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Parole e realtà. Un po’ più addentro nella poetica di Ann Cotten

di Elena Grammann

Nel primo incontro con questa scrittrice di lingua tedesca ma di origine americana (qui) ho accennato all’uso particolare della lingua, quasi cosa scollegata e autonoma dalla realtà, che porta i recensori a parlare, non a torto, di “gioco”. Il che non vuol dire che non sia un’occupazione seria. A questo proposito mi ha fatto piacere incontrare, e ho letto con molto interesse, l’estratto dal libro di Nilo Australi e Roberto Capozucca La Regola e il Caso – Storia visuale del Gioco dell’Oca, recentemente pubblicato su Poliscritture (qui), che attraverso un’accurata galleria di fonti e riflessioni mette bene in luce l’interesse per l’aspetto ludico dell’arte (arti figurative, ma anche letteratura) quale è emerso con le avanguardie all’inizio del secolo scorso e lo ha attraversato tutto. E quale, con poetesse come Ann Cotten, Monika Rincke e altri/e, continua anche nel nostro a produrre risultati interessanti. Nell’articolo linkato presentavo, nella mia traduzione, quattro poesie tratte dalla prima raccolta di Cotten, Fremdwörterbuchsonette, uscita nel 2007[1] e tuttora inedita in Italia. Vorrei ora citare le ultime strofe di un’altra composizione della stessa raccolta. Il doppio sonetto 47 Contenuto, teleologico, il cui tema è il contenuto dell’opera letteraria (poesia, ma non solo), chiude così:

Da dove ti trovi devi riferire,
dal punto di inversione ciò che hai scorto
nelle fughe che andando oltre enumeri
concretamente dai singhiozzi, un’eco dei tuoi passi.

Da ogni cosa astrarre la genetica,
giocarci, scindere e nuovamente combinare – 
scordati la riproduzione, ma genera poesie.
E non spingerle avanti come un gregge
di bestie marine; portale sul cuore, senti alle tempie
pensare il loro polso. E nelle pupille immagina
la scatola nera che, dietro, governa,
si toglie. Ogni cosa è nettamente più concreta
di quanto tu possa mai sentire; ma come balene,
le parole da sé sovranamente si dirigono.

Sul filo del testo osserviamo:

  • il contenuto dell’opera deve riferire ciò che si scorge dal punto in cui si è (giunti); ciò che si scorge voltandosi indietro e contemplando le fughe di fatti, di oggetti, di eventi fra cui, procedendo, siamo passati e che possiamo enumerare con precisione a partire dai singhiozzi, cioè – interpreto – dal coinvolgimento esistenziale; che non significa però sentimentalità, a nessun livello (nei versi precedenti: “Ciò che ti detta la Sehnsucht sono scemenze”).
  • delle cose che si sono attraversate bisogna “astrarre la genetica”: i mattoncini di cui sono fatte senza che normalmente se ne abbia coscienza; e ricombinarli, produrre collegamenti inediti che contengano conoscenza nuova e siano il contenuto. Un contenuto diverso dalle “professioni di fede in punta di labbra” e dalle chiacchiere con cui ci lasciamo convincere e convinciamo a nostra volta. Non riprodursi (nelle strofe precedenti compaiono carrozzine “che incrociano come balene”), ma generare poesie.
  • le quali poesie non devono essere “spinte avanti come bestie marine” – come esseri pigri e mostruosi, esterni e estranei, che si lasciano pilotare; ma portate come si porta un feto di cui si avverte la vita, interna e al contempo autonoma, distinta dalla propria.
  • Tutto è molto più concreto di quanto si possa percepire. Impossibile arrivare alla percezione diretta e completa dei contesti e delle combinazioni – che pure esistono in modo indipendente da noi (sono concreti); la nostra via per raggiungerli sono le parole. Ed è una buona via, non è una via illusoria. Ma bisogna tener presente che le parole non si lasciano “spingere avanti come bestie marine”, bensì, “come balene, / […] da sé sovranamente si dirigono.” È plausibile che, portando le poesie come in una gestazione, si avverta nelle pupille la presenza di una scatola nera che non è la nostra.

