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Fiaba crudele

 

di Alessandra Pavani

C’era una volta una bambina che sembrava una piccola donna. O forse era una piccola donna che sembrava una bambina. L’età non è importante per chi vive fuori del tempo, e lei ci viveva davvero fuori del tempo, in un mondo separato, di sua creazione. Indubbiamente però era giovane, perché della giovinezza aveva il candore, l’ingenuità, e soprattutto quella meravigliosa capacità di illudersi. La vita per lei era un bellissimo sogno, come quel pomeriggio in cui aveva sentito qualcuno piangere in sala da pranzo, e poi aveva visto uscire dalla credenza un incantevole e morbido coniglio col pelo azzurro e gli occhi viola. Non aveva avuto alcuna paura nel trovarselo di fronte così all’improvviso, anzi era stato come aprire finalmente un regalo di Natale a lungo atteso. Naturalmente il coniglio era stato solo l’inizio, il compagno immaginario dei suoi primi anni di vita. Raggomitolato nel cervello di lei, chiedeva e donava tenerezza e calore, e lei si addormentava abbracciata a questa fantasia per ritrovarla immutata nei suoi sogni di bimba. Quando all’asilo gli altri bambini ridevano di lei e la escludevano dai loro divertimenti, lei si rintanava dentro di sé con il suo tenero amico dagli occhi viola, e insieme cantavano le canzoncine che solo loro conoscevano. Era felice, non le importava che gli altri le facessero le smorfie o le dicessero che era matta perché parlava da sola. Lei non era mai da sola, come facevano a non accorgersene? Forse erano loro i veri matti.

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“No, no, ch’io non mi pento”

di Alessandra Pavani

Ricordo il quadro vivente che vidi una volta. Un bellissimo giovane, proprio un beniamino delle ragazze: scherzava con alcune fanciulle, tutte in quell’età pericolosa in cui non sono né donne né bambine. Tra l’altro si divertivano a saltare un fosso. Il giovane stava presso all’orlo di questo fosso e le aiutava nel salto, e così facendo cingeva loro la vita, le sollevava leggermente per aria e le deponeva dall’altra parte. Era uno spettacolo graziosissimo; godetti tanto a guardar lui come a guardar le fanciulle. E pensavo a Don Giovanni. Sono esse stesse che gli corrono nelle bracciaegli le afferra e, non meno svelto, non meno agile, le depone dall’altra parte del fosso della vita.”

   (da S. Kierkegaard, “Don Giovanni. Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale erotico”)  
Quando giù all’onda sotterranea sceseDon Giovanni, e a Caronte ebbe pagatoL’obolo, un triste mendicante, l’occhioCome Antìstene fiero, afferrò i remiCon braccio fermo, da vendicatore.Come d’offerte vittime una grandeGreggia, coi seni penduli e le vestiDischiuse, sotto il nero firmamentoDonne si contorcevano traendoDietro di lui un muggito prolungato.Ridendo gli chiedeva SganarelloLa paga, e Don Luigi, con il ditoTremante, ai morti erranti sulle riveIndicava quel figlio tanto audaceChe rise della sua candida fronte.Rabbrividendo sotto le gramaglie,La casta e magra Elvira, accanto al perfidoSposo che fu suo amante, domandargliSembrava quasi un supremo sorrisoIn cui brillasse tutta la dolcezzaDel primo giuramento. Dritto e fermoNell’armi, divideva il nero fluttoAlto un uomo di pietra sorreggendoLa barra del timone. Ma l’eroeCalmo guardava, chino sulla spada,La spuma, e disdegnava altro vedere.

(da C. Baudelaire, “I fiori del male”, Don Giovanni agli Inferi
Non si picca se sia ricca/ Se sia brutta, se sia bella/ Purché porti la gonnella/ Voi sapete quel che fa”   

(da Lorenzo Da Ponte, “Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni”)  

Doveva possedere una ben straordinaria carica seduttiva il leggendario Don Juan Tenorio, ovvero Don Giovanni, se, oltre alle migliaia di donne che conquistò, riuscì per secoli e secoli ad ammaliare fior di artisti e di intellettuali che si ispirarono a lui per le loro opere. Drammaturghi, romanzieri, poeti, filosofi e compositori vollero celebrare le sue gesta eroiche e soprattutto “erotiche”, poiché Don Giovanni, il libertino di Siviglia, questo era e ancora è: Amore e Morte, Eros e Thanatos. Approfondirò però più avanti tale questione. Cominciamo invece dall’inizio. Le origini del mito del diabolico ammaliatore si perdono nella notte dei tempi, tanto che viene da pensare che sia sempre esistito. Azzardando un’enorme e rischiosa forzatura, si potrebbe perfino ravvisare nel dio Zeus, il cui culto si sviluppò intorno al secondo millennio a. C., un prototipo del nostro donnaiolo spagnolo, per l’insaziabile appetito sessuale che li accomuna. Secondo il filosofo danese Søren Kierkegaard l’idea del Don Giovanni “appartiene al cristianesimo e, attraverso il cristianesimo, al medioevo”; così giustifica la sua ipotesi: “Se io ora penso all’erotico sensuale come principio, come forza, come regno, determinato dallo spirito, cioè, determinato in modo che lo spirito lo escluda, se lo penso concentrato in un unico individuo, ho il concetto della genialità erotico-sensuale. Questa è un’idea che i greci non avevano, che è stata introdotta nel mondo soltanto dal cristianesimo, anche se solo indirettamente”. Quello che è certo è che nel medioevo esisteva una figura che per alcuni versi ne era precorritrice: era il giovane cavaliere innamorato, protagonista di farse e leggende, una marionetta come tante altre, priva di spessore e di drammaticità. Il primo a dare concretezza a Don Giovanni, mettendo nero su bianco le sue avventure e a trasformarlo in “personaggio” (sia pure fittizio), è Tirso de Molina, che nel 1632 scrive la commedia El burlador de Sevilla y convidado de piedra.

