Archivi tag: Contro l’impegno

Sotto la metafora niente

Maylis de Kerangal, Riparare i viventi

di Elena Grammann

Nel primo capitolo del pamphlet Contro l’impegno (di cui ho parlato qui), intitolato “L’epoca dello spezzatino e la letteratura terapeutica”, Walter Siti riferisce la posizione del critico e accademico francese Alexandre Gefen (Réparer le monde: la littérature française face au XXIe siècle, Éditions Corti 2017) che, su base di ricerca empirica, individua il nuovo ruolo della letteratura – francese, ma si intende europea e perché no mondiale – nella funzione curativa. Compito della letteratura è prendersi cura dello spirito-corpo dei lettori, contribuire al loro benessere e miglioramento morale come singoli e come collettività. Di fronte a questo compito, altre specificità delle cosiddette “belle lettere”, prima fra tutte la specificità estetica, passano in subordine e, passando in subordine, ci si chiede dove vadano a finire. In altre parole, cosa distingue, secondo questo approccio, un buon romanzo – cioè un romanzo curativo[1] – da un buon saggio? Qual è – ammesso che se ne voglia ancora parlare – il senso della specificità estetica, se non di spedire l’incauto autore che ancora la persegua nell’infernale torre d’avorio degli esteti? O – peggio ancora! – di essere ridotta a orpello ornamentale, arzigogolo letterario, inutile affaticamento per i nostri già stanchi cervelli, che è precisamente ciò che gli scrittori terapeutici e pedagogici vogliono evitare? Questo è il punto che cercherò di discutere.

Partiamo da un’osservazione di Siti:

La letteratura francese degli ultimi vent’anni (Gefen non ha dubbi su questo) intende “agire, rimediare alle sofferenze” – Maylis de Kerangal “vuol fare del bello mediante il bene, e del bene mediante il bello”, Emmanuel Carrère in Vite che non sono la mia insegna (perché lui stesso l’ha imparato) che ciò che ci unisce agli altri è più importante di ciò che ce ne distingue.

Si tratta di una buona scrittrice e di un grande scrittore, ma Gefen non ha alcun problema a metterli accanto a scrittori mediocri o pessimi, o perfino ai prodotti collettivi degli ateliers d’écriture.

Di Carrère conosco alcune cose (ma non il romanzo citato); è un autore di stazza notevole, il che vuol dire complesso, eminentemente letterario, dunque non adatto allo scopo. Prendiamo, come più rappresentativa, la “buona scrittrice” Maylis de Kerangal, che il romanzo Riparare i viventi (Réparer les vivants, 2013) ha sparato nell’empireo delle lettere francesi e che dunque, se qualcuno non ci mette buon ordine, è sulla via di diventare a sua volta una grande scrittrice. Oltretutto era un romanzo che volevo leggere – non che lo desiderassi, sia chiaro; ma mi toccava.

Riparare i viventi è la storia di un trapianto di cuore. Gli eventi narrati comportano ventiquattro ore esatte. Kerangal stessa dice in un’intervista:

C’è anche il fatto che il mio racconto si svolge in uno spazio di ventiquattro ore. Ci tenevo per dei motivi di forma, affinché ci fosse unità di tempo (la giornata), unità di luogo (l’ospedale di Le Havre) e unità d’azione (il trapianto). Sono i tre aspetti che fondano la tragedia, assieme all’idea che la Terra compie un giro su se stessa, che le cose continuano.[2]

Ombra lunga di Racine e del grand siècle; ma già da queste affermazioni si nota come i “motivi di forma” rimangano esterni e, in un certo senso, “appiccicati sopra”. A parte l’unità di tempo (comunque abbondantemente sbriciolata per il semplice fatto che un romanzo non è una tragedia, e questo men che meno), le altre due sono al massimo tendenziali: l’unità di luogo non può essere – comprensibilmente – mantenuta perché l’impianto del cuore si fa in un altro ospedale, di un’altra città, e tutte le persone coinvolte nell’impianto, con le loro storie, afferiscono a questa altra città; ma soprattutto l’unità d’azione – il trapianto – si apre in due metà abbastanza disomogenee: l’espianto e l’impianto; talmente disomogenee che la seconda parte del romanzo, relativa all’impianto, vira dalla tragedia al dramma satiresco[3].

