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Riordinadiario 26 dicembre 1977

Trascrizione da dattiloscritto. Pre-narratorio.

SEMINARIO ARCIVESCOVILE DI SALERNO

accettai la medicina/ da mani amiche/ nauseante clausura/ ho fotografato ad anni di distanza e d’esperienza/ con tremito di breve sconfitta/ la mia prigione di una settimana nel tiepido autunno del 1951/ con quanta imperizia/ da bambino/ palpai frastornato le immagini del mondo che mi  era stato assegnato/ mi avviarono oscuri filosofi/ parenti sfuggiti alla guerra/(non potevano morire/ senza gravarci del viscido ossequio/ ai gestori dell’angoscia)/ non bastarono le immagini campagnole raccolte da fanciullo/ (non fummo  primitivi)/ me le avevano già spazzate via/ a 12 anni ero stato ripulito/ purificato/ come un impiccato di Villon/ cavia volontaria di gioie cattoliche da dopoguerra/ poche/ speranze neppure una/ scampato poi/ in esilio/ scampato per ribellione viscerale/ marchiato comunque/ ribelle comunque/ ah, la vergogna di camminare nella fila dei seminaristi/ teste già rasate/ l’orrore delle pulci nel letto/ la prepotenza del capo sala/ l’esempio inimitabile del fuggitivo riacciuffato/ il cibo scarso/ la solitudine/ peccati?/ e che peccati?/ l’indisponibilità al gioco/ lo sfottò negli sguardi della gente/ dipendenza da inconsapevoli torturatori/ angoscia pesantissima/ inesprimibile/ l’invidia addirittura di una persona conosciuta intravista nella strada/ compagno di sventura/ si chiamava Tisi Aldo/ nessuna concezione alternativa/ manco un comunista allora/ Salerno: manicomio clericale/ contro il capitalismo?/ ma se eravamo ignari leccaculi di un deputato democristiano e del prete?/ ci salvò il risveglio sessuale/ si ribellò il corpo/ l’intelligenza non poteva/ la voglia di amicizia/ la claustrofobia/ poche le fanciulle/ punti di appoggio per liberarsi ed esprimersi: quelli/ visto che anche fuori dal seminario le amicizie erano quelle/ le strade quelle/ aggirarsi sentendosi come traditori/ fra quegli stessi preti e stesse bigotte/ non aver soddisfatto la loro attesa/ e restavano potenti/ avevano centri d’organizzazione e autorità/
da dove venivo?/ veniamo da dove/ compagni? da questo marcio/ marcio visibile per voi/ addosso/ dentro/ sotto la pelle/ per noi del Sud/ anni dovranno passare/ studi amicizie letture ribellioni impercettibili/ per prendere le distanze/ poter fotografare/ ancora quasi tremante/ quella prigione e non  reliquia/ quel seminario arcivescovile/ mentre la DC perdeva voti/ diminuivano le vocazioni/ su Epoca conoscevamo le prime illustrazioni degli impressionisti/ imparavamo a cercare nei libri segni di mondi più respirabili/ altro che conoscenza libresca!/ per noi i libri erano un lusso/ al loro posto incontravamo gente/  assorbivano un po’ i nostri spurghi d’angoscia/ i nostri amori fiacchi/ carte assorbenti/ gente gente gente/  ma conosciuta in esilio/ e quanti altri  vi restarono in quel seminario e furono preti?/ per un pezzo scartato/ quanti riusciti?/ e uno scarto resta sempre uno scarto/ porta il segno di un progetto   nel suo corpo/  ma fallito/ e non basta l’invettiva/ contro i filosofi oscuri del dopoguerra che  ci trasmisero il fardello/ il linguaggio di angoscia e di morte/  riusciti nell’impresa/ traspare ancora nel nostro linguaggio “nuovo”/ permanenza/  accanto alla scommessa disperata nel futuro/ la rende meno pericolosa/ virile e contenuta accettazione?/evita puerilità nelle rivolte?/ ora che siamo scampati anche ad un seminario rosso?/ appena in tempo e non senza danni?/ carte ancora scompaginate/ l’osservatorio che sembrava tanto in alto/ da permettere una visione unitaria del passato/ appare troppo in basso/ancora soltanto ai piedi della montagna/ ci si deve rimettere in cammino/ nuovo esilio/ vederci ancora ragazzi/ proletari/ vittime/ perché il cattolicesimo riguarda i proletari/ le vittime/ la parte più sguarnita dei nostri/ e non basta