Il punto sembra essere il rapporto fra realtà e lingua: se la realtà sia percepibile/raggiungibile anche al di fuori della lingua o se, per noi almeno, essa non esista che sempre già “tradotta” in lingua[2]. Nel saggio Etwas mehr. Über die Prämissen und dem Sinn von dem, was wir mit Wörtern anzustellen imstande sind [Qualcosa in più. Sulle premesse e il senso di ciò che siamo in grado di combinare con le parole], pubblicato lo stesso anno della sua opera prima Fremdwörterbuchsonette, Ann Cotten parla a un certo punto della “lirica di constatazione” (Konstatierungslyrik), detta anche lirica degli stati d’animo (Befindlichkeitslyrik); ma Cotten preferisce parlare di lirica di constatazione perché il termine sottolinea meglio l’atteggiamento descrittorio: la poesia rappresenta, servendosi della diffusissima figura della metafora, una situazione esterna alla lingua:

“La lirica di constatazione (Konstatierungslyrik) ha anche un altro tratto […]. Ciò che la caratterizza in modo evidente è un delicato cogliere il mondo, un tenero, possibilmente preciso, cauto nominare, citare e schizzare. La stanza è spruzzata di polvere – stagione di caccia mormori – è il declino dell’estate rafferma – tu ti appunti la treccia – e pensi alla saggezza. Wow. Si potrebbe dire apodittico; decisivo è che, quanto al senso o contenuto della poesia, si tratta di un’etichetta che si mette, qualcosa che si è osservato e proiettato senza inquisire, qualcosa di venerato, di extralinguistico, di materialmente sensoriale. Scemo come ogni innamoramento. In sé non è un difetto, solo che manca l’elemento decisivo. La precisione è sempre buona e sempre da perseguire, ma non è l’unico parametro – non è sufficiente come poetica e non basta per garantire rilevanza a un testo. Come, viceversa, può mancare qualcosa anche quando ci si limita con eccessiva sicurezza a un puro gioco interno alla lingua, come se le parole non si riferissero a nulla o non fossero maneggiate da nessuno e non potessero avere alcun effetto al di fuori della loro sfera. È necessario che ci sia, come irritazione e provocazione, la sfida dell’extralinguistico anche solo come postulato o ipotesi di lavoro, proprio come d’altro canto, senza gioco linguistico, pur con tutti i mezzi resta del tutto impensabile riuscire a cogliere qualcosa che vada oltre o sia più acuto di ciò che confluisce nelle frasi distratte e un po’ bugiarde di casa nel quotidiano. Vorrei quindi porre enfaticamente nel nostro spazio, in senso metafisico ma talvolta anche solo come istanza che richiede cibo, il gatto del realismo[3] (e lui protesta miagolando offeso).”

 L’idea è dunque, dice Karl Katschthaler in un saggio[4] dedicato alla poetessa,

"di unire ciò che è apparentemente lontano, cioè l’extralinguistico e la lingua. […] Nella prefazione al suo Hauptwerk[5] – questo il titolo della raccolta - […] Ann Cotten formula così la quadratura del cerchio che è al centro della sua poetica: «Qualcosa che abbia valore generale può essere soltanto un proposito produttivo: descrivere con parole vecchie nuove esperienze, che non so cosa siano esattamente. Il tutto perciò parecchio imperfetto, come i primi passi di un puledro.»"

Recupero dunque del “gatto del realismo” – della realtà extralinguistica, o quantomeno della sua sfida – attraverso un esercizio produttivo, consapevolmente imperfetto della lingua. Ora che abbiamo pagato pegno alla teoria, propongo di vedere come questa intenzione si traduca nella scrittura. Ho scelto un racconto breve dalla silloge Der schaudernde Fächer (2013) [Il ventaglio che freme] che proporrò integralmente.

Falso gelsomino

Da qualche parte nel nord dell’Inghilterra ci sono un paio di bassotti inselvatichiti, mi ha detto l’altro giorno il mio fedele Punto A, ma io non ascoltavo veramente perché stavo componendo questa cosa qui:

O sacro fuoco che ti sprigioni dal gas di benzolo, brucia
l’intreccio fiorito in cui correndo mi smarrisco,
e spingi il fumo fino alle grigie spiagge di Bombay.
Oggi senza scampo devo vedere un certo viso che si schermisce.
Dunque stavo in un cespuglio dove avevano tagliato falso gelsomino,
e il segnale acustico si impregnava di dolore che io debba adeguarmi 
ai crudeli piani di vita di un liceale. Scagliai 
due SMS finemente torniti contro la parete di fuoco e ora
sto bighellonando in città per seppellire il telefono nella sabbia pulita. Ossignor.

