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Ricordando Pietrantonio Arminio

di Ennio Abate

Pietrantonio Arminio  non è più tra noi dall’11 dicembre 2015.  Annunciammo  la  sua morte qui. Amico  di Donato Salzarulo e suo compaesano era diventato  anche un po’ nostro amico. La profondità della loro amicizia è testimoniata dai “dialoghi semimuti” che, muovendosi tra visionarietà ( Pietrantonio: “Nella mia mente il tutto si configura come una sorta di altare con gli elementi fondanti di un aggregato umano…Sembra inciso direttamente dalla luce…”) e richiami alla materialità ( Donato: “lo riporto alla materialità dell’opera. L’unità della composizione è data dai materiali usati: ferro, nylon, legno.”) si possono leggere qui.
Senza la forza che un’amicizia vera dà,  credo  che Pietrantonio, già  “privato della voce e costretto alla scrittura” o a far ricorso ogni tanto al linguaggio dei gesti e a scrivere, più o meno velocemente, su fogli, ora sottolineando una parola, ora scrivendola in stampatello ora cancellandola per cercare il termine più espressivo o più esatto”, non avrebbe trovato la forza di parlare della propria arte poliedrica  (scultura, pittura, fotografia) con tanta lucida passione, malgrado l’incombere della malattia. E Donato sarebbe stato  più  esitante “a parlare con [Pietrantonio], a sforzarsi di capire, a porre domande, a ripetere concetti e a parafrasare, tenendo il più possibile sotto controllo la [sua] angoscia da empatia”.  Entrambi  diedero un bellissimo esempio di umanizzazione del dolore e di pacata resistenza alla morte che sempre ci assedia.

Per riportare l’attenzione su Pietrantonio Arminio e la sua opera, pubblico un’accurata  ricostruzione della  sua carriera artistica,  una rassegna delle mostre delle sue opera quando Pietrantonio Arminio era in vita, delle retrospettive curate dopo la sua morte e una bibliografia. Continua la lettura di Ricordando Pietrantonio Arminio

Distruzione creatrice al Sud?

 

Nota 1. La distruzione creativa, anche nota come burrasca di Schumpeter, è un concetto delle scienze economiche associato dagli anni cinquanta all’economista austriaco Joseph Schumpeter, che l’ha derivato dal lavoro di Karl Marx rendendola popolare come teoria dell’economia dell’innovazione e del ciclo economico.

Nota 2.  Per  un riepilogo sulle questioni trattate dal libro di Agostino Pelullo si possono  rileggere le Notizie dal paese del 2020 di Donato Salzarulo che trovate su Poliscritture: 1 , 2, 3, 4.

 

La taverna del portoghese

NOTE DI FINE ESTATE (10)

di Donato Salzarulo

                                                                                               Chiunque voglia far opera di sogno
                                                                                               deve mescolare tutto insieme.

                                                                                                                    Albrecht Dürer

É un box. Quando sulla soglia d’autunno, riprende l’aereo per atterrare a Lisbona e raggiungere Costa de Caparica, al di là del Tago e alle spalle di Cristo Rei, sistema dentro la Ford Fiesta, utilitaria con cui ha fatto nei mesi estivi su e giù e giù e su dal paese nuovo a quello vecchio, e chiude il locale.
«La taverna è aperta!…» annuncia a parenti e amici intorno al tredici giugno, giorno della festa di Sant’Antonio, patrono di Lisbona, di Padova e di Bisaccia.
Con Padova Peppino non ha nulla da spartire, ma a Lisbona e Bisaccia è di casa. Il santo patrono deve, però, festeggiarlo qui, al paese d’origine.
O sant’Antonio a Vesazz o vesazz ‘ncuodd. Tradotto: o trascorri sant’Antonio a Bisaccia o metterai la bisaccia sul collo. En passant: il detto pare abbia origine dal particolare contratto che i salariati bisaccesi facevano coi latifondisti pugliesi. Se non veniva consentito loro di recarsi al paese per la festa del patrono, avrebbero raccolto le scarse masserizie in una bisaccia e sarebbero andati via.
Comunque, ora Peppino non ha più padroni e il detto può onorarlo senza grandi complicazioni.
Così il locale – sei metri e sessanta per tre e novanta – , pensato da chi progettò la stecca di case nuove, dopo il terremoto dell’Ottanta, per custodire e riparare da vento e intemperie una macchina, per la solenne occasione viene aperto e adibito a taverna. Per la precisione: TABERNAE ROMANORUM, come si può leggere sulla bianca tavoletta appesa ad una sorta di trave in legno leggero, installata al soffitto per nascondere i tubi di scarico provenienti dai piani superiori della casa. Accanto alla scritta, a destra sono appese cinque spighe di granturco, a sinistra una damigiana di cinque litri, uno spolverino bianco, un mazzo di rametti di alloro, una falce insieme alle canne con cui i mietitori proteggevano le dita e, infine, un’altra spiga.
Sul soffitto, a questa trave finta succede quella vera, la colonna portante, il cordolo orizzontale in cemento armato, che sostiene le parti superiori dell’abitazione. É una colonna dipinta in blu mare e decorata con facce di mezze lune nascenti e cavallucci marini.
La scritta TABERNAE ROMANORUM prosegue con l’indicazione della data di apertura: A.D. MMIII. Anno del Signore, 2003. Sono già trascorsi sei anni, quindi, dalla data della inaugurazione con relativa cerimonia e inviti personali. Sei stagioni di ordinaria e straordinaria gestione, di accoglienze calorose, con andirivieni di ospiti bisaccesi e non, in arrivo da paesi e città italiane, ma anche stranieri (soprattutto Svizzera e Portogallo). Sei stagioni di fuoco con quotidiana preparazione di pranzi e cene e di realizzazione, per così dire, del sogno di Peppino. Un sogno detto a chiare lettere, raccontato in mille modi, mostrato a tutti gli eventuali ospiti, agli occasionali passanti e agli incontenibili ficcanasi del paese.
Sul retro, sempre in lingua latina, la tavoletta insiste: TABERNA PATRICII ET PLEBEI OPTIMAE LIBAGIONES. Insomma, che sia patrizio o plebeo, alla tavola di Peppino, nella sua taverna, almeno una volta bisogna sedersi. Chi non lo fa, sappia che perde prelibatezze raffinate.
Il portoghese emigrò ancora minorenne in Svizzera. Nato nel 1943, prese il treno per Zurigo, alla fine degli anni Cinquanta. Non ricorda più se accadde nel ’58 o ’59. Di certo v’è che non aveva ancora fatto il soldato, né aveva mai esercitato il diritto-dovere del voto. Atti che allora si potevano compiere soltanto a 21 anni, col raggiungimento della maggiore età. Non avendola raggiunta, per emigrare, ricorda che fu necessaria l’autorizzazione dei genitori con relativa firma. Cosa che non gli fu negata. Il padre era già a Ginevra, la madre andava a zappare terre occupate, in affitto o in proprietà, oppure andava a prestare o a restituire giornate. Peppino allora era figlio unico. Ma come prendersi cura di lui? Con quali risorse?
Alla noia di diciotto mesi trascorsi in una camerata, a saltare dal letto per l’alzabandiera o, magari, subendo gli insulti e le reprimende del solito caporale di giornata, sfuggì ben volentieri. Meglio guadagnarsi da campare che servire una patria soddisfatta di mandare in giro per il mondo milioni e milioni di persone come lui. Al diritto di voto, invece, per quanto gli è stato possibile, non ha mai rinunciato. Anzi, le votazioni a volte potevano costituire l’occasione per un rapido rientro al paese.
La prima volta che lasciò la casa della Cupa e i sedili di piazza Duomo, Peppino arrivò, lo dicevo prima, nei dintorni di Zurigo; ma lavare piatti in una cucina di ristorante non gli andava a genio e si spostò rapidamente a Ginevra, in una macelleria e sotto gli occhi discretamente vigili del boss, come affettuosamente chiama il padre ora morto. Dalla città sede del Palazzo delle Nazioni – per inciso: nei prati circostanti per qualche anno mio padre vi ha pascolato le mucche – a Losanna ci si arriva con mezz’ora di treno. Nell’ottobre del ’64 la sede centrale della macelleria venne chiusa; per non perdere quel lavoro che gli piaceva, il taverniere fu costretto a trasferirsi nella città sorta sulla riva del Lago Lemano. Qui è rimasto per 36 anni: a consumare giovinezza, maturità e tarda maturità. Qui incontrò la prima Candida con cui si sposò, da cui ebbe una figlia e si separò. Qui incontrò anche la seconda Candida, la donna di Lisbona, con cui attualmente vive.
Avendo sempre lavorato nel reparto carni di un grande centro commerciale, ha imparato il mestiere di macellaio alla perfezione e può disquisire con cognizione di causa sui vari tagli di una bestia. Può disossarti un coniglio con tale abilità che non trovi più un ossicino neanche a pagarlo oro. Così bravo, col passar degli anni, la direzione pensò bene di affidargli compiti di responsabilità.
Oltre al macellaio, ha servito nei ristoranti e imparato a cuocere su una vampata i gamberoni flambé. Ha appreso inoltre il segreto per una buona marinatura delle alici e per mettere in tavola un piatto di cozze alla vinaigrette. Insomma, grazie anche alla frequenza di un corso di formazione professionale, è diventato un ottimo cuoco, particolarmente esperto nella cottura del pesce e in molte altre ricette il cui successo è collaudato. Allorché le libagioni dai piatti si trasferiscono nelle bocche degli ospiti, i complimenti al cozinheiro, come lo chiama la compagna lusitana, non si fanno attendere. Io, che non disdegno la buona tavola e non mi faccio mancare un po’ di pinguedine, sono, fin dalla sua apertura, uno degli ospiti d’onore della taverna.
In questi giorni, che come dice il poeta ne ricapitola altri mille, mi siedo spesso a capotavola e gusto le prelibatezze dello chef.
Ma non è di questo che vorrei parlare. Non ho nessuna intenzione di seguire Peppino ai fornelli, mentre intonando Nessun dorma affetta carne o mescola sughi. Ho accennato all’aria di Puccini perché, oltre che macellaio e cuoco, mio cugino è un melomane entusiasta. Il faut savoir, come direbbe lui, che possiede una voce da tenore amatoriale e per un certo periodo ha cantato nella corale italiana di Losanna… Aggiungo che parla, per quanto io ne possa capire, un buon francese e un altrettanto buon portoghese. Non scherziamo, l’irpino è poliglotta.
Tornando alla taverna: è di questo locale che mi piacerebbe raccontare, dell’ambiente in sé, di questo suo palpabile desiderio, realizzato con una certa cura e attenzione. Avere a disposizione una taverna: questo mi è sembrato col tempo il suo vero sogno e il suo grande oggetto d’amore. «Peccato che sia un po’ piccola!…», si rammarica ogni tanto, «Ci fossero stati altri due metri, sarebbe stato un vero carnozet…Eppure qui dentro abbiamo mangiato fino a trenta persone!…»
Alla richiesta di farmi capire cosa sia un carnozet, risponde che Williams, un buon uomo che abitava in una villa e dal quale andava a lavorare extra, ogni volta che terminava l’attività, lo portava in visita a farglielo vedere; ed era una specie di taverna col camino, l’angolo bar, il tavolo lungo, ecc. Il carnozet c’era in tutte le ville. E lui, mentre lo ammirava, sognava di possederne uno.
«Ho capito!…» gli dico e penso che anche al Nord, dalle mie parti, dove Berlusconi ha installato la torre di Mediaset, chi compera o si costruisce una villa o villetta, il primo ambiente che vorrebbe far visitare all’eventuale ospite è la taverna. Anzi, la tavernetta con camino e legna da bruciare, molle e griglie su cui arrostire bistecche, cosce di pollo, salsicce, puntine di maiale o costine di agnello. Non so perché, ma quello di Peppino è un sogno diffuso. Come se il massimo della vita fosse quello di trascorrere ore ed ore su una panchetta o su una sedia a dondolo vicino al camino. Oppure star lì a girare pezzi di carne o pollo allo spiedo.
Mariella, sua unica figlia, è venuto a trovarlo a sant’Antonio; è rimasta contenta della taverna e pare che gli abbia detto: «Vedi, papà, hai realizzato il tuo sogno…»
Devo essere sincero: il fatto un po’ mi sconcerta. Ma non ha senso mettere piedi e becco nei sogni di ognuno di noi.
Poi, sono ancora sincero, ora che il sogno ha preso forma e corpo, mi sembra di poter dire che la taverna di mio cugino è una specie di camera delle meraviglie, una sorta di museo domestico permanente. Oltre che degli artisti, meriterebbe l’attenzione di un antropologo o di un etnografo. Molti mi sembrano gli aspetti culturali da evidenziare. Di cultura materiale e non solo.
Meriterebbe, credo, anche i flash di un ottimo fotografo per poterne ricavare un catalogo alfabetico o tematico dei pezzi presenti. Non si aspetti di avere tra le mani o sotto gli occhi delle rarità. Niente cranio, ulna e tibie della Principessa di Bisaccia, ma non mi appare culturalmente e, starei per dire artisticamente irrilevante, il riprodurre per una cartolina il ceppo nodoso e a uncino di un vitigno o la scultura del pappagallo verde brasiliano, il bianco vaso da notte dei nostri nonni o l’antica lucerna romana.
Una visita alla taverna è consigliata. Insieme alle ottime libagioni, è possibile assicurarsi sguardi freschi e di prima mano sui gusti estetici di un illustre rappresentante dei nostri ceti popolari. In fondo interessa capire cosa sia “bellezza” tanto nelle case di chi sta in alto quanto in quelle di chi sta in basso. Non è escluso che i confini non siano poi così rigidi – culturalmente parlando, non economicamente – e che le contaminazioni siano molte di più di quanto si creda.

L’entrata è quella tipica di un garage. Ma non c’è saracinesca da tirar giù o su. La porta, in vetro e alluminio verniciato di bianco, è ampia e suddivisa in tre parti. All’occasione si può aprire tutta o soltanto nella zona centrale. All’ingresso, in alto, sulla parete esterna, è disegnata una meridiana.
Mettendo naso ed occhi dentro, ci si accorge subito di avere a che fare con un ambiente non di ordinaria amministrazione: a destra, la serie dei mobili tipici di una cucina (lavandino, fornello, piano cottura, frigorifero…) e in fondo l’angolo col camino. E che camino! Più simile ad un forno che ad un normale camino, con l’apertura ai propri piedi. Qui la grande bocca si trova nella zona centrale. Sotto c’è un’altra grande apertura in mattoni rossi, diventata al momento una sorta di ripostiglio. Prima di regalarla ad un amico, all’imbocco c’era anche una cancellata, non ho capito bene se di finestra o di porta. Peppino l’aveva recuperata in qualche casa abbandonata dopo il terremoto. Così come ha recuperato due piccoli rettangoli in ceramica bianca e bordi blu. Antichi numeri civici crollati insieme alle facciate e alle porte.
L’angolo camino o forno non l’ho mai visto acceso. Perciò, non saprei dire nulla sul suo effettivo funzionamento. Il taverniere assicura che funziona alla perfezione ed io mi fido di lui.
L’altra zona che salta subito all’occhio è l’angolo bar, in fondo a sinistra. Una soluzione ingegnosa per offrire agli ospiti il drink prima o dopo il pasto. Ogni taverna che si rispetti ce l’ha e in un pranzo i momenti dell’aperitivo e del digestivo vanno tenuti in debita considerazione.
Mentre s’ingeriscono liquidi alcolici o analcolici, fluiscono parole cerimoniali, tic comportamentali, modalità d’aggancio o di sgancio. Mio cugino, ad esempio, è un patito dell’entrée consumata non a tavola, comodamente seduti, ma nell’andirivieni dei commensali da un punto all’altro del locale.
Tornando alla descrizione della taverna, alla visita guidata a questa sorta di wunderkammer bisaccese, dopo il colpo d’occhi sugli angoli, mi sembra opportuno procedere con alcune osservazioni, spero non banali, ordinate per filoni tematici. Come se in ogni tema fosse possibile leggere o intravedere un volto o un’anima di Peppino. Allora, di seguito, è possibile individuare:

a) Il Peppino figlio di una cultura contadina, verso la quale conserva un particolare amore, attestato dagli attrezzi raccolti e messi in mostra. Entrando, è così possibile ammirare sulla parete sinistra: un’accetta, una zappa, una zappetta, un piantatoio, una forca e una sega da falegname; appesi alla finta trave del soffitto, ci sono, come ho già detto, le spighe di granturco, la falce da mietitore con le canne per proteggere le dita, la damigiana di cinque litri con la protezione in vimini, il mazzo di foglie secche di alloro.
Sulla parete di fondo, la sezione di una botte, tagliata verticalmente, poco più in là del primo cerchio, con la spina ben in mostra, come se girando la vite, fosse possibile spillare vino; due spine attaccate una sull’altra e la sezione di una botticella.
Il fiore all’occhiello della taverna è, lo dicevo poco prima, l’angolo bar, ricavato tra la parete di fondo e quella a sinistra. É un rettangolo di due metri o poco più per un metro, costituito da una tettoia ricoperta di tegole, sistemate ora in un verso ora nell’altro e tenute ferme da pietre. Sotto si trova l’apertura in legno e sotto ancora il muro ricoperto di pietre irregolari miste a qualche conchiglia a pettine. Appese alla tettoia due brocche di terracotta smaltate e decorate, un cicino, ossia un recipiente in terracotta proveniente dall’Alentejo e una fiaschetta. Sul piano di servizio una caraffa di vetro e una bottiglia incastonata in un portabottiglie di ferro.
Ma il portabottiglie più in mostra è quello sulla parete di fondo, a sinistra del camino. Si tratta di un vero e proprio scaffale ricavato da cilindri di terracotta in serie: sei per sette, quarantadue potrebbero essere le bottiglie di vino pregiato dormienti nella fresca cuccia. In realtà diversi cilindri sono vuoti e Peppino preferisce il vino di Montemarano a quello doc. A sinistra di questo scaffale ce n’è un altro, più basso ma simile in tutto.
L’angolo bar, tra il muro e la parete, diventa ripostiglio. Lì dietro il taverniere conserva pacchi di pasta, damigiane piene di vino, bottiglie e via di seguito.
Sullo scaffale portabottiglie si trova il bassorilievo in gesso dorato di una pigna d’uva.

