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Riordinadiario 1989 (2)

di Ennio Abate

quella torsione violenta
del bulbo oculare e dell’intera testa

come in una marionetta!

fu il padre-prete
a condurre il suo sguardo
all'occhio tremendo di Dio
nel triangolo della stampa appesa al muro
nella stanza 

così  fu interrotta la visione
del seno materno
e il bimbo diventò uno strabico spione
che guardava di soppiatto e di traverso
il corpo desiderato
e se lo fingeva altrove

lontano sull’orizzonte del mare
invadeva la finestra assolata

l'esperienza recisa l'inseguì
nelle scaglie di pesce morto
o - più tardi - sul foglio bianco


(16 ottobre 1989)

La fede opaca di Fortini

Questo saggio è già comparso sul n. 6 – dicembre 2009 di Poliscritture cartacea scaricabile qui

Donato Salzarulo

Con te a volte appuntamento
mancato, ala d’eclissi, soffio
innevato.

C’è una poesia della raccolta «Composita solvantur» (Einaudi, 1994) che non mi risulta abbia ricevuto sinora molta attenzione o commenti. Eppure Fortini le attribuì una posizione “strategica”: collocandola all’inizio; facendola stampare in corsivo, con un carattere tipografico diverso dalle altre; dandole una funzione di apertura e di “illuminazione” del clima generale della raccolta, di guida implicita, ecc. In breve, un insieme di segnali che il lettore non può non notare. La poesia, senza titolo, è questa:

Per quanto cerchi di dividere
con voi dal vero le parole 

la fede opaca di che vivo
è solo mia. La tento ancora 

e l’occhio guizza, la saliva
brilla sull’orlo dei canini, 

o incerti amici, o incerte prove.

                   *

 Per quanto cerchi di conoscere
che cosa guarda dal sereno 

dove il celeste posa in sé,
di questo sono certo e fermo: 

i globi chiari, i lenti globi
templari cumuli dei venti 

non sono me.

Quattordici versi in tutto, orchestrati meravigliosamente e con incomparabile sapienza. Quattordici versi suddivisi in due tempi perfettamente equivalenti: sette e sette. Evidente la simmetria. La composizione è una, ma è divisa come una foglia di alloro in due parti. Sia i sette versi della prima che quelli della seconda sono distribuiti in coppie di novenari. Ancora il due, quindi, e ancora la simmetria. Ma i versi sono dispari e uno alla fine resta solo (“o incerti amici, o incerte prove.”, “non sono me.”). L’ultimo verso tronco è mimesi della poesia che si tronca e smette di dire. «L’uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; finché non sia più uno. E poi torni ad esserlo, e ti porti via» aveva scritto Fortini in «Una volta per sempre» (Einaudi, 1987)Una volta per sempre».

I primi versi di ambedue le prime coppie sono sdruccioli e in rima tra loro (“Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”). Sette: numero sacro per eccellenza, espressione della mediazione fra umano e divino. Sette sono le luci del candelabro ebraico, simbolo della fede perennemente accesa; sette i sacramenti, sette i peccati capitali, sette le virtù (quattro cardinali e tre teologali), sette le note musicali, sette i giorni della settimana, ecc. ecc. Il simbolismo del sette è ricchissimo. Poi, l’Uno che è in sé Due. Le coppie di novenari della prima e della seconda parte sono tre e tre. Altro numero di carattere indubbiamente simbolico, come il padre Dante e tutta la storia del cristianesimo insegna. Del resto anche la scelta di una misura metrica come il novenario non è certo dovuta al caso. Il simbolismo del sette, l’Uno che è in sé Due, la distribuzione trinitaria delle coppie, il ritorno della solitudine dell’Uno, le pause ritmiche del novenario, il verso tronco finale… Fortini ha insegnato che in poesia la forma è il contenuto. Il come di questo testo dice, allora, già molto di sé. Vorrei soltanto ricordare che «Composita solvantur» è l’ultima opera di questo poeta e rappresenta un po’ il suo testamento.

Sulla tessitura musicale non voglio dilungarmi più di tanto: appare come è evidente fitta di ripetizioni e variazioni attraverso rime, assonanze e consonanze, ecc. Nella circostanza, preferisco andare ad un’analisi più ravvicinata del testo: sia il primo verso sdrucciolo della prima parte che quello della seconda sono aperti da una locuzione congiuntiva, di natura concessiva, che ha implicitamente il sapore e il tono di un bilancio interiore: “Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”. Il gesto del cercare di dividere (che vale sul piano semantico sia come “condividere”, “rendersi partecipe” che come “frazionare”, “distinguere”) e quello del cercare di conoscere appaiono ripetuti come tentativi tenaci anche se condotti su terreni sdrucciolevoli e incerti nei loro risultati.

