Nella mente gracidano rane,
donne di tempi lontani
cacciate dal percorso seguito
in cerca della Divina cui
dedicare tutta la mia vita.
Non la trovo, tracimo di sollievo
per questa fortuna d’eccezione.
Una rana, la più perfida
mi contraddice e turba
la mia ferma convinzione.
Non questa o quella donna
illumina la tua anima e
ne cancella ogni ombra.
E’ l’amore, empito ignoto
che ti conduce in cielo;
e tu voli senza ali né fatica.
Tutto è chiaro intorno a te,
non c’è limite né orizzonte.
All’improvviso pur nel nulla
sbatti contro l’invisibile;
che cos’è non lo capisci,
ma è la fine del tuo volo.
Sotto di te riappare la Terra
e il gracidare delle maledette
scuote di nuovo il tuo udito.
Sii realista: vivi in basso,
non fantasticare l’ignoto.
1 febbraio 1935 – 1 febbraio 2022. Sembra quasi un compleanno festeggiato con il suono di parole che fa 87. Ma in questa Fantastica in esercizio spunta anche Silvia Plath, e senza entrare nei luoghi comuni della sua malattia e del suo suicidio, perché è una grande poetessa che si regge anche senza l’appiglio di puntelli romantici, caro Filippo ti rispondo proprio con un suo verso: Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua (dalla poesia Il Colosso, trad. A. Ravano). E, visto che ci siamo, anche con la testimonianza della povera Franchetta Borrelli, estratta dal verbale del processo nel quale fu accusata di stregoneria insieme ad una dozzina di altre donne di Triora, un paesino arroccato sui monti di Imperia: Io stringo i denti e poi diranno che rido. Nel 1587-1588 fu sottoposta per un intero giorno alla tortura del “Cavalletto”. In fondo la poesia non è sempre un po’ stregona? [Angelo Australi]Continua la lettura di Una carezza di sonno→
Tra il 2008 e il 2009 nel Laboratorio Moltinpoesia i partecipanti si assegnarono il compito di spiegare perché scrivessero poesie. Io ne facevo parte e composi il testo che si può leggere di seguito. Il suo intento didascalico è evidente.
Scrivo poesie perché
un giorno d’autunno del Sessanta tre
comprai un quadernone e
sul frontespizio scrissi “Canzoniere”
(sottotitolo: “storia di un’anima”).
Facile indovinare chi imitavo.
Il problema è che l’anima dovevo
inventarmela e quella che pensavo
di avere era tutta recitata e letteraria:
Omero, Quasimodo, Garcia Lorca,
Ungaretti, Baudelaire, Pavese…
Oh, quante voci dentro la mia voce!
In certi momenti ho avuto paura
di confezionarmi un destino da suicida
come Noschese, se non sbaglio, o altri
imitatori che soffrono
di non sapere chi sono.
Rileggendo ciò che andavo scrivendo,
capivo che sulla pagina si depositava
un altro Donato – per chi crede alle stelle
sono nato sotto il segno dei Gemelli -,
un Donato che manifestava una certa
inclinazione alla teatralità,
alla finzione, all’operetta: cantavo
giovanette che mi conquistavano,
m’infliggevo sofferenze amorose,
piangevo le morti improvvise
di uomini illustri del paese,
la disperazione di madri che si ritrovavano
figli spenti tra le braccia. Insomma, amore
e morte e caterve di sciagure.
“Gioire è cercare il dolore” recita un verso
paradossale del quadernone.
In ciò che andavo poetando c’era
qualcosa di vero e sincero. Ma tanti
esercizi, anche appassionati, somigliavano
molto ai giochi simbolici dei bimbi.
Ad una certa età la spalliera della sedia
può farsi davvero volante di una macchina
e il bastone diventare un cavallo
col quale attraversare praterie sconfinate
e combattere battaglie cruente.
Un po’ dunque mi scoprivo l’inclinazione
dell’attore, un po’ quella del bambino
che sogna ad occhi aperti.
Ma l’attore dispone di una grande
riserva di personaggi da rifare:
Achille, Romeo, Otello, Amleto…
Il mio personaggio, invece, dovevo
costruirmelo come Geppetto
il suo burattino. Anche i miei sogni
ad occhi aperti non potevano
concludersi alla stregua di un bambino
che, di solito, si stanca e cambia gioco.
Dovevano produrre conquiste
reali, avanzamenti.
Dovevo sentire che le parole
davvero penetrassero nel cuore
di una donna e la inducessero
ad abbracciarmi,
a regalarmi un bacio.
Se amava la mia poesia,
se diceva che era bellissima,
un po’ non poteva non amare
anche il suo autore.