La trama è a grandi linee quella che, con alcune varianti, verrà ripresa anche da vari artisti successivi: Don Giovanni, un licenzioso avventuriero, dopo una serie di inganni, seduzioni, travestimenti e l’uccisione del padre di una delle sue donne, si scontra con la statua di quest’ultimo, e senza alcun rispetto per il defunto si prende gioco di lui, e addirittura invita a cena la statua stessa (il convitato di pietra), per poi ricambiare il favore. La commedia si conclude con la statua che, rivelatasi simbolo della giustizia divina che pretende il castigo del burlador, trascina il peccatore tra le fiamme dell’inferno. In quest’opera teatrale, il personaggio di Don Giovanni ha già tutte le caratteristiche che lo renderanno immortale: il fascino, il coraggio, la temerarietà, ma c’è anche qualcosa di più profondo: una costante infatti del suo temperamento, oltre alla ben nota lussuria, è, fin da questa sua prima “apparizione”, l’empietà, la scelleratezza, il disprezzo per ciò che è sacro (non dobbiamo dimenticare che Tirso de Molina era un ecclesiastico). Se nel Settecento, secolo dei Lumi, questa peculiarità finirà per passare in secondo piano (senza tuttavia sparire), nel 1665, quando Molière scrive la tragicommedia in prosa Dom Juan ou le Festin de pierre, la tematica è ancora ben presente e fortemente sentita; è soprattutto la natura sacrilega del suo Don Giovanni a condurlo alla morte, non tanto il suo insaziabile appetito sessuale.

In Moliére, la vicenda non si discosta molto da quella messa in scena dal suo predecessore spagnolo: anche qui donne e ragazze sedotte e abbandonate, intrighi, duelli, e infine la statua vendicatrice. Fanno però la loro comparsa una schiera di personaggi comici che controbilanciano quelli nobili e tragici: il servo buffonesco Sganarello, ad esempio (erede diretto degli zanni della commedia dell’arte), che non nutre alcuna stima per il suo padrone ma lo teme, la coppietta di contadini che, nella loro ignoranza, storpiano le parole (lei ingenua e civettuola, lui pavido e geloso), la paesana invidiosa, e il creditore che, per quanto faccia, non riesce a riavere i soldi prestati all’astutissimo Don Giovanni, maestro nell’arte di liberarsi degli scocciatori. In questa commedia c’è anche il vecchio padre del protagonista, ed è proprio nelle scene in cui i due si fronteggiano che il libertino mostra il suo lato peggiore e sacrilego. Già nel terzo atto, discutendo di religione con Sganarello, afferma che la sua unica fede è che “Due e due fanno quattro (…) e che quattro e quattro fanno otto” (la traduzione è mia); inoltre, a un devoto eremita che chiede l’elemosina, risponde che gli regalerà una moneta d’oro purché egli bestemmi di fronte a lui (al rifiuto del povero, Don Giovanni gliela dona ugualmente, in quanto si tratta pur sempre di un personaggio che possiede una sua nobiltà e un forte senso dell’onore). Io credo che in qualche modo sia opportuno considerare questo lato del carattere di Don Giovanni senza preconcetti o bigottismi; nel contesto in cui il personaggio vive e agisce, la cattolicissima Spagna (o, nel caso di Molière, la Sicilia), il suo atteggiamento ribelle ed empio può essere visto come un atto di coraggio. In fondo, chi non è credente, se da un lato non teme la giustizia divina, dall’altro rinuncia anche al conforto che la fede può dare. Per questo motivo il comportamento del Don Giovanni di Molière ne fa, almeno fino al quarto atto, un “eroe”, anche se sui generis. Ma la tragica svolta (e la vera novità rispetto a de Molina) avviene nel quinto e ultimo atto; è qui che assistiamo alla sua definitiva degradazione, quella che gli costerà la discesa agli inferi. La finta conversione, recitata davanti al padre, e il successivo elogio dell’ipocrisia segnano il suo destino (e anche quello della commedia stessa, che infatti verrà messa al bando non molto tempo dopo). A Sganarello che esclama scandalizzato: “Come? Voi non credete a niente di niente, e volete tuttavia erigervi a uomo di sani principi morali?” il libertino risponde: “Perché no? Ce ne sono tanti come me, che si impicciano di questo mestiere, e che si servono della stessa maschera per ingannare il mondo! (…) L’ipocrisia è un vizio che va di moda, e tutti i vizi che vanno di moda passano per virtù”. L’ultima malefatta di Don Giovanni lo condanna definitivamente. “Padrone (…) questo è molto peggio del resto, e vi preferirei di gran lunga come eravate prima. Ho sempre sperato nella vostra salvezza; ma è adesso che non ci spero più; e credo che il Cielo, che vi ha sopportato fin qui, non potrà assolutamente tollerare quest’ultimo orrore”. E infatti è così che si conclude la commedia: la statua afferra la mano di Don Giovanni per trascinarlo nel fuoco, e in scena rimane solo Sganarello, disperato per non aver ricevuto il suo sudato salario. Scrive Sandro Bajini (drammaturgo, traduttore e scrittore dei giorni nostri): “La società devota non viene più derisa nelle persone, ma si sente offesa nei sentimenti. Invano il diavolo si è fatto frate, e Molière, diventando a sua volta ipocrita, ha affidato la provocazione a un personaggio che, essendo ateo, deride i devoti per istituzione. Ma il linguaggio di Don Giovanni non ha indulgenze e Molière non prende sufficientemente le distanze dal suo personaggio. Lo manda all’inferno ma, per così dire, senza condannarlo in proprio. Viene il sospetto che l’irrisione di Don Giovanni per le cose sante sia l’irrisione di Molière per chi crede in esse (…) Benché il poeta non lesini gli elementi farseschi, la ferocia rimane intatta in molte situazioni, e la famosa scena in cui Don Giovanni invita il mendicante a bestemmiare è sconvolgente: Molière la sopprime alla seconda rappresentazione. Il sacrificio non basta, il resto dell’opera parla a sufficienza”. 