Nota

Sede del Museo Diocesano di Salerno, l’antico Seminario Arcivescovile (adibito prima a sede della Scuola Medica Salernitana) sorto a ridosso della cattedrale, fu fondato dall’arcivescovo Gaspare Cervantes in ottemperanza ad una disposizione del Concilio di Trento (1543 -1563), al quale aveva preso parte, che ordinava ad ogni Diocesi di istituire un collegio nel quale formare i giovani decisi ad avviarsi alla vita sacerdotale. L’edificio venne, quindi, ampliato dal suo successore, Antonio I Colonna, nel 1570 e successivamente ancora rimaneggiato. Nel 1731, sotto l’Arcivescovo di Capua, la struttura venne completamente ricostruita e collegata alla Cattedrale con una scala ed infine assunse una fisionomia rigorosamente neoclassica nel 1832, quando l’arcivescovo Lupoli fece sopraelevare il secondo piano e trasformò l’intera facciata principale. Con l’Arcivescovo Mons. Marino Paglia (1835-1857), che avviò lavori di rinnovo (costruzione dell’altare in marmo nella cappella; rifacimento dello scalone; realizzazione dei grandi finestroni in ferro dei corridoi di affaccio delle camerate; affreschi con figure di santi e sapienti nell’atrio) la fama raggiunta dal Seminario di Salerno, quale luogo di erudizione scientifica e letteraria, fu tale da farlo ritenere uno dei migliori istituti del Regno. Per questo motivo fu visitato da Giacomo Leopardi nel 1836, da Papa Pio IX e dal Re di Napoli Ferdinando II nel 1849. Il terremoto del 23 novembre del 1980 causò notevoli danni alle strutture dell’edificio, tanto da rendere necessario, dopo oltre quattro secoli, il completo e definitivo trasferimento dei seminaristi in un complesso di recente costruzione.

© 2021 MiC – Ultimo aggiornamento 2020-05-21 14:53:25 (da qui)

Il merlo del Perù

di Rita Simonitto

Giorni addietro, senza che facessi nulla per riattivare questa memoria (o forse un contesto particolare me ne aveva fornito gli stimoli) mi sorpresi a canticchiare una filastrocca dal testo un po’ bizzarro. Ricordo che la cantava mia madre. Forse si trovava in uno di quei momenti in cui una specie di bonaccia inframezzava tempeste virulente di ordine sia familiare che di disagio sociale. E, come in un film, accompagnate da questa ‘colonna sonora’, scorrevano immagini provenienti da un mio passato infantile sovraccarico di emozioni contrastanti: disperazioni rabbiose ed ebbrezze magiche.

Ed ecco un cestino di vimini color acqua marina che usavo per portare la merenda alle elementari e che, come un contenitore fatato, volevo sempre con me. E allora capitava che, in certe particolari occasioni me lo tenessi ancora più stretto. E così, sedute su un prato primaverile, mia madre ed io, mentre io lo riempivo di pratoline lei, rammendando qualche cosa, cantava: “C’era una volta un merlo, il merlo del Perù. Era senza saperlo un modello di virtù. Un giorno il merlo disse purtroppo sono solo, almen se prendo moglie, la notte mi consolo. Allodola mia bella tu sei una mia sembiante, allodola mia bella sarai la mia amante”. E senza dubbio le strofe continuavano, ma per quanto mi sia sforzata di recuperare quel seguito, il tentativo è andato a vuoto.