b) Il Peppino innamorato di Roma e dell’Impero Romano. Roma caput mundi, è scritto all’interno di un’ostrica, una delle tante bivalvi esposte sulla sporgenza della parete sinistra della casa e incollate ai muri un po’ dappertutto. “Roma capitale del mondo” non è frase detta così tanto per dire, magari vera un tempo ed oggi soltanto fonte di nostalgie e passatismi. Non scherziamo: per Peppino Roma è la città eterna e resterà eternamente capitale del mondo. Vuoi mettere a confronto Roma con Lisbona o con Losanna?…Neanche a dirlo. La superiorità della culla dell’Impero romano è per lui schiacciante su tutti i piani: dei monumenti, degli edifici, della cultura. L’amore per la storia di Roma, soprattutto della Roma di Cesare e Costantino, è nell’animo di Peppino sviscerato. Non so come si sia acceso e perché, ma è un fatto indiscutibile. Se non bastassero le scritte latine, è sufficiente dare uno sguardo alla taverna per capirlo. Oltre all’antica lucerna già citata, subito all’entrata, alla parete sinistra, sopra un bassorilievo di gesso raffigurante due cavalieri probabilmente ellenici, ecco, ben esposte, due teste dorate di pretoriani col classico elmo e cimiero; e più avanti, ecco la grande planimetria di Roma al tempo di Costantino.
«Colosseo, Fori Imperiali…C’è tutto, non manca nulla…» Continua a dire Peppino.
Io mi limito al gesto affermativo della testa. Evito qualunque discussione. Mio cugino è preparatissimo in storia romana e non vorrei fare la figura di chi, dopo anni e anni di frequenza delle aule scolastiche, prenda solenni cantonate. É vero che sono laureato in pedagogia e la storia romana mi puzza un po’, ma che penserebbe di me mio cugino se sbagliassi l’anno di morte di Cesare Augusto e i piani di attacco delle più importanti battaglie ingaggiate durante la prima, la seconda e la terza guerra punica? Una volta a bruciapelo mi domandò chi era quel tizio che si mise nella botte e si fece rotolare giù da un monte. Biascicai una risposta; per fortuna, corretta.
Sempre sulla parete sinistra, in fondo, subito dopo la gigantesca planimetria, è esposta una ceramica a forma di piatto con le più importanti vedute della Roma odierna. Sopra, invece, una tavoletta bianca con la scritta in pennarello nero: CARPE DIEM QUAM MINUM CREDULA POSTERO. Peppino sa che è tratta da un’ode di Orazio e la sbandiera come una sua possibile filosofia di vita, soprattutto quando porta in tavola, in bella mostra e magnificandone il profumo, piatti di spaghetti alle vongole o di faraona ai funghi porcini. Lo chef preferisce le linguine agli spaghetti, ma Sandro, il fratello nato quando lui stava già per sposarsi, è affezionato ai bastoncini lunghi e sottili inventati dai cinesi. E lui, quando può o gli va a genio, l’accontenta.
Peppino è nato durante la seconda guerra mondiale ed è andato a scuola verosimilmente nei primi anni Cinquanta. Non credo che abbia imparato in aula e sui banchi tutto ciò che sa di storia romana. Anche perché non è andato oltre la licenza elementare. Credo che sia autodidatta e che l’amore un po’ gli venga dal clima culturale dell’epoca fascista.
Sempre all’entrata, sulla parete destra, questa volta è esposto un attestato, firmato B. Mussolini, conferito a suo padre. Recita: Al soldato Solazzo Antonio autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa con gladio romano per le operazioni militari in Africa Orientale. Decreto 27 aprile 1936 XIV.  Sotto la firma del Ministro B. Mussolini, si può leggere, tutta in stampatello, la seguente esortazione: LEVATE IN ALTO, LEGIONARI, LE INSEGNE IL FERRO E I CUORI A SALUTARE DOPO QUINDICI SECOLI LA RIAPPARIZIONE DELL’IMPERO SUI COLLI FATALI DI ROMA.
Prima di prendere il treno alla stazione di Foggia per Zurigo o per Ginevra, probabilmente Peppino avrà vista la medaglia col gladio conferita al boss e avrà letto le frasi altisonanti dell’attestato. Così nel momento in cui, emigrato, ha sentito sul corpo le parole offensive e minacciose o gli sguardi di disprezzo razzista di qualche crucco o di qualche cittadino di Losanna – tutti gli emigrati sono oggetto di queste forme di razzismo come l’Italia di oggi dimostra a menadito – ha provato a difendersi esibendo i propri quarti di nobiltà. «Ignoranti voi non conoscete la nostra storia!… Noi siamo i figli della lupa, i pretoriani dell’Impero Romano alloggiati un tempo in tutta la penisola iberica e anche al di là delle Alpi…Molte vostre città le hanno costruite i nostri padri e se sapete qualcosa dovete ringraziare noi…».  Non so se Peppino abbia mai realmente fatto un discorso simile. Per quanto mi riguarda ho l’impressione di sì e sono anche convinto che da proposizioni così congegnate pensava di ricavare una certa forza. O, per lo meno, cercava di contenere la superiorità di chi offrendoti un lavoro e un letto pensa di poterti rendere schiavo. Questo è una faccia della medaglia. L’altra è il sogno che lo sbandieramento delle insegne imperiali porta con sé.
Una volta gli chiesi, se gli sarebbe piaciuto vivere nell’epoca della Roma dei patrizi e dei plebei, dei Cesari e degli imperatori. Mi rispose di sì. Ovviamente avrebbe voluto essere un patrizio che gusta leccornie sul triclinio e che si fa servire da uno stuolo di belle schiavette. La Roma su cui Peppino fantastica è quella della gloria e, nello stesso tempo, della dissolutezza e della decadenza. Ama la Roma dei principati e quella del Satiricon di Petronio, la forza conquistatrice dell’Impero e il carpe diem di chi sa che su questa terra tutto è provvisorio. Mussolini e persino il nostro ben amato Presidente del Consiglio.

c) Il Peppino esterofilo, amante dell’ordine svizzero ma mai disposto a viverci lì.
In alto sulla tettoia dell’angolo bar sventolano due bandiere: una – è banale persino dirlo – italiana e si trova a sinistra; l’altra, quella svizzera, sventola a destra. Quasi sulla parete di fondo, appeso alla tettoia, un lampione con la croce elvetica comperato il primo agosto, giorno di festa nazionale.
Della Confederazione, il taverniere esalta soprattutto l’ordine: puntualità dei treni, pulizia delle strade (se sbadatamente ti accadesse di buttare un pezzo di carta per terra, troveresti qualche sguardo pronto a fartelo notare), sorveglianza efficace della polizia, ecc.
«Agli svizzeri puoi dire tutto, ma su queste cose sono cento volte più avanti di noi…»
«Perché, allora, non hai mai pensato di comperare una casa a Losanna?…» gli domando io, «Perché non ti sei proposto di risiedere lì?… Perché sempre ‘sto Bisaccia in testa?…»
La risposta è facile da immaginare ed è tutta un’esaltazione di radici come se le persone fossero alberi, invece che nuvole. Le radici poi sono i genitori un tempo anziani ed ora morti, gli zii, i cugini, la tribù famigliare.
Gli emigrati che non hanno attraversato l’oceano vivono o hanno vissuto tutti col pensiero del ritorno: anni ed anni a Losanna, Zurigo, Francoforte sempre con l’attesa di rimettere le valigie nel bagagliaio della macchina o di prendere il treno.
Peppino è uno di quelli che ha fatto doppio e triplo lavoro, che ha comperato, come forma di investimento, un appartamento a Torino. Quando poi ha scoperto che l’amministratore lo fregava e che i soldi dell’affitto non bastavano neanche a pagare le spese condominiali, l’ha rivenduto. Ha comperato in seguito due appartamenti nel paese d’origine della prima Candida, ecc. ecc. Voglio dire che nelle mani del portoghese i franchi sono girati e avrebbe forse potuto acquistare una casa a Losanna. Ma o non ci ha pensato o non faceva parte dei suoi progetti di vita o le case nelle città svizzere hanno costi proibitivi.
Se ci pensa su, sostiene che è stato sfortunato. I soldi, dopo tanto lavoro, sono sfumati ed ora deve contarli con attenzione.
Comunque, Peppino ogni tanto torna a Losanna. Mariella, la figlia, vive lì. 

d) Il Peppino portoghese. Quando si separò dalla prima Candida – un lungo allontanamento cominciato anni prima e trasformatosi nella fase finale in un tormentone giuridico tortuoso e costoso – incontrò la seconda, una simpatica e bella signora proveniente da Lisbona, a sua volta separata e con un figlio.
La incontrò nel centro commerciale dove lui lavorava. Candida era in ferie dalla sorella emigrata (molti portoghesi erano e sono emigrati in Svizzera) e si trovava occasionalmente lì per comperare il formaggio. Si innamorarono, unirono felicemente due solitudini e progettarono un’età della pensione da trascorrere un po’ in Portogallo, un po’ in Irpinia.
Ciò che attualmente sta accadendo.
La taverna è impregnata di quest’aria portoghese, di queste passeggiate oceaniche tra le calette e la banchisa di Costa De Caparica.
C’è, innanzitutto, ben esposto, sulla parete destra, dopo gli stipetti e le mensole della cucina, un brandello di rete da pescatori, un’ampia fascia trapezoidale, ritaglio probabilmente di una paranza a cui sono appesi alcuni galleggianti, quattro grandi bivalvi nere, a pinna, un gasteropodo a spirale (murice forse) e la corazza rosea di un granchio. Zapateira lo chiama Peppino e lo immagino in grembiule da cucina, mentre con coltello e martello taglia zampe, spacca chele e corazza per cavarne polpa da cuocere; mescolata a maionese, whisky ad altri ingredienti che non saprei più elencare, ottiene una salsa davvero squisita.
Vinta la mia iniziale diffidenza (non sopporto la maionese), l’ho assaggiata nel mio primo viaggio in Portogallo e posso testimoniarne la bontà.
A sinistra della rete, verso il camino, sistemate orizzontalmente, due gigantesche bivalvi a pinna. Nella parte a punta sono nere, in quella larga sul grigio-marrone e con una superficie tutt’altro che liscia: aspra e scabra. Una meraviglia, davvero una meraviglia! Un mio racconto mi piacerebbe così.
Bivalvi anche sulla parte alta del camino. Appiccicate all’intonaco due file di datteri di mare, tre di sassolini – di quelli che i bambini si divertono a raccogliere sulle spiagge – e cinque file di conchiglie a pettine.
Bivalvi e sassolini, poi, a metà, lungo tutta la sporgenza della parete sinistra. Non mancano tre o quattro gasteropodi a spirale. É possibile, inoltre, ammirare anche un’ostrica con su scritto CAPARICA, dei santini di Sant’Antonio da Padova, dei ceri sempre del santo e un cero del noto santuario di Fatima.
Ci sono, in aggiunta, due ceramiche a forma di piatto, una più piccola ed un’altra più grande. Ambedue tra il marrone lucido e il senape con su scritto, sulla prima, PAO MILHO, sulla seconda ALGADA CHURRASCÃO. Quest’ultima sembra essere il ricordo-ringraziamento di un ristorante. Me l’ha anche detto, ma non ricordo dove il portoghese ha comprato il piattino con la scritta “pao milho” che forse significa “pane di miglio”. “Algada churrascao”, invece, significa “cantina o taverna di carni grigliate”. Il piatto, decorato con fiorellini bianchi e con una scritta sul fondo, viene dalle parti di Odivela. Peppino lo ricevette in occasione di un pranzo che Manuel, suo cognato, nato il 28 maggio come me, pagò ad un vigile. Gli aveva fatto una multa abbastanza pesante. Gliela tolse e allora per sdebitarsi andarono da Algada Churrascão. Ogni mondo è paese. La corruzione, come dicono gli esponenti del partito delle libertà, c’è dappertutto. Un amico poeta, compagno di scuola, l’altra sera ha detto che c’è persino nei tanti osannati paesi scandinavi. D’accordo, gli ho detto: ma quali livelli raggiunge? Ma lasciamo stare questi discorsi in cui tutte le vacche sono nere.
La scritta sul fondo del piatto coi fiorellini recita: Espero che tenha /Desta boa refeição/Pao os votos da Gerencia / Da Adega Churrascao. Traducendo a occhio e croce: Spero che conservi / di questo buon piatto / il pane con gli auguri dalla Gerenza / Taverna di carni alla brace…
E dopo il piattino con la scritta, ancora conchiglie a pettine o gusci d’ostriche a far da intonaco, insieme a lastre di pietra irregolari, sulla fascia bassa delle pareti: sia a sinistra che sulla zona dell’angolo bar.
Ma i pezzi forti di chiara matrice portoghese sono i due quadri esposti sulla parete sinistra dopo la forca: il primo è un azulejo raffigurante una corrida, il secondo è un’immagine di Sant’Antonio proveniente da Lisbona. Il santo, col suo saio marrone, occupa sei piastrelle quadrate e sulla sua testa ha una lampada votiva.
Altri pezzi interessanti di provenienza portoghese sono due ciotole di sughero dell’Alentejo. Afferrandole per il manico, è possibile attingere acqua da bere da un pozzo.  A sinistra della ciotola più grande, appesa sulla parete di fondo, si trova quella che Peppino chiama una cataplana. Parola inesistente nel vocabolario italiano. Probabilmente è lessico lusitano. Ma non saprei dirlo con certezza. Quando andai in Portogallo, Peppino mi incoraggiò: “Imparare a parlare il portoghese è facile. Parla in dialetto bisaccese e vedrai che ti capiranno!…” Aveva ragione. Sua madre, zia Maria, rigorosamente analfabeta e capace di espressioni verbali unicamente in dialetto, s’intendeva prodigiosamente con la nuora In effetti la menina è molto simile alla nostra menenna, la ciucolatera  è la caffettiera  che anche noi chiamiamo così. Ma, come si sa, parlare una lingua non è soltanto un problema di lessico. Si tratta di impadronirsi di un accento, di un ritmo, di una melodia, di un giro sintattico, che forse è il più difficile da apprendere. Soprattutto se si hanno orecchie resistenti agli altrui idiomi. Evidentemente, la zia non le aveva.
Tornando alla cataplana è una padella di rame con doppio fondo per permettere una buona cottura del pesce.
Anche i due colombi di terracotta sistemati sugli angoli della tettoia provengono da Lisbona, il pappagallo verde scolpito magistralmente nel legno è, invece, brasileiro. Dall’Alentejo arriva, invece, il già menzionato cicino, recipiente di terracotta ad uno o due boccagli a seconda che sia riempito d’acqua o di vino.
Ultima curiosità portoghese è la targa che Peppino ha esposto sullo scaffale del portabottiglie. É quella della sua macchina rossa fiammante con cui venne i primi anni a Bisaccia e che poi ha venduto. Ricordo un viaggio con lui verso Rodi Garganico. Le curve gli davano le vertigini. Sensazione di cui soffre profondamente fino alla paralisi. In Portogallo, andammo al castello di Sintra e lui per passare da un muraglione all’altro si teneva appiccicato al muro. 

e) Il Peppino turista non per caso. Da sempre il taverniere ama viaggiare. Comodamente. In alberghi a tre, quattro e cinque stelle. Ai tempi della prima Candida, la riviera adriatica è stata spesso la sua meta; ma poi ha fatto anche puntate in Francia, in Germania, in Austria, in Grecia, in Sicilia, in Algarve, sulla costiera amalfitana, ecc. Di quest’ultima ha due ostriche-ricordo con su scritto AMALFI e POSITANO.
Sull’asse di legno dell’angolo bar, c’è veramente anche una bella ceramica a piatto con la città di Gerusalemme. Non mi risulta che sia andato, ma è indicativa della sua voglia di girare il mondo, di conoscerlo. Ai viaggi a caso, antepone quelli organizzati. Al nomadismo delle roulotte, preferisce la prenotazione e l’invio della caparra all’hotel che lo ospiterà. É chef, non servitore. E’ responsabile del lavoro, nom de dieu!, non cameriere.
É un cinema essere in sua compagnia al tavolo di un ristorante. Legge e rilegge il libretto del menù. Sceglie con oculatezza. Si fa spiegare. E se la malcapitata, invece, del lombo vuole rifilargli un pezzo delle prime costole, stai sicuro che si alza e protesta energicamente.
Due episodi ricordo. Ambedue accaduti in Portogallo. Il primo in un ristorante di Penacova. Eravamo lì, ospiti di un parente. Per onorarci ci portò in un locale specializzato in ricette a base di lampreda. All’entrata c’erano le vasche in cui questa specie di anguille fluttuavano. Quando ci sedemmo, il mio caro cuginetto fece finta di scegliere, poi disse che preferiva al pesce, la carne. E ordinò la picanha. Mi misi sul chi va là. Perché mai?, pensai, lui esperto in ricette ittiche, perché mai non sceglie questo pesce, che pur agli occhi dei portoghesi è una vera specialità. Trovai la risposta poco dopo, appena mi vidi recapitare al tavolo un piatto annerito dal sugo della lampreda, mentre lui gustava dalle mani di una signorina pezzettini di carne di manzo infilzata in uno spiedo che veniva ogni volta riportata sul fuoco. Per fortuna me la fece assaggiare. Io sono un amante del pesce, ma quella era una vera leccornia.
Il secondo episodio mi è capitato in un ristorante dell’Alentejo. Io stavo consumando del baccalà, piatto nazionale, come si sa, dei portoghesi. Lui ordina della carne di vitello. La signora gli recapita un pezzo non proveniente dalla spalla piuttosto che dalla coscia. Apriti cielo!…Dovetti calmarlo. Non si può sfidare impunemente la sua competenza. Per fortuna, alla fine si calmò e la signora gli chiese scusa e lo baciò sulla guancia.
Ovviamente nella taverna sono esposti tutti gli attrezzi che fanno riferimento a questa sua arte della cucina: da una lunga fila di coltelli, al camino, alle pentole, al passatutto, ecc.
Non so se ho dimenticato qualcosa; ma questi mi sembrano gli angoli e gli oggetti essenziali della taverna del portoghese, un locale di sogno, chiaramente specchio stratificato e prismatico della cultura e della storia di Peppino. Come definirla una taverna così? Come caratterizzarla?
Alcuni giorni fa, mi è capitato di entrare dentro la cantina antica di un vecchio contadino. Ogni oggetto al suo posto, ma tutti oggetti che avevano a che fare con la destinazione e la funzione del locale: dalle damigiane ai tini, dalle bottiglie agli imbuti di varia grandezza, dalle giarle alle botti. Neanche un quadro o una conchiglia a pagarla oro, neanche un santino o un souvenir. Un ordine semplice e una corrispondenza tra bellezza degli oggetti e destinazione che definirei perfetta.
Quando questo legame si sia rotto non saprei dire. Ciò che mi sentirei di sostenere è che tra il noto blob televisivo e la taverna di mio cugino esista una relazione neanche tanto segreta, una connessione esplicita. Il che mi fa propendere per l’ipotesi che l’ordine delle cose sia andato in frantumi insieme al racconto.
Se questo è vero, la taverna del portoghese è qualcosa di più di un sogno realizzato da un emigrato. Forse l’Italia è questa taverna postmoderna, una bellezza babelica e caotica, un insieme di culture esposte fianco a fianco senza dialogare.