Questa storia è interessante perché tratta della crudeltà di una gioventù decisa a farsi la sua vita, e della decisa disponibilità all’abbaglio da parte di qualcuno che fin dall’inizio sapeva che non c’è da cavarne nulla, che solo su una cattiva strada c’è qualcosa che può fare per lui. E si circonda di cose innocue, affinché sia possibile cadere. Si potrebbe chiamarlo “nozze al parco giochi”.

Si piegò e entrò nel passaggio aperto dai potatori in un cespuglio fiorito di bianco, dal parco a una vasta area giochi piena di sabbia chiara. Il suolo era coperto di rami tagliati sui quali i fiori erano ancora freschi. Era il crepuscolo, in tutta la città stavano guardando la coppa UEFA, e senza sapere cosa faceva schiacciò nuovamente il tasto per comporre il numero al quale lui non rispondeva. Fu scioccata da quel che aveva fatto, tuttavia, poiché non faceva mai nulla del genere e pensava che la vita degli altri consistesse soprattutto di cose che lei non faceva mai perché non le capiva, le sembrò la cosa giusta, un grosso Sporgersi, e poiché i fiori erano così freschi, di un genere così mite e puro, quello che faceva non poteva essere nulla di male, nulla di pesante, nulla di faticoso. Con la stessa facilità con cui lei chiamò, lui non rispose. Così si fabbrica un’illusione.
Incontrò un anglosassone che conosceva, sedettero davanti allo spaccio aperto fino a tardi, bevettero birra e chiacchierarono. Passarono gli amici dell’anglosassone: i greci, gli irlandesi, i turchi e gli americani, i quali si appiccicarono. Eccoli alla fine appoggiati alla ringhiera carica di biciclette che separava l’angolo dalla strada: una coppietta da una comune di Boston completa di appendice nerd con cagnolino, un islandese sogghignante e uno brutto, due scandinave truccate di rosso che indossavano pullover norvegesi con motivi fatti a macchina, l’anglosassone e lei, un oscuro proposito nel cuore. Aveva appena salutato e percorreva la notte in bicicletta, percorse soltanto metà delle strada verso casa per fermarsi poi e rileggere un messaggio ricevuto in un qualche momento nelle molte ore che aveva passato seduta davanti allo spaccio. Era a casa, scriveva, ma aveva delle cose da fare. 
Girò la bicicletta e tornò indietro avendo preso una decisione che traballava ma non cadeva. Come se avesse caricato qualcuno sul portapacchi. Ed era parimenti evidente che la sua stupida, imprudente decisione la riempiva di orgoglio, di smania di agire, di poesia e di sicurezza gestuale. Era una cosa da niente, ma doveva succedere. La poetica scoreggia, dunque, consisteva in questo: in una strada industriale non lontano dalla casa di lui vide di nuovo occhieggiare dalla siepe i freschi fiori bianchi. Però non ci arrivava – non senza scendere dalla bicicletta – e invece del falso gelsomino staccò due rose bianche da un grosso cespuglio lì di fianco. Le spine sottili le lasciarono come un pelo sulle dita, tanto che le facevano l’effetto di una lingua, e con le rose fra le dita sferragliò giù per l’acciottolato, trovò la via più grande, l’angolo, il noto supermercato, la casa. La larga finestra era illuminata come un fiore. Chiuse la bicicletta e suonò al citofono.
Dio fa in modo che le situazioni appaiano ai vari coinvolti in modo del tutto diverso, affinché essi siano inquieti, come piace a lui. Adesso che lo racconto, emergono le curiose differenze. Recarsi all’appartamento si potrebbe definire qualcosa di un po’ drastico e dovrebbe essere accompagnato da una sincera sensazione di emergenza. Lei lo faceva con leggerezza, e il suo più solido argomento a favore era che avrebbe potuto benissimo fare qualcos’altro o anche niente. Così manteneva la sua equanimità, ma questo cosa voleva dire per gli altri? Lei era facile da accontentare – rose o gli altri fiori, belli entrambi; pedalare o dormire, tutt’e due piacevoli. Evitava soltanto ciò che considerava codardia o prudenza, di queste aveva paura, a ragione; infatti, se non stava attenta, era codarda e prudente.
Un balbettio alla porta con il campanello di bronzo tirato a lucido, e al primo piano un ragazzo lungo, biondo, dietro di lui Fritz, entrambi in boxer e canottiera a costine. Stavano guardando un film. Consegnò le rose. Se ne scusò. Andò, fu fuori dalla tromba delle scale e con un grosso spavento nella schiena pedalò sull’acciottolato via da lì. 

