
di Angela Villa
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di Angela Villa
C come Cadenza: successione di due o più accordi che danno alla frase musicale un senso di caduta o di risoluzione.
Intervallo in giardino. C’è chi corre, chi chiacchiera, chi balla, chi salta con la corda, chi prepara bigliettini e cuoricini per la compagna dell’altra classe, la stagione degli amori è cominciata. C’è chi cade e si rialza subito, perché il tempo è poco e vuole continuare a giocare, non ha voglia di andare a ripulirsi, perderebbe minuti preziosi di divertimento. E poi ci sono i fanatici del calcio che insistono a tirare calci alle pietre oppure alle noci.
«Non si può!» Dico decisa.
«Ma perché?»
«Perché il libro del perché andò a mare e si perdé».
Un modo divertente per chiudere la questione per concludere il discorso, lo dico cantando e mi vengono in mente le cadenze musicali. In genere i miei alunni ridono, perché lo sanno che non si può giocare a calcio in giardino per ovvi motivi legati alla sicurezza, ma ci provano sempre lo stesso.
Un alunno, appassionato di botanica, va in giro con alcuni semi di uva e di mela, recuperati durante la mensa, li regala a chi ha un giardino…poi scopre che nella nostra classe nessuno ha un giardino.
«Possibile maestra?»
«Possibile, rispondo, non tutti vivono in una villetta come te»,
«Ma anche mia nonna ha la villetta e tutti i miei cugini.»
La scuola pubblica è bella per questo, permette di far capire che le realtà sono diverse. C’è chi pianta alberi in giardino, chi fiori sul balcone e chi sul davanzale di una finestra in un piccolo monolocale… come la mamma di Além che viene dal Marocco e vive da sola con la figlia. Il marito è morto l’anno scorso in un cantiere, le chiamano morti bianche.
Mi giro, qualcuno mi chiama. Il mio alunno speciale, piange, qualche bambino di un’altra classe l’ha preso in giro perché non cammina, lo abbraccio e lo consolo. G. spiega che sono bimbi piccoli, non sanno che esistono vari modi di camminare. C’è chi cammina in fretta e furia come il suo papà, chi passeggia lentamente proprio come lei e chi cammina con i quadripodi, come R.
«La prossima volta glielo spiegheremo vero, maestra?»
Sorrido e la ringrazio per questa bella osservazione. Anche R. è soddisfatto, non piange più. Lo prendo sottobraccio e, insieme agli altri, ritorniamo in classe, tutti camminano lentamente dietro R.
È una buona abitudine che i bambini hanno imparato a fare sin dai primi giorni in cui nella nostra classe è arrivato R. Qualcuno osserva le foglie che ha raccolto, qualcun altro finisce di raccontare un piccolo segreto, c’è chi vaga perché non ha voglia di rientrare in classe. Procediamo lentamente, insieme, vagabondiamo e ci raccontiamo ancora qualche storia. Che fretta c’è? Tuttavia c’è sempre quello che ci riporta alla realtà:
«Che cosa facciamo oggi pomeriggio, maestra?».
Consiglio di ascolto: Franz Liszt – Hungarian Rhapsody n.2 with Cadenza n.1
Fra i banchi (1)
di Angela Villa
A COME ACCORDO: Combinazione di tre o più note di diversa altezza suonate simultaneamente. È oggetto di studio dell’armonia.
La scuola è ricca di suoni e rumori, di voci diverse. Il loro insieme costituisce un’armonia originale e singolare. Se l’insegnante che guida una classe riesce a realizzare una composizione armonica, ha raggiunto il suo scopo: dare vita ad una composizione musicale.
Fra tanti suoni, quello della campanella che scandisce l’inizio e la fine delle lezioni, l’inizio e la fine dell’intervallo, il momento più amato dagli alunni, chi cerca di recuperare qualche minuto, facendoli lavorare prima dello squillo che annuncia la fine dell’intervallo, sarà inondato di proteste da ogni parte dell’aula, anche i più timidi, esclamano decisi:
-Ma la campanella non è suonata!
La scuola è anche questo, un luogo di suoni e rumori.