Agosto 2009

Il mio maestro

NOTE DI FINE ESTATE (5)

di Donato Salzarulo

 “Il mio maestro” nasce sull’onda del movimento di protesta anti-Gelmini. Tra le pagine circola affetto nei confronti di una persona che si è preso cura di un allievo, ma l’esperienza educativa, svoltasi in un tempo e in un luogo e con precise modalità, mostra tutti i suoi limiti psico-pedagogici, didattici e culturali. I momenti più felici e più significativi, si sostiene, sono quelli in cui la relazione educativa è altro: assistenza in Biblioteca, timbratura di libri al Patronato, passeggiata, ecc.
Pur con tutta la nostalgia per la propria infanzia e per le persone incontrate, se ne deve concludere che il “maestro unico” era soluzione educativa ed organizzativa inadeguata già negli anni Cinquanta-Sessanta, in un paese prevalentemente agricolo e culturalmente autoritario. Figurarsi oggi, nella “società della conoscenza”!

Ho avuto un maestro unico. Ho avuto uno dei maestri migliori del mio paese. Forse il migliore in assoluto. E l’ho avuto – che culo! – per cinque anni, dalla prima alla quinta, dal primo ottobre 1955 al trentuno maggio 1960.
Aveva tra l’altro un cognome su misura: Lapenna. Antonio Lapenna. Esattamente come l’omonimo ancora vivo, il grande latinista che insegna all’Università di Firenze. Anche lui del mio paese. Bisaccia, modestia a parte, è fucina di cervelli!
Quindi, ho avuto un maestro unico. Un maestro rimasto celibe per tutta la vita, un maestro che abitava nella casa della sorella Resuccia (diminutivo credo di Teresa). Anzi “zia Resuccia” perché, come ho scritto in altre pagine, al mio paese tutti i fanciulli chiamavano zii gli adulti. Il maestro ovviamente era il Signor Maestro.
Al Signor Maestro io obbedivo e, quando lo incontravo a passeggio sul corso del paese, lo salutavo rispettosamente: “Buon giorno Signor Maestro!” o “Buona sera, Signor Maestro!” E lui, serio, mi rispondeva “Buon giorno!” o “Buona sera!” e io coglievo un sorriso nei suoi occhi e all’angolo della sua bocca.
Se mi chiedeva di fargli qualche servizio, io mi precipitavo. Poteva essere l’andare all’Ufficio Postale a fare un versamento, a spedirgli un pacco (aveva parenti in America) o l’andare dal giornalaio. Come potevo non obbedire al Signor Maestro? L’unico modo era scansarlo, cambiare strada se riuscivo a vederlo prima, non visto.
Il Signor Maestro, quasi ogni giorno passeggiava sulla piazza del Duomo, su e giù, vicino ai gradini della chiesa. D’autunno e d’inverno, lo faceva nel primo pomeriggio; di primavera e d’estate, a pomeriggio inoltrato. Io lo sapevo e, per quanto possibile, me ne stavo alla larga. Non ero mica scemo!

Il mio maestro era virtuoso: ad esempio, non fumava. Forse non beveva neanche vino, a differenza di me che lo sorseggiavo già a sei anni. Mia nonna e mia zia me lo davano caldo anche per curarmi la tosse. Però, questo dettaglio ora mi sfugge. Sicuramente il mio maestro beveva latte e acqua minerale di Monticchio.
Quando, passeggiando tra i banchi, quelli di legno a doppio posto con la pedana e il buco per il calamaio, si avvicinava al mio collo, dietro le spalle, per scrutare eventuali errori nei miei dettati, sentivo il suo respiro di latte. Buono!, pensavo. Diverso dal trinciato di mio padre che arrotolava nelle carte veline; diverso ma non avvolgente. Preferivo il borotalco di mia madre.

Il mio maestro era virtuoso e, tuttavia, qualche svago se lo concedeva. A volte, giocava a carte con gli amici sulla piazza centrale, al bar di zio Gaetano, un vecchio alto, con la schiena ricurva e due figlie, una nubile e l’altra vedova, che si alternavano al banco, mentre lui restava in casa a riposare.
Poi mi pare di averlo visto anche tirar bocce verso un pallino. Comunque, su quest’ultimo svago non giurerei.
Il suo hobby preferito era raccogliere francobolli. Quando mio padre stava in Svizzera e scriveva a mia madre, io li ritagliavo attentamente dalla busta e glieli portavo. E lui era contento.
Sul fatto che non fosse sposato, non c’era malignità tra di noi. Intendo noi alunni. Altri maestri non lo erano. Però mia madre, un po’ vipera e invidiosa, diceva che, non sposandosi, aveva fatto la fortuna di sua sorella. Avere un maestro in casa che ti educa e istruisce i figli messi al mondo?!       «Commare Resuccia ha vinto la Sisal!… Lei sforna figli e Antoniuccio ci pensa!…»
E io me li immaginavo questi figli usciti dal forno.

Il mio maestro era bravo, ma autoritario. A tratti irascibile, violento. Nei nostri confronti era capace di ingiurie irripetibili, del tipo “figlio di…”. Eppure io sono sicuro che lui era d’indole pacifica e buona. Ma i tempi erano quelli che erano. Da pochi anni era terminata la seconda guerra mondiale. Sui muri delle aule e non ricordo se anche per le strade c’erano manifesti di propaganda del Ministero della Difesa (o della Guerra?) che ci mettevano in guardia dalle bombe. Potevano essere sepolte lungo le strade o nelle piane di campagna, dove andavamo a giocare, appena fuori paese. Del resto, sui libri di lettura si potevano ancora leggere testi come «Fischia il sasso il nome squilla, del ragazzo di Portoria, dell’eroico Balilla…». Mia madre, che era arrivata alla terza elementare, la sapeva a memoria. Mio padre s’era fermato alla prima, ma «Faccetta nera, bella abissina», la conosceva dall’inizio alla fine.
Ogni tanto sentivo il racconto, ancora vivo, dei Tedeschi in ritirata che erano passati per il paese, incutendo una paura boia, e poi, giunti alla Toppa, il punto più alto, avevano salutato, prendendo di mira il Castello con due colpi di cannone. O qualcosa di simile.
Voglio dire che gli adulti di quel tempo ne avevano viste di cotte e di crude e picchiavano i bambini senza tanti problemi. «Mazze e panelle fanno i figli belli / Pane e senza mazze fanno i figli pazzi», «I figli si baciano di notte». E giù schiaffi, spalmate, cinghiate…

Una volta il mio maestro si stava apprestando a dare cinque spalmate ad un mio compagno che non aveva fatto i compiti. Gli prese la mano destra per il polso e gli ingiunse di aprirla. Non si era accorto che sul margine estremo del legno spuntava un chiodo. Il malcapitato si mise a piangere e, spaventatissimo, cercò di sfuggire alla presa con uno strattone. La tavoletta colpì allora la mano del maestro e sanguinò. Apriti cielo! Grida nell’aria, tentativi di fuga del compagno, gigantesco silenzio di noi tutti. Il poveraccio rimediò uno o due calci negli stinchi.
La paura. Regnava la paura. E noi si stava sempre sul chi va là. Da un momento all’altro, poteva accaderti qualcosa.
Ecco di cosa era impastato il rispetto e l’autorità in quegli anni. Persino Lettera ad una professoressa su questo punto marcava male e nel clima antiautoritario del Sessantotto preferivamo sorvolare. «Noi per i casi estremi si adopra anche la frusta».
Il guaio è che eravamo spesso casi estremi.

Negli anni Cinquanta-Sessanta, al mio paese, dunque, quasi tutti gli adulti picchiavano. Anche i preti. Io trovavo rifugio soltanto nella nonna paterna, nonna Concetta e nella zia Francesca, sorella di mio padre e vedova di guerra. Lo zio Vito, legalmente suo marito, in realtà persona con cui non aveva dormito una notte, per il Ministero della Difesa risultava disperso nella tragica campagna di Russia.
Erano queste due donne la mia àncora, il mio nido di coccole e tenerezze. Mi viziavano? E meno male!

Sia chiaro, non mi sognerei mai di sostenere che il mio maestro o i miei genitori non mi volessero bene. Anzi, tutt’altro. Con mia madre la relazione era molto fusionale e, fino a trent’anni, tanti amici ed amiche mi prendevano in giro come tipico “mammone” italiano, con mio padre la dinamica (oh, che parola da psicologo!) è stata più contrastata, ma poi si è assestata in modo alquanto produttivo. Questo lo dico ora, grazie al Sessantotto, che per me è stato una liberazione.
Non mi piace far la vittima. Col senno di poi mi dico di non essere stato vittima di adulti carnefici e di essere stato bambino coi suoi alti e bassi, cresciuto nel clima di “mazze e panelle”, con i grandi che respiravano quell’aria e si comportavano di conseguenza. E però questi pensieri non mi soddisfano del tutto. Forse giustificano troppo.  Forse bisognerebbe approfondire, comprendere meglio quanto fascismo fosse presente in certe relazioni anche parentali.
Confesso che, da bambino, spesso vedevo nero e dubitavo che gli adulti ci volessero bene.

Quindi, tornando al maestro, a suo modo, mi voleva bene, mi seguiva, si prendeva cura di me. Persino troppo. Per un periodo avevamo preso l’abitudine con alcuni compagni di andarcene ai laghi – li chiamavamo così, in verità erano stagni paludosi – per diventare pirati della Malesia. Non potendo costruire galeoni, ci accontentavamo di legare tavole tra di loro con lo spago per farne zattere. Si era a primavera; i genitori lavoravano campi o scavavano fogne o pulivano strade o piantavano alberi sui costoni del monte Calvario e noi, usciti di scuola, avevamo pomeriggi tutti nostri che si allungavano. L’importante era farsi trovare in casa prima che rientrassero dalla campagna o dal lavoro stagionale.
Ebbene, una sera sentiamo bussare alla porta. Mia madre: «Entri, signor maestro, entri!» «Comma’!…Questo picuso ogni pomeriggio se ne va coi compagni agli stagni della Perurza. Se non state attenti lo perdete!…» Nel mio dialetto, come si sarà capito,  “comma’” sta per comare e “picuso” per persona affetta da “pica” che non è la gazza, ma il respiro affannoso di chi ha l’apparato respiratorio cagionevole.
Non chiedetemi perché il maestro rivolgesse l’appellativo di comare a mia madre; nei paesi ci sono intrecci di rapporti che richiedono disegni di lunghi alberi genealogici per essere compresi.
Volevo sprofondare. Non c’era luogo, granaio, scantinato, soffitta in cui potermi celare. Gli occhi di mio padre si accesero come il fuoco che stava ravvivando sulla bocca della fornacella.
«Signor Domenico, non lo picchi come l’altra volta!…Io volevo semplicemente avvertirvi. Voi dovete sapere cosa fa questo signorino quando voi non ci siete.»
«Grazie, signor maestro!…Grazie!»
«Buona sera!» «Buona sera!» ed io in un angolo a cercare di farmi più piccolo di un pidocchio.
Per fortuna, la serata finì con una severa reprimenda paterna. Il maestro era riuscito a bloccarlo con l’accenno all’altra volta.
L’altra volta con mio padre era stata dura, ma preferisco sorvolare. Non voglio fare come lui che quando si metteva a raccontare tirava tanti fili da perderne qualcuno qua e là.

Il mio maestro era così: severo, autoritario, irascibile, ma pronto a prendere le difese di un bambino se le punizioni superavano una certa soglia. Il guaio è che per mio padre, finito sotto padrone a nove anni (avete letto bene!) e in Africa orientale per altri nove, la soglia non era facilmente definibile. La sua storia andrebbe tutta raccontata. Un po’ la si può capire leggendo Padre padrone di Gavino Ledda.
Il mio maestro, invece, era stato in seminario. Aveva studiato. Lo facevano molti allora, soprattutto quelli provenienti dagli strati popolari. «Rubavano gli studi», come sosteneva mio padre, e poi, al momento di prendere i voti e diventare sacerdoti, confessavano di non aver la vocazione.
Ho tirato in ballo mio padre perché dopo la scuola elementare non faceva che ripetermelo. Allevare figli, dar loro da mangiare, educarli ed istruirli, non era compito facile. Soprattutto se non si aveva un lavoro stabile e se si era contadini poveri.
Oggi, se non si comporta bene,  si minaccia di mettere in collegio un pargolo. Agli occhi di adulti poveri, allora, il collegio o il seminario risultavano  una buona opportunità. Quasi un privilegio.
Dunque il mio maestro non diventò sacerdote e credo non avesse fatto neanche il soldato.
Respirava il clima violento e autoritario dei tempi, ma non aveva mai maneggiato un fucile. Mio padre, invece, nella masseria pugliese dove mi sono cresciuto fra i tre e i sette anni, l’aveva appeso in camera da letto.

Quasi certamente ho visto il maestro per la prima volta nel settembre del 1955, quando, proprio per poter frequentare la prima elementare, cosa per cui mio padre teneva moltissimo (più di mia madre, direi), fui trasferito dalla masseria al paese, nell’oasi protetta della nonna Concetta e della zia Francesca.

Il 1955 è l’anno dei “Programmi didattici” del ’55. Il Decreto del Presidente della Repubblica porta la data del 14 giugno e il mio maestro il primo ottobre avrebbe dovuto già applicarli. Conosco questi Programmi come le mie tasche. Li ho studiati e ristudiati per fare il concorso alla fine degli anni Sessanta. Per un po’ maestro unico anch’io.
Oggi io so come ero descritto in quelle pagine: ero “tutto intuizione, fantasia, sentimento”, ero sottoposto ad una “spontanea fioritura e maturazione”.
Di spontaneo, in verità, in quegli anni c’era la mia gioia di sapere che il 4 Ottobre era la festa dei santi Patroni d’Italia, San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena e che si stava a casa.
Per il resto, mi rivedo bambinetto col grembiule nero, il colletto bianco e il fiocco rosso, con la borsa di cartone duro, lucido, color cachi; mi rivedo timido timido, per mano della zia che aveva allora 35 anni; mi rivedo accompagnato a scuola in una classe tutta di maschi, una trentina di visi spauriti, stretti alle vesti in attesa dell’appello.

In prima elementare la mia classe era sistemata in una casa di via Filangieri. La ricordo bene. Per accedervi bisognava salire le scale di una loggia. Era uno stanzone freddo e buio, appena illuminato da una finestra con l’inferriata. Durante l’inverno, il maestro arrivava un quarto d’ora prima e accendeva il carbone nel braciere; di tanto in tanto, lo tornava a mettere sulla loggia, dava a qualcuno di noi un cartone che fungeva da ventaglio e provavamo a ravvivarlo. Per evitare il cattivo odore o lo sprigionarsi di aria tossica, sui carboni bruciava scorze di arancia.
Tutt’altra cosa quando, in seconda elementare, ci trasferimmo nel palazzo D’Albenzio, un signorotto del paese, vecchio e ammalato, quasi sempre a letto.
Finita la scuola, il mio maestro gli andava a leggere il giornale. A noi, invece, dettava brani tratti da una rivista scolastica (forse Scuola Italiana Moderna)  o leggeva e spiegava sul libro di lettura o sul sussidiario che, a partire dalla terza, adottava per noi. Chissà dove sono finiti questi libri! Che peccato non poterli mostrare! Si sarebbe capito perché nel Sessantotto si sviluppò anche una critica ai libri di testo.

 Farfallina spensierata,
lo sai tu dove sei nata?
Eri un bruco in una cella
senza sole e senza stella.

 Poi nel sole sei uscita,
come un fiore sei fiorita;
come un fiore senza stelo
che il buon Dio gettò dal cielo.

Questo è Renzo Pezzani che ricordo imperversante in molte pagine dei libri di lettura.
Rime baciate e metro erano le ultimissime cose che il maestro poteva farti notare. Le due strofe gli servivano per disegnare alla lavagna il ciclo vitale dei lepidotteri: da bruco in primavera a crisalide nel bozzolo in autunno, a farfalla nella primavera successiva.
Era italiano ed era pure scienze. Scienze? Ma che dico! Nei Programmi del ‘55  le discipline nel primo ciclo non esistevano e nel secondo si riducevano a poco. Basta guardare una pagella di prima e di seconda o di terza, quarta e quinta di quegli anni. Questi documenti li ho. Mia madre li conservava nel primo cassetto del comò.

Pagella di seconda, anno di esame di fine 1° ciclo, il maestro dava il voto a:  Religione; Comportamento ed educazione morale e civile; Educazione fisica; Lettura, scrittura ed altre attività espressive; Aritmetica e geometria; Attività manuali e pratiche.
Mentre ricordo lettura, dettati, pensieri scritti, addizioni e sottrazioni, non ricordo giochi ed esercizi di educazione fisica che, stando ai programmi, in «ogni giornata scolastica» (è scritto proprio così!) dovevano trovare «adeguato ed opportuno posto». Forse per il maestro, l’intervallo e il muoversi dieci minuti per l’aula era già educazione fisica.
Giochi, esercizi e corse,  in verità, non ci mancavano. Le facevamo di pomeriggio per le viuzze del paese o fuori, in campagna, arrampicandoci sugli alberi o facendo capanne sotto le siepi degli orti, tra sambuchi, rampicanti ed ortiche. E che problema c’era se ci pungevamo? Bastava pisciarci sopra.
Quanto alle attività manuali e pratiche, le facevo a casa, ritagliando cartoni per la casetta del presepe o  modellando argilla delle Valanghe (una zona del paese in cui continua da decenni lo smottamento) per ricavarne bambocci che avevano forme vaghissime di pastori, madonne, asinelli, mucche.

Pagella di quinta, ancora anno di esame, di licenza questa volta, con commissione esterna di due maestri.  La valutazione, oltre alle materie già dette,  riguardava: Storia, geografia e scienze; Disegno, recitazione e canto; Lingua italiana che sostituiva Lettura, scrittura ed altre attività espressive. Il resto, vai con Dio.
A ritirare le pagelle, ricordo, i miei genitori non andavano neanche. Lo facevo io.
Andavo timidamente a casa del maestro. Andavo dopo le due giornate di festa di Sant’Antonio da Padova, patrono del mio paese. Non si sa mai. Meglio prima festeggiare!
Questo, grosso modo, ciò che il maestro ci insegnava.

Ogni tanto quando mi ritrovo con amici della mia età, torniamo a recitare la “Pigrizia andò al mercato” o la  “Canzone dei fannulloni”.
In queste settimane, si capisce, lo facciamo per mandare in bestia o per far la felicità del nostro Brunetta.

 Oh, che piacere
mangiare e bere
andare a spasso
e fare il chiasso
senza dolori
senza sudori
senza pensieri
senza lavori
passare il giorno
guardando intorno!

Con questi versetti Lina Schwarz voleva invitarci a non essere fannulloni. Ma vi sembra il modo? Come si fa a non desiderare di essere fannulloni, dopo aver scoperto che è un piacere? A scuola si va volentieri, quando si capisce, come sosteneva Lucio, uno dei ragazzi di Barbiana, che «sarà sempre meglio della merda».
Tornando al mio maestro, era una persona che amava tenersi aggiornata. A casa sua, dove viveva con la famiglia della sorella, una famiglia piuttosto numerosa (quattro figli, se non ricordo male), c’erano molti libri. E lui, dopo pranzo, era solito scorrere le pagine di un giornale e ritagliare gli articoli interessanti o che più gli erano piaciuti.
So queste cose perché in quinta elementare, di pomeriggio, ho frequentato quotidianamente casa sua. Tra l’altro, proprio a fianco, prima delle scale d’accesso, c’era la porta dell’abitazione di mia nonna Lucia, la madre di mia madre. Un sottano in via Forno Giardino che, di riffa o di raffa, ogni tanto dovevo bazzicare, col rischio d’imbattermi nel maestro, incontro non sempre desiderabile.
In verità, e come ho già detto, io venivo più coccolato o viziato in Via dei Fiori, nella casa dell’altra nonna e della zia. E la preferivo. E questo è quanto.