Se la commedia di Molière è legata a doppio filo a quella di Tirso de Molina, esiste un dramma per musica con protagonista Don Giovanni (scritto nel 1651 da Giovan Battista Andreini e intitolato Il nuovo risarcito convitato di pietra), che, nonostante abbia più o meno la stessa trama delle due opere già analizzate, la inserisce in un contesto tipicamente barocco, con tanto di personaggi allegorici (Furore, Vendetta, Punizione, ecc.) o tratti addirittura dalla mitologica classica (Giove, Vulcano, i Titani e altri). Questa “cornice” fiabesca a volte si intreccia alle avventure di Don Giovanni, a volte è invece un mero pretesto per intermezzi musicali e balletti, tanto cari al teatro del Seicento. Di certo uno spettacolo di questo tipo doveva rappresentare una vera delizia per gli occhi e le orecchie del pubblico di allora; oggi, probabilmente, questa ridondante sovrapposizione di livelli narrativi, insieme ai relativi “inserti” celebrativi, risulterebbe indigesta. Il nuovo risarcito convitato di pietra nasce come opera barocca, e nei confini del barocco rimane intrappolata; questo Don Giovanni, novello Titano, si rivela troppo distante dalla nostra sensibilità, e troppo poco umano per coinvolgerci o affascinarci. Questo, tuttavia, non ha impedito al regista Massimo Machiavelli di portare in scena, quattro anni fa, (con qualche taglio e con la musica del nostro contemporaneo Umberto Cavalli) il Don Giovanni creato da Giovan Battista Andreini; è stata un’operazione coraggiosa, e in un certo senso rischiosa, ma, fortunatamente, grazie all’intelligenza e all’impegno di chi vi ha lavorato, è riuscita a ottenere un discreto successo, con grande soddisfazione degli autentici appassionati delle varie forme di teatro attraverso i secoli.

Sono passati una settantina di anni dalla prima messa in scena del Dom Juan di Molière (e più di ottanta da quella del Nuovo risarcito) quando Carlo Goldoni scrive il suo Don Giovanni Tenorio. Siamo infatti nel 1735, all’alba dell’Illuminismo, e l’autore dichiara fin dalla prefazione alla versione stampata di volersi allontanare dai cliché dei suoi predecessori: il protagonista della sua opera deve essere “realistico”, non ci saranno buffonerie da commedia dell’arte, e nemmeno statue che vengono invitate a cena. Il suo Don Giovanni non ha nulla di eroico, anzi, è addirittura un vigliacco, e il castigo finale è necessario affinché (sempre secondo Goldoni) nessuno degli spettatori si illuda di poter condurre una vita dissoluta senza pagarne le conseguenze. Ovviamente non mancano i tradimenti, le seduzioni, e nemmeno le situazioni comiche, ma tra questa tragicommedia e le precedenti si apre un vero e proprio abisso, che il pubblico dell’epoca non gradisce. In Andreini, Don Giovanni era lontano anni luce dal mondo degli umani, in Goldoni, viceversa, si rivela fin troppo umano. Probabilmente, per conquistare definitivamente la sua consacrazione a mito immortale il cui fascino non avrà mai fine, Don Giovanni ha bisogno che qualcuno lo collochi in quella dimensione che sta tra la Terra e il Cielo, tra l’umano e il divino (o, meglio, il diabolico), tra pulsione di vita e pulsione di morte; in breve, come anticipato, tra Eros e Thanatos. Evidentemente, il pur validissimo e moderno Goldoni non possedeva la necessaria genialità, oppure i tempi non erano ancora maturi. Dovrà passare ancora qualche anno.

Antefatto: siamo nel 1787, a Venezia, e al Teatro Giustiniani di San Moisè va in scena Don Giovanni o sia il convitato di pietra, opera lirica composta da Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertati. E’ il 5 febbraio, e fin dalla prima sera l’opera riscuote un enorme successo, tanto che nei due anni successivi verrà rappresentata nei teatri di tutto il nord Italia. La trama riprende a grandi linee la commedia di Tirso de Molina, i vari tentativi di seduzione, il duello con il Commendatore e la statua di quest’ultimo che punisce il libertino.

Siamo sempre nel 1787. Per effetto dell’entusiasmo suscitato dal lavoro di Gazzaniga, il Nationaltheater di Praga commissiona un nuovo Don Giovanni a Wolfgang Amadeus Mozart. Come librettista viene scelto l’abate Lorenzo Da Ponte, che vi lavora febbrilmente, essendo contemporaneamente impegnato nella scrittura di altri due libretti. Anche Mozart, che per motivi economici deve comporre più musica possibile, si dedica al nuovo compito a un ritmo forsennato, perché l’opera deve necessariamente andare in scena in concomitanza col passaggio della duchessa di Toscana per la città di Praga. Scrive Claudio Casini nel suo Amadeus, biografia del celebre compositore: “Il tempo stringeva, e Mozart e Da Ponte ricorsero al più diffuso metodo per scrivere rapidamente un’opera: il plagio. Copiarono a man salva dal libretto intitolato Il Convitato di Pietra che Giovanni Bertati aveva scritto per un musicista minore, Giuseppe Gazzaniga: l’opera era stata rappresentata nel gennaio (sic!) di quell’anno 1787 a Venezia. Il nuovo libretto ebbe il titolo di Don Giovanni o il dissoluto punito“.