Ma lasciamo stare Aristotele e gli altri antenati nobili (chanson de geste, epica omerica) che Kerangal individua per il suo romanzo. Il discorso mi interessava per un sospetto di scollamento fra (presunta) forma e (presunta) sostanza che sarà da riprendere. Veniamo invece alla materia del romanzo – nel senso del tema, ma soprattutto della prosa di cui è fatto. Simon Limbres, un ragazzo di diciannove anni, molto sportivo e un po’ temerario (nell’equazione kerangaliana il corrispondente contemporaneo dell’eroe omerico) è vittima di un incidente. All’arrivo dell’ambulanza il ragazzo è in coma ma il cuore batte ancora. Ricoverato in rianimazione, l’encefalogramma evolverà rapidamente verso il piatto definitivo, senza che sia possibile intervenire date le dimensioni del danno; tuttavia una vita vegetativa, e dunque il battito cardiaco, potrà essere mantenuta per un tempo breve con l’aiuto delle macchine[4]. Ma vediamo un po’ da vicino la prosa. Una gelida alba di febbraio, in Normandia, su una spiaggia deserta, tre ragazzi si regalano una sessione di surf. Il lettore si attende l’incidente, ma no, va tutto bene. L’incidente è un banale incidente d’auto, come ce ne sono purtroppo tanti, sulla via del ritorno. Chi guida il furgone che si sfascerà contro un palo non è Simon Limbres ma un altro del trio, Chris:

I ragazzi hanno smesso di battere i denti, il riscaldamento del pullmino è al massimo, così come la musica, e certamente il caldo che ha invaso l’abitacolo produce un altro shock termico, certamente la stanchezza si fa sentire, sbadigliano e dondolano la testa, cercando di rannicchiarsi contro lo schienale dei sedili, ovattati nelle vibrazioni del veicolo, nasi tappati nelle sciarpe, e certamente li prende il torpore, le palpebre si chiudono a intermittenza, e allora forse, superato Étretat, Chris ha accelerato senza nemmeno rendersene conto, spalle accasciate, mani pesanti sul volante, la strada diventata un rettilineo, sì, forse si è detto, okay, è tutta libera, e la voglia di accorciare il rientro per andare a sdraiarsi a casa, smaltire il contraccolpo della sessione, la sua violenza, ha finito per pesare sulla velocità, e così si è lasciato andare, tagliando l’altopiano e i campi neri, arati, i campi a loro volta immersi nel sonno, e certamente la prospettiva della statale – una punta di freccia conficcata davanti al parabrezza come sullo schermo di un videogioco – ha finito per ipnotizzarlo come un miraggio, così che fissandola ha perso ogni vigilanza, e tutti ricordano che quella notte aveva gelato, l’inverno aveva steso sul paesaggio una patina sottile, tutti sanno delle lastre di ghiaccio che si formano sull’asfalto, invisibili sotto il cielo opaco ma capaci di cancellare il ciglio della strada, e tutti immaginano le cortine di nebbia che planano a intervalli irregolari, compatte, quando l’acqua evapora dal fango man mano che sorge il sole, banchi di nebbia pericolosi che filtrano il mondo esterno annullando ogni punto di riferimento, sì d’accordo, e cos’altro ancora, che altro? Un animale che attraversa la strada? Una vacca smarrita, un cane strisciato fuori da un recinto, una volpe dalla coda di fuoco oppure una sagoma umana spuntata come un fantasma sul ciglio della scarpata da evitare all’ultimo momento con una sterzata? O un canto? Sì, forse le ragazze in bikini che tappezzavano la carrozzeria del suo van si sono animate all’improvviso per andare ad arrampicarsi sul cofano e invadere il parabrezza, lascive, chiome verdi e voci non umane, o troppo umane, e Chris ha perso la testa, attirato nella loro trappola da quel canto che non era di questo mondo, un canto di sirena, un canto fatale? Oppure, forse Chris ha fatto un falso movimento, sì, ecco cos’è stato, un gesto inconsulto, così come il tennista manca un colpo facile, o come lo sciatore spigola, un’idiozia, forse non ha girato il volante quando la strada invece faceva una curva, o infine, perché bisogna considerare anche questa ipotesi, può darsi che Chris si sia addormentato al volante, abbia lasciato la campagna monotona per entrare nel tubo di un’onda, nella spirale meravigliosa e improvvisamente intelligibile che fila davanti al suo surf, risucchiando il mondo, il mondo e l’azzurro del mondo.[5]