Piuttosto ricordo che anni dopo, ormai ben più grandicella, casualmente riconobbi l’aria su cui si poggiava quella filastrocca. Aveva a che fare con il Fra’ Diavolo: “Quell’uom dal fiero aspetto, guardate sul cammino/lo stocco ed il moschetto/ha sempre a lui vicin./ Guardate un fiocco rosso/ei porta sul cappello/e di velluto indosso/ricchissimo mantel.//Tremate!/Fin dal sentiero del tuono/dall’eco viene il suono/”Diavolo, Diavolo, Diavolo.” La musica era proprio quella!

Che avevano da condividere questi due mondi completamente diversi? Mah!

Se ripenso ad allora, quella canzoncina mi arrivava disinvestita di particolare attenzione, impegnata com’ero a raccogliere margheritine per farne braccialetti da portare alla maestra elementare (una suora, suor Enrica, che spesso intercalava i discorsi con il suo “vabbene vabbene ggià ggià”). Eppure credo che, inconsciamente, mi si infiltrassero domande su come immaginarmi questo merlo del Perù, così speciale da essere un “modello di virtù”, dato che i merli che capitavano sotto il mio sguardo, pur apprezzati per i loro gorgheggi, non mi sembravano niente di che. Certamente c’era il becco di un arancione singolare che spiccava come una lama sul lustro piumaggio nero. Oppure gli occhietti mobilissimi bistrati di giallo. Ma non finiva lì. Se mi sforzo di ricordare, quell’alone di mistero si confrontava con altre esperienze singolari legate alle rare passeggiate nei campi assieme a mio padre, il quale si reggeva a stento sulle gambe quando tornava emaciato dai permessi temporanei che gli venivano concessi da un qualche sanatorio. Poi lui sembrava rivitalizzarsi, eccitandosi quando incocciavamo in un nido di merlo nascosto in una rosta. E allora gli prendeva una specie di frenesia, dovevamo subito allontanarci per evitare che la mamma merla, insospettita dalla nostra presenza, abbandonasse la cova. E doveva strattonarmi via dal mio desiderio di prendere in mano uno di quegli ovetti screziati, misteriosi perché dentro c’era una vita. E mi sgomentava la sua collera quando mi opponevo: “Così li uccidi, così li farai morire tutti!”. Passare per assassina non era certo il massimo così mi mettevo a piangere. Ma oggi mi chiedo, in quei suoi scoppi d’ira a quali assassini faceva riferimento? Chi potevano essere stati per lui i veri turbatori di nidi?

Poi la calma tornava e mi raccontava dei diversi periodi di cova, quando la merla passa, proprio per proteggere le sue uova, dal collocare il nido tra gli anfratti del terreno, perché gli alberi sono ancora spogli, alle nidificazioni successive ad altezze sempre superiori per essere protette dalla vegetazione. E mi parlava del merlo, il suo compagno, che stava di vedetta e vigilava, quando mamma merla si allontanava per cercare cibo: e se c’era un pericolo mandava un richiamo particolare. Ero affascinata da queste storie al punto tale che avrei voluto provocarle: sentire com’era fatto lo zirlo del merlo in presenza del pericolo, ma mi bloccava il timore di produrre delle catastrofi a causa della mia irrispettosa curiosità.

Ciò nonostante, percorrendo le frammentarie strade dell’inconscio, il merlo del Perù continuava ad alimentare i misteri e io non osavo porre domande anche perché, in quella sua nenia, sembrava che mia madre fosse persa in qualche suo sogno, mentre io, dall’altra parte, pur presa dalla mia attività di confezionatrice di monili floreali, non riuscivo a distogliermi da quella presenza enigmatica che lei rappresentava… Forse che lei da qualche parte aveva visto il merlo del Perù? Era forse lei quell’allodola che cantava con voce così armoniosa e…

O invece quel canto, come per magia, aveva il potere di far sparire la miseria nera del dopoguerra, le tragedie familiari di mariti-soldati tornati feriti non solo nel corpo ma anche nello spirito… pensava a questo mia madre mentre con sua figlia piccola accanto a sé cantava e chissà sognava un mondo di armonia nella natura o, tutt’al più, il vendicatore degli oppressi, Fra’ Diavolo? E perché il merlo del Perù si sentiva solo: era incomprensibile, a maggior ragione essendo lui un modello di virtù. Perché, perché, perché… Ma la stagione dei perché era finita da un bel pezzo. Non ininfluente il fatto che mio padre mi diceva: “invece di domandare sempre in modo così precipitoso, osserva, ascolta!” Ovviamente attitudini che lui non metteva in pratica!