In quinta elementare frequentavo la casa del maestro perché dovevo prepararmi per l’esame d’ammissione alla Scuola Media Statale. Sì, perché allora il sistema funzionava così: tu ti facevi cinque anni di scuola elementare, capitavi se eri fortunato – e io, ripeto, lo sono stato – con un maestro che ti portava dalla prima alla quinta o ti abbandonava, bocciandoti, lungo il percorso e, arrivato nei primi mesi dell’ultimo anno, quello della licenza, il maestro valutava le potenzialità della tua futura carriera scolastica. Se ti riteneva “capitale umano” adatto per la scuola media statale, chiamava i tuoi genitori e faceva capire loro che le 24 ore settimanali non bastavano e che avevi bisogno per superare l’esame di ammissione di andare il pomeriggio a lezioni private. Se, invece, non sembravi adatto per gli studi, ti aspettava l’Avviamento Professionale.
Al mio paese, le classi di scuola media si trovavano al primo piano del Municipio, quelle di Avviamento in un palazzo all’inizio di Via dei Fiori. Insomma, neanche a farlo a posta, nel Municipio veniva sistemato chi avrebbe potuto continuare gli studi  e iscriversi all’Università, fuori chi avrebbe avuto come  futuro al massimo l’iscrizione a qualche corso di perito industriale.
“Lavoro intellettuale” e “lavoro manuale”, da un lato la futura classe dirigente, dall’altro lavoratori e tecnici. Da un lato chi doveva raffinare la propria cultura studiando latino fin dalla prima media, dall’altro chi doveva imparare a leggere il disegno di un circuito elettrico  o il funzionamento di una turbina.

Promosso dalla prima alla quinta con buoni voti, per il mio maestro potevo andare alla scuola media e una sera dell’Ottobre o del Novembre ’59 bussò alla porta di casa:
«Comma’ cosa volete fare con questo figlio?»
«Compa’ cosa dobbiamo fare?»
«Il ragazzo promette, ma le ore del mattino a scuola non bastano».
Quindi, lezioni private pomeridiane. A pagamento, ovviamente. In comode rate, a seconda di come procedeva la storia lavorativa di mio padre. In quel periodo, se non ricordo male, non faceva più l’emigrato in Svizzera e non portavo più i francobolli al maestro; in quel periodo, in un anno gli capitava di essere impegnato diversi mesi come stradino per conto dell’ANAS. E poi c’erano sempre i campi di grano verso Valle Fiumata di sopra e la vigna, a fianco a quella della zia, a Valle Fiumata di sotto. Ma, ad onor del vero, per rigirare zolle, togliere gramigna, raccogliere covoni, ci pensava anche mia madre.

Allora, tra il ’59 e il ’60 cominciai a frequentare la casa del maestro con Ninetta, la nipote più grande, diventata in quegli anni professoressa di Lettere (e ora, purtroppo, già morta), a correggere e ricorreggere temi, riassunti, esercizi di analisi logica e grammaticale, commenti di poesie mandate giù a memoria, problemi, espressioni aritmetiche, potenze, teoremi, formule geometriche.
Non ero solo. Attraversata la cucina, in una sala interna, attorno a un tavolo, eravamo seduti almeno in dieci o forse più. Dei miei compagni di classe, quelli con cui mi vedevo al mattino, ne ricordo cinque o sei. E ne eravamo venticinque. Bella scrematura! In prima media, infatti, eravamo diciannove! (Ho contato le teste sulla foto-ricordo).
Il doppio binario salta nel 1962 con l’istituzione della scuola media unica. Decidere il destino scolastico (e professionale) di una persona a undici anni appariva indubbiamente prematuro.

La preparazione per l’esame di ammissione era tipicamente scolastica. Come ho già detto: leggere ad alta voce pagine antologiche, commentarle, riassumerle, imparare nozioni, concetti, avvenimenti storici e non, memorizzare, capire. Ma cosa voleva dire capire? Spesso voleva dire soltanto ripetere. Non come un pappagallo. Il maestro mi avrebbe guardato storto. «Ripeti con parole tue!» Facile a dirsi.
Dei miei anni di scuola elementare, questi pomeriggi di preparazione, che durarono mesi, li ricordo più di altri. C’era una cura più rivolta alla mia persona, un’attenzione più sollecita e costante. Avevamo un libro ad hoc. E dentro c’era tutto: dall’italiano alla matematica. C’era tutto ciò che a scuola si doveva fare. Tutto ciò che la tradizione e l’autorità volevano che si facesse.
Esprimersi? Che ridere! Se uno di noi avesse scritto come Gadda o  il più recente Rabito si sarebbe trovato il quaderno o il foglio pieno di sottolineature rosse e blu. Una lettera come questa (indimenticabile!) che la zia Francesca mandò a mio padre, all’indomani del terremoto irpino dell’Ottanta, sarebbe stata censurata. Forse anche ridicolizzata. Sta scrivendo una donna appena alfabetizzata, ma che espressione viva! Che sincerità! Quanta emozione!
«Carissimo fratello vi scrive questi pochi richi per darve nostre notizie noi grazie a Dio stiamo bene solo pieni di paura questo terremote che e fatto non te lo posso descrivere di come e stato brutto ma grazie a Dio a bisaccia danno ne a fatto assai noi la stanza dove dormivano le ragazze cela fatto una granata ma il quaio e che non e finito trema una continuazione e non sappiamo come si deve fare due notte siamo stato con mio cognato nelle macchine ma fa freddo questa sera abbiamo deciso di stare a casa vicino al fuoco ma non vogliamo andare in giro chisa pochi minuti fa a fatto un’altra grande scossa e così ti o detto tutto […]»
Il lettore istruito aggiungerà la punteggiatura, correggerà gli accenti, l’uso delle maiuscole, dell’apostrofo,  del verbo avere, ecc. ecc. Laddove la stanza delle ragazze viene paragonata alla “granata” dovrà forse sapere che la melagrana quando è matura si spacca in vari punti. Ma la paura, l’impotenza, l’incertezza di un essere umano di fronte ad una terra che trema in continuazione, alle grandi scosse che si ripetono, possono benissimo essere colte e sono espresse con autenticità.
Pochi minuti fa c’è stata un’altra scossa. “E così ti ho detto tutto!” La conclusione sembra tratta da un film di Totò. O era Totò che “rubava” le espressioni al linguaggio popolare?

I nostri componimenti, invece, erano esercizi di simulazione, finzione.
Tema: Una passeggiata scolastica. Svolgimento: Ieri il mio maestro, che non ci porta mai fuori, perché pensa di togliere tempo alle lezioni, verso le nove e trenta, ha aperto il balcone e ha buttato l’occhio per aria. Il cielo era di un azzurro da togliere il fiato, memorabile; dal nostro angolo potevamo ammirare una di quelle radiose giornate d’ inizio primavera che ti dicono meno male che sei al mondo. Neanche una nuvola a volerla pagare oro. Neanche un filo di vento. Qui, in questo paese che il vento soffia trecentosessantacinque giorni all’anno.
Ebbene il mio maestro, dopo aver guardato il cielo, ha scrutato i nostri occhi timorosi. E lui che senza mai stancarsi spiega e detta e scrive alla lavagna e corregge e ascolta noi che ogni mattina per mezz’ora leggiamo portando il segno col dito indice sulle riga, rivolto a noi, ha ordinato: «Mettetevi in fila!…Usciamo, andiamo a fare una passeggiata al Pilone» «Uuuaaahh!» Esplosione corale. «Ah, no! Zitti! Se fate così, non usciamo!» E noi zitti, in silenzio tombale.
Allora ci siamo messi in fila per due, i più bassi avanti e i più alti dietro. Usciti dal portone, ci siamo immessi nel saliscendi del corso centrale del paese:  Convento delle suore, piazzetta del Carmine, salita ripida delle Forge, piazza Duomo, Scalelle, Cupa, Strada provinciale, bivio, Statale in direzione di Lacedonia e, dopo un po’ di curve a serpentina, finalmente il Pilone, nostra meta.
La zona si chiama così perché c’è una fontana d’acqua fresca che sgorga dal pendio alle spalle. E poi “pila”, in dialetto, vuol dire proprio fontana, luogo di raccolta dell’acqua, in cui tuffano il muso anche animali come asini, muli o mucche.  Il maestro ci ha fatto bere. Però, siccome eravamo un po’ sudati per la galoppata di quasi due chilometri, ci ha ripetuto come bisogna comportarsi in questi casi: lavarsi prima le mani, bagnarsi la fronte e poi bere piano piano, mettendo le mani a fontanella o facendone una coppa. «E adesso giocate! State attenti a non farvi male!» E noi a correre, a rotolarci sul prato verde, a fianco del boschetto, fra ciuffi d’erba, trifogli e margherite. Noi a fare capriole, a tentare una saltacavallina o un girotondo col compagno toccato alle spalle che deve correre. Non ci sembrava vero: un’ora meravigliosa, piena di gridolini, di vociare intenso, di allegria, di grembiuli finiti sulle siepi, di felicità. Verso mezzogiorno: «Rimettetevi in ordine! Ora si torna in classe!» E siamo tornati, rifacendo la strada, in fila per due, mormorando a bassissima voce, coi cuore contento, felice di una felicità amara. Quando ci toccherà ancora una giornata così?

Per il mio maestro era un punto d’onore dedicare le 24 ore settimanali alle lezioni, esclusivamente alle lezioni, mentre altri suoi colleghi – e c’era una critica neanche troppo implicita – ogni tanto, mettevano i bambini in fila e li portavamo di qui o di là: a Piazza Convento, al Piano Regolatore, sotto il Castello.
Il maestro era orgoglioso di questa sua scelta, ma noi sognavamo gli altri maestri, i suoi colleghi.
Li sognavamo alla faccia del soldato che pronunciava “Guai ai vinti!” e dei capoluoghi di provincia del Piemonte. Chi mai ci sarebbe andato pensavamo nelle nostre testoline ad Asti-Cuneo-Torino-Novara-Vercelli? Chi se ne fregava della Mole Antonelliana, del Parco del Valentino e di Camillo Benso conte di Cavour?
Avevamo i nostri monumenti (al cimitero), il nostro Castello e i nostri uomini valorosi morti in guerra e ricordati sulle lapidi, come quel tenente di vascello che aveva lo stesso cognome del nostro maestro, Bartolomeo Lapenna.

Purtroppo, il mio maestro da questo orecchio non sentiva. Dovevamo imparare e basta, memorizzare, ripetere. Apprendimenti meccanici? Sì, in parte sì, apprendimenti meccanici, automatismi. «In futuro, vedrete, nella vita vi torneranno utili».
Non si può dire che il mio maestro fosse un seguace di metodi attivistici.
Una volta ci portò ad ascoltare la radio nel salotto tutto polveroso di D’Albenzio. Dalla cucina veniva un odore cattivo che lacerava stomaco e narici. Me le aspettavo più ben tenute le case dei signori e, invece, c’era un disordine pazzesco. Non ricordo cosa ascoltammo alla radio, forse una lezione di scienze. Io ricordo solo che ci spostammo. Ogni volta che lasciavamo quelle mura, che abbandonavamo al silenzio la lavagna, la cattedra, i banchi, le cartine geografiche d’Italia e d’Europa, era una gioia. Fosse stato pure per andare a sentire il sermone di qualche altro maestro sulla Festa degli alberi o per andare in chiesa a sentire la Messa. L’imperativo era uno: uscire dall’aula-prigione oppure sperare che il tempo passasse in fretta. Forse esagero. Sicuramente ho vissuto momenti piacevoli. Ma se mi fermo e lascio volar la mente le immagini che ritornano sono quasi sempre le stesse: lettura ad alta voce di un brano, spiegazione, dettato, correzione, esercizi di aritmetica, interrogazioni…
I momenti migliori vissuti in aula riguardavano le spiegazioni di storia, raccontate attraverso i personaggi: Romolo e Remo, Scipione l’Africano, Cesare, Attila, Teodorico, Mazzini, Garibaldi. Per scienze c’erano i grandi inventori (Marconi, Meucci, Pasteur) e per geografia i grandi esploratori: Colombo, Amerigo Vespucci.
«Terra! Terra! Gridarono i marinai all’alba del…». Brani antologici, letture ripetute. Tolta l’Università, in tanti anni di scuola, non ricordo d’aver mai usato un microscopio. Anche soltanto per un attimo, anche solo per capire da vicino com’era fatto.

I momenti più belli vissuti col mio maestro sono stati quelli non scolastici, quelli in cui forse lui pensava di non insegnarmi niente. Come quando mi portava con lui al Patronato o come quando gli facevo da assistente nel riordinare i libri della Biblioteca scolastica. Probabilmente il direttore (di cui so il nome soltanto per averlo letto ieri sulle pagelle) gli affidava  questo compito e lui lo svolgeva nel pomeriggio, facendosi aiutare da qualcuno di noi.
Quando chiamava me, ero felice di andarci. E tornavo poi a casa sempre con qualche titolo: Le avventure di Robinson Crusoé, Il barone di Munchausen, I viaggi di Gulliver, La tigre di Mompracem, Il viaggio di Ulisse, Il libro della jungla, e così via.
Il fatto più importante era questo: lui mi invitava a portare a casa il libro che mi piaceva per una qualche ragione: titolo, illustrazione, caratteri, ecc. Lo potevo tenere quanto volevo. Potevo portarmene a casa anche più di uno. Una volta, ricordo, ne ho portati quattro e mia madre sgranò gli occhi. Quando volevo, cominciavo a leggere e, se mi annoiavo, lasciavo stare. Tanto ero sicuro che il maestro non mi avrebbe chiesto niente. Non era un compito, ecco la bellezza.
Facendo così lasciava libera la mia curiosità e non soffocava il piacere dell’esplorazione.

Non ho dubbi: stare con una persona quattro ore al giorno, per cinque anni, lascia segni, tracce sul tuo corpo. Io, però, non saprei dire con quale inchiostro il maestro ha scritto sul mio corpo o nella mia esistenza. Farei fatica ad attribuirgli tutte le mie scelte successive. Certo, alla scuola media sono andato grazie a lui. Se di me avesse pensato, quello che pensava di altri miei compagni, m’avrebbe respinto e sarei finito a ripetere l’anno. E i miei qualche anno sarebbero stati disposti anche a farmelo ripetere. Ma se la scuola elementare l’avessi frequentata in dieci anni, invece che in cinque, ho l’impressione che non starei qui a raccontare.
Un maestro o una maestra segnano. Ripeto, bisognerebbe capire con quale inchiostro. Per certi versi è quello simpatico. Capisci dopo che forse devi la tua smania dei libri a quelle frequentazioni piacevoli della Biblioteca scolastica col maestro. Altre ce l’hai addosso da sempre, dalla prima elementare: se conosci la tavola pitagorica a memoria e speditamente è perché lui ogni giorno la chiedeva, così come ogni giorno faceva leggere ad alta voce. Ma l’apprendimento  e l’esercizio spedito di queste due abilità fin dalla prima elementare, le devo soltanto al maestro? Direi di no. Sia per la lettura spedita che per la memorizzazione della tavola pitagorica, credo di dover molto alla zia Francesca e alla nonna Concetta.

A sei anni
ho letto e riletto mille volte
i nomi delle strade.
Pura ginnastica degli occhi.
Ricordo le tavole dell’alfabeto
l’Ape e la Bandiera,
la Casa e il Dado,
l’Elica e la Farfalla.
Passato e ripassato il sillabario,
a Natale mia zia
mi aprì le pagine di un libro nero,
mi esercitai sulle parabole
del Vangelo.

Io ero il primo nipote maschio del primo figlio maschio della nonna. In una cultura maschilista come quella degli anni Cinquanta, ero un po’ il “principino”. Affidato a queste due donne, non venivo soltanto coccolato, ma protetto, in modi non molto dissimili da quelli di una madre d’oggi nei confronti dell’unico figlio. Protetto vuol dire che mi stavano sempre dietro, non mi lasciavano uscire perché avevano paura che potesse succedermi qualcosa. Diciamo che erano apprensive. E poi mi stimolavamo: «Dai, Donato, facci vedere come sai leggere!» La nonna  era analfabeta; per ritirar la pensione faceva la croce sul mandato; la zia era arrivata ai primi mesi della terza elementare. In casa non c’era radio né televisione. La lampadina della luce elettrica era a forfait, si accendeva, cioè al cader del crepuscolo e si spegneva all’alba. L’unica distrazione ero io. E così ogni sera per ore e ore con la zia e la nonna che stava ad ascoltare: lettura ad alta voce, ripasso dei compiti, memorizzazione della tabellina riportata sul retro di ogni quaderno.
Non basta riconoscere lettere e sillabare parole. La lettura spedita e corretta, espressiva, la lettura “compresa”, che consente a chi ascolta di comprendere, è altra cosa. Senza l’esercizio non si raggiunge.
Fare l’inventario di quante tracce il maestro abbia lasciato su di me è quindi difficile. Le persone si assorbono reciprocamente, si contagiano, si idealizzano. È probabile che lui idealizzasse me come bravo alunno, così come io facevo con lui. Tanto per dirne una, il mio maestro non pronunciava correttamente alcune consonanti: maglia sulle sue labbra diventava maia, figlio fiio. E il suono dialettale  bedda di un siciliano che deve dire bella, sarebbe rimasto bedda. Un difetto chiaramente. Ebbene io, non ho fatto mai granché caso.

Pur essendo stato in seminario, non saprei dire quanto il mio maestro fosse credente e religioso.
I Programmi del ’55 consideravano l’insegnamento religioso «fondamento e coronamento di tutta l’opera educativa» e, come se non bastasse, invitavano a far iniziare la vita scolastica quotidianamente (è scritto proprio così!) con la preghiera «che è elevazione dell’animo a Dio, seguita dalla esecuzione di un breve canto religioso o dall’ascolto di un semplice brano di musica classica.» Sinceramente non ricordo giornate scolastiche avviate così. I canti religiosi li sentivo dalla zia e la notte, prima di addormentarmi, era lei che mi faceva ripetere la preghiera all’Angelo Custode o quella per i defunti. Le preghiere direi che me le ha insegnate la zia. Era così bizzoca da risultare insopportabile persino alla nonna.

Il mio maestro era un democristiano e una volta, ricordo, si candidò per il Consiglio Comunale. Venne a chiedere il voto ai miei genitori. Ma mio padre e mia madre erano comunisti e, per quanto lo stimassero, non credo che nel segreto dell’urna l’abbiano votato. Infatti, non venne eletto e per un periodo se la prese con l’irriconoscenza del mondo.

