della Silicon Valley ed è stata da loro ‘corporatizzata’.
Ma questo con una possibile Intelligenza Artificiale reale c’entra poco.
Come dice Dreyfus (What computers can’t do, ’72) ‘il primo uomo che si è arrampicato su un albero poteva affermare di aver compiuto un progresso tangibile verso l’ascesa alla Luna’, ma purtroppo raggiungere la Luna richiede metodi qualitativamente differenti dall’arrampicarsi sugli alberi.
Per un progresso tecnologico reale le imitazioni non bastano.

bibliografia ulteriore
1- Paolo Di Marco, L’automazione, D’anna
2- Paolo Di Marco, L’organizzazione del lavoro sociale, D’Anna
3- Franco Romanò e Paolo Di Marco, La dissoluzione dell’economia politica
4- Rapporto IMF SDN/2024/001, M. Cazzaniga et alii, Gen-AI: Artificial Intelligence and the future of work
5- Deepak P-Mere Imitation, Psyche/Aeon 24
6- Aghion P.-Artificial Intelligence, Growth and Employment:The Role of Policy
7- Capello, Lenzi-Automation and labour market inequalities: a comparison between cities and non-cities
8- Yang Shen & Xiuwu Zhang1, The impact of artificial intelligence on employment:
the role of virtual agglomeration

Ancora sulle nostalgie del “piccolo mondo antico”


di Samizdat

Ma dai! Il pensiero meridiano è un semplice ribaltamento di quello “velocista” o “turbo”. A una visione assolutista (dove domina ma non senza eccezioni un ritmo frenetico) ne contrappone un’altra di segno opposto. Puro idealismo. Un sogno nostalgico volto ad un passato inesistente. Si realizzasse nei modi astratti auspicati da Cassano, sa che noia. Almeno dopo un po’. E banalmente: se uno sta crepando, è bene che arrivi velocemente un medico o un’ambulanza… E poi ancora: ve la siete dimenticata la miseria del mondo “lento” dei nostri antenati?
La questione resta la qualità dei rapporti sociali. Che sono – Marx e non solo lui hanno visto meglio – di dominio e di sfruttamento. E sia nel mondo lento che in quello veloce o velocissimo. E’ questo che Cassano non ha mai considerato. (Per quel che so, ovvio, del suo famoso libro).

Appendice

Dalla pagina FB di C. C.

Andare lenti
Pensare a piedi

Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.
Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto esser felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo.
Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti è ruminare, imitare lo sguardo infinito dei buoi, l’attesa paziente dei cani, sapersi riempire la giornata con un tramonto, pane e olio. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti.


Franco Cassano
Il pensiero meridiano 

Quotidiano e storia. Chi gioca a nascondino?

LE SAGRE SONO SACRE E NON FINISCONO MAI

di Samizdat

Che pacchia sarà per me salire sul “Trenino itinerante GRATUITO per tutti”, ripetere i “Giochi di una volta”, tornare sulle“Giostre”, rievocare ”una tipica fattoria contadina con carri e animali”!

Gaza continua ad essere bombardata, in Ucraina si continua a morire, le Borse crollano ( “un crollo delle borse simile a quello visto tra venerdì scorso e ieri non lo si vedeva dal «Lunedì nero» del 1987 o dai tempi della pandemia, Andrea Fumagalli economista), i rischi di una guerra in Medio Oriente crescono.

Eppure, imperterriti e giulivi, i nostri Amministratori si mobilitano solo per rispondere alle accuse del loro “collega Consigliere Comunale di Fratelli D’Italia”.

Il piccolo (e falso) mondo antico, fatto a misura degli “operatori commerciali colognesi”, deve continuare. Grazie per la somministrazione del vostro oppio quotidiano, Amministratori!
E continuate a cullarci nel sonno della ragione.