(Traduzione mia)

Se ora in questo racconto si vuole seguire la doppia traccia del gioco linguistico e del “gatto del realismo”, prendendo come riferimento ideale il secondo Wittgenstein si noterà che nella narrazione in prosa l’autrice evita il più possibile riferimenti a stati d’animo pre-linguistici; cioè a qualcosa, nella percezione e autopercezione, che sia al contempo significante e non ancora espresso, non ancora compreso in un gioco linguistico. Al contrario, tutto è trasposto all’esterno, come se gli stati d’animo si leggessero in un sistema di segni largamente indipendente dal soggetto classico. L’unico accenno che trovo a qualcosa di intimo e non-linguistico è l’ “oscuro proposito nel cuore” durante le ore che la protagonista trascorre con l’anglosassone e i suoi amici. Ma, a parte anche l’ironia di quel “nel cuore”, si tratta di qualcosa di oscuro che prende forma a partire da segni esterni: i fiori bianchi la cui innocenza sembra autorizzare qualsiasi iniziativa, un SMS ricevuto, cioè l’impatto con un gioco linguistico che in questo caso è un gioco della menzogna (a cui non segue peraltro alcuna condanna, estetica o morale, del mentitore). Allo stesso modo, la frase “Ed era parimenti evidente che la sua stupida, imprudente decisione la riempiva di orgoglio, di smania di agire, di poesia e di sicurezza gestuale” non descrive tanto dei sentimenti, quanto alcune conseguenze dell’aver accolto la suggestione combinatoria fra i fiori di falso gelsomino e l’innocenza, la leggerezza, la facilità di determinate azioni; dell’essere entrata insomma in un gioco linguistico in cui, fra gli altri segnali, non segni ma cose (fiori) fungono da significanti. A un meta-livello, il racconto esemplifica l’arte combinatoria e gli spostamenti semantici che permettono di “descrivere con parole vecchie nuove esperienze”, permettono una acquisizione di conoscenza “che vada oltre o sia più acut[a] di ciò che confluisce nelle frasi distratte e un po’ bugiarde di casa nel quotidiano”. Il “contenuto” del racconto infatti – come si costruisce e come viene distrutta una illusione, nel senso di autoinganno – è presentato in modo inatteso, straniante, le articolazioni non sono evidenti a una prima lettura; eppure così proprio il contenuto, apparentemente offuscato, appare infine con una forza e una novità irraggiungibili attraverso una narrazione più tradizionale, per quanto “messa giù” bene.

La narrazione non si esaurisce però nella rappresentazione di un gioco linguistico autoconcluso. Il gatto del realismo “richiede cibo” e non viene ignorato. La realtà (la menzogna contenuta dell’SMS, ma anche l’inopportunità di scommettere su un gioco linguistico che si è giocato da soli) è ciò che promuove l’azione dall’illusione alla disillusione, con corrispondente acquisto di nuova conoscenza. E la realtà è dura e effettuale come l’acciottolato su cui la protagonista pedala via, “con un grosso spavento nella schiena”.

