di Eugenio Grandinetti
[Questa poesia di Eugenio Grandinetti è sconsolata, carica del malore che l’individuo oggi vive di fronte ai mutamenti minacciosi che non è in grado di controllare. Fantasmi di violenze arcaiche si mescolano con le immagini imposteci dalla TV e dai giornali dei “nuovi barbari”, gli immigrati «clandestini che sbarcano/a centinaia nella notte/protetti dall’oscurità». Un’umanità sconosciuta che sopravvive, quando ci riesce, nella desolazione e nel rischio. Ma che mette paura e induce alla chiusura altra umanità che, disagiata o in crescente difficoltà per la crisi, si va chiudendo in difesa: «non c’è/modo di liberarsene/se non starsene a casa/chiusi come in un carcere». Carceri a cielo aperto per loro, casa mutata in carcere o fortezza per noi, dunque? Vie d’uscita non se ne vedono. Anche perché l’individuo sente di essere minacciato non solo da loro – i barbari, i clandestini, gli immigrati – ma anche da quelli che parrebbero più simili a lui: i veri padroni di uno spazio che solo con una forzatura può essere ancora chiamato la «nostra terra». E costoro furono pur essi in passato barbari, invasori e predatori ora però legalizzati e legittimati («perché agiscono/ secondo legge») e inattaccabili. La sconsolatezza si coglie anche nella forma del componimento: la versificazione è irregolare; il lessico basso, cronachistico, scabro; il ritmo fluente ma monotono e senza pause. Tutto va decisamente, come una buona parte della poesia d’oggi, verso la prosa, fino a confondervisi quasi. (E.A.)]
Come barbari che invadono
con violenza, che abbattono
mura e schiere
di difensori, che irrompono
nelle case e depredano
e stuprano ed uccidono; Continua la lettura di I barbari →