La figura di questo pezzo di bravura è l’accumulazione. Figura di sicuro e sperimentato effetto, bravura indubitabile. Accumulazione di ipotesi sul perché il furgoncino abbia a un certo punto sbandato sulla sinistra e si sia schiantato contro un palo a una velocità di novantadue chilometri orari senza che sia presente traccia di frenata (questi gli elementi appurati dalla polizia stradale). Accumulazione di ipotesi che presuppone l’impossibilità di accertare quale sia quella giusta (colpo di sonno, intontimento, nebbia, ghiaccio, falso movimento, animale che taglia la strada ecc.), il che implica a sua volta che nessuno sia sopravvissuto, e in ogni caso non il guidatore. E in effetti l’impressione del lettore, a questo punto della lettura, è che siano morti tutti e tre. Questa è, contemporaneamente, l’informazione implicita veicolata dal “pezzo” e il senso del suo esistere, del suo essere stato scritto. Tot pagine più avanti, tuttavia, si apprende con una certa sorpresa che il solo deceduto è Simon, mentre gli altri due, grazie alle cinture allacciate, se la sono cavata in fondo piuttosto bene, diverse fratture ma nessun organo leso. Quindi non è vero che fosse impossibile appurare cos’era successo, come suggerisce il brano citato; era possibilissimo e anzi, da parte della narratrice onnisciente che è anche l’autrice, doveroso. O se, per motivi suoi, non voleva appurarlo, nulla però la autorizzava a scombinare le carte a esclusivo beneficio di un effetto estetico. Effetto estetico senza legame funzionale con il tutto dell’opera – puro ornamento.

Qual è quindi il senso dell’accumulazione – figura di stile molto amata da Kerangal che ce la serve quasi ininterrottamente dall’inizio alla fine del romanzo? Il senso è la bravura, il virtuosismo: in questo caso, ma esemplarmente, fine a se stesso. A proposito di un altro testo della nostra autrice, Richard Millet, personaggio della scena letteraria francese piuttosto fuori dagli schemi, e con le cui posizioni io non mi trovo necessariamente d’accordo, parla di barbe à papa, la nuvola di zucchero filato avvolta su un bastoncino che si compra alle fiere e piace tanto ai bambini[6]. Millet si riferisce probabilmente a un certo buonismo scontato e zuccheroso, ma io trovo che l’immagine della barbe à papa suggerisca molto bene il gonfiarsi e arrotolarsi, in spirali a effetto, di una materia inconsistente che, alla prova, finisce in un niente appiccicoso e svela come nucleo duro un nudo e disomogeneo stecchetto.