Un’altra cosa che ricordo del mio maestro era il suo rispetto per l’Autorità (quella con la A maiuscola). Se in classe arrivava il direttore (tre o quattro volte in cinque anni), scattava in piedi prima di noi.
Tutte le volte che son tornato al paese e ho incontrato il mio maestro l’ho sempre salutato. Non era persona da mettersi con me a fare lunghe conversazioni. S’informava credo per altre vie. Penso che fosse contento di quello che facevo.
Quando ho vinto il concorso direttivo, un’estate, tornando al paese, mi fermò un attimo per chiedermi delle informazioni su alcuni aspetti normativi. Si rivolse a me con tale riverenza da sentirmi imbarazzato: «No, signor maestro, non deve rivolgersi così a me soltanto perché faccio il direttore. Io non sono il suo direttore, io sono sempre il suo alunno e lei il mio maestro. E lo sarà fino alla morte.»
Il mio maestro è morto a fine luglio del 1997, il 29 forse o il 30. Lo ricordo perché ero già in vacanza al paese e potei unirmi al corteo che l’accompagnava al cimitero.

  Ottobre 2008

APPENDICE: IL MAESTRO, L’ELENCO DEI POVERI, E IL PATRONATO SCOLASTICO

Si era nella seconda metà degli anni ’50.
Ragazzo, aiutavo il maestro al Patronato, ente morale di cui forse egli era il presidente. Nel paese organizzava la refezione scolastica e distribuiva gratuitamente i libri di testo ai figli delle famiglie iscritte nell’elenco dei poveri.
Per me il Patronato era soprattutto un luogo: il palazzo Bartolini, un ampio portone signorile che dava accesso ad un cortile interno, una scalinata, una loggia, una ringhiera e tre o quattro stanzoni con annessa cucina nella quale alcune donne – ricordo un nome: Elvira e l’immagine di una vedova ancora giovane – preparavano il mangiare per una folla
di vocianti accalcati sulle scale al mattino e al mezzogiorno.
In quel palazzo, in ottobre, si accatastavano pile di libri di lettura e sussidiari (qualche titolo: “Cielo sereno”, “Campo fiorito”, “Strada maestra”…) che il maestro ed io, suo curioso ed obbediente assistente, scartavamo, spostavamo e timbravamo prima di depositarli nelle mani dei destinatari.
Non sapevo chi materialmente compilasse l’elenco ed in base a quali criteri. Per me la cosa era materia di congetture. Ho in mente, però, con precisione mia madre che annualmente andava a “litigare” col maestro perché anch’io fossi compreso nella lista da lei tanto agognata. Eravamo ricchi forse noi? E lo eravamo più di tizio e caio? Immancabile, a questo punto, l’esempio di qualche famiglia ingiustamente compresa, a suo parere, nel famigerato elenco.
Dai suoi litigi capivo che esso si restringeva o si allargava non solo in base al bisogno, ma soprattutto alle simpatie politiche e parentali.
Il maestro era stato candidato democristiano al Consiglio comunale; la mia famiglia, invece, era comunista e mio padre un occupante di terre nel ’50.
Comunque, mentre ero felice di osservare, toccare e timbrare libri, di tutto questo lamentarsi e chiedere di mia madre avevo vergogna. Al mattino preferivo andare a scuola digiuno piuttosto che vedermi riconosciuto il diritto a bere una tazza di latte in polvere o a mangiare una porzione di riso e fagioli alla refezione.
Smanioso di divorare immagini e parole, meno ancora sopportavo l’attesa dei libri gratuiti. Non arrivavano prima della fine d’ottobre, mentre ad andarli a comprare, le cartolerie li consegnavano nella prima settimana di scuola.
Quando furono aboliti i Patronati (DPR 616 del 1977), ero consigliere di fresca elezione e diverse regioni d’Italia legiferavano sul “diritto allo studio”, prevedendo, tra l’altro, la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola elementare.
Anche se parzialmente, e con notevole ritardo, si dava attuazione all’articolo 34 della Costituzione che prevede l’istruzione inferiore, «impartita per almeno otto anni, obbligatoria e gratuita.»
Una scelta di civiltà, un diritto di tutti, per il figlio del ricco come per il miserabile costretto a vergognarsi della propria condizione.
Oggi, con lo smantellamento frenetico di quello straccio di stato sociale costruito nel dopoguerra, capita di leggere parole come queste: «I libri di testo delle elementari dati gratis è ormai solo pura leggenda» (La Repubblica, 3/9/1993).
Sulla bocca di un leader sindacale degli insegnanti questo è solo egoismo di gruppo. Quei soldi, invece di destinarli alla realizzazione di un diritto riconosciuto a tutti, certi li vorrebbero nelle loro tasche o in quelle della loro corporazione.
A seguire tale logica, bisognerebbe chiedersi perché, oltre ai libri, le famiglie non dovrebbero, allora, pagare anche la maestra, il riscaldamento degli edifici, i banchi e gli armadi? Perché, insomma, non chiedere l’abolizione dell’articolo 34 della Costituzione?
Si sarebbe più coerenti e si capirebbe per quale società lavorano. Invece, costoro non sono capaci di tanta sciagurata coerenza. Vogliono continuare a far pagare le tasse togliendo alla maggioranza, ai poveri, ai deboli anche quel poco che hanno.
Sindacalisti simili sono già sulla strada della Lega.

1993

Dieci poesie

di Umberto Di Donato

Prima dei versi, qualche considerazione in via preliminare-.

*
Usciamo da un equivoco: si afferma che chi scrive vuole farsi leggere. È vero, ma dipende da chi. Per quel che mi riguarda, condivido totalmente ciò che Mandel’štam dice benissimo nelle poche pagine del saggio Sull’Interlocutore. Completando il quadro, aggiungo soltanto che alcuni profeti, spirituali, maestri da strapazzo, riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative, basta mettersi all’ascolto. Io non ci credo, l’universale puzza di complotto, ed in più dico che il poeta non è la poesia, ma compone poesie, ripeto, non è la poesia, così come una fonte non è l’acqua. È quest’ultima che noi dovremmo bere, non la cannella. I poeti che profetizzano, che salvificano, che fanno sermoni, in realtà vogliono essere bevuti; e possiamo noi lettori in verità non soddisfarli!? Ora, ponendoci dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza, si può sostenere che se non vengono letti non hanno vita? Non lo so, ma comunque è un loro problema, non il mio, ed in definitiva non di chi le scrive. 

**
Il gesto, l’azione senza frutto, un interlocutore ipotetico, un altro me. Lotta serrata alle piccole vanità. 
Mi preoccuperebbe molto sapere che un mio testo possa emozionare chi frequenta i teatri, i cinema, i festival, gli eventi, i luoghi deputati alla cultura. Anche il libro è un luogo deputato. Il libro non è l’opera, è un supporto, e la possibilità della fruizione attraverso il supporto influenza la collocazione, la distribuzione, induce ad organizzare i singoli testi nello spazio del commercio. Io stesso ho commerciato nella mia preistoria testuale, soggiogato dal libro/supporto e pensandolo nelle mani di qualcuno. Ho recintato, secondo una logica indotta dall’esterno, dodici anni di esperimenti in quattro libri che materialmente non esistono ancora: Motore a combustione interna (1993-2002), Fossa comune (lugliosettembre 2001), Per fortuna non lavoro (2003), Reo confesso (2003-2005). Ormai il danno è fatto.

Vigliacco! 

Poi ho capito. Niente più organizzazione, sequenza esclusivamente cronologica. Massima concessione: titolo alla sequenza per connotare l’arco temporale, per connotarlo a me (ma non ne sono ancora certo). Ridurre al minimo la schiavitù. 

Nel 2004 scrissi questo testo:

“In verità è il poeta che ammazza la poesia, la violenta, la percuote, è la sua voglia di piedistallo. Quando il poeta contemporaneo va in televisione, ed aspira ad andarci, viene schiacciato nei ritmi serrati della distruzione scientifica, della telecamera crematoria. Poi la pubblicità, che rappresenta il momento in cui l’immagine si sposta dalla piramide dei cadaveri al fumo delle ciminiere di Auschwitz.

Anche nel libro vive lo spirito del gulag, del lager: l’ordine, la disciplina, la sequenzialità degli atti, le sezioni, multipli e sottomultipli; la morte. Ma è una morte che ha in potenzialità la sua resurrezione. Per me il libro, cioè quel tanto d’ordine che si cerca di dare al naturale spirito da fuggiasco del poetare, è il box con recinzione morbida in cui si mettono i bambini. Essi stanno lì, giocano, piangono, si aggrappano alla rete, ma siamo certi che cresceranno, che supereranno il varco. E poi il filo spinato/copertina non è attraversato dall’elettricità. Toccandolo non si corre il rischio di essere folgorati.”.

Adesso lo integro e lo supero nella direzione sopra esposta.

1

Il mio è un lavoro di concetto,
ma so che alcuni
lavori manuali sono
davvero tremendi per cui penso
che tutti vogliono andare in ufficio.
Invece no: «mai otto
ore in galera, meglio
spargere col caldo nero catrame».
 
Il problema non è il concetto oppure il manuale,
ma quell'otto,10,12,
così come sei ore a scuola [e che strazio fu per me la scuola!].
 
Riformare: competenze, competizione, i migliori,
che nove volte su dieci non sono
figli di poveri o quasi poveri.
Sburocratizzare: che vuol dire
sostanzialmente tagliare senza
risolvere il problema perché i tempi
lunghi sono nelle procedure.
 
Io ho risolto in questo modo:
ho un impiego, ma non lavoro,
o comunque lavoro poco
-e per piacere non si sparga
troppo in giro la voce-.
 
Desiderare un lavoro. Incredibile!
 
«Che lavoro vuoi fare da grande?».
Così comincia presto la rovina.
 
Io volevo fare il terrorista, ma poi
ho ripiegato sul pubblico impiego.
 
Chiedo comunque aiuto.
 
Bisaccia, 02.04.2021, ore 09.00-09.30, stanzetta, in tv si parla di lavoro e di riforme.




2
 
I versi che scendono troppo
nel presente hanno di certo vita breve.
Ma non importa,
nun me ne fréca pròbbie niénde.
 
Morire violentemente mentre si lavora!
 
Io sto lavorando, seduto, senza
gocce di sudore sulla fronte.
 
Si lavora non più solo  
per mangiare, ma per tanti
piccoli bisogni singolari.
 
Ipocrita! Eppure la mia
colpevolezza è poca cosa
rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende,
governa o vuole governare
[poca cosa ho detto, si badi,
e il poco è un essere comunque].
 
Amministrare il contingente, va bene, è giusto,
ma un po' si può pensare
-dico un po', un nonnulla- a come lavorare tutti meno,
ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire
guardandoci negli occhi quel futuro
che a me non appartiene?
 
Non ci serve più governo,
ma un governo amorevole che dica:
«non avete bisogno di me».
 
Non capisco, non avviene nulla.
 
Io ho un programma, minimo, di annientamento,
velleitario forse, ma sincero.
Al momento ho convinto solo tre persone.
 
Il suo nome ha origini
polinesiane e significa
godersi il tempo libero.
 
Incredibile la beffa!
 
Grosseto, 06.05.2021, ufficio, ore 11.30-12.00 circa, pensando a Luana morta sul lavoro, e pure a quiru pòveriéddo re Peppino.
 


 
3
 
Vedo vari gruppi, coppie, famiglie, amici.
Il tempo libero,
il che significa che la rimanente
parte del tempo libera non è. Giusto?
 
Cosa si fa nel tempo libero?
Niente di libero ovviamente:
centri commerciali con acquisti pilotati,
bevute e cene in cui
si è delle comparse, relazioni
con sceneggiatura sottostante.
 
Non si tratta neanche più di massa
-e stiamo parlando di una massa grassa-,
o di società del consumo;
melma, melma, melma.
 
Non è la cultura che manca,
o le buone letture
-esiste anche la melma colta-,
manca l'uomo, l'uomo dignitoso,
lo schiavo che sa di essere
tale per merito delle bastonate.
 
Schiavo anch'io, ma voglio andare in miniera,
che siano torture tutti i giorni.
Non so cosa farmene
di questa schiavitù con l'aperitivo,
con visita guidata nei musei,
della promozione fasulla dei diritti,
del patrocinio di ministri ed aguzzini.
 
Anche la banca, che già ruba l'altro tempo,
vuole il mio tempo libero e mi scrive:
«Ciao, hai pensato alle prossime vacanze?»,
(ma io e la banca da quando siamo amici?
-memorandum: prosciugare il conto-).
 
Ma dove sono finito?
 
L'unico tempo libero che mi aspetta
inizia sulla soglia del cimitero,
... e meno male.
 
Grosseto, centro, 13.05.2021, ore 19.00-19.30 circa.
 
 
 
 
4
 
Pose il comune in memoria dei caduti
del quindicidiciotto: sei persone
"che con sacrificio onorarono la patria".
Chissà se lo rifarebbero,
se pensano ancora di aver onorato!
 
Anche questa è una radiosa giornata di maggio,
e si dice che siamo in guerra
contro un nemico invisibile.
I miei nemici al contrario sono
onnipresenti e mi guardano storto.
Mi considero in una fase da categorie del politico,
e devo difendermi purtroppo
-anche da questo cane, da questi gatti,
da questi uccelli provinciali.
 
In linea d'aria il mare è vicino, 
vedo il Giglio, qualche vela,
la città sfavillante nella piana.
Il borgo medievale
naturalmente è tutto pietre,
archi, vicoli e mattoni.
 
Silenzio! Il paese vive
prepotentemente in me.
 
In realtà dovrei fare l'asceta, dovrei
compiere il passo decisivo come già
feci mille anni fa; sono caduto
tante volte, ma non in guerra,
e tante volte ancora cadrò.
 
Non posso credere che oggi
lanciano bombe invece
di abbracciarsi felici e fare un picnic.
Cosa trattiene tutta quella gente?
Anch'essi vogliono onorare?
 
Terra santa? Dite?
 
Mi rendo conto solo adesso
di essere seduto in Vicolo
della Saggezza, 2 ... -ed io pensavo che fosse cieco-.
 
Bene, bevo, riempio
le borracce e riprendo a pedalare.
Il ritorno è quasi tutto in salita.
 
Montorsaio, 15.05.2021 ore 10.00-10.30, panchina, notizia bombardamenti in Palestina.



 
5
 

Un clima, un momento, un'aria
che anticipa e che presuppone;
intorno a me, meglio:
su di me come una muta.
E quindi un ritmo, interno,
sereno, serrato, da qualche parte,
emerge e pian piano s'impone.
 
Scelgo di dare o di non dare corso.
 
Poi sarei figlio del mio tempo, della mia epoca.
Ma lei di chi è figlia?
Ha vita propria oppure
è un congegno creato per sfinire?
Cosa vuole da me?
E se la misura della mia vita
fossero i millenni a quale
epoca apparterrei?
 
Schiavo di tutto,
...
se già nelle strutture
del linguaggio si annidano il potere,
la gabbia e la prigione; quindi
si consiglia di sabotare la sintassi,
di attaccare dall'interno ma per molti
interno significa cravatta.
 
Sabotare il linguaggio a mio avviso non si può.
Neanche col silenzio.
 
Già che ci siamo perché non ai ceppi?
 
Così è la muta -non la musa-
che mi viene in soccorso, che mi affranca, che mi aiuta.
 
"Con potete culo quelle pulirvi il bandiere".
 
Non sono riuscito a dargli torto
-pur nella la normalità della sintassi-.
 
Bisaccia, 02.06.2021, festa della repubblica, stanzetta, poi la voce di un contestatore, ore 12.30-13.00 circa.
 
 
 
  
6
 
Seduto sotto il tiglio sto pensando,
rimuginando, ma non dovrei.
Non renderò quest'albero sacro, e credo che oggi
non m'illuminerò -nel senso del Buddha intendo-.
 
Non illuminato, ma comunque tranquillo.
Estendere questo stato, isolarmi, stare solo.
 
Devo risolvere il problema
del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio.
Se mi licenziassi domani, pur riducendo
al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei.
Non so rubare, scassinare, investire in borsa,
non so ingannare. E allora?
E allora una bestemmia ci starebbe bene,
ma non Antonio però, il santo patrono
al cui cospetto tutto questo accade.
 
Non posso nemmeno farmi monaco,
prete perché dovrei
battezzarmi e tutto il resto
(e tutto il resto è in ogni confessione).
 
Pietrificarmi? Magari!
 
Il mio futuro, tolto lo svanire degli affetti,
è nel suicidio o nell'ascesi -in ufficio infatti
ho iniziato a meditare, concentrazione
su un solo punto-.
...
...
Ma cosa c'è?
Sembra che il vento adesso stia parlando:
«Perché non aspetti la pensione?».
 
Maledetto, vuoi provocarmi, vuoi litigare?
 
Calmo.
Un solo punto,
un solo punto.
 
Bisaccia, 18.07.2021, Convento, ore 10.30-10.45, più o meno.
 
 
 
 
7
 
Insomma ho provato, letto,
riletto, analizzato, pensato.
E allora anch'io
nel mio parlar voglio esser aspro[1]:
mi stanno con dolcezza inculando,
ma non ancora del tutto violato
ad un'azione cruenta sto pensando.
 
Se Dante il sommo celebrato
in parlamento, nelle chiese e nei bordelli,
ha condannato decine di persone,
perché non posso io desiderare
che qualcuno bruci vivo nelle fiamme
di un talk show televisivo?
 
«Bastardo, ti vaccineremo».
Povero me.
No pax.
 
Mi disturba tutto,
dico sempre le stesse cose
-ma le dico bene-,
ho raffinato le mie capacità
di analisi, di sintesi e la mia
forma non è poi così meschina.
L'amore non mi basta, i miracoli, la gioia,
gli appelli alla bellezza che si fa
puttana, consolazione e propaganda.
 
Non parlerò più con nessuno, ho deciso,
neppure con gli uccelli.
Io mi svago al tavolino e lavoro in società[2].
Visto che non sopporto più il lavoro
è tempo di tagliarlo nella parte
che non mi dà sostentamento.
 
Si, l'uomo è un essere sociale,
ma io credo non essenzialmente.
Non mi interessa cos'è nella sua essenza,
non ho voglia adesso di filosofare.
Mi basta evitare per il momento il fango.
...
Inizia così
il mio mediocre medio evo.
 
Grosseto, 12.08.2021, sul letto, ore 20.00-20.30 circa, rielaborando registrazione vocale.
 
 


8
 
Mio caro parliamone,
ma sii chiaro, diretto, schietto.
 
Desidero un milione di euro
-anche il porcospino lo voleva,
ma io coscientemente-.
La realtà mi assale,
e la realtà sono anche gli altri.
Poeti, filosofi e scienziati
non mi servono più a nulla.
Dove un po' di pace?
Forse in un bosco percorrendo un bel sentiero.
 
I sostenitori della realpolitik
non rompessero oltremodo.
Non sono confuso, o frustrato;
spesso i realisti affermano
che posizioni e posture tali
sono una forma di disturbo,
... o meglio: una forma d'impotenza.
Come se dovessi per forza dire
che la vita è vita ed è così com'è.
No, non lo dico e preferisco
subire, incassare, prendere legnate.
 