Il luogo più rumoroso è la mensa, più classi riunite insieme per mangiare. Bambini che mangiano chiacchierando e ridendo, muovendosi continuamente, toccando posate bicchieri. Suoni e rumori confusi. Qualche anno fa, una mia collega che aveva un problema di acufeni, aveva cominciato a mettere i tappi nelle orecchie, quando portava la classe a mensa.
-E se ti chiedono qualcosa? Le dicevo indicando gli alunni.
Ricordati cara mi rispondeva, dall’alto di una lunga esperienza di anni e anni di scuola, gli alunni a mensa non hanno bisogno di noi ci sono loro e il cibo, non vogliono parlare di noi, ma con i compagni. Noi dobbiamo solo vigilare che va tutto bene e non si strozzano. In quel caso bastano gli occhi, non c’è bisogno delle orecchie e si infilava decisa i tappi.
Eppure in mezzo a questo caos c’è un rumore che non sfugge a quelle orecchie fini e a quelle bocche affamate: il cucchiaio di metallo sul contenitore delle vivande. Due colpi brevi e secchi, battiti eseguiti con ritmo deciso: tatà. La commessa annuncia il bis; a questo punto una fila di bambini si predispone in direzione del cucchiaio, qualcuno arriva camminando, qualcun altro correndo ma viene inevitabilmente rispedito verso la coda:
-Ma perché? Dichiara in genere il malcapitato con aria offesa.
-Perché correvi e superavi.
È il commento severo della maestra giustizialista di turno, che si alza per disciplinare la fila ma nonostante ciò, c’è sempre qualche furbo che s’inserisce di lato.
La scuola è anche il luogo del silenzio e della riflessione, degli esercizi eseguiti con sicurezza, rapidamente senza ragionare, gettando l’occhio sul quaderno del compagno o non eseguiti, perché troppo difficili.
L’altra mattina sono entrata in classe con un po’ di tristezza, una malinconia che mi era nata lungo la strada. Ho cercato di non farla notare ai miei alunni, in genere mi presento sempre di buon umore, ma qualcuno se n’è accorto lo stesso. Dopo la lettura e la conversazione, ho spiegato un argomento nuovo, poi sono andata alla lavagna per assegnare un altro compito, ci sono sempre quelli che in breve tempo finiscono: – Cosa faccio ora maestra?
Quando sono ritornata al mio posto, sulla bottiglia dell’acqua che avevo lasciato sulla cattedra, qualcuno aveva attaccato con lo scotch un piccolo biglietto.
– Come stai maestra?
Ho letto nel silenzio quella frase ed ho scritto anch’io una frase sul retro del foglio, l’autore del biglietto l’ha ritirato con discrezione e, in silenzio, ha ripreso a lavorare, sorridendo, la mia risposta l’ha rassicurato, e il suo biglietto mi ha regalato un po’ di buon umore.
La scuola è anche questo, un luogo ricco di sorprese, che arrivano fra i rumori intorno, ma anche nel silenzio. Fra i banchi.
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di Angela Villa
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UN CONVEGNO SULLA CITTADINANZA IDEALE
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di Angela Villa
«Io vengo anche quando non ci sono prenotazioni».
Così, Carmela Pupillo, guida turistica abilitata della regione Puglia, racconta la sua resistenza culturale a Peschici. Quotidianamente lotta, per promuovere le bellezze artistiche e culturali di questa località turistica, contro le tante difficoltà che rendono difficile il suo lavoro, a cominciare dalla necessità di collocare un piccolo cartello per segnalare la presenza di un bene culturale e storico così prezioso. Sto parlando dell’Abbazia di Calena. Scendiamo dalla macchina e aspettiamo il custode che venga ad aprire il grande portone antico, di qua le piante, di là il pozzo secolare. Siamo un piccolo gruppo di turisti, curiosi e desiderosi di conoscere la storia di questa Abbazia. Un raggio di sole colpisce il campanile e illumina l’immagine dell’antica madonnina, ha una forma strana del vestito, sembra quasi una sirena bicaudata, come se ne vedono tante nei paesi del sud che si affacciano sul mare. Seguiamo Carmelina all’interno dell’edificio, i lunghi capelli ricci le incorniciano il volto racconta con amore e passione di un luogo che pochi conoscono. L’Abbazia di Calena è un vero gioiello di architettura, ricco