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Ragionamento sui nostri antenati (2)

Borso vs Cases 1954

di Ennio Abate

Con in mente le domande[1] che mi sono posto nel primo «Ragionamento sui nostri antenati» (qui) sono andato a rileggermi «Un giovane contro il Leviatano, recensione di Cesare Cases a due romanzi brevi di Arno Schmidt, Leviathan [Leviatano, 1949] e Die Umsiedler [I profughi, 1953]» uscita sul numero di ottobre 1954 de “Lo Spettatore Italiano” e ripubblicata nel sito germanistica.net nel 2013 (qui).

Ho selezionato – le sottolineature sono mie – questi brani:

1. «Arno Schmidt ci mostra che l’esistenza di un enfant terrible, animato da sentimenti eversivi contro ogni autorità e contro le forme tradizionali, eppure (incredibile a dirsi) sincero, è ancora possibile. Di questo atteggiamento egli ci dà una nuova, notevole variante che merita la nostra attenzione proprio per la sua unicità».

2. «lo sfoggio di cultura non riesce sgradevole».

3. «si finisce per preferire coloro che, come Joyce o questo Arno Schmidt, ti offrono implicitamente la loro biografia culturale, cioè la genesi della decomposizione, spesso assai più interessante della decomposizione stessa e in ogni modo presupposto indispensabile a comprenderla».

4. «Però qui [in Schmidt] la cultura ha anche una funzione positiva, che non aveva nemmeno in Joyce: non è soltanto un’eco, ma una promessa. Nella distruzione totale dei valori, in un mondo leviatanico, i libri sono un punto di riferimento, un appiglio. Poiché il nichilismo dello Schmidt non è per nulla compiaciuto e soddisfatto».

5. «Certo nei suoi lineamenti esteriori (il ripudio di ogni autorità) esso ricorda da vicino, per esempio, gli espressionisti tedeschi; e quando si sostiene la malvagia natura leviatanica del mondo con una disordinata, ma imponente girandola di immagini astronomiche, matematiche, fisico-chimiche, dietro di esse è facile intravedere il gran maestro dei poeti scienziati della decomposizione: Gottfried Benn. Ma anche qui si rivela come il mezzo migliore per trovare la propria personalità sia quello di affrontare risolutamente le letture fatte alla luce delle proprie esperienze, senza scansare né le une né le altre per cadere nell’imitazione o nell’immediatezza. Ora l’esperienza fondamentale dello Schmidt è il nazismo, per cui egli prova un orrore profondo e genuino, rarissimo, ahimè, tra i tedeschi d’oggidì»

 6. «c’è nel suo anarchismo qualche cosa di profondo e di indistruttibile: il momento dell’indignazione giovanile, della piena del cuore ferito».

 7. Diverso discorso è da fare per il primo racconto, Die Umsiedler (Gli emigranti). Si tratta di due profughi dalla Slesia, un uomo e una vedova di guerra, che traversano il Rheinland e poi trovano una residenza stabile nel paese di lei, dove conversano interminabilmente di amore ed altre cose. Qui l’anarchismo si fissa in modo accademico. «Niente più guerra, niente più miseria! Il mio voto se lo piglia il partito che è contro il riarmo e per la limitazione delle nascite!». «Dunque nessuno?» «Dunque nessuno». Puro malthusianesimo espressionista. Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati: ci sembra più umanista quell’altro. È ancora tanto abile da introdurre nuovi felici varianti dei vecchi spunti, per esempio del motivo antireligioso. […] Fa piacere vedere che l’anarchico irriducibile non cade in certe trappole cristiano-occidentali, ma la sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: «Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)». Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche.

Questi passaggi della recensione di Cases a me – non germanista ma lettore attento – sembrano confermare  che non si possa parlare di «stroncatura», valutazione di Michele Sisto, con il quale ho trovato vari punti di concordanza (qui); e neppure di «una recensione perfidamente diffamatoria» (Borso). 

Ci sono poi i passi che Borso ha  trascritto nel suo saggio, puntualizzando o  commentando con  sue veloci battute in contrappunto a Cases. La  sue puntualizzazioni[2] si basano sicuramente su notizie più precise sullo scrittore. Borso se l’è procurate più facilmente rispetto a Cases, che ai suoi tempi, essendo  al primo approccio con questo autore, si muoveva con una scusabile (credo) approssimazione. Da cui deriva l’errore sull’età di Schmidt, per cui ne parlò e l’apprezzò in un primo momento come se fosse un giovane.