Quante parole, è un turbinio di bocche aperte,
un ammasso di coglionerie.
I giornalisti andrebbero tutti imbavagliati,
mi avvelenano il sangue.
Non lo posso permettere.
 
-Sessanta secondi di pubblicità-.
 
Monopolio della forza legittima.
Gira e rigira sempre questo è il punto.
 
Ma si, maledico tutti i miei contemporanei,
oggi mi è presa così; e per non dimenticare
che questa è una poesia faccio presente
che la pineta di fronte è come il colle,
l'orizzonte -neutrale- è mio compagno,
e il naufragar m'è dolce in questo stagno [zampilli d'acqua, tre papere, un ranocchio].
 
Vai, adesso mi sento meglio,
lo sfogo è servito. Ritratto 
la parte non lirica.
 
Grosseto, Parco Giotto, 23.08.2021, ore 19.00-19.30, più o meno.




9
 
Perché un essere umano,
un buon cittadino non dovrebbe
provare odio?
Dicono che odiare sia dannoso,
che questo sentimento è brutto,
peccaminoso. Stupidaggini!
 
Io di questi tempi odio, ed anche tanto.
Il treno è in ritardo, niente coincidenza,
sono mascherato, controllato,
divise ovunque e poi transenne, obliterazioni, tornelli.
È chiaro che non la finiranno più.
 
Oggi non farò colpi di testa (domani chissà),
ma fatemi almeno odiare.
Così, banalmente, prevedibilmente,
da intelligenza mediocre e luogo comunista,
mi vedo solo con un mitra in mano,
e di fronte a me tanti governi
in fila, sindacati, imprenditori, intellettuali.
Sono questi maniaci
dell'apparire, dell'emergere, gestire,
questi cultori della norma, dementi
seriali, democratici per finta, animali, vermi,
a tenerci adesso tutti sotto scacco.
 
Su, via, sono inerme,
dal punto di vista della prassi innocuo,
ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic
creativo di un grilletto.
Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire.
Allora dite quello che vi pare,
già conosco l'apparato
retorico che mi si potrebbe
di certo contrapporre.
 
Detto questo,
io non mi rodo il fegato,
né ho del fegato.
 
Dopo tutto resto un moderato.
 
Roma, stazione Termini, 27.08.2021, ore 10.15-10.45, più o meno.




10
 
In certi momenti esprimersi è fatica,
e vorrei cedere il passo.
Ma non devo,
ma non posso.
Non sono irresponsabile come un dio,
ed ogni giorno è una piccola conquista.
 
Mi disturba la mia mortalità,
dover lavorare per nutrirmi
e per poter lavorare domani.
 
Edificare esige tempo.
 
Sono tormentato, di giorno e di notte,
ma non si tratta del tormento
ridicolo dell'artista. Sacrificherei
tutta l'arte del mondo
per un attimo di chiarezza,
per uno sguardo diretto sull'abisso,
sull'oscuro, sull'orrido e il melmoso.
 
Non ho risposte all'assurdo che c'è nell'esistenza,
e il volere non è potere in questo campo.
 
Formalizzare una volontà,
abbattere il mostro,
quello che ci opprime dall'esterno,
e quello che ci schiaccia dall'interno
-che poi è lo stesso mentre si diverte
 ad una festa di carnevale-.
 
Io non rivendico per me cose speciali,
quello che voglio lo voglio per tutti:
poche/nulle pene per il sostentamento,
e poi tempo, tempo, tempo.
 
Se un giorno si arrivasse
a risolvere definitivamente il problema
delle necessità materiali,
a risolverlo urbi et orbi,
resterebbe comunque quello
della mortalità. E qui saranno guai!
Si sarebbe tentati di dire
che le esperienze sublunari sono
un argine in qualche modo
(ed infatti non mi lasciano
disperare di certo a tempo pieno).
[  ]
A proposito di disperazione: oggi si va a votare;
ma io no, così da tempo ho deciso.
«Allora devi stare zitto,
non ti puoi lamentare».
E chi si lamenta.
Io affermo, io asserisco,
io subisco l'ordine
parlamentargovernativo.
Io sono incudine!
 
La rappresentanza non mi interessa,
e non voglio rappresentare.
Bocciato il pensiero liberale,
se considero il linguaggio di molti
autori marxisti mi manca il respiro.
Potrei anche condividere
molte cose, ma l'aria è tutto.
Così preferisco le soleggiate
scampagnate fuori porta delle dolci
correnti libertarie.
 
Adesso posso dirlo caro Errico,
e non si tratta di una semplice opinione:
tra una mite utopia e la cruda
certezza dei macelli scelgo
la prima e incasso.
 
Concludendo, noto che in tv
stanno da tempo sibilando i draghi;
io non sono (ahi me) l'arcangelo Michele,
ma dico amichevolmente ai miei nemici:
tenetevi il PIL,
scopatevi il PIL,
impiccatevi al PIL.
 
Grosseto, 03.10.2021, sul divano, ore 21.00-22.00.
 
 
 
 
 
 
 


[1] Dante, Commedia.
[2] K. Kraus, Detti e Contraddetti.

Sull’altopiano di Verteglia

NOTE DI FINE ESTATE (3)

di Donato Salzarulo

 

Domenica Giuseppina dichiara sciopero: niente sugo, pasta comprata o fatta in casa, padelle da pulire, tavola da apparecchiare o sparecchiare.

«Non mi hai detto, l’altra sera, tornando da Montella, che è un luogo assai interessante da visitare?… Ebbene, io non ci sono mai stata. Mettiti d’accordo con Agostino e portatemi là. Ci sarà pure un ristorante, una trattoria, un luogo in cui assaggiare qualcosa di buono …»

Alcuni desideri di mia moglie per me sono ordini. Anche perché quando lei dichiara sciopero in cucina, io non sono come quei meravigliosi e invidiabili mariti, pronti a sostituirla e a dimostrare che sanno fare quasi meglio di lei. Il mio non è un vanto. È soltanto una costatazione. Ai fornelli sono poco meno di un inetto. Lo so, non devo neanche esagerare a dire questo. In più di mezzo secolo di matrimonio, potevo pur imparare qualcosa. Sì, tutto vero. Ma, come recita il proverbio, “Tra moglie e marito non metterci il dito”. Gli equilibri di una coppia sono spesso in bilico e va già bene se finora siamo riusciti a gestire i nostri conflitti con saggezza e qualche inevitabile sofferenza…

La nostra non è una guerra,
ma una lunga avventura,
una partita escogitata
per rivelarci ogni giorno
i segreti del vento,
il sorriso giocoso
dei nostri sguardi infantili.

Verso mezzogiorno, grazie alla bravura e alla fraterna disponibilità di Agostino, sistemati nella sua macchina, viaggiamo diretti verso l’Altopiano di Verteglia, frazione di Montella. Mangeremo al Ristorante “La Faja”, una bella struttura immersa nel verde.
Per arrivarci, ad un certo punto, ci lasciamo alle spalle la Statale 7 e ci inerpichiamo lungo la Statale 574. Però, prima di svoltare a sinistra e dirigerci verso il Terminio, sentiamo che la macchina perde potenza. Qualcosa non va.
«Nulla di grave…», ci rassicura Agostino, «devo spegnere per qualche minuto il motore e poi ripartire.» Si porta così nella prima area di emergenza.
Breve sosta. È una bella giornata di sole e scendiamo a respirare. Sotto gli occhi a destra abbiamo la vallata, a sinistra l’altura.
«Da queste parti stava zio Minguccǝ» ricorda improvvisamente mio cugino.
Zio Minguccǝ è mio padre, che si chiamava Domenico, ma per familiari e paesani era, appunto, Minguccǝ.
«Ma va’…Non ricordo bene, però mi pare che stesse dalle parti delle montagne di San Gerardo o di Calabritto…
«No, t’assicuro, stava da queste parti…».
Non insisto, mi fido di mio cugino. Conosce la Campania sicuramente meglio di me.

Dopo una decina di minuti, risaliamo in macchina. Avvia il motore. Tutto funziona bene, ci rimettiamo in carreggiata e affrontiamo una lunga salita.
Finalmente si apre allo sguardo un’ampia radura. Vediamo la bandiera del ristorante. Agostino parcheggia e, mettendo i piedi a terra, mi ricordo che soffro di cardiopatia ischemica. Non posso più superare certe altitudini. Controllo sul cellulare: siamo a 1230 metri. Un po’ mi rassicuro. Ma non del tutto. Mi viene in mente mia madre, cardiopatica a vita. Quando dalla pianura colognese tornava all’altura bisaccese (850 metri), smaniava per qualche giorno. Diceva di sentire il cuore accelerato. Chi gli stava vicino avvertiva chiaramente i suoi battiti. La valvola di Björk sembrava amplificarli. Anch’io mi porto ripetutamente la mano destra sul cuore. Intanto guardiamo le decine e decine di mucche nel parco ed ammiriamo le chiome dei tanti faggi nel bosco. Sul ciglio della strada, di uno di essi, mi attira il groviglio di radici nodose, venute allo scoperto fra le rocce.
Restiamo così per un po’ sospesi, quasi in pausa; poi, controllata l’ora, decidiamo di presentarci al ristorante.
«Magari, beviamo un aperitivo», dice mia moglie che, negli ultimi giorni, ha preso l’abitudine di gustare lentamente un crodino allungato con acqua minerale. Nulla da fare. Il ristorante non ha tavoli liberi all’aperto. Sono tutti occupati. Molte persone hanno pensato, come noi, di fare una gita in montagna.
Prendiamo, allora, posto all’interno, ci accomodiamo e leggiamo il menù che il cameriere si affretta a portarci. Cinque minuti per consultarci e ordiniamo due antipasti, tre primi e due secondi, una bottiglia d’aglianico ed una d’acqua minerale.

Abbastanza tradizionali gli antipasti: affettati (coppa, prosciutto crudo e soppressata), dei bocconcini, due fette di caciocavallo podolico – Montella è la patria di questo formaggio – e soffritto di verdure (peperoni e melanzane).
Ottimi i tre primi: tagliatelle ai funghi porcini per me e mio cugino, pasta pasticciata per Giuseppina.
Tagliata per me e agnello alla brace per Agostino sono i due secondi. La consorte assaggia l’uno e l’altra. Data la fatica che faccio per spezzettarla e mangiarla, confesso che la parte di manzo sistemata nel piatto e chiamata “tagliata” non mi sembra controfiletto…
Ottimo il vino e ottimi anche i dolci (torta al cioccolato e tiramisù) gustati da moglie e cugino. Giudizio finale: abbiamo mangiato bene. Il tutto ad un prezzo abbastanza abbordabile per una gita domenicale.

“Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Scegliamo di fare un giretto lungo il parco dove le mucche pascolano tranquillamente o riposano.

Mentre usciamo, Agostino incontra un amico di Avellino e si ferma a parlare per qualche minuto. L’aspettiamo in cortile. Quando ci raggiunge, dice che si tratta di un ex compagno di Avanguardia Operaia. Gli ha detto che noi siamo i cugini “milanesi”.
«Ah, come quelli che hanno scritto la storia di Avanguardia Operaia a loro uso e consumo…». Convengo e racconto di Ennio che ha trattato con grande attenzione il problema su Poliscritture. (qui) Ha fatto dei rilievi e delle critiche che sostanzialmente condivido…
Andando avanti, incontriamo una coppia di bisaccesi (marito e moglie), salutiamo e procediamo.

Dopo una mezz’oretta “digestiva”, ritorniamo verso la macchina. Stabiliamo di scendere giù a Montella per mangiare un gelato. Al ristorante non ne vendono.
Giuseppina non ci tiene ad andare al Complesso monumentale di Santa Maria della Neve; tra l’altro, pare che non sempre sia aperto…
Lungo la strada incontriamo delle mucche. Agostino rallenta e manovra con prudenza.

Quasi la metà del territorio montellese è a bosco. Dall’altopiano al centro abitato dobbiamo scendere di oltre 600 metri di quota e, andando giù, si incontrano anche diversi castagneti.
Oltre che per formaggi e caciocavalli, Montella è famosa per le sue castagne. A me piacciono moltissimo quelle “del prete”.
Ecco di fronte a noi il monte di Santa Maria della Neve e a fianco quello del Santissimo Salvatore, patrono del paese. Stiamo per arrivare…

Tempo un quarto d’ora e ci sediamo all’aperto ai tavolini di un bar. A distanza sociale regolamentare, come prescrivono le norme anti-Covid, ci sono altri quattro clienti.
Noi mangiamo il gelato e loro stanno bevendo birre.
Tiene banco un signore un po’ su di giri, con un bastone vicino alla propria sedia e col piede destro fasciato e appoggiato su un’altra sedia. Parla al signore più anziano al suo fianco. Sta prendendo in giro un giovane che beve birra e non ama il vino. Siccome lui il vino lo ama assai (e si vede!), non riesce a capacitarsi di come ciò sia possibile.
Io sento parlare di vino e domando se possiamo comprarne qualche litro.
«Certo!…» fa il signore «Lo vende lui…» ed indica l’uomo al suo fianco.
Il compaesano conferma, ma continua a ripetere che non può venderlo perché la moglie non vuole. Da come ne parla sembra che abbia in casa una tiranna con potere assoluto.
«Ma si tratta di pochi litri» insisto.
Allora, il signore col piede fasciato, che, per inciso, dice di recitare in non so quale teatro napoletano, si propone come mediatore. Andremo insieme dalla moglie del suo amico e lui, che la conosce benissimo, le chiederà di venderci dieci litri di vino. Il signore anziano acconsente e facciamo così.«Una decina di minuti e siamo qui» dico a Giuseppina che rimane seduta al bar ad attenderci.
Non l’avessi mai detto.
Riusciamo a prendere, dopo aver superato apprensioni e diffidenze della signora, dieci bottiglie di vino, poi…Poi l’artista col piede fasciato e in difficile equilibrio si offre di portarci a comprare anche un provolone podolico – caciocavallo corregge Agostino -. Ce lo venderebbe un suo amico in campagna.
«Cinque minuti!… È vicino…Non è molto lontano da qui…»  continua a ripeterci, mentre la macchina da Montella continua a svoltare a destra e a manca, per un tempo interminabile.
Infine, arriviamo nella masseria di questo suo amico. Si trova nella confinante Bagnoli irpina (è il cellulare che me lo dice).
Quando scendiamo dalla macchina, stiamo attenti ai cani, che si mostrano non proprio pacifici e amici dell’uomo, e restiamo fermi in attesa. Ci viene incontro l’amico, un omone con la pancia che gli pende davanti come una larga borsa. Dal modo in cui lo saluta, si capisce che lo conosce.
Ci prega di aspettare perché stanno finendo di lavorare dei caciocavalli. Ha ragione. Mi affaccio sulla soglia e vedo un giovane in canottiera bianca che sta modellando la pasta.
«Ecco mio padre al lavoro, penso, ecco cosa imparava quando, ragazzo di nove anni, stava in qualche casone o in qualche masseria sicuramente peggiore di questa, senza mattonelle e senza piastrelle bianche sul muro.»
Compriamo due caciocavalli: uno per il cugino e uno per me. Non lo mangerò. Lo porterò a Torre Vado.
Altro che dieci minuti. Dopo un’ora abbondante, torniamo al bar. Giuseppina è più che preoccupata, ma non avendo con sé il cellulare non ha potuto telefonare. Delle cinque bottiglie di vino comprate, una la regalo all’artista “mediatore”.
Saliamo in macchina e prendiamo la via del ritorno a Bisaccia. Con Agostino ci salutiamo al quadrivio di piazza Duomo. Quando entriamo in casa, guardo il grande quadro di mio padre attaccato al muro. È il mezzo busto di un giovane soldato, un bel giovane pronto a partire per l’Africa orientale.

 

CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLA VITA DI MIO PADRE

                                                                                                     Il gelso ancora attende
                                                                                                      il tuo ritorno ai campi,
                                                                                                      ancora il melo sbircia                                                                                                                                                       le tracce del tuo passo.

28 febbraio 1914: Nasce a Bisaccia. Quasi certamente in via dei Fiori. Non saprei dire con precisione dove: se sull’unica stanza sulla loggetta dove, durante la mia fanciullezza, ho sempre visto nonno Donato o se nei due vani di fronte dove stavano nonna Concetta (frequentemente) e zia Francesca (sempre). È il primo figlio della coppia.

fine 1913-1914: nonno Donato emigra clandestinamente negli USA, dove resterà fino al 1919.

1914-1919: Trascorre tutta l’infanzia solo con la madre. Di questo periodo resta una foto, forse fatta per essere spedita al nonno in America. Lui ha su per giù due anni. Sta ritto su una sedia di paglia e appoggia la mano destra sulla spalliera. Indossa una vestina con un colletto bianco. Ha nella mano sinistra un giocattolo. Guarda verso un punto che non è l’obiettivo del fotografo. Ha un bel visetto curioso e non mi sembra mal patito. La nonna è una giovane donna sui 27-28 anni. Ha un portamento superbo, bello. Non la diresti una popolana, una contadina.

!919: Al più tardi in autunno, nonno Donato torna dagli USA.  Pare che nelle lettere che la nonna gli mandava fosse espresso ripetutamente il lamento della sua condizione insopportabile di “vedova bianca” (“La carne vuole la sua parte”, sarebbero state, tradotte in italiano, le sue parole). Le date della partenza e del rientro segnalano un altro fatto rilevante: mio nonno non partecipa alla carneficina della prima guerra mondiale. Successivamente tenterà di ritornare in America clandestinamente, ma viene bloccato nel porto di Trieste e gli costa cara. Zia Francesca diceva che perse quasi tutto quello che aveva guadagnato nel suo primo espatrio. Da quel momento ambedue i nonni si dedicarono alla coltivazione della vigna di Valle fiumata e probabilmente di qualche altra terra in affitto. Misero anche al mondo un po’ di figli.

5 agosto 1920: nasce Maria Francesca, la seconda figlia della coppia. Con questa zia avrò un legame affettivo molto intenso. Sposerà zio Vito, un cugino di mia madre. Lo farà in municipio durante un breve congedo militare, mentre lo zio era in partenza per la rovinosa campagna di Russia (non ricordo se nel 1941 o 1942). Dichiarato disperso, la zia resterà vedova di guerra, fino all’anno successivo – se non ricordo male – alla morte della nonna (1964). Sposerà in seconde nozze Antonio Arminio, zio di Franco. Non avrà figli.

1922: nasce zia Antonietta, la terza figlia. Si sposerà con zio Michele ed abiterà a Lacedonia, dove ho frequentato l’Istituto magistrale dal 1963 al 1967.

1920-21: Domenico frequenta la prima elementare. Il suo curriculum scolastico terminerà con questa classe. C’è bisogno di lui in famiglia per l’accudimento delle sorelline e per i tanti mestieri, più o meno facili, che anche un bambino può svolgere nei campi.

