di Angelo Australi
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Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale
di Angelo Australi
Quel pomeriggio Rutilio aveva faticato come un matto a strascicare fuori dal sottoscala un rotolo di carta enorme, spesso, carico di piegature incartapecorite nascoste da uno strato di polvere. Lo fece cadere dal piano più alto di uno scaffale ma alla fine, visto che non ci stava riuscendo, per poterlo trasportare fu costretto a chiedere l’aiuto di Spartaco. Continua la lettura di Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale
Più pericoloso del cannone tedesco
Pescine, una località che si trova nel comune di Figline e Incisa Valdarno – disegno di Konrad Dietrich, febbraio 2017.
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La bottega di Rutilio
di Angelo Australi
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di Angelo Australi
Ogni domenica mattina in quella casa si consumava una scena che sconfinava nella forzatura di un film della commedia all’italiana, alla fine del quale, davanti alla banalità di ciò che verrà raccontato, non sappiamo se conviene ridere o piangere per disperazione. Nel nostro caso Virginia spolverava la mobilia fischiettando all’infinito una delle sue canzoni preferite mentre Simone fantasticava nel suo letto, disteso come un ciocco di legno. Lasciava indietro la stanza del figlio, fino a quando non lo avvisava iniziando quell’ossessiva cantilena che spazientiva tutto il vicinato. Virginia era costretta a fare la pulizia a fondo della casa ogni domenica mattina, per sentirsi libera il pomeriggio di incontrare le sue amiche al Circolo Arci, dove avrebbero giocato a tombola per soldi fino all’ora di cena. Lavorando in una fabbrica di confezioni dalle otto del mattino alle sei di pomeriggio, con pausa pranzo di due ore, per fare le pulizie di casa non le restava che il fine settimana. Il sabato mattina faceva la spesa e dedicava le ore del pomeriggio a stare in compagnia degli anziani genitori. Essendo figlia unica nessuno le dava un aiuto, così per dedicarsi alle pulizie non restava che la mattina dei giorni di festa. Per Simone invece la vita di un giorno festivo iniziava all’ora di pranzo, sempre ammesso che sua madre avesse cucinato qualcosa di buono e non fosse andata in rosticceria a prendere alcune porzioni di untuose lasagne al ragù o un pollo cotto alla griglia, o dei pezzi di arrosto girato. Omero, l’uomo di casa, marito e padre, non era di nessun aiuto perché la domenica per lui aveva un significato solo se usciva per andare a caccia con la squadra degli amici. Erano un gruppo così affiatato che quando si chiudeva la stagione venatoria, per non perdere il vizio di andare nei boschi insistevano con la raccolta dei funghi porcini in quel tesoro di fungaie disseminate sulle catene montuose che recintavano la valle, dove anche l’intensità dell’aria che arrivava dal mare dava ai frutti del terreno un diverso sapore. Fungaie rimaste nel mistero per decenni, anche se in molti si riempivano la bocca giurando di averle individuate. Non tutte, ma solo alcune. Da quando il figlio lavorava negli uffici delle Poste Italiane presso la stazione ferroviaria della città, dove smistava la corrispondenza in partenza e in arrivo, le aspettative sul suo oggi e del suo domani si esaudivano parlando di selvaggina e di boschi. Prima o poi si sarebbe aspettato il matrimonio del figlio, di diventare anche lui nonno, ma per il resto non c’erano altri passatempi. Per esempio, di politica, pur avendo sempre votato PCI, si appassionava solo a ridosso delle elezioni, quando anche lui andava al circolo ARCI per capire il clima che si respirava tra i compagni, eventualmente chiedere informazioni sulle persone che componevano la lista elettorale del suo partito. Omero lavorava in una fonderia, mestiere faticoso e pieno di rischi, dove bisognava stare sempre con gli occhi bene aperti perché una banale svista o distrazione potevano costargli molto care, ma nonostante tutto la domenica si organizzava per andare a caccia con gli amici, alzandosi almeno due ore prima di quando si recava al lavoro; proprio in piena notte. Il luogo dove la squadra dei cacciatori si dava appuntamento la domenica mattina era il bar Brio, lo stesso che in altri orari del giorno e della notte frequentava Simone.
I pomeriggi domenicali di suo figlio iniziavano sempre da questo ritrovo abituale per tanti gruppi di persone più o meno giovani. Non a caso il bar era situato in un punto della circonvallazione che stava al centro di un triangolo composto da una sala cinematografica, dalla discoteca, dall’incrocio che immetteva sul viale della stazione dei treni. E poi il bar Brio era il primo che apriva al mattino per servire i numerosi turnisti che prendevano servizio alle sei in due grandi fabbriche dell’area industriale: la vetreria, lo stabilimento che produceva le corde metalliche dei pneumatici. Il proprietario si chiamava Leandro, garantiva la sua presenza dalle cinque del mattino fino mezzogiorno, poi faceva un riposo che gli avrebbe consentito di coprire in serata gli arrivi al cinema, lasciando gestire alla moglie e una commessa quel poco movimento che ci sarebbe stato nelle ore pomeridiane. A detta del proprietario, criterio grazie al quale valutava in un prossimo futuro di vendere locale e licenza, nel suo bar si facevano ogni giorno dai sei ai settecento caffè. Cifre stratosferiche, se è vero che per ogni caffè c’è sopra un margine di guadagno davvero esagerato.
Senza considerare i più saltuari perché avevano la fidanzata, gli amici di Simone che si davano appuntamento al bar Brio saranno stati una dozzina. Dopo il diploma alle superiori la maggior parte di loro si era subito trovato un lavoro. In pochi avevano scelto di iscriversi all’università, Filippo a medicina, Enzo scienze politiche, Graziella architettura. In quel gruppo solo Spartaco e Ivano – che tutti chiamavano Salamandra – lavoravano ormai da diversi anni, essendosi fermati all’esame di terza media; ma Ivano era morto facendosi asfaltare da un camion mentre azzardava il sorpasso di un’auto in curva, e Spartaco in quel periodo della vita stava facendo il servizio militare. Nel gruppo degli amici la morte di Salamandra rappresentò un trauma spaventoso, anche se guidava la sua moto come un forsennato nessuno si sarebbe mai aspettato facesse quella fine. Si erano salutati sul tardi quel venerdì di fine luglio del 1974, davanti al bar Brio, e il giorno dopo la notizia del suo incidente mortale. Spartaco, classe 1954, era partito militare con il terzo scaglione, verso la metà di giugno, con addosso lo spirito costruttivo di chi si sente condannato ingiustamente aveva cercato in tutti i modi di scansare l’anno di naia, ma poi si era rassegnato. Non gli fu consentito di partecipare al funerale di uno dei suoi migliori amici neppure con un breve permesso giornaliero. Il loro gruppo di adesso si era formato intorno al bar Brio da pochi anni, più o meno quando avevano iniziato a frequentarlo nell’attesa di entrare al cinema, ma con Ivano la cosa veniva da molto più lontano, lui e Spartaco erano legati fin dai giochi dell’infanzia.
Visto faceva angolo con il cinematografo e la stretta strada che conduceva alla discoteca, il bar Brio si trovava in una posizione strategica anche per osservare il movimento. Non solo la domenica pomeriggio e il fine settimana, quando apriva il locale da ballo, il bar era frequentato ogni sera perché, qualsiasi pellicola fosse in programmazione, in molti andavano al cinema. Era insomma uno dei luoghi favoriti dai giovani per passare il tempo libero dallo studio e/o dal lavoro. Un punto cruciale, in chi aspirava a fare degli incontri interessanti. Nel gruppo degli amici di Simone erano tutti appassionati di cinema, prima di entrare a vedere un film nasceva naturale darsi appuntamento al bar. Prendevano il caffè alla spicciolata e nell’attesa parlavano un po’ dei fatti del giorno, e appena uscivano, dopo il film, per consentire al tempo di dilatarsi nella notte si fermavano a bere una birra, illudendosi che il momento di farsi sopraffare dal sonno e dalla stanchezza non dovesse mai arrivare. Avevano un’età che non sentivano mai il bisogno di tornare a casa. Era Leandro, il barista, che verso l’una di notte cominciava a brontolare perché liberassero i tavoli. Visto già alle cinque del mattino ci sarebbe stato da gestire in solitaria un fitto via vai di persone, prima di andare a letto voleva pulire il locale. Anche la stazione dei treni era nei pressi del bar Brio, per chi la raggiungeva a piedi bastava arrivare al semaforo e svoltare a sinistra, cinquanta metri, non di più, e subito appariva davanti con tutta la sua ampia facciata. Leandro a quell’ora tarda della notte, tra una bestemmia e l’altra confessava a quel gruppo di ragazzi che aveva calcolato di farsi un culo della madonna per dieci anni, però alla fine avrebbe venduto locale e licenza a condizioni così vantaggiose che nessun altro bar del paese poteva illudersi di ottenere.
E comunque, nelle rare occasioni che decideva di andare in discoteca nel pomeriggio dei festivi, Simone cercava sempre di evitare la calca dell’apertura, gli dava fastidio fare la fila davanti alla biglietteria, in quell’attesa mescolarsi a chi non voleva perdersi neanche un giro di canzoni per scatenarsi sulla pista da ballo, tra tutte quelle sedicenni che si muovevano in branco intorno ai “bellocci” in una competizione per attrarre l’attenzione e appartarsi a pomiciare nei separé del locale, una concorrenza fatta di invidie e cattiverie che nel tempo di una danza poteva distruggere amicizie consolidate e formare nuove alleanze strategiche nella frenesia schizofrenica della luci psichedeliche che inseguivano il ritmo del brano dal centro della pista da ballo fino agli angoli più distanti, rendendo quei movimenti della danza una fibrillazione meccanica di luci bianche e azzurre. Ma quando la domenica pomeriggio non sapeva dove sbattere la testa, verso le sei, visto che a quell’ora non facevano pagare il biglietto, anche lui entrava a curiosare un po’ sul movimento.
Di norma quelli nati dopo il 1950 bazzicavano la discoteca il venerdì, giorno che chiudeva la settimana di lavoro. Arrivavano passata mezzanotte, tutti alla spicciolata, dopo essere stati al cinematografo o a mangiarsi una pizza, per ritrovarsi a parlare come dei nottambuli incalliti, bere della buona birra, fumare qualche spinello. Quella che passava il disc jockey per Simone era della buona musica, stimolante per conoscere meglio se stessi, ma anche per fare dei nuovi incontri; non era fatta solo per ballare, nonostante il volume altissimo creava un’atmosfera che potevi abbozzare ogni forma di pensiero senza sentirti fuori posto. A gente come lui, che aveva superato i vent’anni, quello sembrava l’ambiente ideale per ritardare il momento di tornare a casa perché a quell’ora si poteva parlare di tutto, anche di uccidere un’idea di paese che si costruivano i propri genitori, e se entravi in questo giro di pensieri ossessivo potevi tirare avanti fino allo sfinimento. Il gruppo dei suoi amici appariva alle ore più strane, spuntavano tra la folla come fantasmi, alle due, alle tre di notte, quando Leandro aveva già spento l’insegna del bar Brio.
