Pietrantonio Arminio non è più tra noi dall’11 dicembre 2015. Annunciammo la sua morte qui. Amico di Donato Salzarulo e suo compaesano era diventato anche un po’ nostro amico. La profondità della loro amicizia è testimoniata dai “dialoghi semimuti” che, muovendosi tra visionarietà ( Pietrantonio: “Nella mia mente il tutto si configura come una sorta di altare con gli elementi fondanti di un aggregato umano…Sembra inciso direttamente dalla luce…”) e richiami alla materialità ( Donato: “lo riporto alla materialità dell’opera. L’unità della composizione è data dai materiali usati: ferro, nylon, legno.”) si possono leggere qui.
Senza la forza che un’amicizia vera dà, credo che Pietrantonio, già “privato della voce e costretto alla scrittura” o “a far ricorso ogni tanto al linguaggio dei gesti e a scrivere, più o meno velocemente, su fogli, ora sottolineando una parola, ora scrivendola in stampatello ora cancellandola per cercare il termine più espressivo o più esatto”, non avrebbe trovato la forza di parlare della propria arte poliedrica (scultura, pittura, fotografia) con tanta lucida passione, malgrado l’incombere della malattia. E Donato sarebbe stato più esitante “a parlare con [Pietrantonio], a sforzarsi di capire, a porre domande, a ripetere concetti e a parafrasare, tenendo il più possibile sotto controllo la [sua] angoscia da empatia”. Entrambi diedero un bellissimo esempio di umanizzazione del dolore e di pacata resistenza alla morte che sempre ci assedia.
Per riportare l’attenzione su Pietrantonio Arminio e la sua opera, pubblico un’accurata ricostruzione della sua carriera artistica, una rassegna delle mostre delle sue opera quando Pietrantonio Arminio era in vita, delle retrospettive curate dopo la sua morte e una bibliografia. Continua la lettura di Ricordando Pietrantonio Arminio→
Gli esercizi di lettura e gli altri interventi qui raccolti sono stati realizzati in un lungo arco di tempo che va dal febbraio1995 al gennaio 2024. Essi rappresentano la testimonianza di un intenso colloquio con l’opera di un poeta e saggista fra i più importanti del secondo Novecento letterario italiano.
In provenzale antico “leujaria” significa letteralmente “leggerezza”. Per uno di quegli scarti tipici della storia delle lingue, in italiano diventa “leggiadria”. Con quest’ultimo termine non ho problema: la grazia, la bellezza, l’eleganza mi piacciono molto.
La Ü francese con la dieresi, che si pronuncia esattamente come quella lombarda, questo fonema, così naturale per diverse popolazioni del Nord, rappresenta per me una pietra d’inciampo, una spina tra la lingua e le labbra, un’ostinata resistenza a non disporsi come l’uso vorrebbe.
«Tuccio, cura a sòrete!…» Ogni tanto risento la voce di mia madre che m’ingiunge di vigilare su mia sorella, di prestarle attenzione.
Mia sorella ha un anno e sta dentro un seggiolone e io le sto vicino, seduto su un gradino. Mio fratello e gli altri due bambini della masseria, giocano sull’aia. Cura tua sorella, cioè preoccupati di lei. Non è la cura del medico, è quella esistenziale, quella che Heidegger chiama “Sorge”, distinguendola dalla prima che è, invece, “Kur”. Anche gli inglesi distinguono i verbi “to cure”, che significa curare, da “to care” che vuol dire interessarsi, prendersi cura, preoccuparsi, mostrare sollecitudine nei confronti di qualcuno/a.
1.- Ciò che sta accadendo a Gaza in questi mesi costringe forse tutti noi a celebrare il Giorno della Memoria in modo meno rituale e più problematico, interrogandoci sul senso della commemorazione e sulle sue finalità. Non basta dire o augurarsi “mai più!” se quotidianamente siamo spettatori di massacri, crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità. Non possiamo far finta di niente. Non possiamo rimuovere il fatto che in queste settimane il Governo del Sudafrica ha denunciato quello israeliano alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia per genocidio.
So che “genocidio” è un concetto coniato da Raphael Lemkin, un giurista ebreo, polacco; ho letto la definizione che ne dà l’art. 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” («per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro»), non sono un giurista e il Governo sudafricano avrà certamente strumenti e avvocati per dimostrare l’atto di accusa. Detto questo, siccome la Corte internazionale di Giustizia, non è la “padrona” delle parole, non mi meraviglio se ognuno/a la usa per ragioni pacifiste o di denuncia della mattanza che si sta consumando a Gaza. Per quanto mi riguarda, seguirò con attenzione ciò che accadrà nel Tribunale dell’Aia.