E avrei voluto chiedergli che cosa si potesse fare poi con le osservazioni e con gli ascolti, ma ormai era già partito per altri ricoveri ospedalieri!

Ma come mai oggi mi tormenta non soltanto questa filastrocca ma il fatto di non ricordarne il seguito? Che cosa rispose l’allodola?

Forse perché la giornata di oggi è uggiosa di fuori e anche di dentro. O forse l’aver letto la statistica drammatica dell’entità crescente dei suicidi tra ragazzi mi ha sconvolto fin ogni dire. Uno su sette, si legge. In aggiunta, il drammatico quadro di nascite ridotte… e poi di quei figli che pur sono arrivati e che però abbandonano la partita mi scava dentro una ferita. Che sta succedendo? O che cosa può succedere quando non c’è un’idea di futuro? E nessun accompagnamento verso il futuro?

Una certa vulgata punta il dito accusatore sulla pandemia, sul come è stata gestita, i lock down limitativi … ma non credo che si tratti solo di questo. Perché tutto questo ha rappresentato l’emergente, la punta dell’iceberg… sotto c’era la parte nascosta che, non vedendosi, permetteva a tutti di continuare a ballare spensierati, come avvenne sul Titanic, fino all’ultimo secondo. Quello che non si vede (o non si vuole vedere) è come se ‘non ci fosse’. E ci si accorgerà della sua presenza solo quando il tragico impatto sarà avvenuto!

Ecco il ronzio del cellulare, un mio collega, ciao, ciao Guido, come va?

I soliti ‘rompighiaccio’ di prammatica. E’ da un po’ che non lo sento. Da quando si è trasferito di Regione. Ha immaginato che tornando là dove era cresciuto e aveva vissuto per molti anni sarebbe stato più in contatto con il territorio, con le sue peculiarità, “sai, nel nostro lavoro, anche questo è importante! Come parlare con la nostra lingua madre”.

Ne convengo. Anche se pure la lingua dei padri ha il suo peso, non solo psicoanaliticamente parlando, ma anche sotto l’aspetto della trasmissione dei valori. Si tratta solo di salvare nidi? O non anche di riconoscere ciò che diceva J. W. Goethe: “Ciò che avete ereditato dai vostri padri, guadagnatevelo, in modo da poterlo possedere”? Ma non ho voglia di parlarne con Guido adesso. La ‘dissonanza cognitiva’ (L. Festinger) oggi imperante, mi inibisce anche il più sano desiderio di confronto. So già che lotterò ad armi impari.

“Sei un po’ moscia, ti è successo qualche cosa?”

“No, no. Non mi è successo niente”.

Eppure qualche cosa si è mossa dentro di me. Ma non so come articolarla, come mettere assieme frammenti di passato ed una realtà che, violenta, fa irruzione in un quotidiano che sembra sonnecchiare, o, tutt’al più, avere rigurgiti di operatività, “dobbiamo fare qualche cosa”, “faremo così e così”. Ma sempre a valle e mai a monte. Mai un pensiero a monte. E allora l’esperienza storica (sì, anche quella personale) a che cosa ci serve?

Nel mio piccolo privato, come faccio a far stare assieme (ammesso che ci stiano assieme) e poi a comunicarlo, il “merlo del Perù” – con tutto l’apparato fantastico/storico che l’accompagna – con la crudezza apparentemente insensata di un suicidio giovanile? Non lo so. Forse sto, come si suol dire, partendo per la tangente? Forse, si!

Così il dialogo con Guido prosegue senza scarti emotivo/cognitivi di rilievo al di là della sua interessante idea di propormi per un tavolo di lavoro che coinvolga, trasversalmente, sociologi, psicologi e amministratori sanitari per la gestione della situazione pandemica (e, si auspica, post pandemica).