1923: Viene mandato con un paesano in una masseria di Montella. All’origine della decisione ci sarebbe stata una mancata vigilanza di mio padre sulla sorellina Francesca, che, abbandonata a sé stessa, rischiò di finire nel pozzo della vigna; in realtà, forse, andando via, c’era per i nonni una bocca in meno da sfamare e una piccola entrata (da apprendista bovaro) assicurata alla famiglia.

1923-1935: mio padre impara il mestiere del vaccaro, un mestiere che gli vedrò fare durante la mia infanzia nella masseria di Tavoletta, a Cerignola: pulire la stalla, governare e rigovernare le mucche, portarle al pascolo, mungerle, lavorare il latte e ricavarne ricotta, trecce, formaggi, caciocavalli, ecc. Credo che in questo periodo impari anche a lavorare il legno. Sempre da bambino e sempre a Tavoletta l’ho osservato intento a costruire mestoli di varie dimensioni, forchettoni, mortai per schiacciare il sale, cesti, canestri, panieri… A Bisaccia, nella casa di Via Vescovado, in un tiretto della cristalliera, quello a destra, conservava tutto ciò che gli tornava utile per farlo: lima, raspa, sgorbia, martello…

1924: nasce zio Pietro. Sarà per tutti noi lo zio napoletano. Nel dopoguerra sposerà, infatti, zia Carmela, un’infermiera conosciuta nel sanatorio dov’era ricoverato.

1926: nasce zio Antonio. Avrà un destino simile a quello di mio padre. Sposerà zia Rosina, una compaesana. Emigrerà prima in Germania, si stabilirà successivamente ad Orta Nova e, infine, a Cesano Boscone. Sarà il più longevo della famiglia.

1928: nasce zia Giuseppina. Sposerà Giuseppe, un pugliese di Orta Nova, che morirà agli inizi degli anni Sessanta. La zia resterà vedova con tre figli maschi per tutta la vita. Nei primi anni Settanta si sposterà a Chivasso in provincia di Torino.

1935: compiendo 21 anni ed essendo iscritto sicuramente nella relativa classe di leva, viene chiamato a fare il soldato. Svolgerà il servizio in fanteria. So che, durante il regime fascista, era previsto un servizio premilitare obbligatorio dal compimento del 18° anno di età. Non so cosa sia successo realmente a lui, né so dove abbia fatto il militare. So che andò in Africa orientale. Ma quando?… Probabilmente nel 1937. Nel senso che, trascorso il periodo obbligatorio, firma la ferma da volontario. Cosa avrebbe fatto se fosse tornato a casa?… Ritiene opportuno seguire la propaganda del regime fascista che promette, per chi segue l’esercito in Africa orientale, terra e lavoro con mirabolanti ricchezze naturali (oro, platino, petrolio, ecc.). Insomma, invece di andare come il padre in America, cerca la fortuna nelle terre etiopiche.

settembre 1937: si trova sicuramente in Africa, in una località che lui chiama “Aiscia”. Lo leggo dietro una sua foto che portava con sé. Ha pantaloni lunghi da militare, relativa camicia a maniche corte con cravatta (un accessorio che avrebbe odiato per tutta la vita). Gamba e piede sinistro leggermente in avanti, braccia conserte, capelli alla Mascagni, sguardo serio, rivolto all’obiettivo. Se non proprio da bellimbusto, ha un’aria, comunque, da giovanottone con la voglia di conquistare il mondo. Ha ventitré anni compiuti.

1937-1941: probabilmente s’insedia come colono in Etiopia. Non so dire dove. Quasi certamente si accoppia con una donna del luogo con cui metterà al mondo un figlio.

1941: viene fatto prigioniero dagli inglesi e internato forse nel campo di Zonderwater, a Cullinan in Sudafrica. Una foto attesta che impara a fare l’infermiere. Al suo ritorno in Italia porta con sé un pentolino per mettere a bollire la siringa da disinfettare. Mio padre faceva le punture a tutti i familiari che ne avevano bisogno. Spesso mia madre diceva che aveva una “mano pesante”. Oltre all’attività di infermeria si dedica al pugilato. Ha il naso “schiacciato” da pugile. Fa 17 incontri e poi passa la mano. Perché, raccontava, in un incontro o in un allenamento, comportandosi assai scorrettamente, l’avversario gli ruppe due o tre costole.

1946: il primo gennaio del 1947 il campo di Zonderwater viene chiuso. Quindi, è probabile, che mio padre sia rientrato in Italia in quest’anno. 1937-1946: nove anni. Questo è il numero di anni che lui diceva di aver trascorso in Africa orientale.

dicembre 1947: sposa mia madre. Ho appeso alla parete dei Lari la loro foto matrimoniale. Mio padre ha una giacca con le maniche assai più lunghe del braccio. Chissà se l’abito era suo. Vanno ad abitare nella casa in affitto della Valle. Per entrarci si salivano tre gradini. È la casa che mi ha visto nascere e che non c’è più. Non so come i due sbarcassero il lunario. Immagino, coltivando qualche terra in affitto. Mio padre s’iscrive al PCI.

28 maggio 1949: nasco io. Suo primo figlio (italiano). Soprattutto figlio di mia madre.

Pasqua 1950: “Pasqua ventosa che sali ai crocifissi / con tutto il tuo pallore disperato”…Finisce in carcere ad Avellino per aver partecipato all’occupazione delle terre. Questo periodo è abbastanza documentato. Ho quelle che io chiamo le “cartoline dal carcere”. Praticamente lo scambio epistolare fra lui e mia madre, lui e la nonna, lui e zio Pietro (che gli viene in aiuto mandandogli duemila lire), lui e il suocero. I problemi più urgenti che ha la coppia sono due: come uscire dal carcere (a difesa degli occupanti si schierano deputati del calibro di Giorgio Amendola del PCI) e in quale nuova casa stabilirsi. Infatti, il proprietario di quella della Valle deve sposare il figlio e la vuole libera. Dal carcere uscirà dopo tre mesi. La nuova casa in affitto sarà quella sulla salita di San Nicola. Una casa che ricordo bene. Aveva una finestra su un dirupo e di notte spesso sognavo di rotolare giù.

22 ottobre 1950: nasce mio fratello. Il nome è Giuseppe come il padre di mia madre, che in quel periodo non sta bene in salute e morirà di lì a poco.

settembre 1952: tutta la famiglia si trasferisce nella masseria di Tavoletta, nella campagna di Cerignola. Il cognome del padrone è Giuntoli. Mio padre viene assunto come massaro. Governare le mucche è un lavoro che conosce bene, ma non lo ama. Non gli piace stare “sotto padrone”. I rapporti con Giuntoli, infatti, sono corretti, ma non idilliaci. Il sogno di mio padre era fare il contadino. Ma terre non ne aveva, altrimenti non andava ad occuparle. E non aveva neanche vigna, che per quel mondo era come possedere una miniera.

26 aprile 1953: nasce mia sorella Concetta. Il nome è come quello della mamma di mio padre. Io ho quasi quattro anni e mio fratello due anni e mezzo. Ricordo il viaggio che facciamo da Tavoletta a Bisaccia: la littorina, il pullman…ed io e mio fratello attaccati alla veste della mamma col pancione che doveva sgravarsi. Mia sorella nasce nella casa di San Nicola, un’altra casa che non c’è più. In concomitanza con la sua nascita, mia madre ha il primo scompenso cardiaco.

settembre 1955: Devo iscrivermi in prima elementare e, siccome a Tavoletta non ci sono scuole, vengo affidato alla nonna Concetta e alla zia Francesca. Mio padre ci tiene molto che i suoi figli vadano a scuola, mia madre un po’ meno. Per lui l’istruzione è fondamentale. Continua a ripetere che ha dovuto ingoiare nella vita molti rospi amari e si è convinto che saper leggere, scrivere e far di conto viene prima di tutto. Soprattutto, se non vuoi per i tuoi figli, come mio padre non voleva, la stessa vita di vaccaro.

Primavera 1956: nella masseria di Tavoletta viene ucciso il guardiano notturno. Non ruberanno mucche. Mio padre ha un fucile appeso in camera da letto. Ma la famiglia resta scossa. A giugno, quando chiudono le scuole, io trascorro l’ultima estate nella masseria. Ricordo che quando scendeva il crepuscolo e arrivava il buio, i nostri cuori si chiudevano e diventavamo piccoli come pulci.

Settembre 1956: la famiglia torna a Bisaccia. Con i risparmi di quattro anni – mia madre è stata sempre una formica – comprano la casa di Via Vescovado Vecchio, dove trascorrerò fanciullezza e adolescenza.

1956-1958: mio padre fa lavori saltuari: scavi per le strade del paese per i tubi dell’acquedotto pugliese (arriva l’acqua a Bisaccia e le famiglie non dovranno più andare a prenderla alle fontane), manutenzione delle cunette, rimboschimenti, ecc. L’obiettivo è riuscire a fare annualmente il numero dei giorni necessari a ricevere il sussidio di disoccupazione e gli assegni di famiglia. Coltivazione di alcune terre del demanio. Il conflitto fra mio padre, che si vuole contadino, e mia madre, che lo vorrebbe “sotto padrone” a custodire greggi o armenti, anima ogni tanto le nostre giornate.

1958: mentre giochiamo abbastanza violentemente e organizzati in bande, come era nostro costume, tiro una freccia alla squadra avversaria di cui fa parte mio fratello. Purtroppo finisce nel suo occhio sinistro. Una brutta disgrazia che lo segnerà per sempre. Disgrazia aggravata dalla scelta de miei genitori di mandarlo durante il periodo scolastico in un collegio di Visciano. L’intento lodevole era di proteggerlo. In realtà, non fu così.

1958-1959: mio padre emigra, grazie a un “atto di richiamo” dello zio Antonio o di qualche paesano. Andrà a curare vacche svizzere a Petit-Saconnex, nei dintorni del Palazzo delle Nazioni a Ginevra. Ad ogni ritorno invernale, porterà tavolette di cioccolato, pacchetti di sigarette, una volta degli orologi e un’altra volta una macchina Singer per mia madre. Nel 1959 frego delle sigarette dai suoi pacchetti e le prendo di santa ragione. Coi risparmi di questi due anni comprano una terra a Valle fiumata, confinante con la vigna della nonna Concetta e della zia Francesca. Lì mio padre farà la sua vigna. L’ho ereditata io e continua a rimanere incolta.

1960: Non so quale Ministero gli attribuisce un’indennità di profugo dall’Africa orientale. Non più di venti mila lire al mese. Mio padre torna a casa.

1960-1968: Lavori saltuari come quelli del periodo 1956-58, eccetto uno più duraturo di “stradino” fatto con l’ANAS. Per qualche tempo sognerà di diventare cantoniere. Lavori nei campi e nella vigna che, intanto, ha innestato e fatto crescere. Indennità di profugo. Per tutti questi anni la famiglia vivrà con queste risorse. Mio fratello resterà in collegio fino al settembre del 1968. Poi sarà il primo ad emigrare a Cologno, dove io lo raggiungerò.

21 settembre 1967: sposo Giuseppina. Al matrimonio sono assenti sia mio padre che mia madre. Mia sorella ha un piede fratturato ed è ricoverata all’ospedale di Foggia. Da qualche settimana mio padre lavora – sempre come vaccaro – in una masseria sulla strada per Manfredonia. Ci resterà pochi mesi.

1969: A gennaio mio padre si lascia convincere e viene da noi a Cologno Monzese. Farà prima lo stradino, poi sarà assunto nella fabbrica del latte Bonalumi. Durante l’estate, tutta la famiglia si sistema nella casa in affitto di Via San Martino, dove i miei genitori resteranno fino alla morte.

1972: nel mese di giugno mia madre subisce il secondo scompenso cardiaco. Nell’autunno sarà operata a Niguarda. Negli anni successivi effettuerà altri due interventi.

1981: mio padre va in pensione per raggiunti limiti di età. Guarda, intanto, dove può allestire e/o coltivare un orto. Chiamerò questa sua pulsione “La resistenza degli orti”.

1981-1991: farà la spola tra Cologno e Bisaccia. Venderà alcune terre ed il bosco. Ricomincerà, invece, a coltivare la vigna.

febbraio 1991: Una domenica sera dell’ultima settimana di febbraio, improvvisamente mi telefona mia madre: «Donato, corri qua…Tuo padre non riesce a parlare…». Corro. Lo portiamo al pronto soccorso del San Raffaele. “Ictus cerebri”.

13 giugno 1991: il giorno di Sant’Antonio, patrono di Bisaccia, verso le 12, raccogliamo l’ultimo soffio di vita di mio padre.

Non avevo un padre ricco di parole.
Scendeva a picco sulle cose,
da signore.

 

 

 

 

 

 

 

Complesso monumentale di Santa Maria della Neve

NOTE DI FINE ESTATE (2)

di Donato Salzarulo

Sono arrivato a Bisaccia l’otto luglio, verso mezzogiorno. Nel pomeriggio parto con Agostino per Montella. Franco Arminio, amico da oltre quarant’anni, presenterà «Lettera a chi non c’era. Parole dalle terre mosse», il suo ultimo libro. Lo farà nel Complesso monumentale di Santa Maria della Neve, un luogo in cui non sono mai stato. Vado volentieri a dare un’occhiata. Sarà un’occasione anche per salutarlo. Lo so impegnato a tempo pieno per tutto il mese di luglio e agosto, nella promozione dell’opera…Un’opera che conosco.
Prima che l’otto giugno venisse pubblicata, Franco ha continuato a inviarmi in posta elettronica le varie bozze. Non che abbia messo mano. Cambia le pagine a un ritmo vertiginoso. Ma so di cosa parla e come è distribuita la materia. La prima poesia, che ho letto decine di volte, è dedicata a suo padre, zio Luigi, una persona che ricordo benissimo:

Il Grillo d’Oro
sta sul lato morto della strada,
è l’ultima casa aperta
sulla destra di via Mancini.
Il luogo è antico
e c’è ancora un’aria
che tiene caldo il cibo:
mio padre cura ogni tavolo
come se fosse un nido,
riempie il piatto, gli dà peso.
Io sono il figlio che scrive,
la mia pietanza non si vede,
lo smalto è leso.
Io recrimino sul mondo
sempre più sfinito e astratto.
Mio padre non pensa al mondo
ma solamente al piatto. 

La sintassi della poesia è scorrevole e semplice. Pochissime le subordinate (due relative e una modale). Il lessico è quello quotidiano. I versi, quasi tutti piani, eccetto l’ottavo (“mio padre cura ogni tavolo”), hanno un’oscillazione metrica che va da un minimo di cinque sillabe (versi: 1, 5, 13) ad un massimo di dieci (verso 2). La maggioranza si attesta sulla misura media dell’ottonario (versi: 3, 8, 11, 14, 15, 16); tre sono novenari (versi: 4, 10, 12), tre settenari (versi: 7, 9, 17) e uno è senario (verso 6). La musicalità è assicurata prevalentemente dalle allitterazioni, da alcune ripetizioni di parole (“piatto” e “mondo”) e da alcune rime (peso / leso, astratto / piatto).
Arminio risulta attento alla lingua, ma non insegue (e non ha mai inseguito) esperimenti neo-avanguardistici né pensa (o ha mai pensato) che una poesia possa risolversi tutta sul piano dei significanti linguistici o degli istituti tradizionali (metrica, rime, ecc.). Si tiene lontano tanto dal linguaggio oscuro, ermetico quanto da quello manieristico. Il suo tono è gnomico, osservativo, riflessivo. Recrimina “sul mondo /sempre più sfinito e astratto”, ma ha bisogno di quel mondo. Ha bisogno di nutrirsi di “terracarne” o di “terre mosse”.
In questa poesia la divisione del lavoro tra padre ristoratore e figlio scrittore appare pacifica, scontata: il primo si muove in un’atmosfera calda, cura ogni tavolo “come se fosse un nido” (immagine di sapore pascoliano) e pensa solo al piatto (ossia al lavoro e a servire i clienti); il secondo scrive, ma la sua “pietanza non si vede”. Come non si vede?…In quest’ultimi mesi è il poeta che vende libri di poesia più degli altri. Diciamo che, al tempo della stesura di questa poesia – parecchi anni fa – la sua attività non era giudicata granché. A cominciare forse dai familiari. (Penso alla poesia di Palazzeschi sul poeta che si diverte…). Il suo splendore è metaforicamente danneggiato. Perciò è inquieto, s’affligge, si cruccia per l’andamento del mondo “sempre più sfinito e astratto”. Due aggettivi che richiederebbero una lunga analisi.
Il Grillo d’Oro è il nome del ristorante gestito da zio Luigi. Attualmente continua l’attività paterna Vito, il primo figlio. Il ristorante non si trova più sul “lato morto” della strada di Via Mancini – “lato morto” perché secondo il Piano di ricostruzione post-terremoto dell’Ottanta, doveva essere abbattuto. – Il ristorante oggi si trova in Piazza Convento. “Lato morto”, però, rimane un sintagma efficace: non solo perché nella poesia si oppone all’aria calda (di vita) che caratterizzava l’osteria e zio Luigi, ma perché Via Mancini, pur non essendo stata abbattuta, grazie ad una variante provvidenziale dell’amministrazione dell’ex sindaco Frullone, continua ad avere, comunque, molte porte chiuse. Tutto il paese ha ormai un “lato morto”. O forse più lati.

Ora hanno un respiro rassegnato
questi paesi.
Non sono più luoghi del sangue,
non ci sono più alberi e angoli segreti,
e non c’è più una morte che sia solenne,
sembrano morire come foglie,
come semplici conseguenze
di un affanno.

Ritornando al libro. Dopo la pubblicazione, mi è capitato di leggere delle recensioni. Quella di Roberta Scorranese sul Corriere della Sera del 17 giugno: «”Terre mosse”. Il sottotitolo ha la ricercatezza poetica di uno abituato a usare le parole, ma questo non inganni: la raccolta di scritti (in poesia e in prosa) non è un elenco di reportage dalle terre terremotate. Terre mosse è da intendersi in un senso più ampio: terre mutanti, in continuo movimento, terre che potrebbero non esserci più da un momento all’altro. Cancellate da sismi, alluvioni, frane, abbandoni, incuria. Ecco perché Arminio, da quel 1980, ha cominciato a visitare paesi, fondando il nucleo di una poetica precisa, in equilibrio fra elegia del paesaggio e ritratti umani.»
Quella di Filippo La Porta su Il Riformista del 2 luglio: «Il libro di Arminio si rivela infine come un esercizio spirituale laico, la proposta di una “filosofia”, di una postura di fronte al terremoto, al tremore. Per i terremoti non ci sono cure né vere spiegazioni, e certo non dipendono da noi: “La stessa cosa accade nel profondo di noi stessi, non possiamo entrare e uscire a piacimento dalla nostra inquietudine”. Che significa? Significa imparare che la vita non può essere immunizzata o assicurata, che quasi niente è sotto il nostro controllo (come ci promette la tecnologia), che il futuro non esiste e perciò si riempie di ogni nostra fantasia (la virtù teologale della speranza, per quanto umanamente comprensibile, secondo Pasolini genera alienazione dal presente). Si delinea qui l’abbozzo di una filosofia antica, segnatamente stoica: “il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone” (Seneca). Il messaggio non è però solo di rassegnazione: bisogna “tremare” e al tempo stesso usare il tremore. Accettare la finitezza umana – sarebbe insensato opporvisi! -, la fondamentale impotenza, la nostra “infermità”, ma costruire attraverso l’infermità un senso dell’esistere e una solidarietà di tutti gli esseri umani di fronte al nemico comune (si veda la “Ginestra” leopardiana).»
Arminio stoico?… E pensare che nel mese di maggio, quando ho sfogliato il pamphlet di Walter Siti «Contro l’impegno», nelle due paginette e mezza a lui dedicate, ho letto che, malgrado la sua farmacia poetica, restava un “nichilista riluttante”… Ah, questi critici!…Se lo conosco bene, tra la prima e la seconda etichetta, Franco, preferisce la seconda.
In macchina, mio cugino mi racconta che si è ritrovato in posta elettronica pure lui il file del libro in bozza e che ha corretto scrupolosamente gli eventuali errori di stampa. Ha così potuto leggerlo attentamente e per quest’incontro tradurrà in inglese qualche poesia. Canterà anche…
Ascoltarli sarà per me un vero piacere. Non ho voglia di scrivere niente. Non sono mai stato un critico letterario o uno scrittore in servizio permanente effettivo. Dopo il viaggio mattutino, mi rilasserò e potrò continuare a produrre il vuoto nella mente.

