a cura di E. A.
Dietro l’apparente automazione e la digitalizzazione della produzione, studiosi c ome Antonio Casilli mostrano l’abbondanza di lavoro umano, un lavoro nascosto, spesso poco o per nulla remunerato, svolto senza garanzie né protezioni, generalmente non riconosciuto in quanto tale, non considerato e fondamentalmente svalorizzato. Non è dunque della fine del lavoro che oggi si parla, ma appunto della sua liquidazione e della sua denigrazione. Dietro la facciata asettica e apparentemente immateriale dell’economia digitale appare il lavoro più materiale che ci sia, quello del dito del digitus, occultato dalla distanza geografica, dissimulato negli appartamenti dei paesi sviluppati, nelle cucine delle click farm dei moderatori africani, nelle fabbriche filippine dei cleaners, gli spazzini della rete di cui “i social non dicono”.
Dietro l’apparente automazione e la digitalizzazione della produzione, studiosi come Antonio Casilli mostrano l’abbondanza di lavoro umano, un lavoro nascosto, spesso poco o per nulla remunerato, svolto senza garanzie né protezioni, generalmente non riconosciuto in quanto tale, non considerato e fondamentalmente svalorizzato. Non è dunque della fine del lavoro che oggi si parla, ma appunto della sua liquidazione e della sua denigrazione. Dietro la facciata asettica e apparentemente immateriale dell’economia digitale appare il lavoro più materiale che ci sia, quello del dito del digitus, occultato dalla distanza geografica, dissimulato negli appartamenti dei paesi sviluppati, nelle cucine delle click farm dei moderatori africani, nelle fabbriche filippine dei cleaners, gli spazzini della rete di cui “i social non dicono”.
Questo stravolgimento del destino, del sogno di una riduzione progressiva del lavoro, di una vera e propria liberazione dal lavoro, è stato in gran parte possibile con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie della comunicazione e della informazione. Dal lettore ottico dei codici a barra, introdotto per la prima volta in una drogheria americana a metà degli anni ’70, al computer portatile, da Internet allo smartphone, abbiamo assistito ad una proliferazione di dispositivi tecnologici che hanno la propria forza dirompente nella capacità di catturare le nostre vite attraverso la traduzione in dati dei nostri comportamenti, delle nostre scelte, delle nostre interazioni umane. Si tratta di macchine linguistiche, protesi (per oltre quattro miliardi di persone!) che succhiano valore-informazione ovunque noi siamo, che appunto mettono al lavoro la nostra vita, sono “armi di distrazione di massa” che trasformano ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero in valore economico. Addirittura l’ozio è “messo al lavoro”, nel senso che laddove crediamo di essere inattivi, distraendoci e giocando in rete, in realtà produciamo dati che saranno puntualmente commercializzati.
Gli economisti americani Eric Posner e Glen Weyl, nel loro Radical Markets sostengono che i dati che forniamo e che vengono sistematicamente accumulati in enormi banche dati sono a tutti gli effetti lavoro (data is labor). Per la felicità delle corporation digitali, che della gratuità della vita messa al lavoro hanno fatto la chiave del loro successo e dei loro enormi profitti. Con la digitalizzazione, ci troviamo in una sorta di tecnofeudalesimo, in cui ad esempio Facebook (oggi Meta) paga annualmente solo l’1% del suo valore in salari ai dipendenti-programmatori perché ottiene gratuitamente il resto del suo lavoro da tutti noi. In contrasto, Wallmart (che pure non brilla per gli stipendi che eroga) versa il 40% del suo valore in salari. Se davvero si volessero ridurre le disuguaglianze di reddito, occorrerebbe cominciare col riconoscere monetariamente tutto questo lavoro gratuito
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