Un’ultima osservazione, prima di chiudere, sulla struttura del testo. Il racconto vero e proprio ha una doppia o tripla introduzione: dapprima c’è un’osservazione dell’uomo che la narratrice chiama “il mio fedele punto A” (che appare anche in altri racconti) – osservazione che rimane per il lettore assolutamente enigmatica; la narratrice infatti non entra nel gioco linguistico proposto poiché è occupata a scrivere una poesia che costituisce la seconda introduzione. Nella poesia compaiono già i punti salienti di quello che sarà il racconto. In essa è rappresentato il punto di vista soggettivo della protagonista, che lei “scaglia […] contro la parete di fuoco”, cioè contro una realtà immodificabile; in questo senso la parete di fuoco potrebbe riprendere il “sacro fuoco” dell’inizio, a cui l’io lirico chiede appunto di bruciare l’intreccio fiorito dell’illusione autoindotta. Viene poi un paragrafo che può essere letto sia come commento alla poesia che come anticipazione della “morale” del racconto che segue. Anche qui l’accento è sulla “decisa disponibilità all’abbaglio”, che può essere intesa come disponibilità a entrare in un gioco linguistico non condiviso, con la conseguenza di trovarsi poi in brusca collisione con un altro, molto diverso: le “curiose differenze” appunto, da cui si leva il miagolio di protesta del gatto del realismo.


[1] Altre due poesie dalla stessa raccolta si possono leggere qui e qui.

[2] Forse è il caso di ricordare che Cotten si è formata in ambiente viennese, dove la questione del rapporto realtà-lingua, da Hofmannsthal a Wittgenstein, è cruciale.

[3] Il gatto del realismo: l’espressione è da ricondurre alla poesia di Hans Magnus Enzensberger Bischof Berkeley ins Stammbuch (Nel libro degli ospiti del vescovo Berkeley, in: Die Elixiere der Wissenschaft, 2002, traduzione italiana: Gli elisir della scienza, Einaudi 2004), poesia che prende di mira il costruttivismo, e la cui ultima strofa recita:

Non vi bada, il mondo, 
coi suoi occhi di gatto. 
Vi lascia dire, paziente, 
finché non tira 
fuori gli artigli, indugia un poco 
a giocare con voi, 
si scorda di voi, e resta dov’era.

(Sie hört nicht auf euch, die Welt
mit ihren Katzenaugen.
Sie lässt euch reden, geduldig,
so lang, bis sie zuschlägt
mit ihren Krallen, spielt
noch ein Weilchen mit euch,
vergisst euch und bleibt.)

[4] Karl Katschthaler, „Von Hosen und Katzen. Zur Poetik der Sprachkritik bei Ann Cotten“, in: A. Horváth, K.Katschthaler (Hg.), Frauen Unterwegs. Migrationsgeschichten in der Gegenwartsliteratur, Vienna 2017, pp.35-44.

[5] Hauptwerk significa ‘opera principale’. Titolo completo: Hauptwerk. Softsoftporn, Ostheim/Rhön 2013

Parole straniere. Quattro sonetti di Ann Cotten

di Elena Grammann

Ann Cotten è una poetessa e prosatrice di lingua tedesca, nata nel 1982 a Ames, Iowa, e trasferitasi all’età di cinque anni a Vienna con la famiglia. Attualmente vive fra Vienna e Berlino. Benché il tedesco sia la lingua base della sua produzione, il bilinguismo la porta verso più marcate commistioni, che si allargano anche al giapponese sia per un interesse per la cultura nipponica che per le caratteristiche semiotiche di questa lingua.

Nel 2007 pubblica la sua prima raccolta poetica: Fremdwörterbuchsonette [letteralmente: Sonetti del dizionario delle parole di origine straniera] con Suhrkamp, una delle più importanti e titolate case editrici tedesche. Qualche chiarimento su titolo e struttura della raccolta:

Fremdwort. Un Fremdwort è una parola entrata nella lingua e normalmente germanizzata, ma di origine straniera: greca, latina, più di recente inglese. Ci sono Fremdwörter di uso comune, ad esempio ‘Plastik‘, ma perlopiù essi appartengono al registro colto e/o a linguaggi scientifici, specialistici, tecnici (es. loxodrom, Kontingenz).

