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Riordinadiario 6-14 settembre 2021

di Ennio Abate

6 settembre 2021

Cercando Gilbert Simondon

Il monumentale lavoro di Simondon può essere letto come un tentativo di sovvertimento radicale del concetto di individuo, inteso come elemento di base del cosiddetto principio di individuazione. Questo principio è stato infatti principalmente declinato, lungo il corso della storia del pensiero occidentale, in due maniere, al contempo opposte e consonanti. Da un lato, infatti, esiste la tradizione sostanzialista (o atomista) – che, risalendo fino a Democrito e Leucippo, prosegue carsicamente il proprio corso fino alle soglie della fisica moderna, passando per la monade leibiniziana; dall’altro lato, invece, troviamo la tradizione che potremmo definire ilomorfica, di provenienza aristotelica, che si pone a fondamento di ogni filosofia dualista. In quest’ultima tradizione di pensiero, infatti, l’individuo rappresenta una sorta di complemento o, per meglio dire, una sorta di compromesso tra forma e materia.

Simondon ha tentato di aggirare entrambi questi approcci, provando a sovrapporre al concetto di forma il concetto d’informazione, non inteso meramente come messaggio differenziale in un sistema comunicativo, bensì letteralmente come in-formante, cioè come ciò che si forma, si produce e si rigenera deformandosi. Il concetto d’informazione ha permesso così al filosofo francese di penetrare nei meandri delle più diverse branche del sapere, muovendosi trasversalmente dal “mondo” fisico e biologico a quello psichico. Essendo alla ricerca del principio d’individuazione (che, come vedremo, è tutto fuorché un principio), Simondon ha cercato di indagarlo in tutta la sua complessità, affrontandolo simultaneamente da un punto di vista fisico, biologico e psichico.

A questo scopo Simondon ha elaborato una nozione d’individuo radicalmente in contrasto con quella delle due “scuole” atomista e ilomorfica, le quali – pur trovandosi apparentemente agli antipodi – non hanno mai cessato di declinare in maniere differenti l’idea che l’individuo (sia esso atomo o complesso materia-forma) sia il principio fondamentale – ovvero il termine radicale e ultimo, condizione e scopo finale – della relazione globale di cui esso partecipa. Mentre, per Simondon, l’individuo non è che una fase dell’individuazione, cioè momento di un processo di trasformazione che attraversa diversi stadi e differenti cariche di “potenziali”. Questi ultimi – concetti mutuati da alcuni tardi riferimenti del suo “maestro” Merleau-Ponty (a cui è dedicata l’opera) – vengono concepiti da Simondon come elementi preindividuali.

Per Simondon l’errore principale delle filosofie sostanzialiste e/o dualiste è stato infatti, da sempre, quello di considerare l’individuo come un principio, come un quid da cui si può partire per comprendere la realtà. Ma questa è per Simondon un’idea statica del mondo, che concepisce la realtà come un gigantesco paradosso di Zenone, in cui gli stati sono separati nel tempo e non comunicanti. Simondon si fa beffe del principio di equilibrio stabile e, appoggiandosi alle scoperte della fisica quantistica e della termodinamica, elabora una teoria in cui ogni stato che possieda ancora dell’energia residua – e che non sia quindi morto – si trova in un equilibrio detto metastabile, perché comunque carico di potenziali.

Una concezione così radicale e innovativa non poteva non includere anche una diversa concezione dell’essere, e sarà proprio in questo ambito che Simondon effettuerà un vero e proprio ribaltamento. Scrive:

L’essere non possiede un’unità d’identità, come nel caso dello stato stabile, nel quale non si possono verificare trasformazioni; al contrario, l’essere possiede un’unità trasduttiva: in altre parole, esso può sfasarsi in rapporto a se stesso e può straripare da una parte e dall’altra del centro. Ciò che si concepisce nei termini di relazione o dualità dei principi, consiste, in verità, nel dispiegamento dell’essere, che si configura, a sua volta, come più che unità e più che identità. Il divenire costituisce una dimensione dell’essere e non può essere concepito come ciò che gli accade sulla base di una successione cui sarebbe soggetto in quanto essere originariamente dato e sostanziale

L’operazione d’individuazione, dunque, “produce” l’essere individuale – non ne è la logica emanazione. L’individuo è una “fase” di quell’essere la cui dimensione è il divenire e il cui stato è in tensione metastabile, perché carico di potenziali. L’informazione è il mezzo attraverso cui le fasi si producono all’esterno e all’interno dell’individuo in base al suo essere fisico, biologico o psichico. Mentre la trasduzione è il processo attraverso cui l’essere si dispiega nelle sue dimensioni. Si tratta qui, per Simondon, di elaborare la possibilità teorica di un processo che sia allo stesso tempo al di là della logica e al di là della dialettica: un movimento analogico, né deduttivo, né induttivo.

(da Gilbert Simondon, il filosofo dell’avvenire? di Cristiano Carchidi 12 Dicembre 2016 http://www.chartasporca.it/gilbert-simondon-il-filosofo-dellavvenire/

 

13 settembre 2021

Memoria: Proust/Fortini

Oggi come oggi non c’è quasi quarta di copertina, articolo di webzine, pronunciamento intellettuale di piccolo o medio cabotaggio che non contenga la parola ‘memoria’. Segno che il fenomeno ha perso rilevanza.