«Ancora non lo sai
- sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?»

Siamo arrivati. Scaccio i versi di Sereni dai neuroni e, nel frattempo, Agostino parcheggia la macchina in una radura non molto ampia, vicino al Complesso monumentale. Non è stato facile arrivarci. Nonostante avessimo cliccato luogo e via sulla mappa del cellulare, sbagliavamo l’ultima parte di strada in salita. Attenzione alle merde di vacca! Ce ne sono parecchie intorno a noi.
Breve tratto a piedi, in leggera discesa, tra alberi di castagne e finalmente la vista del Complesso. Davvero bello e incantevole. Lo sguardo spazia su una vasta vallata. Sotto il monte si vedono i tetti dell’agglomerato urbano di Montella.
Saluto calorosamente Franco ed altri amici. Dopo un po’ gli organizzatori ci propongono di visitare la mostra di Enrico Mazzone. Mentre ammiriamo le opere dell’artista, alle quali accennerò più avanti, buttiamo l’occhio anche sugli ambienti che attraversiamo: il chiostro, i lavatoi, le cucine, il forno per il pane, il refettorio, i dipinti murali…Tutto il complesso comprende il Castello Angioino, la Chiesa di Santa Maria della neve e l’ex Monastero francescano. Noi siamo riusciti a visitare soltanto quest’ultimo. L’incontro deve cominciare…

Prendo posto nello spazio all’aperto in cui Franco parlerà. Prima, però, a mo’ di introduzione c’è l’esecuzione di alcuni brani musicali da parte di un gruppo di musicisti. Si tratta di Diego De Simone, Vincenzo Natale e Gerardo Pizza. È la prima volta che li sento. Mi sembrano abbastanza bravi…Ascolto in religioso silenzio.
È il momento del mio amico. Su come conduce ed anima questi incontri ho già scritto su Poliscritture. (“Ad Avigliano con Franco Arminio”, qui). Siccome il canovaccio è, più o meno lo stesso, ho poco da aggiungere.
Siamo in uno dei luoghi più belli del mondo, dice e condivido. Tutti hanno diritto a un attimo di bene… E se la poesia riesce a donarlo, perché no?… Quando nessun essere umano ti cerca, abbraccia un albero. Sia nel senso più comune e banale che il rapporto con la natura può rinfrancare e rigenerare lo spirito, ma anche in quello più radicale del porre fine al nostro divorzio dalla natura: «Forse una buona cosa da fare è abituarci a pensare che le cose che accadono alle piante o agli animali hanno la stessa importanza delle cose che accadono agli umani. […]. La differenza tra umano e non umano non ha più senso.»
Sono tornati i miracoli: il tiglio di Bisaccia in piazza Convento, che sembrava destinato alla morte, si è ripreso. È importante stare in un luogo che si ama…
Non rimuoviamo il fondo religioso che c’è in ognuno di noi, ecc. ecc.
Voglio bene al mio amico, ma quando assume il tono profetico o da guru, preferisco tapparmi le orecchie.
Ascolto, invece, con molta attenzione le traduzioni in inglese che Agostino fa di due poesie tratte dal libro. Le riporto non soltanto per l’attenzione alla musica di un’altra lingua, ma perché sono tanti i bisaccesi (e non solo) in giro per il mondo.

Venticinque anni dopo il terremoto
dei morti sarà rimasto poco
dei vivi ancora meno.
 
Twenty-five years after the earthquake
of the dead little will have remained.
Of the living ones even less
 
Tu non eri qui quando il paese
aveva tutte le sue case aperte:
ogni vicolo era vivo
come una piazza,
il paese sapeva di sudore
e di terra,
galline sui ciottoli e uccelli
sui rami,
il sonno freddo dell’alba
sul dorso dei muli,
i padri di quarant’anni
che sembravano vecchi.
C’era una volta la desolazione
della miseria.
Ora c’è la miseria
della desolazione.
 
You were not here in the village
when all its houses were peopled:
any alley alive
like a city square,
the village smelled of sweat
and soil,
hens on the pebbles
and birds on the trees
the cold rest of the dawn
on the mules’ back
fathers in their forties
looking much older.
Once upon a time it was the desolation of misery.
Now the misery of desolatio.

Dopo aver tradotto le poesie, Agostino canta – molto bene, devo dire – una bellissima canzone di qualche decennio fa. La canta in italiano e poi anche in inglese. È quella che fa:

Sola me ne vo per la città
Passo tra la folla che non sa
Che non vede il mio dolore
Cercando te
Sognando te
Che più non ho

La serata termina con gli applausi entusiasti di tutti. Una mezz’ora se ne va tra complimenti e saluti agli amici. Alla fine, io e mio cugino andiamo a mettere qualcosa sotto i denti in una trattoria dalle parti di Lioni. L’unica che troviamo ancora aperta.

LA MOSTRA DI ENRICO MAZZONE

«Nigredo, Albedo e Rubedo. Magnum Opus: omaggio a Dante». Questo il titolo della mostra.
Pur avendola guardata in fretta e superficialmente, voglio accennarvi. Enrico Mazzone è un’artista giovane, nato a Torino nel 1982, e il suo omaggio a Dante ha tratti di sicura originalità. Non ha illustrato la Divina Commedia come hanno fatto diversi grandi artisti; un’illustrazione che era ovviamente anche un’interpretazione. Ha dipinto una sua Divina Commedia ispirandosi all’illustre fiorentino. Questa sua Grande Opera – 97 metri di lunghezza, 4 di larghezza, 6 mila matite consumate, 5 anni di lavoro – rappresenta una metamorfosi, un percorso spirituale che gli consente di passare da Nigredo a Rubedo attraverso Albedo…Un po’ come Dante che viaggia dall’Inferno al Paradiso attraverso il Purgatorio.
La sua poetica è abbastanza “ermetica, criptica e sibillina” – sono parole sue  -; il suo enorme lavoro, tuttavia, suggestiona, suscita meraviglia e volontà di capire di più. Sia chiaro, non sono riuscito a dedicare ad ogni pannello esposto più di trenta secondi. Ma mi sono permesso di scattare qualche foto delle tavole e me le sono guardate e riguardate con calma.
All’inizio ci sono frammenti di rocce granitiche incise: il profilo di un volto, due mani congiunte per pregare, i molti raggi di una stella…È così rappresentato il contatto con la materia prima e la voglia di trasformarla. Questa è Nigredo.
Poi vi sono le tavole di Albedo, per lo più gremite di figure disegnate a matita: vi sono figure realistiche, altre mitologiche, fantastiche, oniriche, folcloriche. Sono tavole che stupiscono per la pienezza, densità e vitalità delle scene rappresentate. Insieme a queste ci sono diverse tavole che l’artista contrassegna col titolo “Postilla”. Sono dipinte a colori e rappresentano personaggi del poema dantesco (ad esempio, Minosse), ma non sempre. Davvero Mazzone ha voluto personalizzare molto il suo percorso di lettura, assimilazione e trasformazione del poema.
Infine, Rubedo, che non abbiamo potuto vedere perché era esposto nella Chiesa, dove noi non siamo andati. Sia perché stava iniziando l’incontro con Arminio, sia perché – se non ho capito male – era chiusa.
Io, però, ho fatto in tempo a fotografare un pannello in cui Mazzone, imitando i versi danteschi, cerca di dare un senso al tutto.
Lo trascrivo qui:

«NIGREDO, ALBEDO E RUBEDO

Ho scritto infine dei versi, per aiutare l’osservatore a svincolarsi dalle convenzioni dalla cifra stilistica dantesca e dare più spazio alla sua personale interpretazione.
Compaiono dipinti in rosso sangue le battute iniziali:

Per versi oscuri e affini or prova ancora
A ripropor la selva e il suo disagio
Arbitrio
affine all’utile del plagio
Fondato sulla inutile Paura

Lo sguardo assente invidia la calata
dei Denti e invoglia a guisa di Plutone
Non era certo facile al vantaggio
Portare avanti e ferma una opinione

Così mi son celato in sette anni
lontano dalla casa dei miei Numi
Amati per i sempreverdi affanni
Nei miei confronti (che interpreto oggi acumi)

O Disio, avvezzo al fascino del Fato
Mai non sentito di cotanto sprezzo
Con sol Due Denti al vacuo e umil palato
Ritorno in fretta umano “Io non mi spezzo”.

I versi evidenziati [in grassetto], sono realmente stati dipinti con sangue di renna (importato dalla Finlandia in vasi protetti e sigillati a norma) per dare i connotati del color porpora (rubedo) e per simboleggiare la sofferenza del parto che dà alla luce la procreazione.

Una nuova realtà nasce.»

Al di là della metrica che in qualche punto zoppica, sono versi con una loro energia che si vogliono programmaticamente “oscuri e affini” a quelli dell’illustre fiorentino. Ha senso oggi riproporre “la selva e il suo disagio”? Il poetante avverte un certo “arbitrio”; ma è un “Arbitrio affine all’utile del plagio”. L’aggettivo “affine” ritorna e “l’utile del plagio” (della Commedia ovviamente) è “fondato sull’inutile Paura”. Nel gioco oppositivo dell’utile/inutile, par di capire che chi verseggia abbia provato una Paura (personificata) come quella dantesca nelle prime terzine dell’Inferno.
Più avanti accenna al fatto che “portare avanti e ferma un’opinione” non gli è stato facile né vantaggioso, perciò è stato costretto a celarsi per sette anni “lontano dalla casa dei miei Numi” (non solo i domestici Lari torinesi, ma anche autori di riferimento come Dante). Ho l’impressione che in questi versi il poetante alluda ai suoi viaggi per le città del Nord Europa: Oslo, Laavrik, Carlsberg, Berlino, Reykjavik, Rauma…(leggo nella sua biografia). Destino, ormai, più o meno comune, a molti nostri giovani. Che dire?…Ben tornato a Montella e in Italia.
“O Disio, avvezzo al fascino del Fato”…Purtroppo il Fato vuole che il mio incontro con queste opere si svolga in concomitanza con quello di Arminio. Penso che questo gigantesco lavoro meriti sicuramente più attenzione e approfondimenti. Spero che il Fato mi riservi un altro momento più propizio. Il “Disio” di arricchire la mia conoscenza dell’opera di Mazzone c’è ed è vivo.

Il mio posto di vacanze

Piazza Duomo a Bisaccia

NOTE DI FINE ESTATE (1)

 di Donato Salzarulo

Non ho luogo migliore per le vacanze estive del mio borgo natio. Lontano dall’afa milanese, ormai pensionato, m’immergo per due mesi nel liquido amniotico di parenti e amici. Faccio ciò che per il resto dell’anno non faccio: siedo al bar, passeggio avanti e indietro in piazza Duomo, accompagno quasi ogni giorno l’amico Michele al Convento. Ha dieci anni più di me ed è tormentato dal corpo che non vorrebbe arrendersi, ma qua e là già cede e si deprime. L’ipocondria non affligge soltanto il poeta Arminio (altro mio amico). È una malattia diffusa come la malinconia che spesso ci afferra e paralizza.  Del resto, oltre all’età, la pandemia ancora imperversante non regala certo slanci ed entusiasmi.
«Ho grande nostalgia dei miei “Sonetti d’agosto”», mi capita di confessare a Michele uno dei primi giorni, mentre scendiamo per via Mancini.
«Non li conosco bene, non me li hai mandati e non li hai mai pubblicati.»
«Vero. Li scrissi qua, a Bisaccia: uno al giorno, come la mela del proverbio che toglie il medico di torno…Li scrissi nel 1987. Avevo 38 anni. In quei versi circola una grande energia. È di questa che avremmo bisogno e di cui ho nostalgia…»
«L’età è importante, molto importante…»«Sì, però anche il contesto sociale, culturale e politico conta…»
«Indubbiamente…Ma fammi sentire l’energia… Te ne ricordi qualcuno?…»
«Figurati!… Me li ricordo tutti. Allora scrivevo versi che dovevano essere memorabili, anche in senso letterale. Nel senso che la memoria doveva poterli ricordare facilmente…Ero convinto, infatti, che una poesia riuscita doveva essere musicale, imprimersi ben bene nell’orecchio e lasciare nella mente una sensazione piacevole su cui riflettere…»
«Un po’ come ci succedeva da studenti, quando imparavamo a memoria almeno quindici poesie all’anno…»
«Sì, un po’. Ma, al di là di questo utilissimo esercizio, il rapporto tra poesia e memoria è secondo me un tema fondamentale, costitutivo del linguaggio poetico…»
«Dai, allora, recitami uno di questi Sonetti…»
«Ti recito il terzo…Fa così:

 Non fuggo più, non sfuggo la calura
Io ti ricerco nella tua dimora
Non ho paura della tua statura
Non voglio che si affoghi nella gora

 Di spire in spire vengo alla tua altura
Di fragile splendor mi nutro ancora
Dei tuoi piedi conosco l’andatura
L’orrore bruci, vada alla malora

 Chiaro tormento luce di furore
Del tuo dolore antico mi coloro
Di questa storia penetro il rancore 

Le prugne acerbe colgo ed io m’indoro
Odoro tutti i petali del cuore
Così viepiù di te io m’innamoro.

«Mi piace…Sono le parole di un Io esuberante, baldanzoso, che intende innamorarsi sempre più della lingua poetica. “Di spire in spire vengo alla tua altura” è un verso bellissimo…Ridimmela di nuovo…»
Gliela torno a recitare; intanto passiamo attraverso le ortiche della Valle e cominciamo a salire lungo via Rollo. Tra poco spunteremo in piazza, dove Lina, la moglie di Michele, lo sta già aspettando amorosamente in macchina.
Domani è un altro giorno.

PROGETTI SFUMATI

Quando ai primi di luglio, parto per Bisaccia, ho in testa due o tre progetti di scrittura. Caccio nella mia borsa da viaggio una decina di libri (o forse più) per aiutarmi a realizzarli.
Quest’anno ho con me due libri di Berger sul guardare e sugli sguardi, uno di Didi-Huberman sull’immagine, un altro di Pinotti e Somaini sulla cultura visuale, uno di Dal Lago e Giordano sui mercanti d’aura e un altro di Gombrich su immagini e parole, quello assai noto di Sontag sulla fotografia e quello, altrettanto noto, di Foucault sulla pipa di Magritte che non è una pipa. L’intenzione è di andare avanti con la mia rubrica su Poliscritture.
Ma per non rinchiudermi nei miei “Punti di fuga”, nella borsa metto pure un “Ritorno a Francoforte” e alla sua Scuola di Giorgio Fazio e una conversazione di Nancy Fraser con Rahel Jaeggi sul capitalismo. Questi due libri un po’ me li sono cercati da solo, un po’ mi sono stati suggeriti dagli articoli di Cristiana Fischer sulla sua rubrica.
Poi, siccome ho scritto, oltre trent’anni fa, un testo poetico (inedito) intitolato “Sogno della casa”

– «Io meditavo
premeditavo
come scoprirti
seno fiorito» –  

e recentemente ho letto di scrittori e filosofi che hanno affrontato il tema da par loro, sistemo in borsa il libro di Coccia sulla “filosofia della casa” e quello di Andrea Baiani sull’abitare le case; proprio come volevo fare io con quelle, in affitto o in proprietà, abitate dalla mia nascita ad oggi.
Sia chiaro, non ho nessuna invidia per Bajani. Ho comprato il suo libro e sono contento che l’abbia scritto su un tema così caro. Naturalmente sono curioso di capire come lui l’ha affrontato…
Poi, per non farmi mancare niente, butto dentro, all’ultimo momento, un libro di Barenghi su Calvino; e il Siti di “Contro l’impegno”, che Elena Grammann ha recensito su Poliscritture. N’è nato un dibattito sulla letteratura che ho seguito un po’ con la coda dell’occhio, anche se il libro l’avevo leggiucchiato a maggio a Pietra Ligure.
Siccome nella mia mappa mentale (assai semplificata e sicuramente sbagliata) ho visto stagliarsi dietro le figure di Pasolini e Fortini, voglio rinfrescarmi le idee su Calvino… «Se una notte d’inverno un viaggiatore»…
Insomma, con tutti questi libri in borsa, la mia lunga vacanza nel borgo feudale sarebbe stata proficua ed operosa. Qualcosa di cui andar fieri. Avrei letto, scritto, commentato. Avrei fatto ciò che fanno gli intellettuali seri, mica gli influencer…Avrei.
Invece, come accade dall’estate del ‘68, – primo anno di ritorno a casa da emigrato (allora portai con me quasi una valigia di libri) – non ne ho letto quasi nessuno.
Per la cinquantesima volta (in due o tre occasioni non sono tornato al borgo) il comportamento si è ripetuto. Cosa da manicomio.
I libri sono i miei oggetti transizionali: la coperta di Linus, il mio orsacchiotto…
Vi prego, figliole, quando morirò, mettetemene qualcuno nella bara!…
Non desidero commentare oltre questo mio modo di fare.
Dovrei affidarmi ad uno psicologo, a uno psicoterapeuta o a uno psicoanalista, ma l’età lo sconsiglia.
Spero che prima della morte si compia il miracolo di partire con la borsa vuota o, addirittura, senza.
Anche perché nella casa del borgo ho di che leggere.
Infatti, anche quest’anno, mentre scanso accuratamente, le pagine dei libri portati, a un certo punto, non so perché, mi lancio su Moby Dick e la balena bianca, libro venduto due anni fa col Corriere della Sera prefato da Trevi e tradotto da Ottavio Fatica…
Bizzarrie della psiche, in balia della curiosità, delle seduzioni e dei dibattiti del momento…Quest’anno Trevi ha vinto il premio Strega.

Non sono un libro. E se lo fossi,
avrei molte pagine illeggibili
e tantissime altre – le più inquietanti
completamente bianche.