Sonetti. Quando mi è arrivata la raccolta e l’ho aperta ci sono rimasta male perché mi aspettavo dei sonetti e non ne vedevo nemmeno uno. In realtà non si tratta veramente di sonetti ma di quelle che Cotten chiama, con una certa libertà mi pare, “sonettesse”, cioè, da definizione, sonetti caudati la cui “coda” si ripete. Ma mentre nel sonetto caudato la coda, ripetibile ad libitum, è una strofetta composta da un settenario più due endecasillabi, le sonettesse di Cotten sono di fatto dei doppi sonetti: cioè a una prima struttura 4-4-6 ne segue un’altra identica (quindi: 4-4-6-4-4-6), o speculare (4-4-6-6-4-4). (Quasi) tutti i settantotto componimenti della raccolta sono doppi, talvolta tripli sonetti.

Struttura. Se si dà un’occhiata all’indice, si vedrà che non riporta i numeri delle pagine (che in effetti non sono numerate) ma i numeri dei sonetti, raggruppati a due a due sulla base del Fremdwort da cui prendono spunto. L’indice, cioè, è costituito da un elenco di Fremdwörter ai quali sono associate coppie di sonetti simmetricamente distribuite attorno a un centro ideale costituito dai sonetti contigui  39-40. I sonetti 33 e 46, sotto, sono una di queste coppie.

Complicato – e costruito. Costruzione e complicazione sembrano presiedere anche alla composizione dei singoli testi – come viene rilevato con un misto di riconoscimento per la versatilità tecnica e rampogna per presunta latitanza dei contenuti. Ma di questo dirò dopo i sonetti.

69        An Induktion To The Blues
 
 
It’a a very attractive little device that combines a frequency follower with a device that puts out harmony notes to what you’re playing … Its main drawback is that the tone that comes out of it is somewhat like a Farfisa organ.
 
Frank Zappa on the Electro Wagnerian Emancipator
 
 
Se ne stava coi gomiti piantati vicino al piatto dello stereo
e io mi sentivo tremendamente analoga,
così in balìa e inerme come un cilindro fonografico,
impressivamente riavvolgendomi. Naufragando on the dancefloor,
 
coliambica nelle percussioni alcaiche. Alcaiche?!
Non ero preparata, qui, a dei bassi così sottili!
E ancora non avevo buttato un occhio alla console,
sobbalzando poi al broncio anacreontico.
 
Mi percorse le vene furiosa la sua vista.
Tese l’orecchio il battito cardiaco e non si peritò
di stendermi come un corto travolta sulla pista.
Il vinile si scioglieva come liquirizia. Rigata ancora di spavento
mi trascinai al bordo di quel solco.
Rimasi a portata di suono. La mia volontà batteva piano.
 
Al piatto, stentava a tener gli occhi aperti
e per due volte per poco non cadde lui o rovesciò la birra,
e quando passava da un brano all’altro
suonava come un dormiveglia a cui si cerca di resistere.
 
(Probabile che lavorasse durante la giornata
a un Numero Verde e udisse voci
sussurrargli odi attraverso le linee,
che il cranio sbattesse contro le istanze dei clienti.)
 
E dopo un altro paio di ore toste,
l’aria nel locale è già densa per le odi           
il mio genio stremato mette su l’ultimo disco
e si siede di fianco a me. Cortesemente la sua testa cerca un dialogo,
tutto il mio scritto è imbrattato dal suo ciuffo,
si mette a parlare in sogno,                ma dialetto.
63        Vertiginosi indizi
 
 
Informazioni sbagliate. Scivola il cappello dalla testa
senza sonoro. Con quello avrei dovuto assomigliare,
senza assomiglio come una scema a Pete Doherty,
barcollo per sale cinematografiche come un clone
 
del cinema. Ciò che vidi è da tempo sci-
volato via, e per i titoli di coda ero di nuovo lì;
a destra e a manca parlano di cliché e roba del genere,
io mi attacco alla birra del buffet, quella è gratis.     Ah!
 
Ora che ci penso, ho dimenticato il tampax.
Finisco di leggere l’articolo e vado al cesso
e appoggio la birra vicino allo specchio. È un po’
che non mi aspetto miglioramenti dalle memorie.
La memoria è la morte della sorpresa. E io
non mi riconosco. Oh, un effetto della moda.
 