Il sabato neanche a parlarne perché, a parte la necessità di smaltire i postumi della sbronza che lo avrebbero assillato fino al tardo pomeriggio, ormai da alcuni anni la discoteca era diventata il ritrovo di tardone e di tardoni allupati, un superaffollamento anacronistico di ormoni che volteggiava nelle danze con l’unico scopo di sfruttare ogni occasione per costruire una relazione duratura. Mariti frustrati, affamati di sesso, donne ormai rassegnate ad accettare quello che avrebbe passato il convento, pur di creare una famiglia. Il sabato notte c’era tutto un mondo nascosto che finiva per svelare le sue modeste aspettative esistenziali, che sognava di essere ancora in tempo a stravolgere le proprie abitudini, e contemporaneamente si assisteva ad un ciondolare ingiusto di Simone e degli altri ragazzi intorno al bar Brio, che finito il film si sedevano a ridosso della vetrata e guardavano il tratto di mura medioevali restaurato di recente, esaltato dalle luci di una nuova illuminazione. Mura alte dieci metri e forse più, dove erano state ricreate le antiche merlature della fazione dei guelfi. La cinta muraria misurava un paio di chilometri abbondanti. La fortificazione che chiudeva l’abitato anticamente aveva un fossato bello largo, diciannove torri, il cassero, quattro porte di accesso. Di tutte le alte torri ne restavano in piedi ancora tredici, alcune inglobate nelle abitazioni, due o tre ben visibili dal bar Brio, mentre l’interno del Cassero era stato trasformato in un teatro a palchetti con la capienza di seicento posti. Del fossato e dei ponti levatoi invece si era persa ogni traccia. Quella di Oriale era una cinta muraria realizzata per custodire le aspettative di una comunità che grazie al suo commercio immaginava di moltiplicare velocemente il numero dei suoi abitanti, ma quel progetto ambizioso dal medioevo non si era mai realizzato, visto che, nonostante lo sviluppo urbanistico, tra il perimetro delle mura, la viabilità interna e le abitazioni, rimaneva ancora tanto terreno coltivato con gli orti del convento delle monache, dei frati francescani, con i tanti che mantenevano in vita i privati.
maggio 2024
Isolato dietro un muro di pensieri
Su PASSEGGIARE DOVE SONO DI CASA di Angelo Australi
di Teresa Paladin
Passeggiate della mente e del cuore stando “Isolato dietro un muro di pensieri”: con questo titolo inizia il primo di quattro racconti di Angelo Australi presentati in “Passeggiare dove sono di casa”, editrice SEF, febbraio 2024.
Per Spartaco, da poco giunto alla pensione, è diventata una tranquilla necessità vitale fare camminate lunghe in aperta campagna, di quelle che irrobustiscono il fisico e tranquillizzano la mente, lontano dal traffico e in luoghi silenziosi.
Il tempo del covid offre lo sfondo contestuale di queste passeggiate, le quali iniziano in sordina e sempre più si concretizzano in una visione aperta e dinamica multifattoriale. Spartaco si muove dai percorsi labirintici improvvisamente articolati davanti ai centri commerciali fino alle passeggiate lontano dal paese, mentre le quotidiane passerelle televisive dei responsabili o presunti esperti della salute pubblica e della politica cercano di convincere tutti a starsene a casa.
Passare tra elementi della natura osservandoli e ripescare nella lucidità della memoria, dove fatti e persone non muoiono mai: tra questi due confini, la natura e l’andare a ritroso nei ricordi, la ricerca di una pace interiore in queste passeggiate anima il protagonista, che per altro rimane aperto e disponibile agli eventi del tempo presente.
Dalla memoria si affaccia l’inizio della vita matrimoniale vissuta all’insegna dell’avventura. Spartaco e Ambra non avevano prenotato niente e passeranno ben diversamente dal previsto, in chiave quasi cosmicomica, la prima notte di nozze. Ma con un fondo di serenità e senso di libertà che non può non sorprendere i sostenitori di un mondo sistematicamente rispondente a esigenze di funzionale organizzazione. Si scopre così che un certo fatalismo è un compagno sicuro nella vita del protagonista.
L’atmosfera assolutamente positiva dell’imprevisto, che non limita ma arricchisce il viaggio continua infatti anche per le vacanze successive, almeno fino al nascere dei figli, nella comune accettazione condivisa di meraviglie da vedere e scomodità da affrontare. La disposizione d’animo che tutto è rimediabile e ci sia sempre un’altra possibilità guidano Spartaco, mentre la moglie Ambra è contenta di assistere a un’alba stupenda e di ritornare a casa più stanca di quando era partita. Una innocente fiducia per quello che il fato avrebbe offerto e il fascino dell’avventura denotano ottimismo e la certezza di poter contare sulle proprie forze in tutte le situazioni.
Turista improvvisato ma sempre consapevolmente in gioco, Spartaco ama soffermarsi con attenzione e guardare con piacere la macchia mediterranea, le antiche pietre, gli uomini che si ubriacano per dimenticare la loro melanconia.
Mentre osserva attentamente le abitudini della altrui vita quotidiana, la tomba di Italo Calvino a Castiglion della Pescaia e la casa “rossa” di Leonardo Ximenes, ingegnere e matematico gesuita, nella zona paludosa della riserva naturale di Diaccia Botrona sono pause culturali irrinunciabili. Sulla tomba di Calvino si respira un clima di silenzio e preghiera: in un cimitero si capisce la piccolezza umana, che non sempre noi uomini e donne ricordiamo.
L’argine del fiume è un luogo silenzioso di esplorazioni. Se la natura in tutte le sue forme- piante, rovi, laghetti, aironi e falchi pescatori, le oasi del WWF- è scenario intrigante dei racconti, fondamentali sono gli incontri con sconosciuti o amici. La costruzione di una capriata in ferro al ponte del paese, lungo l’argine del fiume che è costeggiato da terreni coltivati grazie al lavoro di bonifica di Pietro Leopoldo alla fine del Settecento, diventa l’occasione per una rimpatriata di paese. Tutti si ritrovano là, amici e compaesani di sempre, a fare commenti in cui, ovviamente, fa capolino la politica.
La politica era stata nel passato una passione attiva per Spartaco, che l’aveva abbandonata da quando i due ruoli di amministratore comunale e di segretario del partito non erano stati più tenuti distinti dai compaesani e lui alla fine si era sentito stretto in questa situazione. Nel presente la sfera politica per come si connota invece non lo appassiona più. Resta in lui viva l’esigenza del protagonismo politico, la necessità che gli operai parlino in prima persona dei propri bisogni, siano in prima fila a difendere i propri diritti più che semplicemente affidarsi a intellettuali e politici di professione barricati nelle loro sedi. La barzelletta dei due frati e della loro disputa teologica in questo caso è nella sua comicità estremamente illuminante.
Durante una delle sue passeggiate un nuovo cartellone attira l’attenzione del protagonista. I suoi occhi, spalancati sulla realtà, registrano stupiti i cambiamenti rispetto al passato. Lo slogan “Il lusso democratico italiano” utilizzato per vendere mobili da parte di una ditta che vendeva mobili da quattro generazioni è nato in piena campagna elettorale e il fatto lo inquieta. Lo sfruttamento di un valore costitutivo e pregnante per uno scopo commerciale lo fa scadere a proprietà privata, pensa Spartaco: un ulteriore segnale della fatica di permanere nei valori del passato, ma anche della perdita di significato nella validità della politica.
Ma non solo: anche interiormente Spartaco fa i conti con sé stesso e la sua progressiva vecchiaia, tra dubbi e paure mentre il caldo dell’estate lo rende apatico. Lo rincuora il fatto che è in ogni caso un uomo d’esperienza, capace di aver fatto carriera a livello dirigenziale in una ditta pur senza essere laureato, grazie al suo prezioso impegno e alla conoscenza maturata.
Il già citato muro dei pensieri durante le passeggiate si affaccia dunque continuamente, ma in realtà è una risorsa esistenziale notevolissima. Il vero muro in realtà è rappresentato da una serie di condizioni oggettive dell’esistenza imposte dall’esterno e che mutano la normalità senza arricchirla.
Troviamo nei racconti il rifiuto di vedere il nonno con la mascherina da parte del nipotino di tre anni che è sempre pronto ad ascoltare i meravigliosi dei rumori della campagna, così come il suicidio di un amico, che al Nord aveva tentato di spezzare i confini di un paesino mal sopportato, in cerca di nuovi orizzonti.
In particolare è significativo l’ultimo incontro lungo l’argine con un ultranovantenne che coltiva l’orto e gli svela le complicanze delle ultime disposizioni perché certe leggi complicano la vita pratica senza risultato: “Oggi è tutto illegale, non si possono più raccogliere neanche le canne per infrascare le piante di pomodoro o dei piselli. Tempo fa i vigili urbani hanno multato un tale solo perché aveva preso una cassetta di terriccio da quel boschetto di acacie”.
Nel mondo di oggi tutto è organizzato e regolato da sempre nuove leggi. L’amore per il lavoro della terra, il prodotto della propria coltivazione che si mangia o regala per dare gusto alle giornate e rimanere attaccati alle radici contadine viene messo da parte dall’insensatezza di problemi e gabelle che si impongono e modificano il tradizionale rapporto di libera autoproduzione di ortaggi.
il vecchio incontrato lungo l’argine ha anche tentato di leggere Moby Dick, un libro difficile da leggere, per la storia di una balena inseguita e ritenuta un demonio dal tormentato capitano Achab. Per il vecchio il suo colore bianco era di per sé immagine di purezza e non di malvagità. Per Spartaco invece il bianco e il nero sono due colori assoluti che annullano gli altri colori. Bianco e nero si assomigliano e rappresentano due facce del male. La balena bianca per Spartaco è l’elemento cattivo che la mente di ogni essere umano contienee il viaggio della baleniera si presenta come viaggio dentro la mente, perversa, di ogni uomo.
In questi racconti si può viaggiare anche in un luogo circoscritto e conosciuto da sempre perché viaggiare è un’arte della mente che conduce a nuove osservazioni e riflessioni, a nuove dimensioni di scoperta e condivisione. Abbracciare il proprio territorio e percorrerlo quotidianamente in cerca di incontri e ricordi non significa però sprofondare in una melanconia nostalgica per Spartaco.
La cifra di questi racconti è la leggerezza lungo la direttrice di una vena pessimistica non assoluta ma ragionevolmente dimostrata, che nasce dal disincanto dello sguardo di fronte all’evidenza dei fatti della memoria come della realtà quotidiana.
Su “Passeggiare dove sono di casa”
di Annamaria Locatelli
Ho letto, ovvero riletto i quattro racconti del libro: Passeggiare dove sono di casa di Angelo Australi (usciti in precedenza su Poliscritture), ma letti insieme generano nuove scoperte sulla sua scrittura, modalità e temi ricorrenti… Racconti molto belli di un viaggio passeggiando vicino a casa, in realtà scavando in territori reali e dell’anima alla ricerca di un segreto, di un mistero che vi si nasconde…
Un percorso che si perde in un labirinto di stati d’animo e spesso perviene allo smarrimento, alla confusione, ma solo dopo aver attraversato argini di fiume, contemplato mari e arcipelaghi di isole, oasi faunistiche e scalato una montagna in pellegrinaggio sulla tomba di Italo Calvino… Memorie del passato si intrecciano con i vissuti al presente di persone amiche, familiari… Su ogni realtà c’è molta attenzione… La disputa teologica tra i due frati del ‘cinquecento, a mo’ di storiella raccontata nelle stalle le sere d’inverno o nell’osteria, riprende il tema di Bertoldo il contadino, dalla gestualità irresistibile, che sbeffeggia i potenti.
Sempre presenti il problemi del quotidiano, le fatiche di tutti i giorni, la clausura in tempo di pandemia e la paura per la minaccia di un virus mortale. Altro tema ricorrente è il degrado ambientale, la calura estiva da cambiamento climatico, ma anche l’insofferenza al caldo di Spartaco, l’io narrante, da età che avanza, il fiume in secca ma anche la lunga biscia che attraversa il sentiero umano, l’imprevisto, mentre Spartaco conversa sull’argine con un ultranovantenne contadino… Le attività dei due pensionati sono messe a confronto: l’uno l’orto, l’altro lettura e scrittura… E così, come in tutti i racconti di Angelo Australi, si arriva sempre a una svolta narrativa. In questo caso l’oggetto è la balena bianca di Melville, un film lettura, che ha colpito straordinariamente entrambi gli anziani signori… La riflessione si fa complessa, visionaria e surreale… terribilmente tragica. Il viaggio sull’oceano di Capitan Achab e la sua nemica, la balena bianca, giocando una partita mortale, in eterno reciproco inseguimento distruttivo “… rappresenta un qualcosa di cattivo che cova dentro la mente di ogni essere umano”, dove il bianco, sintesi di tutti i colori e il nero, assenza di colori, si confondono… La conclusione mi ha ricordato quel romanzo di Conrad Cuore di tenebra, una discesa agli inferi. Ma c’è anche, in sintonia, il racconto del vecchio curatore dell’orto. Parla di un amico ubriaco che, pedalando di notte, non sente la sua testa girare, ma ‘vede’ la strada spostarsi finendo ripetutamente nella scarpata. Non sappiamo, alla fine, se partiamo, arriviamo o ritorniamo, se giriamo semplicemente intorno a noi stessi: il viaggio sul territorio si riflette o meglio si chiude nella mente come una misteriosa realtà ai confini…
I racconti sono pieni di personaggi e presenze, ma sempre avvolti nella malinconica solitudine del narratore, nei suoi dubbi e tormentose scelte, impersonato da Spartaco, nei vari passaggi della vita.