La trama è pressoché identica: tre donne ingannate da Don Giovanni, i compagni di due di esse e il fantasma del Commendatore ucciso dal protagonista che gridano vendetta, e la vicenda che si conclude seguendo il solito copione, con Don Giovanni che viene inghiottito dalle fiamme dell’inferno. Apparentemente non v’è alcuna novità. Se non fosse che la musica di Mozart raggiunge qui una tale perfezione, una così indescrivibile potenza ultraterrena, che il personaggio di Don Giovanni viene trasfigurato, quasi perde la sua identità individuale per farsi assoluto, sintesi ultima dei succitati Eros Thanatos. “L’Ouverture del Don Giovanni inizia sugli ampi, solenni accordi, neri come barbagli di fuoco, della Punizione mediante la Morte. Accordi (…) simili -ma consonanti- a quelli che, dissonanti, sottolineeranno l’ingresso del Commendatore, il Convitato di Pietra, nella sala della cena funebre (…) L’opera che inizia è una cruda tragedia. Ma (…) ecco irrompere all’improvviso, brillante e terso, uno spensierato uragano di desiderio, la vita lanciata all’inseguimento (…) Don Giovanni (…) ha iniziato la sua corsa(…) Fin dalla sua prima espressione orchestrale, questa Musica dà quindi l’impressione di un irrompere; è nata con il potere di sedurre e di soggiogare. Ci sentiamo pervasi e trascinati dalla sua forza, carica di una straordinaria tensione (…) Una simile tensione quasi travalica l’umano (…) Se in certi momenti è paragonabile alla misteriosa concitazione del delirio, in altri può essere vista come la potenza naturale del fiotto di sangue che sgorga da un petto (…) Don Giovanni non ha tregua; l’amore non ha limiti; la felicità e il dolore non avranno né risoluzione né termine, se non in Don Giovanni stesso e nella sua esistenza”. Così scrive il poeta e romanziere francese Pierre-Jean Jouve a proposito dell’Ouverture del Don Giovanni mozartiano (Ouverture che, ricordiamolo, Mozart compone di getto la notte prima dello spettacolo).

A Praga l’opera ottiene un successo straordinario (“Il 29 ottobre è andata in scena la mia opera Don Giovanni, accolta con il più vivo entusiasmo. Ieri è stata rappresentata per la quarta volta (a mio beneficio)”, scrive Mozart in una lettera all’amico Gottfried Von Jacquin il 4 novembre del 1787).

(…) vorrei che i miei buoni amici (…) potessero essere presenti, anche una sera soltanto, per prendere parte alla mia gioia. Ma forse verrà rappresentata anche a Vienna? Me lo auguro.” In effetti, nel maggio del 1788, l’opera va in scena anche a Vienna, ma sfortunatamente non incontra il favore del pubblico della capitale austriaca. Le due versioni (quella praghese e quella viennese) presentano alcune differenze; Mozart infatti, consapevole della mentalità conservatrice e, in qualche modo, più “chiusa” degli austriaci, opera alcune modifiche e taglia qualche scena, in particolare il sestetto finale che “celebra” la morte di Don Giovanni. Inutilmente. All’imperatore Giuseppe II e al suo pubblico il Don Giovanni non va a genio, almeno inizialmente. Scrive l’abate Da Ponte nelle sue Memorie: “Io non avea veduto a Praga la rappresentazione del Don Giovanni; ma Mozzart (sic!) m’informò subito del suo incontro maraviglioso, e Guardassoni mi scrisse queste parole: ‘Evviva Da Ponte, evviva Mozzart. Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli. Finché essi vivranno, non si saprà mai che sia miseria teatrale.’ L’imperadore mi fece chiamare e, caricandomi di graziose espressioni di lode, mi fece dono d’altri cento zecchini, e mi disse che bramava molto di vedere il Don Giovanni. Mozzart tornò, diede subito lo spartito al copista, che si affrettò a cavare le parti, perché Giuseppe doveva partire. Andò in scena, e… deggio dirlo? il Don Giovanni non piacque! Tutti, salvo Mozzart, credettero che vi mancasse qualche cosa. Vi si fecero delle aggiunte, vi si cangiarono delle arie, si espose di nuovo sulle scene; e il Don Giovanni non piacque. E che ne disse l’imperadore? ‘L’opera è divina; è forse forse più bella del Figaro, ma non è cibo pei denti de’ miei viennesi.’ Raccontai la cosa a Mozzart, il quale rispose senza turbarsi: ‘Lasciam loro tempo da masticarlo.’ Non s’ingannò. Procurai, per suo avviso, che l’opera si ripetesse sovente: ad ogni rappresentazione l’applauso cresceva, e a poco a poco anche i signori viennesi da’ mali denti ne gustaron il sapore e ne intesero la bellezza, e posero il Don Giovanni tra le più belle opere che su alcun teatro drammatico si rappresentassero”.