Perché, riassumendo e per concludere, cosa abbiamo alla fine? Abbiamo una struttura didascalico-divulgativa sul trapianto di cuore – procedura che comporta aspetti biologici, medici, giuridici, organizzativi, psicologici, emotivi. Gli aspetti biologici, medici, giuridici e organizzativi, in parte anche certi aspetti psicologici, fanno l’oggetto di un’esposizione generalmente asciutta, che potrebbe anche dirsi saggistica se non fosse un po’ troppo cursoria, un po’ troppo divulgativa appunto, da enciclopedia per la famiglia. Altri aspetti psicologici e soprattutto gli aspetti emotivi “plasmano” certi personaggi: in primo luogo la madre, poi il padre, molto più marginalmente la fidanzatina. Tutto l’ambito dell’emotività, con relativi personaggi, è ambito di invenzione. Di accumulazione in accumulazione e di bravura in bravura Kerangal se la cava discretamente, senza però che il lettore – proprio per l’uso dilagante di figure retoriche macroscopiche – dimentichi che sta leggendo una finzione. Poi ci sono tutti gli altri: medici, infermieri, la donna che riceverà il cuore di Simon; ognuno con la sua storia più o meno sviluppata, con i suoi segni distintivi, somatici e caratteriali. E qui finiamo – né poteva andare diversamente – nelle immediate vicinanze delle serie televisive che Kerangal critica espressamente ma dalle quali i suoi personaggi non protagonisti in fondo non si distinguono. E come potrebbero, applicati come sono dall’esterno a un’ossatura che non li riguarda, uno schema teorico-didattico che devono industriarsi di rimpolpare, di rendere appetibile, suscitare la curiosità per la pagina seguente, soprattutto arrivare a un numero congruo di pagine e fare in modo che il lettore le ingoi senza recalcitrare; così come i pezzi di bravura servono a dargli l’impressione che stia leggendo letteratura. E avremmo il paradosso che proprio la letteratura terapeutica, quella che ha in spregio la specificità estetica, che aborre la torre d’avorio e mira al sociale al buono al sodo, proprio quella si serve dei trucchetti “estetici”, in quantità industriali, per far passare la sua mercanzia.

Però la lettura di Riparare i viventi a qualcosa è servita. Adesso capisco quelli che hanno smesso di leggere romanzi e leggono solo saggi. Se il romanzo è diventato così, se si è ridotto così, hanno perfettamente ragione.

_____________________________

[1] Si intende naturalmente anche pedagogico. Ad esempio, a proposito di un racconto la cui protagonista non si accorge che il concupito ha interessi omosessuali, una lettrice lamenta che il racconto manca di educare le ragazze a non fare le finte tonte.

[2] https://lesgeneralistes-csmf.fr/2014/05/15/maylis-de-kerangal-donner-un-organe-cest-remettre-son-corps-au-pot-commun/

[3] In questo senso il romanzo di Kerangal non sarebbe semplicemente l’equivalente contemporaneo di una tragedia classica, ma di un’intera giornata a teatro nell’Atene del V secolo.

[4] Questo – la contraddizione fra la morte cerebrale e un’apparenza di vita – è o dovrebbe essere il nucleo del romanzo ed è infatti la parte buona, convincente, anche stilisticamente. Purtroppo breve, né si vede come sarebbe stato possibile tirarla più in lungo.

[5] Riparare i viventi, Feltrinelli 2015, trad. di M. Baiocchi con  A. Piovanello, p. 20s.

[6] “ce texte [relève] surtout de la barbe à papa idéologico-esthétique” https://excerpts.numilog.com/books/9782756110981.pdf

Due scrittori “sitiani”

di Elena Grammann

L’antefatto è il saggio di Walter Siti Contro l’impegno, di cui ho parlato qui. Siti critica una letteratura che punta al raggiungimento di qualche tipo di effetto – terapeutico, sociale, politico – senza tener conto che il medium in cui vuole muoversi – la letteratura appunto – ha un’essenza e caratteristiche sue proprie che non possono essere ignorate in nome o con la scusa della “bontà” dell’effetto perseguito. Con questa tesi, e con la critica conseguente, mi sono trovata d’accordo. Tuttavia, che qualità debba possedere l’opera per centrare il bersaglio della letteratura rimane nel saggio abbastanza generico e gli esempi, soprattutto contemporanei, scarsi. Questo da un lato è legittimo, non essendo il tema la letteratura in sé, ma una certa produzione che gode del favore del pubblico senza incontrare rilevanti smentite da parte della critica. D’altro lato è chiaro che per promuovere o bocciare è necessario un quadro di riferimento abbastanza preciso, un’idea netta, benché forse non così facilmente enunciabile, delle caratteristiche formali[1] che un testo deve possedere per meritare la qualifica di letterario. Ma già questo – parlare di caratteristiche necessarie, ancorché definite in modo molto generale – ha attirato a Siti l’accusa di estetismo, crocianesimo, novecentismo, corporativismo ecc. Limitatamente al saggio, trovo queste accuse ingiustificate. Rimane però la curiosità di capire un po’ meglio che cosa, secondo il critico, faccia la differenza fra ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Per capire meglio, ho provato a leggere qualcosa di due autori che Siti promuove[2]: Sandro Veronesi e Emanuele Trevi.