Ho sempre l’impressione, leggendo le opere dell’autore, di trovarmi davanti ad un prodotto di alto e prezioso artigianato oppure ad un lavoro di scavo al rinvenimento di dimenticate vestigia…
Racconti di Angelo Australi
«In un mondo sempre più frivolo dove la lettura diventa cosa complicatissima (un romanzo sembra una montagna da scalare), non possiamo fare altro che consigliare la lettura di questi racconti; ognuno poi vi troverà il proprio, quello più intimo. […] William Carlos Williams […] sostiene che “il racconto, che agisce come la scintilla di un fiammifero acceso al buio, è l’unico vero modo per descrivere la brevità, la frammentazione e allo stesso tempo l’interezza della vita delle persone”. […] Ed è quello che troviamo nei racconti di Angelo Australi perché l’autore mette in scena proprio la vita in tutta la sua frammentarietà e la sua brevità. Ma con grande talento che la vita stessa talvolta non possiede». (dalla postfazione di René Corona)
https://www.sefeditrice.it/catalogo/passeggiare-dove-sono-di-casa/17764
Lo sbarco sulla luna
di Angelo Australi
Appena uscito dalla stazione Carlo si era incamminato in direzione della sua casa, dove la moglie e i due figli lo aspettavano per la cena. Era molto in ritardo, visto che un imprevisto lo aveva trattenuto più di un’ora sul posto di lavoro. Nonostante avesse fissato il sole mentre scompariva dietro le colline che scorrevano dal finestrino del treno, ancora il bollore dell’estate lo assaliva in ogni punto del corpo. Il parcheggio al servizio delle auto dei pendolari nei giorni festivi era sempre vuoto, così costruì mentalmente delle similitudini con quella desolata piazza d’armi nella quale aveva marciato durante la naia, agli ordini di un tenente pieno di manie, con l’animo ancora di un fascista. Erano trascorsi ormai vent’anni da quando aveva fatto il servizio di leva, ma quando vedeva una piazza priva di vita e di movimento, gli nasceva spontaneo fare dei collegamenti con l’esperienza traumatica vissuta in caserma. Per illudersi di trovare un refrigerio, uscito dal parcheggio si era messo a camminare a ridosso dei palazzi, cercando di sfruttare le zone d’ombra che il pomeriggio si formavano su di un lato della strada. Tentativo vano, perché il calore saliva dal basso, era come se l’asfalto stesse ribollendo alimentato da una piastra elettrica. Il sudore gli calava sulla fronte, mentre una puntigliosa brezzolina finiva per appiccicargli la camicia alla schiena, e quella sensazione di sporcizia e di fastidio sembrava raccogliere tutta la frenetica indifferenza della città nella quale lavorava da alcuni mesi come uomo di fatica per un albergo di lusso del centro storico, situato nei pressi dell’imponente duomo.
Era la terza domenica di un luglio arido e riarso. Da qualche giorno un leggero vento di scirocco rendeva l’aria irrespirabile, mentre l’afa creava una cappa di caligine che celava il profilo dei monti intorno alla valle del suo paese. Una delle estati più calde degli ultimi anni, da quello che ricordava l’ultima pioggia ormai risaliva al mese di aprile. In tutto quel tempo non era caduta neanche una leggera spruzzata per lavare la polvere dalle strade. In pieno solleone, anche nel tardo pomeriggio faceva ancora un caldo soffocante. Almeno nel tratto di fiume che si scorgeva dal treno, l’acqua sembrava ridotta a un rigagnolo limaccioso e verdastro, dove le garzette catturavano senza difficoltà dei pesci agonizzanti.
A un certo punto, lungo la strada, dove la sequenza di abitazioni attaccate l’una all’altra s’interrompeva, c’era un campo di grano mietuto di recente. L’immagine prese vita solo dopo aver tolto alcune gocce di sudore che gli erano calate sugli occhi. Vide che dalla terra secca e screpolata si alzavano piccoli mulinelli di polvere trasportati dal vento, mentre al centro del campo una moltitudine di piccioni beccava dei chicchi di frumento dalle spighe lasciate sul terreno con la mietitura.
Appena un’ora prima, salendo in uno dei vagoni fermi alla stazione, gli era sembrato di entrare in un forno. Il convoglio era rimasto tutto il giorno depositato in un binario morto, e quando era salito ancora le lamiere trattenevano il calore rilasciato dai raggi del sole. Carlo aveva provato ad aprire il finestrino, ma da fuori entrava solo un’aria calda che faceva circolare il ristagno dei cattivi odori di quando la gente ci si accalcava nei giorni feriali. Il ristagno pestifero di quella reminiscenza emissiva si mescolava all’esalazioni rimaste imprigionate nelle intercapedini della vecchia carrozza. Essere da solo nello scompartimento del treno lo aveva messo ancor più di cattivo umore, così durante il viaggio era cresciuto dentro i suoi pensieri come una sorta di turbamento depressivo.
Visto che viaggiava in compagnia solo della luce del giorno e il fetore dello scompartimento, ad un certo punto si era messo a gridare la sua rabbia. – Mi sono rotto i coglioni! La faccio finita una volta per tutte, con questo mestiere di merda. Chi ha più voglia di sorridere ai clienti dell’albergo, con questo caldo! … Che lavoro è, fargli la faccia gentile per ricevere la mancia? –
Aveva gridato istintivamente, senza neppure guardarsi intorno. Era stanco di fare i conti con questa inquietante realtà, accettata faticosamente ogni giorno solo per un senso di responsabilità verso la famiglia. Vivere tutta la settimana in città – sabato e domenica compresi – non gli lasciava mai del tempo per farsi vedere in giro per il paese a informarsi di un lavoro. La sera, quando il giorno dopo si sarebbe dovuto alzare che ancora non era sorto il sole, non si sentiva mai stimolato per recarsi al bar che frequentavano i suoi amici. Un quarto d’ora di televisione dopo cena, e si appisolava sulla sedia. Le sue ore di riposo trascorse in famiglia erano piene di pigrizia latente, di vera e propria indolenza mentale. In vita sua non si era mai sentito così solo come in quei mesi che faceva il facchino d’albergo. Il poco tempo libero di cui disponeva, piuttosto che accendere una forma di reazione, uno scatto di orgoglio per mettersi a cercare delle soluzioni alternative, lo occupava pensando al passato. Tranne la parentesi del servizio militare che aveva fatto in una caserma di Orvieto, e il viaggio di nozze a Venezia, dall’età di quindici anni aveva sempre lavorato nella stessa fabbrica di borse in pelle senza mai spostarsi dal paese. Era stato assunto come apprendista nel 1946, da un artigiano che voleva mantenere alta la qualità di un prodotto richiesto esclusivamente dai negozi di lusso delle più importanti città italiane. Per questo il titolare si era creato un suo marchio di fabbrica, disinteressandosi ad ampliare il mercato, perché con i suoi otto dipendenti riusciva a rispettare i tempi di consegna delle ordinazioni fatte ad ogni cambio di stagione. Cinque donne a cucire la pelle, un tagliatore esperto che, per come era bravo, considerava quasi un figlio, poi Carlo e un altro giovane assunti come apprendisti, che all’inizio occupava nelle fasi meno impegnative perché le donne non si distraessero dalla cura delle rifiniture. In alcuni casi era il padrone stesso a fare le consegne, stando via dei giorni a giro con il suo furgone. Altrimenti, con la scusa di fare un viaggio nella sua bella regione, si presentavano gli stessi clienti a ritirare le merci. I suoi modelli, tranne lievi modifiche alle fibbie e sui sistemi di chiusura, non erano mai variati nei dieci anni di vita dell’impresa. Il figlio del padrone frequentava la facoltà di ingegneria, con specializzazione in meccanica. Era più vecchio di Carlo solo qualche anno e, se non studiava per un esame, bazzicava la fabbrica per aiutare il padre. A Carlo raccontava che il suo futuro non lo immaginava lì, appena laureato era sua intenzione fare dei concorsi da tecnico nella pubblica amministrazione. Dopo un po’ di anni che Carlo aveva fatto il servizio di leva, il figlio girando in fabbrica aveva iniziato a criticare l’operato dei dipendenti e a fare osservazioni verso l’organizzazione del lavoro pensata dal padre, che ormai, rispetto ai tempi, giudicava superata. Nonostante dopo la laurea fosse stato fisso sui libri a preparare una miriade di concorsi, non aveva mai raggiunto il punteggio che gli consentiva di accedere nel numero dei posti previsto dalla graduatoria, così si era rassegnato a lavorare con il padre e a immaginare, prima o poi, di subentrare alla guida dell’azienda. Carlo e gli altri operai assistevano ogni giorno a interminabili discussioni tra padre e figlio, ma il lavoro si era tenuto costante fino a quando lui aveva conservato la conduzione. Un paio di infarti a distanza di pochi mesi, e una leggera ischemia che aveva debilitato i movimenti del braccio destro, lo costrinsero a ritirarsi dall’attività. Era il 1962, Carlo ricordava bene che in quello stesso periodo sui giornali si profetizzava lo scoppio della terza guerra mondiale, a causa di certi missili con testata nucleare che la Russia intendeva puntare sull’America dall’isola di Cuba. Ne parlavano al lavoro, con gli amici del bar, e ne parlava in casa a Emma. Quel passaggio di consegne in fabbrica dal padre al figlio lui lo aveva accettato senza nascondere una certa insofferenza, e ogni volta che capitava l’occasione esternava ai colleghi tutto il suo rammarico. Si sfogava principalmente con Luigi, diventato come lui tagliatore quando l’altro era andato in pensione, con il quale, lavorando affiancato ogni giorno per tante ore, era nata una vera amicizia. In appena quattro anni il figlio, pur di scegliere la soluzione di un prodotto valido per il mercato estero aveva stravolto la vecchia organizzazione dell’azienda, il vecchio marchio di fabbrica adesso lasciava il posto alle etichette che gli consegnavano i suoi clienti. Lavorando per terzi le commesse si erano moltiplicate a scapito della qualità, per evadere le quali, ad ogni cambio stagione era costretto ad assumere dei nuovi addetti. A un certo punto, dopo tutte quelle assunzioni, fu obbligato a trasformare l’azienda dalla categoria degli artigiani all’industria, dove più forte era la concorrenza, più era costretto a mantenersi competitivo abbassando il prezzo agli articoli. Questi importanti marchi stranieri – ormai lavorava esclusivamente tramite i loro rappresentanti – facevano quattro ordinazioni l’anno: primavera, estate, autunno, inverno. Tutte sfalsate di alcuni mesi. Si parlava di migliaia di capi per ogni articolo da consegnare, un prodotto che poi loro stessi proponevano a una catena di negozi conosciuta in tutto il mondo. A gennaio erano in ordine le borse per la primavera, e così via, a scalare: marzo i modelli estivi, a fine luglio – prima delle ferie – quegli autunnali, a ottobre le borse che si vendevano nei negozi a Natale. Non riuscendo più a rispettare le scadenze, spesso era costretto a pagare delle penali che si bruciavano il ridotto margine di utile. Nelle occasioni che ancora veniva in fabbrica, Carlo aveva sentito tante volte il vecchio proprietario dare dell’incompetente al figlio. Gli bastava guardarsi un po’ attorno per scoppiare in una sequela di bestemmie, arrabbiandosi come un matto. Suo figlio stava immaginando un sistema che a lungo andare non poteva sostenersi in quei margini di utile così bassi, ma soprattutto lo accusava di non accettare consigli da uno con la sua esperienza, non conoscendo il mestiere come poteva organizzare un sistema funzionale per i trenta dipendenti che adesso erano nel suo libro paga? Lui aveva studiato, ma non sapeva niente di quel lavoro, se insisteva con quel tipo di gestione, l’azienda sarebbe fallita entro pochi anni.