Al di là della pur interessante aneddotica circa le fortune o le sventure che ebbero le rappresentazioni dell’opera all’epoca di Mozart, quella che rimane ancora oggi una verità incontrovertibile è che solo grazie al compositore di Salisburgo il Don Giovanni diventa Don Giovanni, assurge all’immortalità, si fa Ideale quanto più è percepibile il suo lato carnale. Al suo confronto, il Burlador di de Molina, l’empio ipocrita di Molière, il Titano di Andreini, il vigliacco di Goldoni e il donnaiolo di Bertati si riducono a più o meno riuscite variazioni sul tema del peccatore irredento. E’ solo per mano di Mozart che Don Giovanni prende letteralmente vita e ne gode tutti i piaceri, mai sazio, mai in pace, quasi in lotta contro il tempo: egli vuole possedere ogni donna, ma nel momento in cui l’ha posseduta non ha nemmeno modo di gloriarsene, che l’istinto lo spinge già verso la donna successiva. Ecco perché parlavo di Eros Thanatos: Don Giovanni si auto-distrugge ogni volta che porta a termine una nuova conquista; nell’amplesso è un effondersi di forza demoniaca, di energia cosmica e generatrice, di gioia sublime, e nell’orgasmo si auto-annulla, si esaurisce, muore. Ma Don Giovanni non può morire per amore, e allora ecco che il desiderio si riaccende, la vita ricomincia, c’è ancora una nuova femmina da sedurre… Qualcuno può obiettare (e in effetti qualcuno ha obiettato) che durante l’opera mozartiana, il protagonista in realtà fallisce in tutti i suoi tentativi di conquistare i personaggi femminili (Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina, e altre tre donne che non appaiono mai sul palcoscenico, ovvero “Una bella dama” che, dice Don Giovanni “meco al casino questa notte verrà”, la cameriera di Donna Elvira, e “una fanciulla bella, giovin, galante” incontrata nei pressi del cimitero). A questo proposito il libretto di Da Ponte è piuttosto ambiguo: Donna Anna entra in scena ad opera appena iniziata, dopo che Don Giovanni ha tentato un approccio di tipo sessuale con lei, ma se l’impresa sia riuscita o no è un mistero che rimane irrisolto (diversi studiosi hanno cercato di svelare l’arcano basandosi sul testo e sulla musica, così come si sono interrogati sui reali sentimenti che Donna Anna prova per il protagonista). Per quanto riguarda Donna Elvira, è lei stessa ad informarci di essere stata sedotta e addirittura sposata prima di essere abbandonata; durante lo svolgimento dell’opera Don Giovanni se ne tiene lontano il più possibile, quindi, ai fini della storia, non possiamo annoverarla tra le sue conquiste. Anche Zerlina, come Donna Anna, rappresenta un enigma: di certo è attratta da Don Giovanni, accetta perfino di sposarlo, ma poi la tentata seduzione avviene dietro le quinte, e anche in questo caso lo spettatore è libero di interpretare la scena a suo piacimento. Si tratta tuttavia di questioni di lana caprina; il fatto che Donna Anna sia riuscita o no a difendersi, che cosa cambia nell’economia della narrazione? Come scrive Kierkegaard: “Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! (…) Quando Don Giovanni viene interpretato in musica, io sento in lui tutta l’infinità della passione, e nello stesso tempo la sua sconfinata potenza, alla quale nulla può resistere; sento il selvaggio ardore del desiderio, ma nello stesso tempo la sua assoluta invincibilità, contro la quale sarebbe vana ogni resistenza.” Qualcuno ha voluto mettere il personaggio di Don Giovanni in relazione con Giacomo Casanova, l’avventuriero veneziano divenuto celebre soprattutto per le sue doti da tombeur de femmes (grande amico, tra l’altro, dell’abate Da Ponte), o con un altro libertino (frutto, quest’ultimo, di fantasia), il visconte di Valmont protagonista de Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos.

Tuttavia non hanno nulla in comune: mentre Casanova e Valmont sono figli del loro secolo, e quindi ragionano, calcolano, scelgono, e pianificano, Don Giovanni è istinto allo stato puro. Casanova è raffinato, attento al temperamento della sua amante di turno, vanitoso e quindi desideroso di donare piacere non meno che di provarlo, affinché venga preferito a ogni altro uomo; Valmont è malvagio, seduce per punire, e più che alla quantità è interessato alla qualità delle sue vittime; Don Giovanni invece è una fiamma che travolge l’intero universo femminile. Basti pensare all’aria “Finch’han dal vino”, spesso denominata aria dello champagne per comprendere la sua forza primordiale, virile, diabolica; qui testo e musica si sposano in un connubio perfetto di passione ed erotismo:

Finch’han dal vino/ Calda la testa,/ Una gran festa/ Fa’ preparar./ Se trovi in piazza/ Qualche ragazza,/ Teco ancor quella/ Cerca menar./ Senza alcun ordine/ La danza sia:/ Chi’l minuetto,/ Chi la follia,/ Chi l’alemanna/ farai ballar./ Ed io frattanto,/ Dall’altro canto,/ Con questa e quella/ Vo’ amoreggiar./ Ah! la mia lista/ Doman mattina/ D’una decina/ Devi aumentar.

(Nel 1998 l’ex finanziere Orazio Bagnasco scrive un romanzo in cui personaggi reali come Da Ponte e Casanova si incontrano con Don Giovanni e altre figure dell’opera mozartiana. Uno dei temi principali è proprio la sfida che Don Giovanni lancia all’avventuriero veneziano, basata su chi riuscirà a conquistare per primo un determinato numero e tipo di donne. Il romanzo si intitola “Vetro”.)