La prima coppia concessiva recita: “Per quanto cerchi di dividere / con voi dal vero le parole”. C’è un Io poetico, quindi, che si rivolge a un Voi con cui sembra avere in comune un’attività: quella di condividere con loro e/o di distinguere “dal vero le parole”. Sì, perché le parole, pare di intendere, non sempre provengono dal vero o non sempre sono capaci di rivelarlo. Ricercare e indagare su quelle parole che segnalano e mostrano il vero è perciò attività assolutamente importante. Ma questo vero di che natura è? Non è sicuramente quello a portata di mano, quello per cui alla domanda se in questo momento stia piovendo, una persona possa rispondere vero o falso. Il vero che l’Io poetico cerca di percepire e distinguere con quel Voi a cui si rivolge è tale che si trascina dietro un’importantissima confessione: “la fede opaca di che vivo / è solo mia.”  È un vero, allora, in relazione con la fede, che richiede una risposta personale, coinvolgente, impegnativa. Sottolineo: non è in questione un’opinione più o meno fondata, la verifica di un’ipotesi scientifica o la dimostrazione di un teorema. Fede è adesione piena di una persona, credenza profonda di cuore e mente, di sensibilità e ragione. Riguarda il tutto.

Il mettere in primo piano questa certezza personale, non credo comporti una preconcetta svalutazione di quel Voi collettivo, impegnato, come l’Io poetico, nella ricerca del vero. È consapevole, però, di muoversi su un terreno scivoloso, incerto (“o incerti amici”). È probabile, infatti, che non tutte le persone di quel Voi siano impegnati allo stesso modo, con lo stesso sforzo e la stessa intensità nella ricerca. Da qui il tono di una confessione intima e, allo stesso tempo, risoluta; libera e necessaria; partecipata e tuttavia distaccata. Una dichiarazione di fede che appartiene alla vita dell’Io e che coinvolge tutte le fibre della sua esistenza individuale e sociale.  “Fede opaca”, scrive Fortini. E bisogna intendersi. Opaca è aggettivo che oscilla dal “non trasparente” al “poco comprensibile”, dal “poco luminoso” al “poco rischiarato”, allo “stare in ombra”. Non penso che Fortini attraverso l’aggettivo voglia sminuire il sostantivo, dargli meno valore.  È poeta che so traduttore di figure limpide come Simone Weil. Scrivendo “fede opaca”, è probabile che avesse presente Giovanni della Croce o altri mistici per i quali la fede è «notte oscura dell’anima». Non è luce, produce luce. È certezza interiore che appartiene in modo esclusivo e totale al singolo.  Non è credenza cieca, superstiziosa, dogma incrollabile e inattaccabile. Di queste credenze anche collettive possono a volte alimentarsi le ecclesie. È confessione esplicita di certezza, punto fermo in ombra, poco luminoso che, forse proprio per questa sua opacità, riesce a produrre, come sostenevo prima, grani di luce; è, comunque, un nutrimento (“di che vivo”) da sperimentare, da mettere ancora alla prova nella vita quotidiana (“La tento ancora”). Nutrimento che produce sul piano individuale effetti salutari come mostrano proprio i versi successivi della poesia: “e l’occhio guizza, la saliva / brilla sull’orlo dei canini”. Guizzare, brillare. Azioni indubbiamente vitali, scatti, segnali di vivacità e luce. Così quest’Io, che ancora una volta mette alla prova la sua “fede opaca”, ne trae benefici per nulla disprezzabili: l’organo della vista risulta potenziato e si muove dinamico e brioso; e, come nel famoso esperimento di Pavlov, di fronte allo stimolo che essa rappresenta, aumenta la salivazione del soggetto. L’acquolina in bocca è riflesso condizionato; è, però, anche manifestazione della voglia di mangiare, assimilare e nutrirsi; segnale di presa di possesso, pulsione e desiderio forte, per certi versi, aggressivo di mordere e afferrare il cibo. Ma qui il cibo da afferrare, mordere, assimilare, il pane e vino da mangiare e da bere sono le relazioni sociali dell’Io col Voi, sono quegli “oggetti d’amore” e conoscenza rappresentati dai tentativi ostinati di condividere e individuare le parole dal vero. Conclusione dell’Io poetico: “o incerti amici, o incerte prove”. Il tono è un po’ sconsolato, ma non rassegnato e rinunciatario.