Cominciamo da Veronesi e dal suo Il colibrì (2019). Diciamo subito che Veronesi ha una scrittura più consapevole e “mediata” degli autori impegnati di cui parla Siti. E, se posso permettermi, la mediatezza mi pare la vera condizione necessaria della letteratura[3]. Necessaria ma non sufficiente. Man mano che avanzo nella lettura il suo romanzo mi appare sempre più insopportabilmente borghese – vorrei poter dire borghese fuori tempo massimo, ma dato che ha vinto lo Strega l’anno scorso evidentemente non è così, bisogna dire che il borghese vada di moda. A me comunque, di questi genitori colti, abbienti, ingegnere lui architetta lei, che si sono amati ma ora si odiano però i figli non devono accorgersene; e infatti i figli sono così tonti che non se ne accorgono e crescono sereni in mezzo ai libri, ai mobili rigorosamente d’autore, all’archivio architettonico-fotografico d’avanguardia della madre, ai modellini che tengono una stanza costruiti dal padre, e passano l’estate in Versilia nel casale ristrutturato; a me di Bolgheri, dei cipressi, del Gambero rosso, delle partite di caccia nella tenuta dell’amico, delle gare di sci e dei tornei di tennis, di tutte queste cose esibite come fossero le cose di tutti, non me ne importa assolutamente nulla. E anche le disgrazie e resilienze del colibrì, alias Marco Carrera, uno dei figli (e io narrante), i suoi sforzi eroici per tenere insieme la famiglia d’origine e quella che si è fatta, e già che c’è pure la relazione extraconiugale stilnovista, per tenere insieme queste cose disgraziate fin dall’inizio senza mai chiedersi perché lo siano, a me tutta questa così lodata “resilienza” mi commuove veramente poco.

Ma bando alle visceralità e cerchiamo di venire al sodo. Il colibrì vuole conservare. Cosa vuole conservare? La serenità, la felicità, l’amore. Non li può conservare perché, a ben guardare, non ci sono mai stati. I genitori, come detto, si detestano; la sorella maggiore, l’unica che vede chiaro nella situazione familiare, soffre di un forte disagio psichico e si suicida; il suicidio della sorella disgrega il disgregabile ma bisogna metterci una pezza e andare avanti (mai guardare indietro comunque, ai presupposti); il colibrì sposa, sulla base esoterico-scaramantica di una coincidenza, che si rivelerà ovviamente falsa, una malata di mente e non si accorge di nulla, convive otto o dieci anni con questa persona ma è talmente preso dalla relazione epistolare che intrattiene con la vera donna della sua vita, che non si accorge di nulla finché la malattia mentale della moglie, più la tresca platonica, non fanno esplodere il matrimonio – ma esisteva questo matrimonio? Il colibrì raccoglie i cocci e conserva. La morte ripassa con la falce e falcia i genitori. Il colibrì conserva la collezione Urania del padre, l’archivio fotografico della madre, la casa piena di mobili d’autore dove nessuno vive, i modellini ecc. Scrive mail commoventi al fratello sulla sua attività di conservazione. Il fratello, che non gli parla da anni, non risponde. E mai che il colibrì si interroghi sul senso di conservare qualcosa che, come ci ha raccontato fedelmente, in realtà non è mai esistito. La morte, testarda, ripassa. E qui finisce la parte interessante del romanzo[4], circa due terzi. L’ultimo terzo, che vorrebbe dare un senso alla resilienza e spirito di conservazione, sarebbe un manga mediocre anche se ci fossero i disegni. Perché si scopre che il senso della tenacia del colibrì si incarna nella nipote: Miraijin, 未来人, l’Uomo del Futuro, concepito per probabile partenogenesi, che salverà il mondo. In un romanzo di impianto realista. Non scherzo. L’ultimo terzo del romanzo è una sfida a restare seri. La qualità letteraria scende ai livelli del (da Siti) dileggiato D’Avenia, cioè al grado zero.