Nonostante si sia detto e ripetuto che il personaggio di Don Giovanni, in Mozart, non ha nulla di settecentesco (nulla, quindi, di razionalistico, di illuminato, di ordinato), l’opera in realtà strizza l’occhio ai temi più scottanti dell’epoca, anche se in maniera nascosta. Scrive infatti Charles Rosen: “Anche la politica può entrare nella musica. Quando Don Giovanni saluta i suoi ospiti mascherati con la frase Viva la libertà, il contesto non implica specificamente una libertà politica (…) Ma (…) nel 1787, durante i fermenti che avevano seguito la Rivoluzione americana e preparavano quella francese, difficilmente un pubblico poteva mancare di cogliere un significato sovversivo in un passaggio che dal solo libretto poteva apparire assolutamente innocuo, particolarmente dopo avere udito le parole ‘Viva la libertà’ ripetute una dozzina di volte in fortissimo da tutti i solisti, accompagnati dalle fanfare dell’orchestra.” Scrive poi, più avanti: “La grande scena del ballo del primo atto, con le tre orchestre separate sulla scena e il complesso incroci dei ritmi di danza, non è soltanto un brano di virtuosismo compositivo. Ognuna delle tre classi sociali- il proletariato contadino, la borghesia e l’aristocrazia- ha la propria danza, e l’indipendenza assoluta di ciascun ritmo riflette la gerarchia sociale; e sono questo ordine e questa armonia che vengono distrutti quando Don Giovanni tenta di portare via Zerlina_ L’ambientazione politica del Don Giovanni assume poi maggiore peso a causa degli stretti rapporti che nel Settecento vi erano tra pensiero rivoluzionario ed erotismo (…) le connotazioni politiche della libertà sessuale erano ben vive al tempo della prima rappresentazione del Don Giovanni, e il pubblico non poteva sfuggirle: una parte dello scandalo e dell’attrazione che quest’opera ispirò per anni interi va probabilmente vista in questo contesto”.

Don Giovanni dunque libidinoso, impavido, incurante delle regole, bugiardo, violento, e oltre a ciò anche rivoluzionario, eroico, tanto da sfidare la morte stessa; quando la statua del Commendatore gli chiede, gli ordina, quasi lo supplica di pentirsi, lui risponde con nobile disprezzo: A torto di viltate/ Tacciato mai sarò. Sa cosa lo aspetta, ma non intende servirsi di facili scappatoie per evitare il castigo; quale che sia il suo destino, lui è risoluto a seguirlo. No, no, ch’io non mi pento! è la sua risposta all’avvertimento del Commendatore che quella è la sua ultima possibilità di salvarsi. Lui affronta la morte come ha affrontato la vita: a viso aperto, senza mai tirarsi indietro, consegnandosi interamente alla dannazione come interamente si è consegnato al piacere. Non si può non provare ammirazione davanti al suo ardimento, e quando, dopo la sua morte, tornano sul palcoscenico tutti gli altri personaggi, soddisfatti di essere stati vendicati dal Cielo, allo spettatore rimane un senso di amarezza. Nel descrivere la morte di Mozart, il biografo Claudio Casini la paragona a quella del suo Don Giovanni, e a mio parere usa una similitudine geniale: “Quando fu morto, al termine di una terribile agonia, accadde come nel suo Don Giovanni: dopo la scomparsa del protagonista restano in scena personaggi opachi, sbigottiti dall’aver assistito a un’esistenza turbinosa, finita in maniera conturbante e piena di misteri”. Chapeau, signor Casini! _ Qui di seguito citerò alcuni tra gli innumerevoli saggi dedicati al capolavoro mozartiano.

                                                                          

Verrebbe da pensare che, raggiunte grazie a Mozart le vette del sublime, Don Giovanni abbia concluso in gloria la sua esistenza artistica, e a che nessuno possa venir l’idea di scrivere o comporre nuove opere che lo vedano protagonista, per dover poi subire l’umiliazione dell’inevitabile confronto con l’eroe mozartiano. Eppure le cose vanno diversamente, Don Giovanni continua ad affascinare e a ispirare artisti di ogni tipo. Tra il 1818 e il 1824, Lord Byron lavora al poema Don Juan; l’opera rimane però incompleta a causa della morte dell’autore. La trama si distacca da quelle che abbiamo analizzato finora: qui Don Giovanni è un adolescente, affascinante ma ingenuo, che tra schiavi, pirati, sultani e odalische, vive una vita avventurosa, ricca di erotismo, attraverso l’intera Europa, dalla Spagna alla Turchia, alla Russia e all’Inghilterra. Al di là del nome e dell’intensa attività sessuale, questo personaggio ha poco in comune con i suoi omonimi predecessori, ciononostante rimane un’opera poetica di ampio respiro che ha i suoi estimatori.

Anche lo scrittore, poeta e drammaturgo russo Aleksandr Sergeevich Puškin scrive un microdramma ispirato a Don Giovanni, dal titolo Il convitato di pietra, la cui sostanziale differenza con la trama classica è che il Commendatore non è più il padre ma il marito di Donna Anna, ma il finale non cambia.

Byron e Puškin non sono comunque i soli a cimentarsi nell’ardua impresa di dare nuova vita a un personaggio che già è stato consegnato all’immortalità. L’Ottocento conta numerosi artisti che ne seguirono l’esempio. Ne citerò solo alcuni:

_ E. T. A. Hoffmann: Racconti fantastici, 1814 

_ Honoré de Balzac: L’elisir di lunga vita, 1830 

_ Prosper Mérimée: Le anime del Purgatorio, 1834 

_ José Zorrilla: Don Giovanni Tenorio, 1844 

_ J. A. Barbey d’Aurevilly: Le diaboliche, 1874 

_ Remy de Gourmont: Storie magiche, 1894 

Per quanto riguarda il Novecento, degno di nota è L’ultima notte di Don Giovanni di Edmond Rostand: qui, in una Venezia che funge da “viale del tramonto”, un disilluso Don Giovanni prende coscienza del proprio fallimento quando una specie di demone gli fa apparire di fronte tutte le donne da lui sedotte, che gli rivelano di non averlo mai amato. E come se l’umiliazione non fosse già un castigo sufficiente, Don Giovanni viene infine trasformato in un burattino, una caricatura di se stesso, costretto a recitare in eterno il suo fasullo ruolo di tombeur de femmes. In quest’opera teatrale viene operata una lettura psicanalitica del mito di Don Giovanni; in fin dei conti siamo nel 1922, e il saggio Al di là del principio del piacere è stato dato alle stampe appena due anni prima.