Conclusione mia, provvisoria, riferita a questi primi sette versi: il testo è attraversato da una dialettica di certezza-incertezza. La prima è relativa alla fede personale, la seconda alle condivisioni sociali, ai tentativi e alle prove che vengono effettuate per distinguere insieme agli altri “dal vero le parole”. Generalizzando si potrebbe dire: sul terreno sociale e/o “ecclesiale” dell’appartenenza, che rappresenta sia il momento della “tentazione” della propria fede, del metterla alla prova e sperimentarla, sia quello della vitalità e vivacità esistenziale, domina l’incertezza. Nella storia sociale e politica mentre le “amicizie” di ognuno di noi sono incerte e incerti sono i tentativi che facciamo per raggiungere le verità, è certa, invece, la fede opaca che ognuno si porta dentro e con cui nutre le sue prove di esistenza.

La dialettica certezza-incertezza domina anche nella seconda parte della poesia. L’incertezza questa volta è relativa agli atti conoscitivi, soprattutto quelli rivolti al “che cosa guarda dal sereno // dove il celeste posa in sé”. Il “celeste”: aggettivo sostantivato. Relativo al cielo, cioè ad un luogo in cui qualcosa che sta tra un “corpo”, un “regno”, un “padre” più o meno sublime e ineffabile, è immobile, fermo in sé, sia nel senso dell’adagiarsi, calmarsi, sia nel senso dell’appoggiarsi e aver fondamento. È qui, da questo luogo sereno, terso, privo di affanni che proviene uno sguardo verso un oggetto, un “che cosa” impossibile da conoscere nella sua totalità e completezza, per quanto l’Io poetante tenacemente si sforzi. A fronte di questa incertezza, in antitesi, c’è l’annuncio poetico di una certezza e di una fermezza un po’ simile a quel posarsi in sé del celeste: “di questo sono certo e fermo:” E su cosa non ha dubbi e tentennamenti quest’Io? “i globi chiari, i lenti globi / templari cumuli dei venti // non sono me.” La parola ripetuta, che fa da baricentro è “globi”, cioè le sfere terrestri e celesti. Ma potrebbero essere anche i globi oculari di quel celeste che guarda dal sereno. Comunque, i globi sono il soggetto della proposizione che, dopo alcune apposizioni, si conclude con la sottolineatura di una non identificazione: “non sono me”.  La certezza dell’Io è dunque questa: pianeti e universi luminosi, tersi come quel sereno in cui “il celeste posa in sé”, conosciuti e lenti nei loro movimenti, ammassi religiosamente sovrani (“templari”) dei venti (del divenire e della trasformazione), non s’identificano con il me, oggettivato dall’Io. “Dove il celeste posa in sé […] non sono me”. La rima precipita il significato verso questa non identificazione del Sé celestiale e del Me poetico. Come dire? Questi Me, questi accusativi che ognuno di noi produce fino alla morte, queste oggettivazioni artistiche, poetiche della propria esistenza sono altra cosa rispetto al Sé immobile e autoriflesso che guarda dal suo luogo sereno non si sa bene cosa, con globi contenenti cumuli di divenire. Se è vera questa non identificazione e se il sereno col “celeste che posa in sé” rappresentano modi di indicare il Divino, se ne deve dedurre che esso non è solo o prevalentemente una “costruzione” degli esseri umani. Non è il frutto delle loro illusioni e alienazioni.

Difficile trarre conclusioni meno che provvisorie da questo modesto tentativo di lettura. A me sembra che in questi versi circolino pensieri importanti relativi alle seguenti questioni:

  1. Rapporto “ecclesia” (anche comunista, sebbene nel nostro presente sia quanto mai sprofondata nelle catacombe) e “fede opaca” del singolo. Nell’ecclesia si sta insieme per distinguere e conquistare il vero, ma bisogna stare all’erta, non dimenticare il terreno sdrucciolevole e incerto degli amici e delle prove. La certezza può essere a carico della propria fede, non della propria appartenenza. Fortini non è individualista, ma la lotta per dividere “dal vero le parole” è un compito centrale e viene prima di qualsiasi appartenenza. D’altronde che Fortini sia stato tutt’altro che “intellettuale organico” alle varie svolte di questo o quel partito del movimento operaio è abbastanza noto. Così come noto è il suo insistere, sul tema dell’amicizia, piuttosto che sull’incontrarsi sul separarsi e estraniarsi.
  2. Nel luogo sereno in cui essere e divenire coincidono, il me non c’è. Le oggettivazioni umane non sono alienazioni, ma non sono neanche attributi della Sostanza divina. Il celeste è l’altrove, il luogo da cui guarda un qualcosa d’incerta comprensione e concepimento umano. Domanda: Fortini quale concezione ha di Dio? Conoscendo la sua biografia, la risposta potrebbe apparire scontata: quella giudaico-cristiana. In un’altra poesia, infatti, della raccolta – poesia posta sulla prima di copertina – parlando di come gli diventerebbe più acuto il dolore delle ossa, rivolto quasi certamente a Dio, lo invita a incenerirlo: “Grande fosforo imperiale, fanne cenere”. Dio, quindi, come intelligenza suprema e sovrana. Mi viene anche in mente che pochi anni prima, nel 1991, aiutò Paolo Jachia a raccogliere un’antologia dei suoi testi, una specie di dizionario composto da cinquantanove voci («Non solo oggi. Cinquantanove voci», Editori Riuniti, 1991) e una di queste era proprio Iddio. Non si trova nessun discorso filosofico o teologico. È semplicemente ripresentata una bella poesia già apparsa in «Una volta per sempre». Titolo: “La partenza”. Forse è opportuno, a questo punto, rileggerla:

 

Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
 Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

 Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro di loro fiume triste, di petti vivo,
 attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

 La poesia è datata 1960-1962. Partire è un po’ morire, dice il proverbio. Prima di morire davvero, Fortini ci regalò ancora per oltre un trentennio le note acute dei suoi pensieri e delle sue riflessioni. È significativo, però che nel 1991, riproponeva questo componimento. Dentro c’è l’Iddio: questo “antico morso”, “dolore terribile”, “ago del mondo” conficcato nella sua e forse nella nostra carne. È il Dio dell’Antico Testamento, il “grande fosforo imperiale”.

Bisognerebbe togliere credo la poesia iniziale che ho cercato di commentare dal suo splendido isolamento, connetterla con altre sorelle e con altri testi. Obiettivo: comprendere meglio la dimensione religiosa di Fortini insieme alla sua saldatura con quella politica e culturale. «La religione non può essere identificata col misticismo o con l’irrazionalità. Hegel lo sapeva. E anche Marx.» scrisse il poeta in «Insistenze» (Garzanti, 1985). Esplorare i molteplici sensi di questa “fede opaca”, capire come alimenta energie vitali e produce importanti visioni dialettiche, rimane perciò compito fondamentale di ognuno di noi. Le nostre fedi, come quella di Fortini, dovrebbero saper scendere per le vie, incontrare i volti vecchi e nuovi del lavoro sfruttato e produrre, anche sulle questioni ultime e penultime, salutari eresie e intelligenti combattimenti culturali e sociali.

26 Ottobre 2009

Un filosofo celaniano

 

di Dario Borso

Gianni Carchia (1947-2000) nel 1974 tradusse 29 poesie da Papavero e memoria, sette delle quali intersecano la recezione italiana di Celan all’altezza del capitolo “Outsiders” del mio Celan in Italia (Prospero Editore, 2020). Il giovane filosofo le aveva inviate nei primi anni Ottanta alla rivista “Erba d’Arno”, dove poi non uscirono. Continua la lettura di Un filosofo celaniano

Lui. E lei?

E con questo articolo di Cristiana Fischer dopo i due di Marcella Corsi e Elena Grammann siamo ad un bel trittico di posizioni sulla questione uomo/donna. [E.A.]

di Cristiana Fischer

                  Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine
                  di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. 
                                              (Genesi, 1, 27)

Continua la lettura di Lui. E lei?

Viene prima il genere o la specie?

di Elena Grammann

Il professore di matematica del ginnasio, che volentieri latinizzava, disse una volta che la definizione si fa per genus proximum et differentiam specificam. Ritrovammo più tardi il principio in Linné. È chiaro che in questi esempi ‘genere’ viene usato in un senso completamente diverso da quello a cui siamo stati abituati più di recente, che fa invece riferimento a un’opposizione interna alla specie – probabilmente originaria, dunque universale – legata all’opposizione del sesso o tendente a precisarla. In ogni caso il genere di Linné raggruppa sulla base di elementi comuni, mentre il genere come sopra inteso separa sulla base di opposizioni. Chiaro anche che la tassonomia di Linné è un esempio da manuale di pensiero maschile che fa a pezzi la cosa (anche letteralmente) e la ricompone in un astratto schema. È comunque di una certa utilità. Indica un sentiero nella selva delle analogie. Naturalmente se ne può scegliere un altro. Nessun sentiero affatto diventa complicato. Continua la lettura di Viene prima il genere o la specie?