Sei prevenuta, si dirà, sei negativa, scegli di rappresentare le cose in una luce negativa, le cose non stanno proprio come le metti tu. Va bene, applichiamo il principio di carità. Non è vero che non c’è amore. I genitori, ognuno per conto suo e separatamente, amano i figli, almeno si presume. E il colibrì ama tutti, ha riserve di amore inesauribili, qualche volta perde la pazienza ma di massima li ama sconfinatamente tutti. Cosa c’è che non va allora, perché questo grande amore del colibrì non trova di meglio che sostanziarsi in un improbabile e fumettistico Uomo del Futuro?

Perché è un amore presupposto e non indagato. L’amore del colibrì c’è, è dato, alla stessa stregua del casale ristrutturato e dei mobili di design, è timbrato borghese come tutto, ma proprio tutto, ciò che compare in questo romanzo, è la cara vecchia virtù borghese che c’è anche se non c’è, che non c’è ma c’è, giratela come vi pare. Anche al netto dell’ultima parte, improponibile, il limite di questo romanzo – ai miei occhi un grosso limite – è che non si interroga sui suoi presupposti, non indaga; il colibrì è soprattutto uno che non vede quello che ha sotto il naso. Significativo che nel romanzo il lavoro di indagine (inutile perché va nella direzione sbagliata) sia demandato agli psicoanalisti, che il colibrì detesta. Il romanzo di Veronesi parte da un dato: l’esistenza borghese – ma potrebbe essere anche l’esistenza proletaria, l’esistenza miliardaria, non è questo il punto – e lo prende come un assoluto, non lo indaga mai. Allora, d’accordo con la critica della pseudoletteratura impegnata, ma se questo è ciò che Siti ha da opporre, è un po’ scarso.

Discorso completamente diverso per Emanuele Trevi. Trevi è uno scrittore fatto per piacermi. Premetto che di lui conosco le opere “meditative”, non quelle di finzione; per opere meditative intendo le tre[5] (finora) dedicate alle figure di intellettuali scomparsi – tutti, ad eccezione di Pasolini, appartenenti alla cerchia più o meno stretta dei suoi amici: Qualcosa di scritto (2012, Pasolini e Laura Betti), Sogni e favole (2018, Arturo Patten, Amalia Rosselli, Cesare Garboli), e l’ultimo, Due vite (2020, Rocco Carbone e Pia Pera), con cui ha vinto quest’anno lo Strega. Con un po’ di malignità si potrebbe dire che Trevi si è specializzato nel genere del necrologio letterario, e si potrebbe immaginare che nella cerchia degli amici qualcuno abbia cominciato a fare gli scongiuri. Malignità, ma che hanno la loro giustificazione nel tono elegiaco, di meditazione post mortem, che a Trevi riesce molto bene, davvero, e nell’impressione che, appunto perché gli riesce bene, lo scrittore applichi una ricetta di sicuro successo. Impressione confermata dal fatto che l’ultimo della serie, Due vite, è a mio parere il più debole, quello in cui il paradigma mostra segni di esaurimento. Ma correggo subito il tiro: le opere meditative di Trevi (di quelle parlo perché le altre non le conosco) sono tutte consigliate, leggerle non è mai tempo perso.