Sulle considerazioni[3] in cui Cases fa trapelare sarcasmo o incomprensione riconducibili o alla sua condizione e mentalità borghese[4] o alla sua ideologia marxista, il discorso è più complicato. Ci vorrebbero almeno accenni al contesto storico (e, dunque al nazismo, alla Guerra Fredda, alla Russia stalinista). Mi pare  insufficiente richiamare di tutto ciò solo un dato, come fa Borso (il «silenzio assoluto di Cases sui 10 milioni di profughi tedeschi sospinti verso il Reno dove oltre la metà delle cases senza esse [sic]  era stata abbattuta dai bombardamenti alleati», alludendo implicitamente ad una colpevole complicità del Cases  stalinista, senza i necessari approfondimenti).[5]

C’è un altro problema a cui ho già accennato. A uno studioso come Cases , da molti considerato tuttora un intellettuale europeo e un militante politico della sinistra marxista più critica a, possono essere mosse molte critiche. E anche quelle di Borso – l’ho detto dall’inizio di questa polmica –  sono legittime. Ma  il richiamo ai dati empirici (« solo dati e tutti dati») o alla massima di Dal Pra («prima la topica, dopo la critica») non dovrebbe essere assolutizzato rigidamente. Non ci si può fermare ai dati, come se i dati  parlassero e cantassero da soli e per tutti i lettori con una loro perfetta evidenza. Anche se dicessero che Cases era stalinista, c’è da capire che tipo di stalinista fu. Pur essendo stalinista e iscritto a lungo al PCI anche dopo il ’56 ungherese, a me non pare che Cases, come del resto il suo maestro Lukàcs, lo sia stato al 100%, come un Togliatti o un Alicata. Certo non ebbe l’indipendenza del Fortini dei «Dieci inverni» e lo vedrei più vicino alla Rossanda responsabile dopo il 1948 della Casa della Cultura di Milano. E perciò mi sento di ripetere quanto detto in un commento: ce ne fossero stati nel PCI stalinisti del genere di Cases che ebbe il coraggio e l’apertura per pubblicare, sia pur con tutto il travaglio e i compromessi che Borso evidenza ma enfatizza, il libro di uno scrittore anarchico tedesco come Schmidt. Sarebbe antistorico pretendere che Cases in quegli anni sputasse su Stalin.

Un amico esterno a Poliscritture 3 mi ha scritto: «l’approccio di Borso è legittimo, e vale ciò che vale. E’ il lettore consapevole che darà all’intervento il suo giusto peso. Chiaro: se si pensa che sia il modo migliore (o unico!) di fare critica militante o anche polemica “civile”, si sbaglia. E si finisce davvero in una specie di moralismo ingenuo e perverso alla grillina. Però non capisco perché dar l’impressione di attaccare chi scrive certe cose…se sono vere, che male c’è? Quanto alle valutazioni/opinioni che se ne traggono, chi scrive se ne prende intera la responsabilità. E’ il suo modo di mostrare ci che lacrime grondi e di che sangue l’industria culturale nazionale, anche ai più alti livelli. E allora? Io leggendo Borso so qualcosa di più circa Cases & co. Un grammo, un niente. Ma preferisco averlo saputo. Va da sé che guadagno anche nella conoscenza di Borso, e di chi ha un approccio come il suo. Insomma: non mi scandalizzerei più di tanto. E preferisco comunque interventi (certo discutibili, e che infatti vengono discussi) come questi di Borso alle “lenzuolate” celebrative».

Concordo. Per me un critico può anche porsi il compito di sgretolare l’immagine di un intellettuale influente o ritenuto un’autorità nel suo campo o, come si dice, regolare i conti con lui. E anche senza tenere conto del “contesto” o dando peso ad episodi specifici e documentati, ma io posso chiedermi anche dove va a parare la sua ricerca. E tener presentei rischi che essa confluisca e rafforzi una cultura di destra, com’è già accaduto con la Nietzsche-Renaissance alla fine degli anni Settanta, piuttosto che aprire ad un nuovo tipo di critica, che per ora appare confuso o indecifrabile. E, infine, dire che trovo inaccettabile che Borso mi attacchi gratuitamente, attribuendomi cose mai dette[6], malgrado abbia sempre mantenuto nei suoi confronti un atteggiamento  di apertura ragionevole.

Note

[1] «cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?»

[2] 1.Cases: «Leviathan è il resoconto di un viaggio in treno, sembra da Berlino poco prima della caduta, verso una destinazione ignota».

1.1. Borso: «In realtà da Lauban a Görlitz, cittadine della Slesia (ora Polonia) dove Schmidt, figlio di una casalinga e di una guardia notturna, abitò negli anni Trenta, prima di farsi cinque anni di guerra e uno di prigionia».

2.  Cases: «Nel treno ci sono varie persone tra cui, oltre al narratore, una ragazza cui lo legano imprecisi rapporti amorosi».

2.1. Borso: «In realtà suo grande amore delle 4 superiori, e un vecchio col quale fa “lunghi discorsi filosofici” dove la “cultura è usata in buona parte in funzione formalistica, estetizzante, per dare delle belle liste sonanti di nomi”».