– Per organizzare il lavoro a trenta persone cercati uno che ne capisce, se non vuoi contare sulla mia esperienza. Va conosciuto il tipo di pellame, il tipo di filo da usare nelle cuciture, la qualità della cromatura degli accessori di metallo.
Il figlio gli urlava di starne fuori, le materie prime ormai le fornivano i clienti, scelte dagli stessi stilisti che a ogni stagione creavano dei nuovi modelli. La voce più grossa di spesa nel bilancio era quella degli stipendi, quando le cose non avessero più funzionato, poteva sempre licenziare del personale. I soli investimenti fatti in quegli anni che lui aveva condotto l’azienda riguardavano l’acquisto di macchinari e la costruzione di un capannone industriale accanto al precedente, aumentando di tre volte il capitale dell’impresa che gli aveva lasciato. Il padre non accettava che lui avesse tolto il suo cognome dal marchio dei prodotti, ma questo era un dettaglio per il quale il figlio non sembrava provare nessun rimpianto.
– Per piacere, ora levati di mezzo, che devo lavorare. La discussione finisce qui.
– Sei un bischero! – gli urlava dietro il padre prima di uscire, alla presenza di tutti gli operai, la maggior parte dei quali per lui erano dei perfetti estranei. – Ricordati che il giovane corre, … ma il vecchio conosce la strada.
Agli occhi di Carlo, dopo queste assurde discussioni, il figlio del suo vecchio padrone diventava sempre più arrogante.
Quella domenica di luglio una comitiva di turisti era arrivata in albergo pochi minuti prima della fine del suo turno, tutta eccitata perché voleva velocemente rinfrescarsi e poi mangiare, per assistere al programma televisivo dell’ammaraggio dell’Apollo undici sulla luna. Grazie a questo imprevisto Carlo era stato costretto a ritardare l’uscita dal lavoro, e con le corse domenicali dei treni ridotte, questo aveva significato una partenza posticipata di un’ora. Alla televisione avrebbero trasmesso una diretta fiume che iniziava al consueto orario in cui andava in onda il telegiornale. In albergo per tutto il giorno non si era parlato d’altro anche con i clienti stranieri, che avendo visto un televisore nella sala da pranzo, anziché mangiare in un ristorante della città preferivano rifocillarsi in albergo e assistere alla diretta televisiva. L’avvenimento suscitava meraviglia e ottimismo in tutto il mondo, con quel primo passo, che aveva per l’umanità un significato paragonabile alla scoperta del fuoco o del continente americano, iniziava un’avventura dai risvolti infiniti, fino a quel punto immaginati solo sui libri di fantascienza. Quello che gli uomini avevano sempre tentato di leggere osservando le stelle del firmamento, adesso sarebbe diventato un fenomeno al quale non solo i sacerdoti, gli sciamani, gli scienziati, ma tutto il genere umano poteva azzardarsi a rivolgere un pensiero.
I suoi figli stavano guardando la televisione seduti intorno alla tavola apparecchiata, perché la cronaca in diretta dello sbarco sulla luna era già iniziata. L’odore dei cibi cucinati per la cena si mescolavano all’aria calda che entrava dalle finestre aperte. Dopo aver baciato Emma sulla fronte e arruffato i capelli a Marisa e Matteo, Carlo era andato in bagno per lavare la sensazione di sudore appiccicaticcio che si portava appresso da quando aveva terminato il turno di lavoro. Emma lo raggiunse quasi subito con una canottiera di ricambio e una camicia pulita. Mentre lui la guardava riflessa nello specchio, lei gli sorrise. Rispose facendole occhietto e continuando a fissare l’immagine rifranta di entrambi.
– Dai, … sbrigarti. I ragazzi vogliono vedere la diretta dell’atterraggio sulla luna.
Emma gli posò delicatamente l’asciugamano sulla testa che lui aveva tenuto sotto il rubinetto, provando una sensazione di sollievo.
– Già, … da stasera c’è la luna più vicina… Faccio in un attimo.
– Il motivo del ritardo, visto la domenica sei a casa un po’ prima degli altri giorni?
– … La luna, no!
– Dai, non scherzare.
– Non sto scherzando. Un gruppo di milanesi è arrivato in albergo proprio nel momento che stavo togliendo la divisa, perché prima i signorini hanno preferito passeggiare un po’ per la città, e assistere all’ammaraggio sulla luna in albergo. Perso il treno delle diciassette e venti, di domenica il successivo è alle diciotto e trentadue. Nella carrozza del treno ero solo come un cane. In una stazione deserta –. Carlo sorrise, scuotendo la testa incredulo, sempre guardandosi riflesso allo specchio del bagno. – Nelle strade sembrava uno di quei giorni in cui gioca la nazionale di calcio.
– Perché l’avvenimento oggi è la luna. C’è molta apprensione, se gli succede qualcosa lassù, nessuno li potrà salvare. Alla messa di stamani ne ha parlato anche il parroco, chiedendo ai fedeli una preghiera per gli astronauti.
– Se fossero stati i russi a tentare l’impresa, non avrebbe chiesto nessuna preghiera… Il tuo prete.
– La diretta è appena iniziata. Sbrigati, così la guardiamo insieme ai ragazzi.
– Io e te non ci andremo mai lassù, dio buono -. Carlo si strinse nelle spalle.
– E neanche mi interessa, se vuoi saperlo. Però è bello sapere che qualcuno può farlo.
– Una cosa è certa, da qualche parte devo andare anch’io, perché mi sono rotto i coglioni a fare il facchino d’albergo.
– Dai Carlo, … stasera non farci sentire dei condannati a morte. Del lavoro ne parliamo anche troppo, … tutti i santi giorni.
– Perché? Mi alzo alle quattro di mattina, in quale approccio dovrei pormi, secondo te?
Non le parlò in modo particolarmente tranquillizzante, piuttosto sembrava essersi fatto prendere dalla frenesia per giungere a quelle conclusioni pensate durante il viaggio in treno fatto in solitaria, che intendeva puntualizzare prima si trasformassero in uno dei tanti pensieri che sfioravano appena in superficie la memoria, per farli entrare in quell’oblio dove ogni desiderio si perdeva per sempre.
– Ci ridi sopra, almeno una volta ogni tanto. Così fai felici i ragazzi.
I ragazzi?!… Emma metteva sempre i figli avanti a tutto, lasciandosi condurre in un vincolo di sacrifici che non sembrava avere limite. Anche lui si sacrificava volentieri, pur di vederli crescere felici, ma certo da quando aveva cambiato lavoro per il fallimento della sua ditta, non era così semplice rientrare a casa e ritrovare quel clima familiare fatto di abitudini alle quali non riusciva più a sentirsi partecipe. Erano trascorsi ben sei mesi, ma Carlo ancora non riusciva ad accettare questa nuova condizione di lavoro, ogni volta che ci pensava gli nasceva dentro un senso d’impotenza a colmarlo di una rabbia malinconica. Marisa era stata promossa al secondo anno di ragioneria con dei buoni voti in pagella, Matteo in seconda media, passando a giugno per il rotto della cuffia con un sei regalato a matematica e scienze. Matteo sembrava ancora attratto dai giochi dell’infanzia, mentre invece Marisa stava crescendo sotto tutti gli aspetti, metteva un po’ di seno, il corpo le si affusolava, snelliva nei punti giusti, c’erano tutte le premesse che crescendo diventasse una bella donna. Matteo non capiva il cambiamento avvenuto in sua sorella, oltre che fisico – lo sentiva a pelle – era caratteriale. A volte lei, forse solo per assaporare il piacere di sfidarlo, di fargli pesare i tre anni che li dividevano, gli confidava che finite le superiori si sarebbe trasferita a vivere in città per frequentare l’università, così nessuno l’avrebbe giudicata se si baciava per strada con un ragazzo. Voleva fare la giornalista, visto che era brava in italiano e la sua professoressa la incoraggiava a non demordere. Questo il suo obiettivo. E Matteo la faceva parlare senza neppure provare a interromperla, perché le sembrava molto più nervosa e arrogante di quando si aggregava al suo gruppo di amici; adesso parlava troppo, cadeva spesso in contraddizione, non riusciva mai a finire un ragionamento che ne iniziava un altro. Forse lei non si rendeva conto, ma era impossibile seguirla, in pochi minuti poteva introdurre anche dieci argomenti, e costruirsi per ciascuno una diversa personalità. Sembrava insofferente verso quei limiti della vita di paese che la frenavano in ogni aspirazione. Matteo invece non aveva problemi a immaginarsi il tempo da trascorrere con gli amici, per il momento non chiedeva alla vita niente di più che giocare a calcio, fare a sassaiola con i ragazzi che abitavano nel quartiere delle case popolari costruite in epoca fascista, o con quelli provenienti da altre zone del paese, tutti rivali nella conquista del territorio in aperta campagna, dove andavano in esplorazione. In estate gli piaceva fare il bagno con i ragazzi della “banda dei Lupi”, dove si aggregava al gruppo sempre qualche bambina a cui fare delle avance.
Quando si erano seduti a tavola la diretta era iniziata da poco. Nello studio televisivo allestito per l’occasione, il conduttore spiegava alcuni dati tecnici relativi all’impresa dialogando a distanza con il corrispondente da Houston, dove si trovava il quartier generale della N.A.S.A. L’attesa dello sbarco poteva essere accompagnata solo da parole, mentre a intervalli regolari le telecamere riprendevano la folta platea di ospiti chiamati ad assistere all’evento. Tito Stagno, il giornalista che ogni sera conduceva il telegiornale, era alla sede RAI di Roma, mentre Ruggero Orlando interloquiva dall’America, per il momento lanciando solo aneddoti e pettegolezzi per spezzare l’attesa, corredati da alcuni dati statistici che nessuno capiva.
– Vorrei proprio cambiare lavoro, non ce la faccio più a fare questa vita – disse Carlo bevendo del vino. Non riusciva a togliersi dalla testa il fatto che di domenica pomeriggio aveva camminato per le strade di una città deserta e poi viaggiato nella desolazione di un treno dove si moriva dal caldo. – … Altrimenti troviamo da alloggiare in città. Ci trasferiamo, come già fanno in tanti.
– Dio mio, quanto sei drastico! – disse Emma ridendo.
– Ho poco da scegliere, mi pare.
– Stamani ho incontrato la mia amica Vittoria, che lavora alla fabbrica di confezioni aperta da poco sulla circonvallazione… Hai presente? Lei è nel reparto stiratura, ma pare che stiano cercando delle sarte esperte da assumere in pianta stabile. Così mi ha suggerito di andare a parlare con il proprietario. Tra l’altro credo di conoscerlo, se ho ben capito chi è siamo coetanei, perché abbiamo frequentato il catechismo della cresima e della comunione nello stesso anno.
– Smetterai di lavorare in casa?
– Le poche clienti che mi restano potrei sempre mantenerle lavorando nel tempo libero. Non mi fa paura questa cosa.
– Pensavo di trasferirci in città, perché per me sarebbe più facile mettersi a cercare un’altra occupazione – disse Carlo.
– Non lo metto in dubbio, ma vuoi decidere proprio stasera?