Letteratura meditativa dicevo – di sapore montaigniano, un trascorrere dal caso particolare alla considerazione generale: vasta, confortante perché generale, che ingloba altri casi, come in Montaigne indifferentemente contingenti o letterari, prelevati da una tradizione che agli umanisti appare più contemporanea del contemporaneo; come se non ci fosse in fondo differenza fra qualcosa di vero e qualcosa di scritto, fra reale e letterario – anzi, se è letterario tanto meglio perché soltanto il letterario è il veramente consolatorio[6]. Vedi ad esempio, nell’ultimo libro, il parallelo fra Pia Pera e la Tat’jana dell’Onegin:

C’è un dettaglio che mi sembra significativo dal punto di vista psicologico: Pia mi ha detto una volta che per lei la vera «scena madre» del libro [Evgenij Onegin] andava riconosciuta in un episodio del capitolo VII, quando Tat’jana, ancora innamorata di Onegin, alla [sic] quale attribuisce una luciferina grandezza, sfogliando i libri della sua biblioteca scopre che il carattere del giovane dandy è totalmente modellato sui libri di Byron e su qualche altro romanzaccio «in cui si rispecchia l’epoca». […] La rivelazione fa di Tat’jana una persona libera, ma non per questo è meno amara, perché ogni perdita d’innocenza aumenta in noi il senso desolante dell’estraneità di quel mondo che l’anima si ostina a scambiare per la propria casa. Rileggendo le strofe del capitolo, mi è sembrato impossibile non pensare a quante volte, e in quante imprevedibili maniere, Pia deve essersi imbattuta in simili delusioni, tanto più dolorose quanto più la sua anima limpida e sensibile aveva ribrezzo di ogni posa artefatta, di ogni scadente imitazione

O il parallelo, a proposito del giardino, fra Pia e Emily Dickinson, o quello, autoistituito, fra Rocco Carbone e Jay Gatsby:

Don Ciccio Ingravallo diventò il fantasma di un’epoca di adattamento ormai trascorsa. Adesso era Jay Gatsby a fornirgli un’idea totale di sé. Ahimè tutti questi specchi che ci offre la letteratura sono deformanti come quelli del luna park, ci rendono inverosimilmente smilzi e obesi convincendoci a riconoscerci nella deformazione. Non dico solo nei libri, ma nell’universo non c’è nulla che davvero ci assomigli, noi stessi non ci assomigliamo, e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive. È pur vero che Rocco nella parabola dell’eroe di Fitzgerald vedeva significati che non potevano lasciarlo indifferente. In Gatsby, come nel suo grande modello che era il Martin Eden di Jack London, un altro libro compulsato da Rocco come una Bibbia, il tema del venire dal nulla e dell’ascesa sociale diventa preponderante, e si lega non solo a una carriera (di attività illecite per Gatsby, letteraria per Martin Eden), ma al legame (impossibile) che unisce l’eroe a una donna di ceto nettamente superiore. Questo schema, ovvero la conquista della ragazza di buona famiglia, è stato talmente ripetuto e declinato in tutte le sue possibili sfumature da Rocco che mi riesce difficile non soffermarmi su questo aspetto della sua storia.

Trevi ha un bel dirci che “tutti questi specchi che ci offre la letteratura sono deformanti” – rimane il fatto che i suoi eroi in quelli si specchiano o vengono volentieri da lui stesso specchiati. E se “nell’universo non c’è nulla che davvero ci assomigli”, se “noi stessi non ci assomigliamo”, allora l’identificazione letteraria è un’identificazione come un’altra, per alcuni, fra cui Trevi, più affascinante di un’altra, come testimonia la cadenza proustiana (fuori tempo massimo): “[…] e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive”.