3. Cases: I due «conversano interminabilmente di amore ed altre cose».

3.1.Borso: «Il romanzo è di 50 pp., occupate per 1/10 dalle loro conversazioni (Schmidt in proposito affermò: “Io ci metto il dado, i lettori l’acqua”».

[3] Cases:«Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati».

 Borso: «Così comodamente da patire freddo e fame, giusto come Arno e la moglie, che si nutrivano di erbe selvatiche)».

Cases: «La sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: ‘Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)’».

Borso: «Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche’”. 80 voll. trasportati a mano dalla Slesia, abbandonando tutti gli altri. L’Ahimè è inqualificabile i. e. abietto.  Quanto al cittadino del mondo, de quo fabula narratur?».

Cases: «La stessa decadenza è nello stile, sempre abile, ma questa volta freddamente abile. C’è un richiamo ancestrale nel fatto che i due si stabiliscono a Bingen, patria di Stefan George (evocato anche dai caratteri «Sparta»)».

Borso: «Bingen è una delle tante fermate del treno che li porta a GauBickelheim, dove s’installano scomodissimamente. Lo Spartan ritorna qui come tedesco-ancestrale i. e. reazionario; in effetti i caratteri senza grazie coniati da George negli anni Dieci vennero ripresi alla fine dei Venti da Paul Renner, tipografo del Bauhaus che inventò il Futura, di cui lo Spartan è un’evoluzione (con buona pace dell’antiamericanismo)».

Cases: «Preferiamo continuare a credere che lo Schmidt abbia incarnato, almeno per un momento, la ribellione della genuina ‘gioventù del mondo’ contro la barbarie nazista”, sperando “si accorga che ci vuole un minimo di organizzazione anche per combattere il Leviatano. A meno che non si ritiri nell’egoistico menefreghismo malthusiano degli Umsiedler, il quale, come è ormai ampiamente dimostrato, è una delle più salde colonne su cui le tirannie leviataniche instaurano il loro sanguinoso terrore”».

Borso: «Organizzazione comunista, s’intende, come quella italiana cui Cases rimase iscritto fino a tutto il 1958, digerendo i fatti d’Ungheria del 1956 (carrista quindi) ed anzi soggiornando in DDR nel 1957».

[4] Accennati nella breve nota biografica: nato a Milano il 24 marzo 1920 a due passi dalla centralissima casa Manzoni, di agiata famiglia ebrea, liceo Parini fino alla promulgazione nell’autunno 1938 delle leggi razziali, per proseguire gli studi emigra in Svizzera sostenendosi con la retta passatagli fino all’autunno 1943 dai genitori, poi fino al rientro in Italia nell’autunno 1945 da un parente; nel 1946 si laurea in filosofia alla Statale di Milano, nel 1951 si iscrive al PCI, nel 1954 insegna alle superiori a Pisa, entra in casa editrice Einaudi come referente per la letteratura tedesca e scrive appunto la recensione, che qui epitomo intercalandovi in corpo minore puntualizzazioni tratte da Leviatano, Mimesis 2013, e I profughi, Quodlibet 2016 (entrambi a mia cura).

[5] Ho cercato del materiale e sono riuscito a fare solo una prima lettura di questo saggio di Michele Sisto, (PDF) Gli intellettuali italiani e la Germania socialista. Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases | Michele Sisto – Academia.edu) che fa parte di un volume di cui si danno notizie qui: (Riflessioni sulla DDR | germanistica.net). Da approfondire mi pare anche la lettura di questa intervista a Cases  della fine degli anni Novanta: http://www.germanistica.net/2013/06/10/intervista-a-cesare-cases/

[6] «ora, a te va bene un’edizione che riporta solo la metà dei pareri: tu ami la censura, e pure il tuo censore, il dott. Superio. e questo ti affumica il cervello, perché pur di salvare Cases ti fa addirittura piacere scopare sotto il tavolo metà giudizi di lettura»(db 27 Luglio 2021 alle 21:20 )

Ragionamento sui nostri antenati (1)

Il saggio  di Dario Borso, “COLPO BASSO. Cesare Cases vs. Arno Schmidt ” (qui) mette in discussione – e con salda documentazione – i limiti del giudizio  che un germanista di fama come Cesare Cases  diede di un importante scrittore tedesco del secondo dopoguerra, Arno Schmidt, considerato  invece da Ladislao Mittner, l’autore della monumentale «Storia della letteratura tedesca», «un ulisside della specie di Joyce». Non ho competenze specialistiche sulla materia affrontata da Borso.