Da segnalare anche Don Giovanni ritorna dalla guerra dello scrittore e drammaturgo austriaco Ö. von Horvàth, del 1936, e Don Giovanni o l’amore per la geometria dello svizzero Max Frisch, 1953, in cui Don Giovanni è costretto ad accettare di essere sempre stato sedotto quando invece credeva di sedurre.

Nel nuovo millennio, infine, Don Giovanni ottiene una sorta di riabilitazione grazie al portoghese José Saramago e al suo Don Giovanni, o il dissoluto assolto, scritto nel 2005 e trasposto in musica qualche anno più tardi dal compositore Azio Corghi. Non ci sono più le fiamme dell’inferno ad attendere il protagonista, che in questa versione è perseguitato non dal Commendatore (esponente di un ipocrita moralismo ormai antiquato) ma da due “non tanto innocenti” Donna Anna e Donna Elvira; la statua non ha alcuna funzione, e Don Ottavio è rappresentato in tutta la sua sciapa vigliaccheria. Don Giovanni, che, al contrario, è un eroe (“Don Giovanni sa che mentirebbe contro se stesso se si pentisse, e che nessun pentimento può cancellare le mancanze commesse”, dice Saramago durante un’intervista concessa a Leonetta Bentivoglio, nella rubrica Cultura di ‘Repubblica’, 2 aprile 2005), viene salvato inaspettatamente da Zerlina. E riguardo l’opera di Mozart- Da Ponte asserisce: “Metto il Don Giovanni di Mozart al di sopra di qualsiasi altra opera di qualsiasi altro autore o epoca. Se c’è un’opera al mondo capace di mettermi in ginocchio, vinto, sottomesso, è proprio questa. Gli otto minuti che trascorrono fra l’entrata della statua del Commendatore e la caduta di Don Giovanni all’inferno appartengono ai domini del sublime”. 

Saggi critici sul personaggio di Don Giovanni:

_ P. Brunel: Dictionnaire de Don Juan 

_ U. Curi: Filosofia del Don Giovanni 

_ G. Macchia: Vita, avventure e morte di Don Giovanni 

_ R. Raffaelli: Variazioni sul Don Giovanni 

_ J. Rousset: Il mito di Don Giovanni 

Nemmeno i compositori si lasciano scoraggiare dal successo del Don Giovanni di Mozart, e tanta altra musica viene scritta nei secoli successivi, ispirata al seduttore di Siviglia. Nel 1832, il catanese Giovanni Pacini compone la farsa musicale Il convitato di pietra su libretto di Gaetano Barbieri. La trama è quella tradizionale, con qualche personaggio eliminato o ridotto di spessore, e l’organico strumentale è quello di un’orchestra da camera.

Anche l’ungherese Franz Liszt si cimenta nell’impresa, e nel 1841 compone Réminescences de Don Juan, una fantasia per pianoforte su temi dal Don Giovanni di Mozart: dell’opera di Liszt, il collega F. Busoni dice che contiene “un significato quasi simbolico come il punto più alto del pianismo”. Nel 1877, il compositore ungherese ne scrive una nuova versione per due pianoforti.

Nel 1888 è la volta del tedesco Richard Strauss, che compone un poema sinfonico ispirato a Don Juan Ende del poeta Nikolaus Lenau, ennesima variazione sul tema che vede, questa volta, il protagonista impegnato nella ricerca della sua donna ideale, e infine suicida per la sua impossibilità di trovarla. L’opera riscuote un grande successo.

E per quanto riguarda il cinema? Possibile che la settima arte rimanga estranea alla celebrazione di un personaggio così leggendario? Naturalmente no. Nel 1948 esce Le avventure di Don Giovanni, con Errol Flynn nella parte dell’eroe; nel 1960 è Ingmar Bergman a riportare sulla Terra (in tutti i sensi) il diabolico seduttore col film L’occhio del diavolo; dieci anni più tardi tocca a Carmelo Bene che, nel 1970, traspone sul grande schermo il Don Giovanni di J. A. Barbey d’Aurevilly; infine, nel 2009, Carlos Saura gira una pellicola incentrata sulla figura di Lorenzo Da Ponte e sulla sua vita da libertino, intitolata Io, Don Giovanni 

Cosa rimane da dire? Beh, in realtà si potrebbe continuare all’infinito. Io, da grande estimatrice di Mozart, e innamorata del suo Don Giovanni, voglio concludere questo articolo con le parole che Kierkegaard dedica a quel grande capolavoro, e che potrebbero benissimo essere le mie:

Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! Perciò non voglio descriverlo ma limitarmi a dire: ascoltate Don Giovanni! E se ascoltandolo non siete capaci di farvi un’idea di lui, non potrete farvela mai. Ascoltate come la musica racconta la sua vita: come il lampo dall’oscura nube temporalesca, così egli guizza dalla profonda serietà della vita, più veloce del lampo, più incostante di questo, eppure ugualmente sicuro di sé; ascoltate come egli si precipita nella prodiga ricchezza della vita, come egli lotta contro le sue solide dighe; ascoltate le leggere ed aeree melodie del violino, il festoso sorriso della gioia, il giubilo del piacere, i beati tripudi del godimento; ascoltate la sua fuga selvaggia, egli corre oltre se stesso, sempre più veloce, sempre più selvaggio; ascoltate la sfrenata concupiscenza della passione, il sussurrare dell’amore, il mormorio della tentazione, il vortice della seduzione; ascoltate il silenzio dell’attimo – ascoltate, ascoltate; ascoltate il Don Giovanni di Mozart!”