Detto questo, la situazione è, comunque, allarmante e non ci si può rifugiare nell’indifferenza perché, come lo sterminio degli ebrei ci ha insegnato, alla “soluzione finale” si arriva passando attraverso tappe intermedie (soffocamento della democrazia liberale, approvazione di leggi discriminatorie e razziali, disumanizzazione delle vittime, ecc.) realizzate proprio tra l’indifferenza e l’obbedienza delle popolazioni. Stare allerta, dunque, è un dovere. Per questo ho letto con attenzione partecipe la lunga conversazione pubblicata sul numero 634 (21 gennaio 2024) del settimanale «La Lettura», una conversazione assai interessante fra David Bidussa, Gabriele Nissim e Ugo Volli, curata da Antonio Carioti e intitolata “Vuoti di memoria”.
Sono rimasto particolarmente colpito dagli interventi dello storico David Bidussa.
Alla domanda se ciò che sta accadendo a Gaza contribuisce a mettere in crisi il Giorno della Memoria, la sua risposta è questa:
«Sì, ma solo in parte. Il problema più grave resta la scelta di mettere le vittime al centro del 27 gennaio. Invece di analizzare i progetti e i comportamenti relativi alla Shoah si è privilegiato un dato etico. Poiché abbiamo evitato di porci le domande più difficili, ce le ritroviamo inevase vent’anni dopo e non solo per via di Gaza. Le date dei calendari civili, a parte quelle fondative, hanno un andamento sinusoidale: di volta in volta acquistano rilevanza o la perdono. Così è stato in Italia, ad esempio, per il 4 novembre. Tutto dipende dal linguaggio che in quel momento diventa dominante per costruire un’identità. Da questo punto di vista il 27 gennaio è una data problematica. Perché mette al centro qualcuno che tu hai difficoltà a riconoscere come appartenente al tuo gruppo. È una sorta di concessione, non l’esame di coscienza che sarebbe necessario. Si tratta di un grave limite del modo in cui abbiamo assunto il 27 gennaio. Occorre chiederci con franchezza quanto è stato efficace il Giorno della Memoria, se è entrato a far parte della vita quotidiana o se è stato archiviato. Se non ci poniamo queste domande, continuerà ad essere una concessione a qualcuno. E così non va.»
2.-Nella conversazione si discute prevalentemente della prossima commemorazione relativa al Giorno della Memoria, ma non mancano domande sulla relazione tra la data del 27 gennaio e quella del 23 agosto, votata dal Parlamento europeo come “Giornata di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari”. Questa risoluzione, come è noto, è stata voluta soprattutto dalla Polonia e dagli Stati dell’Est con la motivazione che il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 rappresentò un momento determinante per l’invasione e l’occupazione della Polonia da parte della Germania e dell’URSS.
Gabriele Nissim non ritiene che il Giorno della Memoria possa essere messo in secondo piano dalla Giornata di commemorazione del 23 agosto e anche Ugo Volli non vede contraddizione fra le due date. David Bidussa, invece, pur non contestandone la legittimità, osserva che «corrisponde alla riscoperta di identità nazionale, quelle della Polonia e dei Paesi baltici, che fanno i conti con un loro problema interno». Tutt’altra dovrebbe essere la finalità del Giorno della Memoria che dovrebbe avere “un valore universalistico”. Su questo punto lo storico è quanto mai esplicito:
«I calendari civili non servono per stabilire la verità, ma per costruire una sensibilità pubblica. Di solito le feste nazionali sono istituite subito dopo i fatti: vale in Italia per il 4 novembre, fissato subito dopo la vittoria nella Prima guerra mondiale, e per il 25 aprile. Perché invece il 27 gennaio viene istituito a oltre 50 anni di distanza? Perché si cerca di suscitare una religione civica dell’Europa, alla quale serve una data che non sia nazionale, ma abbia un valore universalistico. Il 27 gennaio non è un regalo agli ebrei, si rivolge all’intera umanità.»
I due punti da sottolineare mi sembrano fondamentali: a) suscitare una religione civica dell’Europa; b) non interpretare il Giorno come un regalo, una concessione fatta agli Ebrei. Se lo si interpreta in questo modo, la Shoah, genocidio indubbiamente unico ed eccezionale, rischia, tuttavia, d’innescare una sorta di gara storica a chi è o è stato più vittima. Durante tutta la conversazione, Bidussa ripete più volte questo concetto: è sbagliato mettere le vittime al centro.