Come se, cantando gli occhi ridentie fuggitivi di una certa Silvia,
prima o poi la Silvia vivente
si facesse avanti a ringraziarmi
per l’omaggio e a propormi
suggestivi accoppiamenti.
Quando scrivevo il Canzoniere
era questo il mio problema più urgente,
in preda sicuramente ad accumuli
straordinari di ormoni. Non sognavo
l’immortalità ma più modestamente
cercavo di mettere le mani addosso
a una fanciulla per inebriarmi del profumo
dei limoni. «Belli questi versi!...»
«Bellissimi!...» «Grazie…»”
Da qui, da questa calda ammirazione,
a venire a letto con me scorreva
un Rubicone tempestoso
e spesso non navigabile.
Nessun dado è tratto.
Avrei dovuto saperlo:
se con la poesia cerchi amore,
dieci volte su dieci, vai in bianco.
Ecco cosa dovetti capire
a mie spese. Sbagliavo, m’illudevo,
deducevo male.
Amore è potere. Sedurre l’altro,
soggiogarlo. Scrivevo per piantare
una quercia nei cuori. Forse perché,
avendomi interdetto prestissimo
il suo seno (era incinta di mio fratello),
mia madre mi costrinse a cercare
sostituti senza trovarne mai
di completamente soddisfacenti.
Scrivi poesie per un Edipo
mal risolto, direbbe uno psicanalista,
perché anche dopo un accoppiamento
nel corpo vola alta l’inquietudine,
la ricerca, la tensione.
Belli e reali i seni succhiati
ma sempre un po’ lontani
da quelli ideali sognati.
Amore è vivere come un rimbambito
appeso al moto delle ciglia
di uno sguardo. Fare festa alle visioni,
alle apparizioni dell’amata. Conservare
accuratamente la foto in qualche libro
o nel portafoglio, stare dietro al profumo
viola di una maglia, inseguire desideri
assurdi del tipo: ascoltare la stessa
musica, leggere lo stesso romanzo,
pensare gli stessi pensieri, gioire
delle stesse gioie, viaggiare
negli stessi luoghi, dormire
nello stesso letto e coire,
coire…È il “sogno d’amore”.
Le donne lo conoscono meglio
degli uomini e io, a mia volta,
scrivendo poesie, imparavo
a conoscere la parte affidatami.
So ancora ora mostrare
entusiasmo vero per chi mi punta
e mi tiene sulla linea di fuoco
dello sguardo. Ma è l’entusiasmo
di un attore, di una recita
così ben fatta da sembrare
naturale. Sono un egoista allora?
Uno che non sa amare?
No!... Semplicemente lo faccio
in modo obliquo, per interposte
parole. Come se tra me e le labbra
da baciare ci fosse in mezzo
un vetro immaginario.
Ho la coscienza dell’attore,
a differenza di chi bacia
e pensa di porgermi in diretta
le sue labbra, mentre sta solo
eseguendo uno spartito.
A fare l’amore si sa
nel letto si è spesso più di due.
Tutte queste complicazioni
ovviamente le capivo solo
scrivendo e soltanto scrivendo
continuavo a cercarmi
e a conquistarmi. Capivo, ad esempio,
che ognuno di noi finisce
per abitare i pensieri che formula,
anche quando spuntano come nuvole
provenienti non si sa da dove.
Difficile che i pensieri si sciolgano
come neve al sole. A maggior
ragione i versi. Così mi porto
dietro da decenni quel “gioire
è cercare il dolore” senza sapere
da quali zone del corpo è saltato fuori.
(In quel periodo leggevo Baudelaire).
Ecco perché scrivo poesie. Per continuare
a scoprirmi.
Per questo tipo
di scrittura mi sono dato la regola
di andare fino in fondo. Anche se,
avendo scoperto che divento un po’
ciò che scrivo – è il noto “effetto Pigmalione” –
sto attento a profezie che accelerano
la morte già intenta a scavare
nel mio corpo. Sfuggire alla tragedia
è impossibile. Accelerarla, non mi pare
il caso. Per questo, quando scoprii
che scrivendo poesie sulle malattie
di mia madre, mi educavo alla sua assenza
e inconsapevolmente ne preparavo
la morte, smisi subito di verseggiare.
Poetai a lungo, invece, la condizione
di un’amica affetta da un male inesorabile
che di lì a poco l’avrebbe resa invisibile.
Volevo portare con me la sua voce,
il suo sguardo sul mondo. Volevo
che non si perdessero le sue parole,
che ne restasse memoria.
Ecco un'altra ragione del mio scrivere.
Inseguire persone, eventi,
mondi che si perdono e sprofondano
in abissi di silenzio. Non dimenticarne
colori, atmosfere, sapori, allegrie,
dolori. Non dimenticare me stesso,
combattere il morbo d’Alzheimer
che quotidianamente ci affligge.