– E quando allora? … Una volta deve essere.
– Prima di lasciare tutto quanto, non è il caso di pensarci su bene?
– Cosa ci lasciamo qui, sai dirmelo?
– Lasceremmo tutto, Carlo… Tutto.
– Non credo che ne sentirei troppo il peso, … credimi.
– Abbiamo la casa di proprietà, che vuoi fare in città, tornare ad affitto?
– La vendiamo, la nostra casa. Come accade a tutti quelli che si trasferiscono per iniziare una nuova vita.
– Tu credi che sia come far schioccare le dita? … Questo è un momento che in tanti se ne stanno andando. Guardati un po’ intorno: c’è una marea di case in vendita.
– Torniamo ad affitto, quando è venduta questa ne compriamo una in città che ci piace. Non mi sta fatica parlarne in questi termini.
Emma aveva messo in tavola il tegame con il pollo alla cacciatora guardando pensierosa verso i figli. Faceva ancora caldo, nonostante tutte le finestre spalancate creassero una leggera ventilazione. Dalla strada non nasceva un rumore, un suono, neanche il semplice brusio della voce di alcune persone intente a parlare, che per essere la sera di una domenica di piena estate sembrava una situazione davvero assurda. Carlo si era tolto la camicia nel timore di ungerla, restando in canottiera. Lei cominciò a distribuire la carne nei piatti insieme ad un contorno di peperonata.
– Me lo immagino, amore mio, con la vita che stai facendo, ma sarebbe importante anche per me, perché se mi prendono alla fabbrica potrei avere davanti un po’ di anni di lavoro con i contributi, e farmi una pensione. Altrimenti, dando per scontato che non muoio prima, quando sono vecchia resterei fregata. Credi che le mie clienti dureranno ancora per molto? Ormai tutte si servono nei negozi di abbigliamento perché non solo è più economico, ma dal momento che è scelto possono indossare l’abito. Le ho contate, ormai faccio affidamento su una trentina di clienti, la maggior parte delle quali viene solo per aggiustare dei vecchi vestiti, non per staccarne di nuovi. Lo vedi anche te, che con quello che guadagno, aiuto poco la ditta – concluse Emma ridendo.
– In sostanza, hai già deciso.
– Sì, domani mattina vado a parlarci. Non è detto che senza appuntamento mi riceva, ma voglio provare lo stesso. La vergogna ormai l’ho vinta da quando mi barcameno con i debiti nei negozi dove faccio la spesa ogni giorno. Ho quasi quarant’anni, e poi i ragazzi stanno crescendo, sanno prendersi cura di se stessi.
– I ragazzi, … si fa tutto per loro.
– Non dovrebbe essere così?
– … Già.
– Quest’anno Marisa è andata molto bene a scuola. Da quello che dicono i professori, si sta impegnando molto. Finite le superiori vuole iscriversi all’università per fare la giornalista.
– Non le basta essere ragioniera?
– No babbo, non mi basta! – si intromise Marisa. – Anche perché ho capito che fare i conti è una vita troppo triste.
– Io allora voglio fare l’astronauta – urlò Matteo ridendo. – L’astronauta, o altrimenti l’archeologo.
– E io fare la regina delle nevi, guarda un po’! – disse Emma scocciata. – Possibile che vuoi sempre intrometterti con i tuoi problemi, quando ci sta parlando tua sorella.
– Mamma, però alla fine sono d’accordo con il babbo sul vivere in città.
– Stai zitta Marisa, … per piacere – Emma alzò il braccio.
– Perché devo tacere? Me lo sai spiegare cosa ci facciamo ancora qui? Il babbo ha ragione.
– Non ci vedo la convenienza a perdere tutti gli amici che mi sono fatto! – disse Matteo indispettito.
– Cosa possiamo farci se sei un cretino!
Emma supplicò entrambi i figli di cessare quel battibecco, guardando Carlo perché le desse manforte.
– Perché devo smettere?
– Bamboccio – disse Marisa, – sei solo un bamboccio viziato.
– Ora basta!!! Non voglio più sentirvi parlare con quel tono di sfida.
– Stiamo discutendo, non è che abbiamo già deciso – disse Carlo. – Se cominciate a litigare voi ragazzi, aggiungiamo confusione alla confusione, il che non ci farà fare una scelta serena. In famiglia ci si confronta come dio comanda.
– Ma babbo – lo interruppe Marisa, – possiamo almeno dire la nostra?
– Parlare sì, ma senza litigi, porca miseria! Altrimenti che ci stanno a fare i genitori? Bisogna giocare di squadra, non è questo che vi abbiamo insegnato?
– Il babbo ha ragione di lamentarsi, lo smarrito è lui, da quando ha chiuso la ditta dove lavorava. Cercate di capire, come non sia semplice cambiare le abitudini, senza che ne hai realmente voglia – disse Emma.
Matteo la fissò intensamente per un attimo, prima di essere assorto dalle immagini di un paesaggio africano che stavano andando in onda alla televisione, nell’attesa dell’atterraggio degli astronauti sulla luna. C’era una pianura sconfinata, dove cinque o sei selvaggi armati di lancia seguivano le tracce di alcune gazzelle, in un sottofondo di musica tribale, ritmata dai tamburi. Solo una breve parentesi di pochi minuti, mandata in onda sulla conversazione tra il conduttore e un famoso antropologo che spiegava la strada percorsa dall’umanità in tutti gli anni che separavano il presente dall’età della pietra, quando la conoscenza del firmamento era piuttosto legata a una forma di magia che tutti rispettavano, ma solo gli sciamani sapevano leggere compiutamente, collegandola ai misteri più oscuri e insondabili della vita.
– Da come si è messa la faccenda, lo capite o no che qui non c’è pane? – Cercò di concludere Carlo, in tono rassegnato.
– E le nostre famiglie? – gli chiese Emma, – di questo non ti preoccupi?
– Sai che goduria! Una sorella quasi pazza, … e un fratello che se tutto va bene si ricorda che ci sono a Natale e a Pasqua. Se non fossi io a cercarlo, saremmo come dei perfetti estranei. Le vicissitudini di Emilia poi, le conoscono anche i muri delle case. Povera donna, mi sono masticato il fegato, per cercare di capire come sia stato possibile arrivare a tanto.
– Pensi di riuscire a dimenticare tutto fuggendo?
– Perché no?
– Non credo funzioni così, con i dispiaceri.
– Ma certo, vivere in città è diverso. Oggi come oggi, appena salgo sul treno, mi prende male a vedere le facce dei paesani. Sono lo specchio della rassegnazione, con quelle espressioni assenti, disilluse, sempre uguali, sempre le stesse. Sarà che non avevo programmato di vivere sui treni una bella fetta della mia vita, per questo ho paura.
– Non ti sto dando torto, chiedo solo di aspettare qualche altro giorno. Tu hai il vizio di affrontare sempre i problemi di petto, ma quando non si aggiustano restiamo sospesi come in un limbo. Non tanto per i ragazzi, su questo hai pienamente ragione: la città offre più opportunità. Ma per la casa, … Dio! … Fa paura anche solo il pensiero di ripartire da zero.
Emma mandò giù un mezzo bicchiere di vino pretto, in una smorfia di sorpreso disgusto prese a sbucciarsi una mela, con calma, senza neanche guardare il piatto dove c’era tutto il suo cibo.
– Ci godi a frenarmi gli entusiasmi, è sempre stato così.
– Carlo, lascia stare… Fammi il favore di non dire certe cazzate.
Gli chiese una delle sue sigarette senza filtro. Non fumando spesso i suoi gesti erano impacciati, così dopo un po’ di tiri le uscì fuori una smorfia e senza indugi la spense nel posacenere che già si trovava sulla tavola.
– Mi domando come puoi mettere in corpo questa robaccia del fumo.
– Non vedi che l’hai ciucciata – disse Carlo ridendo. – E’ per questo che ti fa schifo.
– Marisa, aiutami a sparecchiare, così guardiamo l’ammaraggio della navicella spaziale sulla luna. A sentirli parlare, sembra quasi che ci siamo.
– Sì, mamma.
– Ho capito benissimo ma, per piacere, aspettiamo qualche giorno prima di prendere una decisione risolutiva.
Con la sua voce appesa ad un sospiro, Emma sembrava intenzionata a voler chiudere qui l’argomento del trasferirsi a vivere in città.
– Per adesso torneremmo ad affitto – le disse Carlo, parlando con un tono della voce che non aveva niente di perentorio, quasi come se fosse pentito di avere introdotto un argomento così importante a tavola, davanti ai figli.
– Il futuro è sempre dietro l’angolo, lo sai meglio di chiunque altro. A volte però mi sembri come un ragazzo che prende la vita di punta.
– Non mi sono mai fatto illusioni, invece… Specie dopo la chiusura della fabbrica di borse.
– I tuoi figli dovranno studiare.
– Lo so, che credi? Ci vuole poco a capire che oggi senza un diploma non sei nessuno.
– E tua figlia, anche se poi non farà la giornalista, non vuoi metterla nella condizione di realizzare i suoi sogni?
– Io non dico che deve smettere gli studi finite le superiori, però è una strada lunga.
– Abitare in città è togliersi una soddisfazione, allora?
– Lasciami in pace, Emma.
– Non dovevi neanche parlarne, tutto qui. Almeno stasera. Sei il solito pezzo di somaro, che quando prende la rincorsa va dritto a scapocciarsi contro il muro.
– Perché? … Non bisogna cominciare a guardarci in faccia, tutti quanti! E’ bello, secondo te, vivere di sacrifici e basta?
– No che non è bello, ma non credere di essere il solo a farli. Pensa a tutto quello che faccio per tua sorella; nonostante il lavoro, la famiglia, mi costerà o no questo sacrificio di occuparmi della sua salute mentale?
– Anche Emilia adesso, … tiri fuori.
– Certamente, … o forse sei così egoista che immagini sono una specie di santa?
– Che c’entra?
– … Be’, allora sarebbe diverso. Se fossi una santa avrei altri scopi nella vita, e prima di tutto non mi sarei sposata con te ma con Gesù Cristo.
– Mia sorella non può sempre frenarci, però.
– E lo dici te, … a me… Adesso?
– Heiii! – urlò Matteo – Ci siamo. La navicella sta atterrando sulla luna.
Tutti si voltarono verso lo schermo del televisore, dove gli occhi sgranati del presentatore, da dietro gli occhiali da vista, sembravano meravigliarsi nell’attimo stesso in cui cercava di rendere partecipi gli spettatori. Era seduto, piegato in avanti verso il microfono, in attesa dell’evento. I suoi occhiali ingigantivano in modo spropositato la meraviglia delle pupille dilatate dalla gioiosa sorpresa.
– Ha toccato il suolo lunare!!!
Uno scroscio di applausi confuse per un attimo la sua voce, che subito sembrò riprendersi alzando il tono.
– Iauh!!! – urlò Matteo, imitando l’applauso delle persone ospiti nello studio televisivo.
– Evviva!!! – disse Emma ridendo. – Marisa, non sei contenta?
– Sì, certo.
– … No, non ha toccato – ribadì il corrispondente da Houston, dov’era situato il quartier generale della N. A. S. A.
– Allora, che succede? – Carlo bevve il po’ di vino che restava nel fondo del bicchiere. – Ci stanno prendendo in giro? … Ha toccato terra o no?
Matteo si voltò verso i suoi genitori.
– Secondo Ruggero Orlando da Houston, pare di no.
– Ci stanno prendendo per i fondelli – disse Carlo ridendo. – E non sarebbe nemmeno la prima volta che questi americani ci raccontano delle balle.
– Signore e Signori, sono le ventidue e diciassette in Italia, sono le quindici e diciassette a Houston, sono le quattordici e diciassette a New York … Per la prima volta un veicolo pilotato dall’uomo ha toccato un altro corpo celeste. Questo è il frutto dell’intelligenza, del lavoro, della programmazione scientifica. Questo è il frutto della fede dell’uomo… – Esultò Tito Stagno, dallo Studio Tre di Via Teulada. – A voi, Houston …
– Qui ci pare che manchino ancora dieci metri – ribadì Ruggero Orlando, con una voce incerta, tremolante.
