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Su “Per ordine di verso” di Rita Simonitto

di Ennio Abate

1.

Ho letto questo libro partendo dalla Nota dell’autore posta alla fine, dove Rita espone la genesi della sua poesia. Che – scrive – è ricomposizione di “frammenti di storie” o di “esperienze private” in “una storia unica” secondo un “ordine” (o forma) che è quello imposto dai versi. Da qui il titolo, che – precisa – non corrisponde, di per sé, ad un “ordine di senso”. Eppure la bella foto di copertina riempita di foglie macerate sì ma di colori intensi su uno sfondo nero cupo – un riferimento alla canzone “Les feuilles mortes “ del 1946? – è più di un suggerimento. Con una metafora, che è anche un omaggio al mondo contadino della sua infanzia, Rita paragona le quattro sezioni del suo libro a “fasci di mannelle” e il lettore è invitato a scegliere singole spighe-poesie avendo riguardo per l’”insieme”.

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Senza terra

 di Rita Simonitto

Questo romanzo è opera in cui l’autrice – donna, psicanalista, poetessa e narratrice –  va fino in fondo e spesso in modi spietati  nei nuclei più dolorosi della sua esperienza.  Molti dei suoi temi – la condizione di povertà  contadina,  la ribellione istintiva all’educazione cattolica,  la sconfitta politica  quasi in parallelo con quella affettiva, il ricorso alla scrittura come  avvio individuale ad un riscatto – sono comuni ad alcune generazioni maturate nel secondo Novecento. E c’è, fin troppo feroce  e squassante e quasi in ogni pagina, un dolore che devo per forza definire *al femminile*: è quello di chi – donna ma  spesso anche uomo –  si ritrova  a *riparare* qualcosa che si è rotto sul piano del sentire amoroso più intimo e impenetrabile dal pensiero. L’”Epilogo” – e perciò ho voluto pubblicarlo su Poliscritture –  è davvero struggente per la scelta di fare i conti con Padre e Madre (reali e immaginari) attraverso un dialogo postumo ma svolto in forma diretta come con persone vive.  Sul piano letterario la forma-romanzo mi pare  volentieri “strapazzata” o  usata liberamente per  seguire fino  in fondo certe esigenze espressionistiche. Ne risulta un tipo di narrazione frammentata e ibrida, dove le digressioni sul mito si intersecano con l’autoanalisi; ma anche con le interrogazioni sul senso o non senso del narrare stesso (a chi narrare? scavare nel passato ma perché?). Il «Senza terra» del titolo, come scritto nella quarta di copertina, allude alla «ricerca di quell’humus, di quella terra fertile che permetta di superare le macerie del passato e di evitare le fughe ingannevoli delle idealizzazioni», ma io tenderei di più a porre l’accento soprattutto sul «senza». Che rimanda una condizione umana più generale ed estrema di “povertà resistente”. Proprio come quel mandarino, che s’affaccia furtivo e inatteso in auest’epilogo e che patisce «con sfida esibendo le piccole foglie accartocciate dal gelo» mentre «le altre piante, più avvezze ai climi rigidi, se l’erano cavata». Quante allegorie sarebbero possibili a partire da questa immagine! Che a me  rimanda – a riprova della distanza epocale tra noi e i nostri antenati – all’albero fiorente di ciliegie di Brecht saccheggiato da un giovane ladro dai calzoni sdruciti. Il cui arrivo anche il mandarino di questo romanzo potrebbe attendere? [E. A.] Continua la lettura di Senza terra