di storia e bellezza. Come nasce questa Abazia? Grazie ai Benedettini che arrivarono a Calena, da un altro luogo molto importante, dall’abbazia principale, Santa Maria a Mare delle isole Tremiti che era già molto importante e grandiosa. Poi è divenuta autonoma. La parola Calena in greco vuol dire “Bella” e quindi si può capire l’intenzione dei monaci di stabilirsi in quella zona. Il primo documento in cui si parla di questa antica Abbazia risale al 1023. Un vescovo di Siponto, l’antica Manfredonia, dona questa località compresa l’abbazia, alla più grande chiesa madre che si trovava sulle Tremiti. Questo ci fa capire che l’abbazia esisteva da tempo, non abbiamo fonti sicure ma probabilmente già Federico II di Svevia la conosceva. Intorno al 1100-1200 arrivano i monaci cistercensi. Dal 1450 fino al 1500 l’abbazia diventa sempre più florida, prende tributi da terre e paesi limitrofi. Tutto apparteneva all’abbazia, i due laghi costieri, le chiese di Ischitella di Vico, i territori di Peschici stessa, alcune chiese di Vieste. I frati gestivano tutta questa grande parte territoriale e raccoglievano le tasse. Durante le diverse dominazioni l’abbazia è passata sotto il controllo dei Borboni che lasciarono ai frati solo le chiese e acquisirono i tributi, con i Francesi la situazione si impoverisce, poiché il governo francese acquisisce anche le chiese e tutto viene messo in vendita, così alla fine del 1800 questo gioiello architettonico, diventa un bene privato e viene acquisito dai Martucci che avevano già molti terreni in queste zone. D’allora passa da ruolo di abbazia ad azienda agricola, viene collocato nei locali di Calena un grande frantoio aperto a tutti. Le porte erano sempre aperte e si dava il diritto di entrare a tutti, perché c’era il grande pozzo nel cortile. Nella grande chiesa per tantissimo tempo si celebrava la messa. Calena nell’antichità, inoltre, era un punto importante di passaggio, i frati accoglievano i viandanti che andavano a Monte Sant’Angelo a vedere la grotta di San Miche Arcangelo. Si partiva da Mont Saint-Michel o da Santiago de Compostela, si scendeva poi fino a Brindisi per andare a Gerusalemme. Erano percorsi che duravano tre o quattro anni. Questi pellegrini spesso lo facevano per scelta, oppure obbligati dal padrone che gli chiedeva di farlo al posto suo. Ci sono molti segni e graffiti lasciati da questi viandanti, partivano scalzi, con pochi denari e tornavano, dopo diversi anni, ricchi di esperienze e di conoscenze rispetto al loro padrone che era rimasto a casa. Per testimoniare il loro passaggio, lasciavano segni, impronte delle mani o dei piedi, semplici croci. I segni più antichi in assoluto, trovati anche a Calena sono quelli esoterici e di iniziazione, spesso difficili da spiegare. Ce n’è uno che appartiene alla Triplice Cinta Sacra. Simboli concentrici rettangolari, che hanno una datazione remota e sono stati ritrovati anche in Afghanistan. Simboli lasciati da cavalieri antichi ad indicare che quel luogo aveva un valore importantissimo dal punto di vista spirituale. Un luogo dove tempo e spazio assumono una dimensione più ampia, in collegamento con altri luoghi delle Terra. Chi per caso si trova a Peschici per villeggiare può recarsi alla Pro Loco del paese e scoprire le altre iniziative alla scoperta delle tradizioni del Gargano, come la visita al centro storico di Peschici e di Vico.
Il tempo è scaduto, saluto Carmelina Pelullo, per qualsiasi altra informazione si può consultare il suo blog www.carmelapulillo.it , mi ha lasciato dentro una piccola gioia perché mio nonno, Don Peppino (così lo chiamavano a Peschici), ha dedicato molti anni della sua vita a studiare la storia antica delle famiglie di Peschici, e le vicende di questa abbazia, da ragazza l’ho accompagnato diverse volte, a visitare le mura antiche, poi non sono più riuscita a tornare, la vita ci prende nel vortice dei desideri che non conosciamo. Ritorno a casa prendo il sentiero che fiancheggia la Foresta Umbra, i grandi pini marittimi con le chiome curve verso il mare, se ne vanno in fila come i pellegrini, compagni del mio ritorno.
Peschici, 15 agosto 2024