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La palummella dei Frammichele

di Angela Villa

A Peschici, c’è un piccolo luogo dove il tempo ha preso una pausa dal suo divenire. Nella stradina medioevale che porta al castello antico, c’è una bottega artigianale, quasi un museo all’interno di una grotta, con oggetti realizzati a mano: vasi, bicchieri, piatti, stelle marine, conchiglie, granchi, lune e mezze lune, un’eterogeneità di oggetti, una contaminazione di forme e colori, fra cui domina: l’azzurro del mare, il verde e il grigio della foresta Umbra. Il laboratorio si trova in Via Forno 22, chi entra con l’intenzione di capire e non solo comprare, lo nota subito: ogni oggetto rimanda a ricordi, racconti, testimonianze. Entrare in questa bottega è un’esperienza dello spirito, si può vedere gli artigiani lavorare e si possono ascoltare le antiche leggende come quella della Palummella, la messaggera dell’amore che porta alla giovane “Rusinella” il messaggio dell’amato “Totonno”.
I protagonisti di questo luogo incantato sono i FRAMMICHELE, due fratelli, Rocco e Peppino. Da anni, con la loro attività compiono un lavoro importante di tutela delle tradizioni storiche, legate alle attività artigianali e alla cultura immateriale. Si compensano e si aiutano a vicenda, ognuno ha un proprio ruolo preciso; Peppino prepara le miscele e i colori, dipinge in stile arcaico e secondo l’antica tradizione del Gargano; Rocco modella la materia prima al tornio, prendono forma così oggetti di vario genere: ultima loro produzione le bamboline dell’amore, le messaggere degli innamorati. Se provi a chiedere: «Da quanto tempo lavorate insieme?» In genere rispondono: «Da sempre!» La dimensione del tempo per loro è relativa.
Rocco e Peppino vivono in un tempo ancora più antico del nostro, un tempo mitico, quello delle storie che si nascondono dentro le loro creazioni. Ogni oggetto è unico, impossibile trovare qualcosa di uguale, anche nel caso delle composizioni di bicchieri, se si osserva bene, ognuno è diverso.
Le loro produzioni artistiche sono storie, teatrini di ceramica, con veri e propri personaggi; la loro ultima composizione parla di una Palummella che porta la buona novella, i messaggi che fanno bene al cuore, e aiuta gli innamorati a coronare il loro sogno d’amore.
La Palummella non si fa mai ingannare riconosce il vero amore, il primo amore, quello che veramente conta, che nasce dalla profondità del sentimento, fatto di intimità e desiderio di conoscenza. L’antica leggenda della Palummella si trova anche nella tradizione della canzone napoletana. C’è una nenia dal titolo “La Palummella” o “Palummella, zompa e vola”, una rielaborazione di un testo del XVIII secolo, che probabilmente traeva ispirazione da “La molinarella” di Niccolò Piccinni (messo in scena forse nel 1766). Successivamente il brano assunse anche un significato politico e patriottico.
Il messaggio dell’antica canzone è molto simile alla storia delle ceramiche dei FRAMMICHELE: l’innamorato di turno affida a una “palomma” (cioè una farfalla o probabilmente una colombina) il compito di portare il suo messaggio d’amore all’amata. La canzone si ritrova anche in un testo teatrale di Antonio Petito, nel quale si racconta di un giovane innamorato della sua Palummella. In rete si trovano diverse versioni di questa canzone, la più antica è eseguita da Fernando De Lucia: “Palummella, zompa e vola”, (settembre 1921). C’è la rielaborazione di Roberto De Simone con la compagnia del Canto Popolare, c’è la versione più recente di Massimo Ranieri. Io preferisco quella di Sergio Bruni perché è eseguita con canto puro, con stile lieve e delicato, con attenzione unica ad ogni singola parola del testo.
Chiedo ai fratelli se conoscevano questa canzone napoletana e se in qualche modo sono stati ispirati. Mi rispondono di no, la loro Palummella viene da un’antica storia tramandata oralmente. Si può parlare di una cultura mediterranea che unisce narrazioni e vicende, un filo rosso, un legame, un patrimonio ideologico, sociale e culturale che lega i popoli del “mare di mezzo”. Rocco e Peppino, con la loro arte ne sono testimoni, nei loro volti e nelle loro mani è scolpita la pazienza di chi facendo piccoli passi alla volta, difende una cultura del fare, nel consumismo dei prodotti usa e getta, del turismo mordi e fuggi.

Peschici 2 agosto 2024