Nel mentre parlo, camminando su e giù per la stanza con il cellulare in mano, mi sorprendo a fermarmi ad una finestra che di fronte contempla un gelso, ormai vetusto, il quale, in modo surreale, sembra protendere i suoi nodosi rami, ormai depauperati dalle foglie, contro i vetri, verso di me: è una scena lugubremente minacciosa, tant’è che mi ritraggo spaventata da quegli artigli …

“Ehi, Giovanna, che c’è? Giovanna, Giovanna!” grida Guido.

“No. No. Non è niente. Solo il passato che ritorna”, gli rispondo, criptica.

Chiudiamo la conversazione che cerchiamo di stemperare con qualche battuta di spirito sulle odierne vicende politiche (la pensiamo diversamente ma ciò non ci impedisce di confrontarci, prendendo ciò che possiamo prendere e senza ostilità. Forse fa da base un antico affetto che ci lega). Solo che mi sovrasta l’immagine di quei rami di gelso, quelle scheletriche braccia che prepotentemente vogliono entrare nella stanza e mi sento tremendamente sola.

“Ah, Guido… Ascolta! Ma no, no. Ciao!”

E che? Gli avrei cantato le strofe del merlo del Perù? Magari ci avrebbe fatto su una sghignazzata. Soprattutto al passaggio “Un giorno il merlo disse, purtroppo sono solo, almen se prendo moglie la notte mi consolo”.

La grassa risata del mio amico che dilaga e contagia i presenti! Nello stesso tempo avrei voluto uscire dalla filastrocca e chiedergli: “Si consolerebbe davvero con la sua ‘sembiante’? Con quella che lui desidera come suo ‘simile’? Ma quale similitudine? Nel canto, forse? Tutti d’amore e d’accordo? Ma se tutti sono d’accordo, non c’è conflitto, non c’è evoluzione! E poi le sue merle, o la ‘sua’ merla?”. Voleva una avventura diversa? Già. Quanti veloci pensieri si sbattono impazziti nella mente…

E poi mia madre, la mia dolce madre, così fragile e indifesa, ragionevolmente stufa dei disagi all’interno di una coppia segnata dalle disastrose conseguenze di una guerra, forse avrebbe voluto per sé un amante, con cui cantare le stesse canzoni, vivere all’unisono in tutto e per tutto? Due cuori e una capanna?

E io? Che posto avrei avuto io in quel sogno così avviluppante, che li avrebbe stretti, avvolgendoli, su e su, di gorgheggio in gorgheggio fino a divenire due puntini nella vastità del cielo?

E dunque, io? Frutto invece dell’incontro importante tra due diversità… allora non ci sarei stata? E bla, e bla e bla.

Ma non avrei potuto parlargli di queste cose: “ah, ah, ah, ih, ih, ih” – la sua multiforme ridariola (tradotto in un più colto fou-rire, sfrenato) – “dai, Giovanna. Non stare ad arzigogolare! Concentrati sui problemi! Quelli ‘veri’, ‘minchiolina mia!’ (perché mi chiami ‘minchiolina’ non l’ho mai capito, né lui me l’ha mai saputo spiegare).

No, certo. So che non gli parlerò di questo, abbiamo tante altre cose su cui confrontarci. Non me la prendo, sicuramente! Ma percepisco un limite nel confronto, limite verso il quale sono (un po’, ma solo un po’) attrezzata. Oltretutto posso attingere ad altre risorse, la fantasia non mi manca. Pensarla diversamente rispetto ad un pensiero ‘unificato’ ovviamente mi dispiace ma non mi sconquassa.

Ma un giovane di oggi? Che cosa può fare se deve confrontarsi con un massiccio modello uniformante? Che fa? Chi trova a sostenerlo? Si omologa? Entra in guerra? E con chi? Con se stesso perché si sente inadeguato? Diventerà lui il suo nemico da abbattere? E il suo corpo diventerà il suo campo di battaglia? Vincitori o vinti? No, non voglio continuare da sola con queste domande che ho già tentato di proporre ma con scarso o nullo successo.