Ci son passata da un pezzo, non mi fa
né caldo né freddo affondarmi bevendo,
e scrivendo, la faccia. Son poi sempre io
e mi avvito storta, alla desperado, nella filettatura
 
dello squagliarsi. Del non essere all’altezza. Motti di spirito da me
d’ora in poi li avrà soltanto chi ne fa
richiesta scritta. Esco poco, mi frammento parlando
con me stessa, divido il letto solo più
 
coi libri. Con i gilet di maglia ostento
disprezzo per i cineasti,
spruzzo contraddittoriamente marcature
in forma di commento da birra. Si meraviglino pure.
Al cinema ci van sempre gli stessi,
escon fuori e han tutti le nappine.

33        Estensione, Estasi
 
 
Clic. Esso dove cominciò a ruotare
indicò così lungo le rive
il fiume. Anorganicamente luminescente,
infuriare soltanto in superficie dove
 
infuriava e irraggiungibilmente stridulo
ruotava e la luce si polverizzò,
schizzò, e perciò – e adesso voglio ridere –
refrigerio offrì alle rive, amorevole e chiara.
 
E così iniziando dagli occhi,
bocca, ah, capisce niente, in essa
si trovano capelli e lottano
con lingue per l’attenzione degli sguardi,
iniziando, ricercando sguardi? Niente di tutto ciò. Se
il punto è: per mezzo di estensione ottenere estasi,
 
deve stare ogni frase e contemplare,
espandersi orizzonte e divenire suolo
per selvaggi pensieri di espansione
a piccole avviticchiati pietre per esempio bianche.
Trova poi l’occhio da ruminare nel rispecchiamento,
in riflessi di luce che su superfici si scatenano
 
e dicono ciò che mai lingue muoveranno
a ripetere. Allora, polmoni, immobilizzatevi
e guardate, come le conseguenze
vanno alla testa del vostro, be’, cliente. Come
 
ansimano le cellule grigie dietro alle
corrispondenze che visitano qui le vostre rime
e cercano stimoli. Ehi, volete fare qualcosa?
E allora, polmoni, respirate acqua lucente!

46        Estensione, Possesso
 
 
Il tuo nome si allarga e pensare che un tempo era
Cioè cosa? Ancora l’altro giorno eri per me parola
straniera. Ora quasi parola non vedo senza che tu stia
per tutto ciò che mi manca, e nessun riso
 
si spegne che non mi tenda tu un agguato al fondo;
la rima evapora, la misura del verso non torna ed eccoti lì,
inghirlandato di foglie e sonetti spazzatura,
e, bizzarro volatile, fa una riverenza il tuo concetto e fugge.
 
Di te resta l’immagine dello scomparire
da cantarmi in versi dietro la tua schiena,
forse la cosa tua più bella in assoluto, o
piuttosto l’unica che mi resta da celebrare
giacché, scomparso tu, il nome tuo p.t.
nient’affatto oltre le labbra – per iscritto? Mai!
 
Eppure: nei lemmi stranieri cerco soltanto il tuo parlare,
la tua schiena, che sarebbe indennizzo a ogni parola.
Ma invece del silenzio mi tocca un blaterare torbido,
abbandonare la speranza, tentare versi mediocri,
 
questo sommesso costante soppesare singole parole,
la cosa più prossima, per me, al tuo silenzio.
E mi fa da modello la tua schiena p.t.
per tutto ciò che balugina come costrutto ideale.
 
Se mi frantumi il mondo in cui io vivo,
mi rimane il tuo nome in ogni caso e amo
il suono, che, forestierante, da qualche dove giunge, e ride
in faccia ai tentativi. Una paroletta straniera basta
a richiamarti nei miei versi, ed è pur vero
che la tua non spiega nulla, ma promette molto. *
 
 
*p.t. = praemisso titulo. Formula usata soprattutto in Austria davanti a nomi specialmente collettivi di persone (es. 'pubblico') delle quali non si è in grado di specificare il titolo. L'uso qui è chiaramente ironico.

Poiché in tedesco gli aggettivi in posizione predicativa non si accordano, non è dato sapere il genere della persona a cui si rivolge questo sonetto.  Ho seguito la consuetudine e ho optato per il maschile. Ma non è detto.