E allora perché intervengo? Per  alcuni buoni motivi. Tranne Cases, seguito soltanto in occasione di qualche conferenza a Milano ma di cui ho letto vari libri e articoli, ho avuto modo di conoscere e incontrare nei loro ultimi anni di vita prima Fortini e poi Renato Solmi e Michele Ranchetti. Nel ‘68 seguii la polemica  cruciale tra Fortini e Fachinelli sui Quaderni Piacentini a proposito del «desiderio dissidente» e de «il dissenso e l’autorità»; e, successivamente, anche se seguii  più distrattamente e con distacco la polemica su «Minima Immoralia», divenuto  sempre più attento alla ricerca psicanalitica, ho letto vari libri di Elvio Fachinelli, di cui  tra l’altro mi parlava  con grande stima un altro dei pochi scrittori da me frequentati, Giancarlo Majorino.

Nella mia esperienza di lettore (e di militante politico), dunque, tutti questi autori hanno fatto per me parte di un’unica costellazione politico-culturale. Indubbiamente  di sinistra, area -cosa non trascurabile –  almeno fino alla fine degli anni Settanta ben distinta dalla destra. E questo malgrado le diversificazioni e le forti tensioni ideali e personali tra loro.  Leggere oggi queste  critiche contro Cases, un autore che – ripeto – ho sempre apprezzato, mi ha costretto a  farmi varie domande: cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?

Della  messa in discussione di Cases o di altri, che io considero tra i “nostri antenati” da studiare e riproporre, non mi scandalizzo. Seguo, infatti, con convinzione  la raccomandazione di Fortini. Che diceva all’incirca: prendete da quel che ho scritto ciò che vi  serve e il resto buttatelo pure.[1] Né  sono difensore d’ufficio di nessuno.  E perciò, siccome la polemica  di Borso contro Cases ha rinverdito nella mia memoria quella degli anni ’60-’70 tra neoavanguardia e intellettuali marxisti ( Pasolini, Fortini, Cases, Quaderni Piacentini, Sanguineti, Filippini, etc.)  e sotto sotto mi ha rimandato a quella vecchissima tra anarchici e comunisti,  quando ho letto i  suoi primi pezzi, ho drizzato le antenne. Disposto a prenderlo sul serio ma deciso anche a capire se quel che scrive mi convince o meno. Perché a scatola chiusa non prendo nulla. E gli ho, perciò, prima  fatto in privato alcune stringate e interlocutorie obiezioni[2]; e poi sono intervenuto pubblicamente e decisamente su Poliscrittture e su Poliscritture FB. Invitando a sentire meglio anche le altre campane. Perché schierato ciecamente con  Cases contro Borso? Suvvia. Solo perché nelle altre campane (Cases, Solmi, Sisto; e per quest’ultimo mi sono riferito esclusivamente al suo intervento su  germanistica.net qui) ci sono spunti interessanti che Borso, secondo me, ha trascurato o escluso non ritenendoli coerenti con il suo metodo critico.

Questa è la premessa della mia riflessione e mi fermo qui. Nelle  successive puntate esaminerò le prese di posizione di Cesare Cases nei confronti di Arno Schmidt riportate da Borso; quelle sulla pubblicazione di «Minima Immoralia» nell’edizione L’Erba Voglio (almeno nella parte che ho potuto consultare); e, dopo aver riportato stralci delle “varie campane”, trarrò le mie (provvisorie) conclusioni. [E. A.]

Note

[1] «…‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!». (Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani,  Boringhieri, Torino, 2000)

[2] Ennio: «1. Cases era un borghese ma fu comunista (male, bene: ai posteri...); 2. Il suo comunismo non era (del tutto?) dogmatico perché corretto/temperato da un anarchismo, che secondo me prendeva qualcosa anche da Brecht (magari giovane); 3.Oggi si tende a parlare della psicologia degli autori e non della cornice (ideologica e storica) in cui operarono (e il giudizio ne risente...)».

 

Pandemia

di Dario Borso

Nel 1955 Arno Schmidt era nei guai. Non che non ci fosse aduso (5 anni al fronte, 1 di prigionia, 4 da profugo e il resto da reinsediato), ma ora la novità: il tribunale di Treviri vuole trascinarlo alla sbarra per blasfemia e pornografia causa romanzo breve appena uscito (Paesaggio lacustre con Pocahontas). La cosa più opportuna è telare, almeno da Land a Land, sicché Arno & consorte lasciano in furgone la cattolica Renania per la protestante (e più tollerante) Assia: i pochi mobili e i molti libri finiscono stipati in un monolocale a Darmstadt. Pagamento dell’affitto fortunatamente elastico, perché il locatario è un pittore anarchico che apprezza l’opera di Schmidt e, se non naviga nell’oro, non è nemmeno al gas. Diventano col tempo amici, Arno rompe l’isolamento proverbiale solo per stare nello studio di Eberhard, muto, a osservarlo dipingere: trittici giganti, chissà perché.

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