Fuori è salito un vento turbinoso e freddo: mai vista una stagione così stranita, anche le tartarughe che dovrebbero apprestarsi al letargo sembrano disorientate da questi sbalzi di clima, dovremo tenerle d’occhio perché non possiamo metterle nel terrario per il loro sonno semestrale né troppo precocemente né troppo tardi.

Tutto sembra drammaticamente sovvertito! Sovvertito? Sì. Ma non perché c’è stata una legittima ‘rivoluzione copernicana’, in cui si condensano studi, sperimentazioni, ecc. ecc. No. E’ solo… no, non lo posso dire e quindi mi taccio!

I rami del gelso graffiano contro i vetri, spinti da quella forza rovinosa contro la quale non fanno resistenza. Sembra essere nella loro natura assecondarla.

Io, no.

Chiuderò gli scuri!

Conegliano 15.10.2021

Due racconti “attuali”

di Rita Simonitto

Assieme a “La Signora” (qui) questi due racconti formano un trittico. Si tratta, come dice l’autrice, di ” tre sfaccettature diverse – attraverso tre ‘personificazioni’ – nel tentativo di dare una rappresentazione plastica di quello che ci sta accadendo”. [E. A.]

Unicuique suum

Se fosse stato uno scrittore esordiente il suo incipit sarebbe stato: “si svegliò madido di sudore”. Ma non era un esordiente e nemmeno scrittore.

Ciò nonostante quello che gli stava capitando era inquietante, oltre i limiti della rappresentazione. Come si fa a raccontare che aveva l’impressione che era il suo corpo che si stava liquefacendo e che quel liquido pian piano si stava allargando sul lenzuolo sudaticcio e caldo?

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Diario d’ospedale 1977

Tabea Nineo, Occhio infranto, 1977

Riordinadiario

Con qualche esitazione per i rischi di narcisismo che potrebbero esserci in queste pagine, pubblico il pezzo del mio Riordinadiario riferito ad alcuni mesi cruciali di un anno, che – sia sul piano personale che politico ha segnato un taglio traumatico delle speranze di maturità inseguite nel decennio precedente. Il corpo che s’ammala è – che coincidenza! – il mio e quello sociale e politico della “nuova sinistra”, nella quale mi ero fino ad allora riconosciuto. Le note registrano il brancolamento di un io estratto di colpo dalla vita quotidiana, non certo facile ma in apparenza più rassicurante di quella ospedalizzata. Contro la minaccia di cecità da intendere sia sul piano fisico e materiale, sia su quello politico e sociale (in entrambi i casi i segnali sembrano non poter più arrivare come prima) ma forse anche – ahi, Saramago! – su quello simbolico, l’io riconosce la sua fragilità e tenta di reagire come può. [E. A.]

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Appunti politici (3): “Comunismo” di F. Fortini


COMMENTO A “COMUNISMO” DI FRANCO FORTINI (1-5) 
articolo apparso su “Cuore”, supplemento de “L’Unità”, 16 gennaio 1989 )

di Ennio Abate

Uno scambio improvvisato tra me e Alberto Rizzi su “Poliscritture FB” mi ha indotto a tentare questo commento a un vecchio testo di F. Fortini. (Per intero in Appendice). Può sembrare uno scritto “vecchio” o “superato”. Non mi pare, anche se lo si confronta coi risultati (per me criticabili ma senza lo spocchioso dileggio usato da alcuni commentatori) della «CONFERENZA DI ROMA SUL COMUNISMO – 18/22 gennaio 2017». Ho diviso il testo fortiniano (qui in maiuscolo) in vari punti, aggiungendo per ciascuno mie veloci considerazioni. Qui pubblico i primi cinque punti. [E. A.] Continua la lettura di Appunti politici (3): “Comunismo” di F. Fortini

Da “L’occasione della poesia”

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di Giuseppe Panella

 

*Per tutta la vita cerchiamo di dimenticare:
i sogni, i desideri, il dolore, il fallimento,
gli amori marciti nell’attesa della morte,
le aspirazioni mancate e mai risolte
nel momento in cui trovano una svolta Continua la lettura di Da “L’occasione della poesia”