Nota
L’articolo è ripreso da La culla della strega di Alessandra Pavani con l’autorizzazione dell’autrice

Vittime tra le righe di un pentagramma

di Alessandra Pavani

Ci sono canzoni che non invecchiano mai, melodie e testi che trascendono l’epoca in cui furono scritti; decennio dopo decennio, vengono riproposte dalle radio alle nuove generazioni, e in chi le ascolta evocano le stesse universali emozioni che scatenarono ai tempi della loro uscita. Viceversa, ci sono canzoni talmente figlie del periodo della loro creazione, inni generazionali, che a distanza di anni non riescono più a comunicare il loro messaggio originario se non a coloro che le vissero personalmente; non è la loro alta/bassa qualità a farle sbiadire, ma le mode che sono cambiate, le tematiche non più attuali, o una debolezza di base che non riesce a tenere il passo col tempo. In questo articolo, però, voglio parlare di quella che può essere definita una terza categoria, che è una sorta di sintesi delle prime due di cui ho parlato: si tratta di canzoni, a volte capolavori, che magari hanno attraversato gli anni senza perdere nulla della loro bellezza, ma che non riusciamo più ad ascoltare con animo leggero come invece facevano i nostri genitori, perché è la nostra sensibilità che è diversa. Probabilmente, se composte al giorno d’oggi, diventerebbero oggetto di dibattiti, di scontri, e provocherebbero una serie di reazioni violente, dall’indignazione all’ostracismo. Sono state scritte decenni fa, ma ci toccano così nel profondo perché, a dispetto del tempo trascorso, sono più attuali che mai: sto parlando delle canzoni che trattano il tema del femminicidio. Continua la lettura di Vittime tra le righe di un pentagramma

Lo sposo sinistro

di  Alessandra Pavani 

Non finivano mai quelle scale? E quando si sarebbe concluso quell’incubo che forse non aveva mai avuto un inizio, ma che tuttavia esibiva ai suoi piedi un tappeto per meglio guidarla verso il suo abisso? Quanto più saliva, tanto più vi sprofondava, stregata soltanto da quel braccio teso che sporgeva a darle il benvenuto e che già si rigava di lacrime; e intanto queste scivolavano dolenti lungo la ringhiera, scrostandola, e attraverso il suo guanto Dimitra le sentì urlare in silenzio. Continua la lettura di Lo sposo sinistro

Il primo argento

di Alessandra Pavani

I due pianoforti erano uno di fronte all’altro, identici come se uno specchio li dividesse. E di specchi ce ne erano perfino troppi, l’intera sala ne era piena, a moltiplicare all’infinito quel profluvio di velluti e di merletti che nell’attesa si deliziava del proprio lustro. Era l’ineffabile ora del tardo pomeriggio autunnale in cui le ombre, allungandosi, si fanno più dolci lungo i viali alberati che conducono alle ville, e chi riposa sui divani sente sfumare sotto le dita una realtà che diviene sempre più languida. La poetessa aveva appena finito di declamare, e nell’aria aleggiavano ancora gli ultimi applausi quando, con uno sbadiglio nascosto dietro il ventaglio, una voce indiscreta incrinò il crepuscolo miagolando: “Ma che cosa  aspettiamo?” . ”Milady”, protestò sir John Radcliffe con un ghigno indignato. “Aspettiamo l’esibizione dei gemelli Silver!” Continua la lettura di Il primo argento

Sanguina Giove

 

 di Alessandra Pavani

 

      Sotto l’arcata l’alba era nera. Il bestiame era stato decimato; su di loro era sceso il ragno con le fauci spalancate, e per tutta la notte avevano appeso carcasse alla luna. Era arrivato a bordo delle navi straniere, come i folli del villaggio di Gheel. Ora, sulla porta della canonica, il boia mormorava come un fiume, e davanti al duomo sfilavano i cavalli; suonavano le campane al loro passaggio.
Lungo gli sporchi corridoi della città, le donne rumoreggiavano con le braccia cariche di lenzuola da lavare, mentre sui ciottoli rilucenti di lacrime i gatti inseguivano gli ultimi sogni della notte. Era la città che si risvegliava, ma si risvegliava nel buio. Continua la lettura di Sanguina Giove

Il terzo film

di Alessandra Pavani

 

 

       Immaginate una larga cornice rettangolare, come lo schermo di un cinema. Immaginate che sia una finestra spalancata, da cui entrano la luce e l’aria. Non si può chiuderla, altrimenti si morirebbe soffocati, nelle tenebre più fitte, anzi, non si nascerebbe nemmeno. D’altra parte è collocata troppo in alto. Ma a voi che cosa importa? È sempre stata così, a nessuno è mai venuto in mente di arrampicarsi fin lassù per vedere oltre. Tanto non è veramente una finestra. Capita perfino che vi dimentichiate della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa. Un giorno commettete un errore. Non un errore qualsiasi, però. Tutti sbagliamo, a questo mondo, e sappiamo che alcuni dei nostri sbagli comportano determinate conseguenze. Ebbene, l’errore che avete appena commesso vi costa un castigo oltremodo bizzarro: in qualche maniera vi portano all’altezza di quella cornice rettangolare, vi incatenano, e vi costringono ad affacciarvi e a guardare per bene al di là della finestra. E lì, sotto i vostri occhi, dispiegata come un’immensa carta geografica, vi appare la vostra mente, il vostro cervello, con tutti i suoi più segreti recessi illuminati senza pietà da un faretto di scena. Immaginate una cosa simile. Non avreste paura di precipitare? Non precipitereste dentro voi stessi? Continua la lettura di Il terzo film