«A mio avviso al centro della celebrazione del 27 gennaio non devono esserci le vittime. Come sosteneva lo storico Raul Hilberg, l’attenzione deve piuttosto andare ai carnefici da una parte e dall’altra agli spettatori, alla “zona grigia”: al comportamento delle società europee durante lo sterminio. […] Le celebrazioni pubbliche del 27 gennaio hanno posto in primo piano le vittime, i sopravvissuti ai lager, invece di guardare alle condizioni sociali e culturali che avevano reso possibile la Shoah.»
Bidussa distingue nettamente le celebrazioni o le feste nazionali dal Giorno della Memoria. Le prime hanno un valore nazionale, il secondo ha un valore universalistico. Dovrebbe promuovere una “religione civica” europea per riflettere sul passato delle singole nazioni, per fare i conti con la propria storia e raccontarsi non soltanto i momenti gloriosi, ma anche quelli bui. La Polonia, ad esempio, che è stata “vittima” del nazismo e del comunismo staliniano, non può polemizzare col libro di Jan Tomasz Gross I carnefici della porta accanto, che parla di una comunità ebraica massacrata dai civili polacchi nel 1941, così come la Francia non può glissare sulla ribellione degli algerini nella regione di Sétif, ribellione «repressa – sostiene Bidussa – con un vasto spargimento di sangue nel 1945. Secondo le autorità di Parigi le vittime furono 1.500, secondo fonti algerine 45 mila. Ci sono voluti 60 anni per raccontarci quell’evento.» Il discorso vale per le altre nazioni e ovviamente anche per l’Italia col suo passato coloniale. Tutte le vittime sono uniche e tutte reclamano l’eccezionalità dei massacri o dei crimini subìti. Per questo, insiste lo storico, al centro del Giorno della Memoria dovrebbero esserci i progetti e i comportamenti relativi alla Shoah; occorrerebbe prestare attenzione ai carnefici, agli spettatori della “zona grigia”, al comportamento delle società europee, alla responsabilità collettiva per quanto è avvenuto. Nella memoria pubblica dovrebbe entrare
«un libro come Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, in cui l’autore sostiene che i genocidi come la Shoah possono avvenire non perché gli uomini sono crudeli, ma perché sono obbedienti. Il punto è se la coscienza individuale avverte la straordinarietà di quanto sta accadendo nel corso delle tappe intermedie di costruzione del nemico […]. In fondo alla base della Shoah come del Gulag sta l’idea che bisogna difendersi da un complotto che vuole sovvertire l’ordine.»
L’accenno al complotto serve a Bidussa per farci toccare con mano il presente:
«Il complottismo ci parla del 2024, non solo del 1939. E nel 2023 il terzo libro più venduto in Italia è stato quello del generale Roberto Vannacci, che si regge esattamente su una logica cospirazionista. Se non vogliamo evitare una memoria solo celebrativa, ma ragionare sulle falle mentali dei nostri contemporanei, la riflessione sul Gulag e sulla Shoah deve analizzare i meccanismi attraverso i quali, partendo dalla paura del nemico, si può costruire una politica.»
In sintesi, mi pare che nei pensieri e nelle parole di Bidussa siano indicati chiaramente i limiti delle celebrazioni pubbliche del 27 gennaio: mettere in primo piano le vittime, le nazioni e gli Stati non si assumono la responsabilità di fare i conti con il loro passato, non si analizzano le condizioni sociali e culturali, i meccanismi che hanno reso possibile la Shoah: complottismo, vittimismo, costruzione del nemico, suscitare nei cittadini lo spirito servile ed obbediente, ecc.
Concludo con un invito: se un libro come Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman non è entrato nella memoria pubblica perché non prenderne atto, e nelle scuole, nelle università, nelle Biblioteche, nelle associazioni, nelle case, dovunque è possibile, lo si prende in mano e si organizzano dei gruppi di lettura, lo si legge individualmente o collettivamente e lo si discute?…Se ho inteso bene, la posizione di Bidussa: basta complottismo, basta giornate delle vittime, le feste nazionali se le facciano i singoli Stati, la celebrazione del Giorno della Memoria ha senso se s’intende promuoverne una visione civile capace di farsi carico dei momenti gloriosi e di quelli bui della storia di ogni singola nazione. Noi italiani non amiamo la nostra patria se continuiamo a dipingerci soltanto come “brava gente” e dimentichiamo le leggi razziali, il nostro passato colonialista, ecc. ecc.