di Antonio Sagredo
Un canto di frasi brevi, brevissime e ritmate da una folla di esclamativi. Un caleidoscopio di teatralità grottesca, di erotismo ora fallico-macabro ora rabelesiano ora plebeo. Con una pervicacia potente (e con echi oscurantisti, eterodossi e da demonismo romantico) alla dissacrazione nichilista. In un vortice atemporale, ricco di allusioni e riferimenti celati (o oggi semplicemente ignoti al lettore fermo a tradizioni più chiuse e nazionali) vengono frullate, conteggiate e corteggiate le figurine-marionette del Grande Immaginario Mondiale: da Don Chisciotte a Dulcinea, da Giuditta a Ofelia a Eurdice a Beatrice a Saffo alla Cenci, a varie poetesse (dalla Cvetaeva alla Dickinson alla Stampa alla Valduga) e sante donne (Teresa d’Avila, santa Lucia, Maria Stuart, Maddalena). Eppure in questo cumulo visionario e vorticare caotico di richiami letterari c’è un fondo serio e tragico: l’orrore per la storia umana. E c’è la fiducia esaltata – antilluministica («Oh, i pettegoli, Colomba!/ Sono zecche, tafani») e antireligiosa («Tutti i profeti sono invecchiati: asessuati molluschi che con musi/ asinini cinguettano di nuove dottrine, di sante alleanze») – del Poeta che, forse neppure più Vate ma disincantato angelo (del Klee interpretato da Benjamin), « nei cortili ama lo schiamazzo della Natura /e del Tempo che s’ingravida di orrori e di leccornie,/come un testimone antico, bambino-vegliardo,/che su un divano orientale/ si schianta appestato di rovine e di vittorie.». [E. A.] Continua la lettura di Canti del Moncayo