Qui, cliccando su ‘Übersetzungen: englisch’ una versione inglese – molto libera, di fatto una riscrittura – fornita dall’autrice stessa. Si può anche sentire la lettura del testo originale dalla voce di Ann Cotten. (NdT)

Da un esame sommario del materiale, non abbondantissimo, che si può trovare in rete su Ann Cotten e in particolare sui Fremdwörterbuchsonette, emerge una divisione abbastanza netta fra le valutazioni tiepide o benevolmente paternalistiche da parte della stampa ufficiale (FAZ, Die Zeit) e l’entusiasmo dei giovani intellettuali e soprattutto della scena dei poetry slam. Ciò che l’ufficialità eccepisce o comunque sottolinea è una mancanza di serietà. Dei Sonetti viene rilevato il carattere di gioco – gioco con le costrizioni della forma fissa, gioco delle libere associazioni a partire dalla trovata stravagante delle parole straniere. I più benevoli avanzano paragoni poetici: la tenda del circo, gli acrobati, la danza su un puro ritmo. Una venticinquenne Ann Cotten, un po’ impacciata ancorché si subodori il carattere deciso (qui una breve conversazione, con lettura dei sonetti 63 e 69), non nega e anzi rincara: a proposito del progetto complessivo – dunque non solo la forma fissa del sonetto, ma l’intera costruzione della raccolta – parla di Denkmaschine: macchina per pensare, come se da un pensiero spontaneo, diciamo libero, non ci si potesse più aspettare gran che (libero e spontaneo – specifichiamo a scanso di equivoci – nel senso di ‘naturale’; ma l’artificio, il “corsetto del sonetto” o di altro dispositivo, è del tutto estraneo a supposti interessi collettivi). Viene svelato anche l’arcano dei Fremdwōrter, delle parole straniere – bizzarra fonte di ispirazione dalla connotazione iperculturale e vagamente pedante. Il motivo, viene spiegato nella breve conversazione, è che le parole straniere sono un po’ come corpi estranei nella lingua, non sono cariche di associazioni come le altre, le quali altre proprio per questo appaiono usurate e inservibili. Le parole straniere sono precisamente una sfida a cercare associazioni impensate – impensate perché a nessuno verrebbe in mente di cercarne, ad esempio, a ‘lossodromico’ (che è il primo lemma della raccolta), e in generale a termini, come si diceva nell’introduzione, sostanzialmente scientifici o tecnici. Una sfida a trovare associazioni e approdare così a sentieri imbattuti della lingua-mente. Dove mi porta salpare da una parola, il cui significato devo spesso cercare o controllare sul dizionario? Da quali nuove angolature mi mostra le cose? Cosa mi dice, eventualmente, di me e dell’altro? È chiaro che questo tipo di approccio presuppone la subordinazione del soggetto immaginante a una rete di immaginari che esiste e si sviluppa in modo indipendente dall’individuo; la stessa subordinazione o, se si vuole, cambio di prospettiva, che nei sonetti di Cotten sposta il focus della visione dal soggetto e dal fatto a circostanze concomitanti, a derive, tipiche Cotten, in cui la parola (es. il solco del disco in An Induktion To The Blues) prende corpo e ingigantisce la sua essenza metaforica fino a inglobare la realtà del soggetto: “Rigata ancora di spavento / mi trascinai al bordo di quel solco”; o Estensione, Estasi, dove ai polmoni viene chiesto, per corrispondere alla richiesta di estasi, di respirare acqua lucente. L’immaginario di Ann Cotten è la metaforicità della lingua, presa sul serio e indagata in spazi non ancora logorati dall’uso. È questo che i recensenti ufficiali chiamano ‘gioco’, magari sotto la tenda poetica del circo, e che scatena invece l’entusiasmo del pubblico dei poetry slam. Sicuramente una parte di gioco c’è, ma è un gioco serio perché individua la potenza del linguaggio e del suo immaginario, e il dominio che esso esercita su soggetti che l’abbaglio di una certa tradizione vorrebbe continuare a rappresentarci come istanze di giudizio indipendente.

La Ann Cotten dei Sonetti è una poetessa venticinquenne: molto giovane benché provvista di rimarchevole autocoscienza. Nei prossimi post vorrei seguire il suo sviluppo.

Ann Cotten, Fremdwörterbuchsonette, Suhrkamp 2007