Quando Rocco Carbone rimproverava a Trevi di scrivere “prosa d’arte”, non aveva poi tutti i torti. Col massimo rispetto per le squisitezze treviane e la massima disponibilità a apprezzarle, le trovo molto ben fatte ma un po’ vecchie, un po’ qualunquiste. E a proposito di qualunquismo vorrei citare un ultimo brano:

Appartenevo anch’io, come tanti suoi amori, a quel ceto cui Rocco, con una ingenuità sorprendente per una persona della sua intelligenza, attribuiva ipso facto un’esistenza più facile e più protetta. E mi ostinavo a ricordargli che lui stesso non era cresciuto in un campo di profughi eritrei o in una favela brasiliana. Ok, si era fatto da solo, chi glielo negava; ma mitizzava eccessivamente delle differenze di origine e di educazione che mi sembravano delle semplici sfumature nel grande mare della normalità borghese. Quello che mi dispiaceva è che Rocco, in questi accessi di orgoglio e di rancore, perdeva di vista la singola persona a vantaggio di astrazioni sociologiche verosimili ma approssimative, come tutto ciò che riguarda l’umanità in generale. Mentre la vita delle singole persone, in quanto esseri mortali, è difficile senza distinzioni e certi vantaggi stabiliti dalla sorte possono rivelarsi degli ulteriori ostacoli, o risultare, a conti fatti, del tutto irrilevanti.”

Questo pezzo è un capolavoro di psicologia sociale, andrebbe analizzato nel dettaglio. Mi limiterò a estrapolare le “semplici sfumature nel grande mare della normalità borghese” e a rimarcare che anche Trevi, come Veronesi, ha un’idea molto ampia del “grande mare della normalità borghese”, che ingloberebbe tutto ciò che esula dai campi profughi e dalle favelas – che comunque esistono – e ne farebbe un medium sostanzialmente omogeneo, nel quale la differenza fra la situazione culturale della sua famiglia, l’ambiente sociale in cui era inserita, la città dove è nato e cresciuto, e, poniamo, la situazione culturale e l’ambiente in cui era inserita la mia, sarebbe una “semplice sfumatura”. A me sembra che qui l’ingenuo sia Trevi – e che da qualche parte dovrebbe pur saperlo. E direi che l’“astrazione sociologica”, nemmeno verosimile ma sicuramente approssimativa, è la sua, di Trevi, che della “normalità borghese” fa un paradigma dell’umanità in generale.

Concludendo: i due più recenti premi Strega, assegnati a autori apprezzati da Siti, sono andati a due opere che, pur con una notevole differenza di qualità, sono entrambe borghesi fino al midollo e, quel che più conta, mirano a un’identificazione dell’umanità con la borghesia. Ora, è vero che il più prestigioso premio italiano non è certo un marchio di qualità, ma sicuramente indica una tendenza, una certa piega. Nel nostro caso una piega – sia detto nel tono più neutro possibile – reazionaria.

A questo punto però sarebbe opportuno che Walter Siti esibisse le sue griglie di valutazione e precisasse la sua idea di letteratura.

_____________________

[1] Mi pare evidente che non di contenuti si può parlare. Ma “formali” non si riferisce alla “bella forma” dello scrivere; si riferisce invece ai presupposti impliciti che generano lo scrivere e dai quali dipende una certa qualità di base, letteraria o no.

[2] Non nel saggio, ma in alcune interviste.

[3] ‘mediata’ sarebbe qui il contrario di ‘immediata’. Con scrittura mediata intendo una scrittura che approccia le cose da una prospettiva sfumata, da un punto di vista obliquo, e ne vede lo spessore, mentre il modo diretto (immediato) non può che restituire una falsa superficie.

[4] Interessante perché in linea generale ben raccontata. Tranne le missive stilnoviste che sono, come si suol dire, al di sotto di ogni critica.

[5] Ho scoperto che ce n’è una quarta (ma cronologicamente una prima): Senza verso. Un’estate a Roma (2004), dove lo scomparso è il poeta Pietro Tripodo. Ma non l’ho letto.

[6] In un libro di 120 pagine stampate grandi, e al netto delle opere di Pera e Carbone, vengono citati una trentina di titoli, senza contare gli autori citati “in toto”.