– Ah! – Esclamò il conduttore da Roma, lanciando in avanti le mani e scuotendo la testa.
– Ci fanno venire il mal di capo, altroché. Se continua il battibecco, prendo e vado a letto – disse Carlo.
– No Ruggero… No Ruggero. Se abbiamo capito bene le comunicazioni fino adesso, da due metri e mezzo non si passa a dieci.
– Ecco, ha toccato proprio in questo memento! – Confermò Ruggero Orlando.
Un nuovo scrosciante applauso partito dallo studio aveva finito per coinvolgere tutta la famiglia, contemporaneamente sembravano entrare nella loro casa anche le grida e le voci divertite provenienti dalle altre abitazioni dove si stava guardando la televisione. Le finestre aperte rinviavano gli applausi nello spazio esterno, sotto un cielo ormai nero e pieno di stelle.
– Ha fermato i motori in questo momento. C’è, praticamente, un errore comprensibile, perché era effettivamente atterrato quando io l’ho detto alle ventidue e diciassette precise, ma il motore è stato spento un pochino più tardi. Vi ripetiamo, l’uomo è atterrato sulla luna. A te Orlando, … per i commenti da Houston; … per la reazione da Houston.
– Sai, quella piccola differenza, quei pochi secondi di differenza nell’ammaraggio, … probabilmente era per dare il tempo agli astronauti che avevano toccato il suolo lunare con dei fili che prolungano le gambe, … per sentire se tutto era a posto.
– Allora è fatta – disse Emma ridendo. – Siamo sbarcati sulla luna, sani e salvi. Mi sembra perfino impossibile. Carlo, offrimi un’altra sigaretta.
– Adesso dovranno scendere a fare i primi passi – Carlo le porse la sigaretta già accesa.
– Babbo, prima di uscire dalla navicella spaziale ci vorrà del tempo – disse Matteo.
– Alla fine li vedrò camminare sulla luna in sogno, perché fra poco vado a letto.
– E’ una diretta che prenderà tutta la notte – disse Emma.
– Ecco, appunto, … mentre io sono stanco. Muoio dal sonno.
– Anche noi sai, non ce la facciamo a stare alzati tutta la notte.
– Io sì, mamma, perché voglio seguire tutta la diretta – disse Matteo.
– Immaginavo quale fosse il tuo desiderio, ci farai uno dei temi che hai nei compiti delle vacanze estive?
– Sì, certo.
– Nello studio televisivo c’è euforia, ma chissà per quanto ancora non succederà niente. Marisa, aiutami a lavare i piatti.
Mentre Carlo si coricava, gli altri rimasero in cucina, ma adesso solo Matteo restava incollato alla televisione. Non perdeva una parola di ciò che veniva detto, neanche quando sullo sfondo si sentivano gli astronauti conversare con i tecnici della base spaziale di Houston, in uno scenario di linee curve della superficie lunare che si perdevano nelle profondità dello spazio, ripreso con le telecamere montate sulla navicella.
Dopo aver aiutato la madre, Marisa si era messo il pigiama e spazzava sotto il tavolo dove avevano mangiato.
– Non ti interessa vederli scendere a fare i primi passi sulla luna? – le chiese Matteo.
– Chissà quando avverrà? … Non ho tanta voglia di aspettare.
– Resta a farmi compagnia.
– Non credo proprio!
– Almeno se la mamma va a dormire.
– Quante volte ce le faranno vedere domani, le stesse immagini?
– Ma non sarà mai come viverle in diretta!
– Contento te …
Emma rimase alzata fino alle due di notte, per fare compagnia al figlio che – nonostante la stanchezza palese – non demordeva. Le immagini provenienti dallo studio televisivo restavano per lo più sul primo piano del conduttore che discorreva con varie personalità presenti.
Alle quattro del mattino Matteo si riscosse perché aveva sentito suonare la sveglia nella camera dei suoi genitori. Per restare desto aveva preferito guardare la Tv seduto sulla sedia, piuttosto che spostarsi sul divano, e ora aveva dei fastidiosi dolori al collo e lungo la spina dorsale. Il tempo di distendere le braccia verso l’alto e dondolare la testa con vigore, che apparve suo padre a prepararsi il caffè.
– L’hanno fatta o no, questa benedetta passeggiata?
– Non ancora babbo, ma dovrebbe succedere a momenti.
– Si fanno desiderare. Non è così?
– Già.
– Preparo una fetta di pane e marmellata anche a te?
– Sì, grazie.
– Però appena li hai visti scendere, prendi e vai a letto. Altrimenti ti trascinerai tutto il giorno come un morto vivente.
– Non resti un po’ a farmi compagnia?
– Appena un quarto d’ora, poi c’è il treno che mi aspetta.
– Forse riuscirai a vederli.
Carlo gli passò la fetta di pane, prima di andare in bagno a lavarsi e poi vestirsi. Come al solito, appena sveglio non riusciva a pensare a niente, restava prigioniero di un torpore che lo accompagnava anche nel tratto di strada fino alla stazione, mentre appena si sedeva sul treno si riaffacciava nuovamente il sonno.
– Sono ancora allo stesso punto?
– Sì, babbo.
– Me ne devo andare… Ciao bello, … buona giornata.
– Ciao.
– Ci vediamo stasera.
– … a stasera.
* Il disegno in testa al racconto è di Nilo Australi
quando c’erano gli etruschi
di Angelo Australi
[..] intanto le nuvole gareggiano per il premio di bellezza / e la corsa ad ostacoli sembra più lunga / l’erba mi guarda passare senza lamentarsi. (René Corona dalla poesia Artrosi e dintorni, “I bucaneve dell’altrove”, Book Editore 2023) Racconti-Fiore! Teniamoli buoni per la brutta stagione… (Annamaria Locatelli, commento al racconto un paesaggio di nuvole, uscito su Poliscritture)
Dopo aver preso la camera in albergo era mia intenzione raggiungere le tombe etrusche disseminate in un percorso di campagna lungo sei chilometri. Un strada da fare a piedi, tra gli olivi. Per non girare a vuoto avevo un dépliant con le indicazioni sul tragitto di strade sterrate e tanto di foto dei siti archeologici che mi aveva dato Spartaco. Abbiamo entrambi lo smartphone, ma quando l’altra sera sono andato a cena da lui, ha insistito a darmi questo pieghevole che aveva conservato da anni. Era una di quelle rimpatriate di vecchi amici che usano la scusa di una cena per parlare della vita e non perdere i contatti. Le facciamo con il pretesto di qualcuno di noi che oramai abita altrove e ogni tanto arriva in paese per una visita veloce. In questo caso, non potevo perdermi l’occasione di salutare Massimo e Lorenza, che vivendo a Torino non vedevamo da svariati mesi. In questi ritrovi è come stare in famiglia perché, può sembrare assurdo, ma anche noi che abitiamo nello stesso paese, a volte passano delle intere settimane senza riuscire ad incontrarci. Non lo facciamo per un motivo, solo che ognuno è preso dal correre dietro alle sue rogne quotidiane. Sicché le cene che facciamo sono importanti per mantenere un legame. Nessuno si sognerebbe mai di mancare, stare insieme una volta ogni tanto è il nostro modo di fregare il tempo che passa. Qualche volta è capitato anche a me, di averli ospiti tutti quanti a casa mia, ma da quando ho divorziato mi sento un essere fuori dal mondo. La cosa è fresca, ci siamo lasciati solo da sei mesi, dopo un annetto che l’ultimo dei nostri figli si era fatto la sua famiglia. Abbiamo tre figli, Mauro, Anna e Roberta, e tutti si sono costruiti una vita lavorando in città molto distanti da Oriale. Mauro, il più grande, circa due anni fa si è trasferito a Barcellona per lavorare da medico in ospedale, la sua compagna partorirà ai primi di febbraio del prossimo anno. Quando si è allontanato anche lui, il nostro modo di vivere è cambiato drasticamente, non riuscivamo a trovare più la passione di fare le cose insieme. Un anno e mezzo è poco tempo, ma stranamente dopo trent’anni di vita coniugale ci siamo sentiti un po’ come degli estranei. Io ho sessantatré anni e penso di andare in pensione nel 2023, cioè fra quattro anni, mentre Sandra dovrà lavorarne ancora una decina. Non ci andava più bene niente di quello che facevamo insieme. Ci abbiamo provato a dare una scossa alle nostre abitudini, ma non è successo granché. Alla fine, pur di lasciarle la nostra casa, in via temporanea ho deciso di ristrutturare alla meglio quelle stanze dove hanno abitato i miei genitori negli ultimi anni, prima di morire nell’arco di pochi mesi uno dall’altra. Non ci siamo separati a cuor leggero, per quanto mi riguarda ci sto ancora male. Era una sofferenza anche quando stavamo insieme, ma adesso è molto peggio, sento come se il dolore fosse entrato nelle ossa, a togliermi lo stimolo vitale in tutto quello che faccio. Evito le compagnie, e quando sono al lavoro penso solo al momento che arrivi questo cazzo di pensione. Non ho più voglia di far niente.
L’idea di trascorrere un fine settimana nei luoghi degli etruschi è nata mentre esponevo a Spartaco i problemi che stavo incontrando con il recente divorzio. Tutti sapevano della nostra separazione, ma questa era la prima volta che ne parlavo entrando in confidenza con gli amici. Alla cena era stata invitata anche Sandra, che all’ultimo momento si era inventata un pretesto per non esserci. L’aveva invitata Ambra, la moglie di Spartaco. All’improvviso lui si è messo a parlare di questo borgo della Maremma pieno di attrattive, dove la mia crisi di solitudine affettiva forse avrebbe trovato una tregua. Non ero così fiducioso di superare il senso di costante isolamento in cui mi aveva lasciato la separazione con Sandra facendo un viaggio nel fine settimana, ma comunque, nel suo modo di parlare, c’era un entusiasmo che mi aveva contagiato. Ci ho pensato due giorni, e visto che Sandra non mi usciva dalla testa, allora ho deciso di seguire il suo consiglio. Il mese di novembre non è il periodo migliore per farsi certe scampagnate, ma se Spartaco vuole aiutarti manda questi segnali a volte anche strampalati. In un certo modo è così riservato che non chiede di confessarti, semmai ti lascia sfogare per mezz’ora, e quando trova un appiglio nei tuoi discorsi, prova ad incuriosirti raccontando qualcosa per distrarti dal magone che ti opprime. Oramai lo conosco, la sua non è indifferenza, lo fa per amicizia. Solo che, quando inizia a parlare, Spartaco immagina sempre quello che non c’è, ci mette dentro così tanta roba che non puoi non andargli dietro. Di quello che lui dice magari è vero solo una metà, ma quando lo senti parlare non puoi fare a meno di crederci fino in fondo. Oggi abbiamo i capelli bianchi, ma con lui è sempre stato così, per tutta la vita non ha fatto che ingigantire il mondo cercando di trovare qualcosa di positivo anche nella rabbia che ci mette per vivere. Da quando poi si è messo a scrivere, non ne parliamo: ogni volta che c’è modo di stare insieme un po’ di tempo, si ha l’impressione di fare il giro del mondo anche se parla solo di cosa ha immaginato esistesse nelle quattro strade del nostro paese. Magari lì per lì non comprendi dove ti sta portando, ci ripensi sempre un po’ di tempo dopo, quando sei per i fatti tuoi.
Di questa uscita del fine settimana lo avevo accennato telefonando ad una delle figlie, che mi ha subito smontato ogni entusiasmo dicendo fosse una fesseria. In novembre si va per musei in città, le giornate si sono accorciate, e in questi paesi spersi nel nulla si muore di noia. Non le ho dato ascolto, anche perché mica ci tenevo così tanto a stare tra la folla.