Poesia e identità, poesia e amore,
poesia e profezia, poesia e memoria,
poesia e verità…Tutte coppie
per ottime occasioni seminariali,
tutti sentieri che mi pare
d’avere attraversato.
Ora, però,
scrivo poesie per altro. Oltre al già
detto, sempre attivo nei neuroni,
ora scrivo “per la gloria della lingua”,
come dicevano i padri. Successo
o non successo, la poesia non mi
eviterà la morte. La lingua, invece,
è la rosa di rossetto che rinnovo,
l’atmosfera, il palco su cui provo
e riprovo le parole. Ora le sento colorate
dai toni della mia voce, le frasi
raccontano la mia storia, i versi
non temono la prosa del mondo.
La lingua della poesia è la mia donna,
quella amata più a lungo,
la matria che mi sottrasse
il seno.
15 gennaio 2009
Questo testo nasce da un’intensa corrispondenza intrattenuta con l’amico Adelelmo Ruggieri nella primavera del 2005. Da qui alcuni passaggi colloquiali e allusioni a precedenti comunicazioni.La comprensione, però, è assolutamente possibile e non compromessa. Vista la lunghezza devo soltanto fare appello alla pazienza di chi legge. Del resto, i temi in discussione hanno a che vedere col senso della morte, della vita, della poesia, dell’arte, ecc. Insomma, questioni tutt’altro che secondarie.
Dopo quelle pubblicate qui altre poesie di Valentina Casadei, le cui attività si possono seguire al link del suo nome. [E. A.]
Voglio andare ad Ovest e vedere le balene
Nei rifugi delle trote
Poi ad Est, nella foresta
Con il gelo dei baccelli
Nell’antico silenzio dei boschetti rigogliosi
Le stagioni si susseguono
Sfioriscono i miei guai
E la primavera infinita del mio seme
Diventa parola di figlio
Pensiero di madre sconfitta
Nella terra battuta dalla mano
Nel caldo di quell’aridità gialla
Che macchia la terra di seti pluviali
Nell’ancestrale bisogno di ventre e carezza
Sulla recente raccolta pubblicata da Giorgio Mannacio ricordo anche le riflessioni mie (qui) e quelle di Ezio Partesana (qui). [E. A.]
SIPARIO
Di notizie e di sabbia è rosso il cielo:
è il deserto che arriva in questa
vigilia disarmata
che veglia si può chiamare.
Non fanno alcun rumore le derive dei continenti .
Ha senso rinominare
l’origine, il percorso ed il destino
della rosa dei venti
se falso è il fiore?
Ne spira uno soltanto,
uno soltanto è il punto cardinale
d’ogni furore
e d’ogni indifferenza
e a spegnere la candela un soffio basta.
La vita di un ragno prigioniero di una soffittatura è tetra. Non offre molti svaghi, egregio Caronte. La gioia più grande, per me, era quando si accendeva la luce, di sotto. Già, la luce, quella filtrava tenue attraverso le stecche della soffittatura. Insieme a lei passavano spesso, attraverso le fessure, i cari insetti che mi davano da vivere: zanzare, moscerini, farfalline notturne. Cibo per il mio stomaco non mancava. Ma era la luce che nutriva la mia anima intristita dal buio, opprimente come quello che domina qui, nel regno dei trapassati. La mattina mi arrivava una luce bianca, come la voce della donna che si aggirava nella stanza. Ma era l’irrompere della luce gialla, di sera, a segnare il momento speciale della mia giornata. Più o meno al secondo scoccare delle dieci, infatti, sentivo ogni volta rumori, uno sbattere di porte, un calpestio di passi e la voce acuta di un bambino che strillava e rideva, e quella di un adulto che discorreva con lui: «Su andiamo a letto, che il papà ti legge la storia di Ulisse!». «Sì, Ulisse e le sirene, papà!».
Non finivano mai quelle scale? E quando si sarebbe concluso quell’incubo che forse non aveva mai avuto un inizio, ma che tuttavia esibiva ai suoi piedi un tappeto per meglio guidarla verso il suo abisso? Quanto più saliva, tanto più vi sprofondava, stregata soltanto da quel braccio teso che sporgeva a darle il benvenuto e che già si rigava di lacrime; e intanto queste scivolavano dolenti lungo la ringhiera, scrostandola, e attraverso il suo guanto Dimitra le sentì urlare in silenzio. Continua la lettura di Lo sposo sinistro→
Pettinatela bene
la barese del mare,
che lei ci teneva
ai suoi capelli ricci
di permanente,
ricci e rossi, il suo ultimo
perpetuo colore: rosso
come il suo dolce forte
cuore.