Esercizio di tolleranza

di Elena Grammann

L’articolo è ripreso dal blog “Dalla mia tazza di tè” (qui). [E. A.]

Volete esercitarvi a essere tolleranti, a dirvi che ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni, a reprimere l’impulso di affogare i cattolici radicali in una botte di lambrusco? Volete mettere alla prova la vostra imperturbabilità, l’equilibrio zen, l’equanimità del saggio? Volete dirvi che come Dio ha pensato bene di creare le zanzare, così evidentemente ritiene giusto che esistano individui insignificanti e fastidiosi, che a differenza delle zanzare non hanno neanche la scusa di posizionarsi in qualche utile punto della catena alimentare?

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Tre tentativi di teologia contemporanea

di Giuseppe De Angelis

Giuseppe De Angelis è un giovane dottore in filosofia. Recentemente mi ha fatto leggere queste “Tre prove di teologia contemporanea”, continuazione in qualche modo della sua tesi di laurea. Ho letto volentieri le sue pagine e, pur condividendo singole proposizioni, in uno scambio di mail, gli ho detto chiaramente che la mia ricerca si muove su un altro terreno e all’interno di altri orizzonti. Per quanto mi riguarda, infatti, se devo ricorrere alla teologia, preferisco il «Trattato teologico-politico» di Spinoza o il messianismo di Benjamin. «Ma non è questo il punto. – Gli ho scritto nella mia e-mail. Preferisco restare sul tuo terreno, sulle scelte di scrittura-riflessione che tu compi. Allora ti pongo queste domande:

  1. È proprio necessario ricorrere al mito biblico per indagare e comprendere l’Essere, l’Esistere e l’Amare? Quale maggiore comprensione si guadagna rispetto ad altre modalità d’indagine?
  2. Per spiegare l’Amore perché scegliere il mito di Lucifero e non quello raccontato da Platone nel Simposio? Insomma, perché preferire il divino vetero-testamentario?
  3. La riflessione filosofica che, mi pare, si caratterizzi proprio per il suo emanciparsi dal “mithos” a favore del “logos”, se torna ad affidarsi in modo così palese e prevalente al mito religioso, non rischia dei passi indietro?…»

De Angelis ha provato a rispondere alle mie domande, ma i miei dubbi e le mie perplessità rimangono. Credo, comunque, che, per far crescere la riflessione, le “tre prove” abbiano bisogno di una circolazione più ampia. Da qui la mia proposta di pubblicazione su Poliscritture. (D.S.)

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Insulti e offese

di Ezio Partesana

Segnalo il blog di Ezio Partesana, che ha anche collaborato in passato con Poliscritture, pubblicando questo suo recente testo filosofico. L’ho letto attentamente. Mi ha colpito la sottile distinzione che Ezio fa tra i due concetti e l’importanza che attribuisce ai meccanismi psichici ben più complessi dell’offesa rispetto al “semplice” insulto. Scrive: “l’offesa ammette il riconoscimento di uno stato comune, la pietà e il perdono”, perché in essa non solo affiora (forse si potrebbe dire: si costruisce…) un legame tra offensore e vittima (“qualcosa nella volontà dell’altro ci ha sorpreso e a quello siamo appesi come al cordone ombelicale la prima volta che fummo lasciati soli”) ma pure un legame col passato (e quindi con una storia): “tutte le offese vengono dal passato e sono state apparecchiate prima che fossimo in grado di sopportarle, e in fondo non sono dirette a noi, ma a quello che eravamo prima”. Abituato come sono a rendermi conto dei concetti solo quando riesco ad associarli a personaggi o fatti storici, ho pensato almeno a Primo Levi e a Toni Morrison, che nelle loro opere hanno appunto meditato sulle “offese” della Shoah e della schiavitù degli afroamericani. Non so se riesco a seguire Ezio quando dal piano dei rapporti tra gli umani sembra passare al piano del rapporto umano/divino (“Si può, insomma, insultare Dio perché ha fatto degli errori o bestemmiare che sarebbe stato meglio non fosse mai esistito nulla”) ma altri – spero – lo faranno e io cercherò di capire di più. [E. A.]

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Il novello dittatore (dottor Cessantibus)

di Antonio Sagredo

 

Debuttò con una giovane morte, e prese il volo,
come un novello dittatore.

Il morto sfilò un anello dal vivente,
l’oriente si ribellò, voltò la schiena e andò via,
perché sovrane regnassero sui tarocchi
le infelicità nerastre della Nemesi. Continua la lettura di Il novello dittatore (dottor Cessantibus)