La camera sembrava arredata con i modelli che andavano di moda negli anni settanta dell’altro secolo. A cominciare dai mobili per finire al letto, tutto aveva qualcosa di familiare con il tempo che ero stato bambino, qualcosa di cui anche i miei genitori si erano velocemente liberati appena fatti un po’ di soldi lavorando in fabbrica. Un vero disastro, il letto cigolava, in bagno non avevi lo spazio neanche per farsi il bidè in modo decente. Della doccia ricavata in un sottoscala poi non ne parliamo, era tutta un’invenzione che lasciava disgustati. Non c’era uno specchio, nell’impagliatura di una delle sedie ristagnava uno spesso strato di polvere oramai calcificata. Avevo aperto la finestra nonostante il freddo, ma persisteva sempre un forte odore di chiuso. Non lo so, era come se si fosse incrostato sulle pareti. Tanto per restare in tema con il motivo della vacanza, mi sentivo come un tombarolo che entra in una tomba dove nessuno ci ha fatto visita da quando degli etruschi l’avevano sigillata con un masso. Ero in preda allo sconforto, ma il borgo ad alberghi non offriva altro. Imbecille io a venirci di novembre, per visitare un luogo di cui Spartaco mi aveva così tanto parlato senza un accenno alle cose pratiche. Magari lui riesce ad immaginarle e te le vende per vere, ma a livello di ospitalità, con l’albergo si cominciava proprio male. In quel disastro stentavo a percepire qualcosa di bello. Però c’era il dono che dalla finestra il paesaggio sembrava entrare direttamente in quella stanza, la sua ampiezza conquistava lo sguardo con una sicurezza che al mattino quasi squagliava la luce riflessa del sole. La visione sulla pianura si prolungava fino alla città, e intorno c’erano quei monti vestiti dal bosco che bruscamente si slanciavano dal livello pianeggiante fino a trovare sulla cima un borgo come questo a fargli da cappuccio. E poi, sullo sfondo, ma proprio in forma infinitesimale, si scorgeva un angolo di mare che bisognava fissare intensamente per non confonderlo con la nebbia novembrina che si alzava sulla striscia della pineta.
Se restavo in quella camera ancora per molto, mi avrebbe assalito un bagaglio di tristezza incontenibile. Sicché ho messo la borsa da viaggio nell’armadio e sono uscito. Alle dieci del mattino ero già in strada, perché avevo voglia di un caffè. Sono incappato nell’unico bar esistente quasi per caso, seguendo dei cartelli che indicavano la direzione da prendere per uscire dall’abitato e raggiungere la zona delle tombe etrusche. In quel punto della strada le case formano un arco buio per almeno un trenta metri, creando quell’oscurità che persiste in ogni momento della giornata. Dietro a quella porta ad arco che ricordava l’ingresso di una grotta scavato nella viva roccia, non c’era niente che indicasse l’esistenza di un luogo di ristoro. Magari un’insegna. Niente. Non c’era nulla. Era un buco fognoso, che ci si faceva luce a malapena con il pensiero. Mi ero voltato a guardare solo perché da lì usciva della musica ad un volume così alto da risvegliare i morti. Era una canzone degli Inti-Illimani, un gruppo musicale che andava tanto di moda al tempo del golpe di Pinochet in Cile.
Così mi sono incuriosito e ho deciso di entrare in quello spaccio di generi alimentari che era anche edicola e bar tabacchi. Sulla parete del locale dove alcune sedie sparpagliate facevano da contorno ad un paio di tavolini rotondi, stavano appese una moltitudine di vecchie fotografie scattate agli abitanti del borgo. Immagini con gruppi di persone, messe in posa in occasione di qualche ricorrenza, ma anche contadini sull’aia nel giorno della battitura del grano, scorci del paese, botteghe di artigiani, gruppi di minatori che stazionavano accanto ai carrelli da trasporto del materiale di scavo in miniera. La parete opposta ospitava le scaffalature dei generi alimentari. Nella controfacciata dell’ingresso, proprio come in una chiesa, invece era appesa la bandiera rossa con la celebre immagine del “Che”, affiancata a una grande foto che lo ritraeva insieme a Fidel Castro.
Stavo sorseggiando un caffè così lungo che mi sembrava alluvionato, quando un uomo si è avvicinato al banco per ordinare una sambuca che ha ingoiato d’un fiato, dopo di ché si è messo a parlare e a fare battute con la barista, cercando di catturare anche la mia attenzione. Nel frattempo entrava una signora bionda, bella prosperosa, che ha lasciato dei soldi sul banco ordinando una sambuca per se, una per l’uomo che parlava con la barista, e offrendola anche ad un vecchietto seduto ad uno dei tavoli, tutto intento a leggere il giornale. Ha bevuto anche lei ridendo ed entrando in conversazione con le altre persone presenti nel locale, perché a quel punto anche il vecchietto che stava leggendo il quotidiano si è alzato per avvicinarsi al bancone con un gesto vagamente teatrale. Per trovarsi a quel grado di eccitazione nel parlare, avevo l’impressione che di quei gottini un po’ tutti si fossero già impegnati a berne una certa quantità. Anche la donna bionda, pur nascondendosi dietro degli occhiali da sole, secondo me era ubriaca. O ubriaca o pazza. O tutte e due le cose insieme. Uscendo ha lasciato pagati dei bicchieri di vino per alcuni uomini che stavano conversando sotto l’arco, poco distanti dal bar.
Uscita la bionda è entrata un’altra donna sorreggendo un vassoio con delle gigantesche fette di torta alle mele che pretendeva di offrire a tutti i presenti, me compreso. Ho cercato di spiegarle che avevo appena bevuto il caffè, ma lei ha insistito così tanto che, se non avessi accettato, mi sarei sentito una merda. Così ho mangiato la massiccia fetta di torta. A fatica, perché il mattone non andava giù, ma l’ho mangiata.
– Che hai messo nella torta di mele, Celestina? La polverina che fa rizzare l’uccello a tuo marito? – Ha detto l’anziano entrato nel locale subito dietro di me.
– C’ho messo la grullaggine di quando sei ubriaco.
– Lasciamelo dire, sei proprio una maga, quando ci fai assaggiare i tuoi dolci con la polverina.
– E te, quando bevi al mattino, sei il solito bischero – ha risposto lei, ridendo in modo scoglionato.
– Dov’è Ettore?
– All’orto, … sta zappettando le erbacce tra le piante dei carciofi.
– L’ha assaggiata, questa bella tortina di mele?
– Più tardi ne porterò una fetta anche a lui. Puoi stare tranquillo, non lo trascuro il tuo amicone.
– E fai bene Celestina, quell’omino lo devi trattare di lusso. Se lo merita, dopo quello che ha faticato nella vita.
– Giancarlo, ti saluto.
– Stammi bene – ha detto l’uomo.
Prima di uscire dal bar anche quella donna di nome Celestina ha lasciato i soldi sul tavolo per delle bevute che offriva ai presenti.
– Ci scusi, sa – mi ha detto la barista ridendo, – ma se in paese non ci fossero questi quattro o cinque matti, non sapremmo come fare a vivere. Bevono, ma sono divertenti, non hanno addosso il cattivo e se bisticciano lo fanno senza tenersi rancore. Fino a pochi anni fa eravamo quasi seicento abitanti, oggi appena duecento, e meno male che ci sono loro.
– Tanti vecchi, e pochi bambini – ha detto un altro che si era aggregato alla discussione.
– I bambini si contano nelle due mani.
Non ha parlato Giancarlo, ma ancora qualcuno che stava alle mie spalle.
– No – ha precisato la barista, – sono un po’ di più. Per esempio l’altro giorno Alessandra ha partorito una bella bambina di tre chili e mezzo.
– Sì, ma siamo lì… Dieci, dodici… Gemma, quello che voglio dire è che non fa nessuna differenza.
Così ho anche scoperto che la barista si chiamava Gemma. Nome azzeccatissimo, perché i suoi capelli brillavano con la lucentezza di un diamante.
All’improvviso si sono messi un po’ tutti a fare dei conti sui bambini del borgo, e intanto sfruttavano l’occasione di bere quanto offerto dalla due donne appena uscite. Finito con le bevute a gratis, il resto lo pagavano di tasca propria. Per non perdere il conto, ad ogni bicchiere lasciavano il dovuto sul banco.
– Durante l’estate, i bambini diventano un centinaio. Con la gente che viene in villeggiatura, il borgo si popola.
– Me lo sapete dire cosa gli conviene a dei giovani metter su famiglia in questo budello di paese? Fare uno, due, magari tre figli?
– Già, è così.
– Io ai miei, non gli ho mai rinfacciato che se ne sono andati per avvicinarsi al posto dove lavorano.
– Per frequentare la scuola, i bambini prendono il pullman del Comune ogni mattina.
– Si fanno delle levatacce che neanche quando si lavorava nei campi, ci si alzava così presto.
– O in miniera.
– Esatto, o in miniera.
– Poveri bambini. Ci vuole una bella costanza.
– Ti metti a compatirli?
– Nient’affatto!!!
– Se dovesse compatirli si berrebbe una damigiana di vino – ha urlato la barista facendo un sorriso.
– Ma qui sembra tutto fermo al tempo degli etruschi! – L’ho fissata negli occhi, nella speranza di capirci qualcosa.
– Magari! – Mi ha risposto mentre strofinava un panno sul piano del bancone. – Almeno quando c’erano gli etruschi, questa era una metropoli.
– Quando a Roma si viveva ancora in capanne fatte di fango – ha precisato il vecchietto che prima leggeva il giornale, – in questa nostra città si campava da nababbi.
– Te avresti comunque lavorato la terra, però.
– E questo che vuole significare?
– Puoi bere quanto ti pare – gli ha detto la barista scuotendo la testa, – ma non devi metterti in testa idee sbagliate.
– Non puoi capire, sei venuta a viverci da fuori, ma io le scuole le ho fatte qui.
– Fino alla quinta elementare – ha precisato Giancarlo, gesticolando con le mani come un direttore d’orchestra.
– Esatto, fino alla quinta elementare. Ma mi è bastato, per vivere.
– Anche a me è bastato, per lavorare come un ciuco.
– C’erano tutte le classi. La prima, la seconda, la terza. La quarta e la quinta.
– Tutti mescolati, bambine e bambini.
– Come no! È così vero che a quell’età, in classe ci si trovava anche moglie.
– Io no, ho sposato una francese – ha detto Giancarlo ridendo, come se in quel punto volesse esprimere uno sfondone.
– Si, … la francese che si chiama Samuela Paciocchi, stava in classe con me.
Ha ribattuto uno dei nuovi arrivati, mentre gli stava dando una pacca sulla spalla. Giancarlo si è voltato.
– Lo sai, davvero, che non lo ricordavo. Sicché come millesimo sei del ’42?
– Come la tua bellissima moglie francese.
– Sei più giovane di appena un anno, eppure rispetto a me sembri già da assistenza senile.
– Tieh!!!
– Vede bene che non posso avere problemi a riempire le giornate?
La barista mi ha guardato, mentre la mano che scivolava sul bancone richiamava con lo straccio chissà quale magica danza.
– Penso di capire.
– Non sono cattivi, fanno solo ridere. Così tengono compagnia. Ubriachi da finire qualche volta a dormire per strada, se uno la moglie non viene a prenderselo, ma non è mai successo che andassero in escandescenze. Con questa desolazione, in paese ce ne sono altri che bevono. Però lo fanno di nascosto… Forse perché si vergognano. La solitudine fa fare dei brutti scherzi al cervello.
Le ho risposto che riuscivo ad immaginarle, certe situazioni dove non si sa come impiegare il tempo.
– È in pensione?
– Ne ho ancora per qualche annetto, da lavorare.
– Anche a mio marito, manca poco più di un anno. E quando lui andrà in pensione, … ho intenzione di chiudere bottega. Tutta questa gente qui non vuole ma, cascasse il mondo, giuro che lo faccio.
Intanto Giancarlo continuava la sua conversazione.
– In estate però ci cambia la vita.
– Te la vedi così, ma io tutta quella confusione la sopporto il giusto – gli ha rimproverato un anziano.
– Solo perché hai il carattere tenebroso, che non ti va mai bene niente.
– Mi va bene tutto quanto invece, ma io il chiasso non lo sopporto.
– Quando eri giovane avevi il coraggio di rompere i coglioni anche al padre eterno.
– Non è vero!
– È vero, sì. Porca paletta!
– No, che non è vero.
– Non te lo ricordi eh, il casino che facevi. Fiutavi la femmina come fanno i cani.
Quello che si chiamava Giancarlo, rideva e si guardava intorno burlescamente per conquistare l’attenzione del gruppo.
Alcuni gli sono andati dietro rispondendo in coro: – Sì, come no!
– Ora lasciami parlare, ci sono tanti modi di fare le cose… E comunque i turisti fanno troppa confusione.
– Che fai la sera, ti infili nel letto quando i polli vanno a dormire?
– No, che c’entra!
– Se il paese in estate si popola, fa bene alle tasche di tutti quanti. Trovare dei vantaggi non è un peccato. Lo fanno in tutto il mondo.
– Ohé, gente…, oggi pomeriggio chiudo la baracca alle sei… Sicché fate i vostri conti.
– Dove vai di bello, Gemma?
– Siamo a cena da mio figlio.
– Vai in città allora?
– Sì, è il compleanno del nostro nipotino.
– E così chiudi prima, … per farti bella.
– Lo sai, io sono sempre stata bella, …
– Lo sappiamo che sei una bellezza. Siamo tutti innamorati di te.
– Giancarlo, sei un tesoro. In un’altra vita ti ricoprirò di baci.
Gli ha ricordato la barista urlando sopra la musica, quando la salutavo uscendo dal locale.
Le indicazioni per raggiungere le tombe etrusche consigliavano di passare nelle vicinanze di una chiesetta con il tetto a capanna, dove all’interno era segnalato un affresco di scuola senese del XIV secolo che, essendo chiusa, non ho potuto visitare. Sul lato sinistro, guardando alla facciata, si alzano le mura ciclopiche che delimitavano l’antica città etrusca, un susseguirsi di immensi macigni squadrati dal peso di qualche tonnellata che si alzano fino a dove ci si appoggia la costruzione di una rocca medioevale. Guardando invece a destra della facciata della chiesa, si aprono le colline minerarie che descrive anche Luciano Bianciardi nei suoi libri. Mi sono seduto sul parapetto in pietra, con sotto una serie di tetti che spiovendo scendevano ripidamente su tre ordini. Ogni tanto guardavo le pietre, e ogni tanto mi perdevo con lo sguardo verso le colline metallifere così ricche di vegetazione.
Di ritorno dal giro alle tombe, stanco morto mi sono seduto in una panchina che si trovava nel parcheggio antistante il museo. Non so, saranno state al massimo le tre del pomeriggio. Il museo era aperto, ma ho preferito sedermi su quella panchina, prima di entrare. Poco dopo, proprio dove stavo seduto a controllare dei messaggi sullo smartphone, ha parcheggiato un’auto in retromarcia, dalla quale sono sbucate le gambe di un uomo che si è messo a mangiare un panino. Stava con lo sportello aperto, la testa in fuori, allineata con la punta della scarpe, probabilmente per non far cadere le briciole nell’auto. Poi si è avvicinato allo sportello posteriore, ha appoggiato sul tettuccio il panino rinvoltato nel suo incartamento e, alzando il piano che nasconde la ruota di scorta, ha estratto una bottiglia dell’acqua minerale colma di vino che si è messo a bere. Nonostante la panchina quasi sfiorasse il marciapiede, dietro l’auto lui si stava comportando come se non ci fosse nessuno.
Ero stanco morto. Nel fare il giro delle tombe etrusche, anda e rianda avevo fatto ben più di dieci chilometri. Mi sono stravaccato un po’ sulla panchina. Se anche non pisolavo, con quel tipo che girava a sbevucchiare intorno all’auto, prima di visitare il museo mi sarei riposato un po’.
Intanto l’uomo ogni due morsi al panino usciva di macchina, apriva lo sportello posteriore a tracannava un bel sorso di vino. Festa grande: una vacanza di novembre, vissuta in compagnia degli ubriachi. Mi è venuto di pensare.
Ho cercato di dormire ma non ci riuscivo, perché la panchina era maledettamente scomoda. Così sono entrato a visitare il museo.
Anche se il museo era pieno di reperti, quelli importanti stavano collocati in quello della città, dove ci sono più visitatori. Di tutto ciò che avevo visto, quando sono uscito mi restava nella mente un elmo da guerriero ben conservato e un’urna cineraria di terracotta, fatta a forma di capanna.
Proprio nei pressi dell’albergo c’era una piazzetta panoramica. Al muricciolo che si affacciava sulla pianura sottostante, da dove giunge il profumo di salsedine anche nel mese di novembre, ho intravisto Giancarlo, che mi ha subito riconosciuto. Stava seduto sul muretto insieme a qualche conoscente. Nessuno di questi era tra quelli incontrati al bar di mattina. Allora mi sono avvicinato, per poterci parlare.
– E’ stato a visitare le tombe?
– Sì, ho fatto anche una bella faticata – gli ho risposto ridendo.
– In collina funziona così, è tutto un saliscendi. Però deve visitare anche l’acropoli, per capire quanto era grande la nostra città quando ci vivevano gli etruschi.
– Lo farò domani, in mattinata.
– Ci sono dei punti che le mura della città sono costruite con massi grandi come una casa, che forse sono riusciti a trasportarli solo con una specie di magia.
– Ne ho già ammirato un tratto, vicino alla chiesetta. In fondo al paese.
– Ma quello non è niente, rispetto alle muraglie nascoste dal bosco.
Nel parlarmi le parole gli si impastavano in bocca, ma aveva gli occhi che ancora ridevano come al mattino.
– Dove sono i suoi amici di stamani?
– Non lo saprei dire.
– Forse al bar?
– Mah! … Il bar è una tappa del nostro girare intorno al paese. Si gira e rigira, come dei bambocci, specialmente in questa stagione che non c’è niente da fare nemmeno all’orto.
– E i bambini del paese, quanti sono allora?
– Con Gemma siamo arrivati a dire che sono quindici.
– Se aumentano con il passare delle ore, domani ne spunteranno altri – gli ho risposto ammiccando. – Bambini che sbocciano come i fiori. Le sembra poco?
– Mezzo brillo come sono sempre, dovrei essere io a vederli raddoppiati, ma mi sa che non funziona così. Di coppie giovani che possono fare dei figli al paese ne restano poche. Lei ha dei nipotini?
– Non ancora. Ma se tutto va come dovrebbe, a febbraio del prossimo anno sarò nonno di una bella bambina.
– Io ne ho due, che non vivono in paese.
– Pensa un po’, mio figlio e la sua compagna abitano a Barcellona. Fa il medico in un prestigioso ospedale della città.
– Boia! Mica è qui, … dietro l’angolo.
– Sì, in effetti, non è che ci possiamo incontrare molto spesso. Però, mi creda, il mondo è piccolo lo stesso.
– Mia figlia per fortuna vive nella città che si vede in fondo alla valle. Se non si fanno vivi, dopo quindici giorni prendo l’auto e li raggiungo a casa sua. Sono io che ci tengo, … e, alla fine, anche mia moglie mi perseguita per andare a trovarli.
– I bambini mettono voglia di fare.
– Con l’auto arriviamo in mezz’ora.
– Lo so dov’è la città, per venire qui ci sono passato.
Non gli ho detto che ero divorziato, ma che senz’altro, quando nasceva la bambina di Marco e Caterina, sarei andato a conoscerla insieme a Sandra. Poi l’ho salutato dandogli appuntamento al bar per il giorno dopo, dove avremmo fatto colazione insieme. Con quel fare colazione insieme, era sottinteso che gli avrei offerto da bere. In fondo Giancarlo mi restava simpatico.
Andato giù il sole faceva buio molto in fretta e il freddo umido era diventato all’improvviso più pungente. Rientrando in albergo poi ho trovato il coraggio per farmi una doccia calda in quello sgabuzzino di bagno che mi era concesso.
Sono uscito di nuovo per cenare in un ristorante immerso tra gli olivi. Qui è venuto a preparare il tavolo l’ometto del pomeriggio. Sì, quello del vino tenuto nel portabagagli della sua auto che, quando prendeva la bottiglia dal nascondiglio, sembrava considerare la sostanza di un tesoro stratosferico. Era il proprietario, oramai ubriaco fradicio, che a questo punto ho immaginato bevesse di nascosto ai suoi familiari. Mentre apparecchiava e prendeva le ordinazioni ha detto che non ero una faccia nuova. Era serio, quando mi parlava. Di un serio quasi diffidente.
– E’ già stato qui, … a mangiare da noi?
– No, questa è la prima volta.
Ho ordinato una sorta di minestrone tipico della tradizione etrusca che oltre alle verdure dell’orto aveva in aggiunta delle erbe di campo tra cui il timo, la cicoria selvatica e la nipitella. Per secondo, invece mi sono mangiato uno stufato di manzo cotto con funghi e fagioli. Da quella fetta di torta alle mele che mi era stata offerta la mattina nel bar, in tutto il giorno non avevo mangiato nient’altro, e dopo una giornata all’aria aperta adesso sentivo un grande appetito, sicché, per finire in bellezza, come dessert ho preso anche una bella porzione di zuppa inglese. Poi ho chiesto il conto.
– Pagamento in contanti o con il bancomat?
– In contanti, … in contanti.
– Eppure lei non è una faccia nuova. L’ho vista da qualche parte, ma non ricordo dove. Forse in Tv?
– No, per carità – gli ho risposto scuotendo la testa. – Semmai per le strade del paese, visto che è da stamani che lo sto percorrendo in lungo e in largo.
– No, in paese no. Sono rimasto tutto il giorno qui, intorno al mio ristorante. Però la sua faccia non mi è nuova, ne sono certo.
Non dicendo dove mi avesse incrociato ho voluto essere discreto, per non metterlo in difficoltà. Lui ormai aveva gli occhi rossi e le pupille deconcentrate, e camminava a passi piccoli e lenti, tanto che temevo inciampasse nei suoi piedi da un momento all’altro. Qualcosa di simile doveva provare anche sua moglie, o la figlia, che ogni tanto si affacciavano con imbarazzo dalla cucina per assicurarsi non combinasse un guaio.
Quando mi sono incamminato verso l’albergo per andare a dormire, ho incrociato solo un gatto che attraversava la strada per finire a rimpiattarsi sotto un’auto del parcheggio. Di fianco ad una fonte che buttava appena un pisciolo d’acqua, c’era un tabernacolo con dentro la riproduzione incorniciata di una famosa natività del Ghirlandaio. L’immagine, esposta alle intemperie, era molto danneggiata. Sopra la fonte un’antica lapide di marmo portava incisa la scritta FONTE LATTAIA, e una data in numeri romani: MDCCXXXV. A quell’ora la luna ritagliava una striscia di luce dietro la fila di case che era più forte di quella di un lampione seminascosto tra gli alberi.
BREVE NOTA: il racconto è stato ispirato da Lo Sceriffo di Daniele Barni. Un racconto anch’esso pubblicato su Poliscritture, a settembre di quest’anno. Nella foto è riprodotto un tratto di mura ciclopiche dell’antica città etrusca di Vetulonia, ma in verità, per quanto riguarda l’ambientazione, il borgo è l’insieme di tanti piccoli paesi reali della Maremma visitati spesso nel corso degli anni, che nella manipolazione della scrittura ne fanno una località immaginaria. Perché a nessuno venga il desiderio di cercarci un paese reale dove tutti si ubriacano, ho preferito non dargli un nome.
novembre 2023