Si può stare abbastanza sicuri che se qualcuno parla di memoria, nelle due o tre righe seguenti salterà fuori Proust. A un più attento esame, si scoprirà che il qualcuno o non ha mai letto Proust, o, se l’ha letto, se lo è dimenticato.

In Proust l’unica memoria che conta, la memoria involontaria, non ha quasi nulla a che fare con la memoria quale la si intende generalmente. A propriamente parlare, non è nemmeno un fatto di memoria ma di sensazione. È il ripresentarsi, in due momenti distinti del tempo (che chiameremo A e B), di una stessa sensazione (la sensazione deve essere abbastanza rara per non confondersi nella routine dell’abitudine, essere ad esempio una sensazione dell’olfatto o del tatto) che l’io percepisce come identica, cioè indistinguibile, nei due momenti; che è di fatto indistinguibile; per cui l’io percipiente non ha, a partire dalla sensazione, alcun appiglio per sapere in quale dei due momenti del tempo si trova, il che significa letteralmente che il tempo trascorso fra A e B è abolito, che l’io percipiente si trova fuori dallo scorrere del tempo, e che dunque tutto ciò che il tempo, nel suo scorrere, ha precipitato nell’oblio è di nuovo presente e fruibile. Seguono numerosi e importantissimi corollari. È chiaro che qui il senso di ‘memoria’ è un senso molto particolare. A rigore, non posso nemmeno dire che sono io che mi ricordo.

Il passaggio funambolico che i cultori della memoria non tentano neanche, ma danno per acquisito, è quello da “la memoria” a “Le Mie Memorie”, cioè da una facoltà che rimane per moltissimi versi oscura, alla parte interessante in cui porca miseria posso parlare di me e delle mie succosissime esperienze, ne posso fare un bel racconto, cioè precisamente quello che Proust aborriva e alla cui fattibilità in determinatissime circostanze tutte da esaminare è arrivato dopo un percorso lungo e travagliato.

Dopo aver assicurato, ai pilastri della memoria involontaria e a un paio di altre cosine su cui ora non ci soffermiamo, la struttura della sua cattedrale (gotica), Proust può applicarsi alle “parti di riempimento”, cioè ai muri non portanti fra un pilastro e l’altro. Quando la gente parla di Proust e di memoria, normalmente è di questo che parla: del “riempimento”, che è importantissimo, certo, e in un certo senso il midollo da succhiare della Recherche, ma che cos’è? L’idea è che il narratore racconti la sua vita (a quello gli serve, no, la scoperta della memoria involontaria) articolata grosso modo in sette parti che corrispondono ai sette volumi della Recherche. Nel corso della vita il narratore ha inoltre incrociato un gran numero di “personaggi” che, com’è ovvio, ora popolano il romanzo. Ma è proprio così? Se il narratore raccontasse la sua vita il lettore avrebbe fondati motivi di lamentarsi: un racconto sconclusionato, pieno di buchi e in certi punti apparentemente contraddittorio, cronologia non lineare e anche all’interno dello stesso “nucleo” narrativo assai incerta: se in una pagina il narratore appare come un bambinetto di otto o nove anni, ecco che alla pagina seguente gliene daresti quindici. Biografia per nuclei tematici allora? Se si vuole; ma anche lì il narratore è tutto fuorché sempre in primo piano, spesso e volentieri cede la ribalta ad altri, è ridotto al ruolo di osservatore, di narratore della storia altrui, storia che eventualmente si è svolta prima della sua nascita, per cui non si può nemmeno parlare di memoria. Certo, la famosa madeleine è il “clic” che mette in moto tutto ciò che si trova fra il momento in cui il dolcetto tocca il palato del narratore, nel primo volume, e la fine del romanzo. Ma è la storia di una vita? O non è piuttosto, fra un pilastro e l’altro, l’analisi ironica, profonda, geniale e puntuale, secondo il modello dei classici francesi del XVII secolo (les moralistes, che non sarebbe da tradurre ‘i moralisti’, ma ‘gli psicologi’), della psicologia umana nei vari personaggi e nel narratore stesso? Non è il tema il funzionamento della coscienza e dunque anche della memoria? Un romanzo che tematizza se stesso; così in ogni caso lo intende il narratore. E l’articolazione che collega la teoria della memoria (pilastro) ai portati dell’analisi psicologica (riempimento) è ben salda, e comporta lo sbriciolamento di quello che generalmente si intende per “io”. Cioè il contrario dell’intenzione dei memorialisti, che è ricostituire, arrivare a una verità identitaria.

Proust però, alla fine, è uno scrittore per letterati e decadenti. La salvezza che propone è esoterica: per pochi eletti. Non è democratica. Anzi no, è troppo democratica. In un articolo del 1982 (vedi nota in basso), come dice egli stesso enunciando in modo assertivo senza dimostrare, Fortini compie in non più di otto righe il rimarcabile tour de force di passare da quella che egli chiama la “formulazione elitaria” di Proust alla sorprendente affermazione che “il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi di emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo» [si intende il ricordo consapevole e volontario].” Se lo dice lui. È il processo, dice, che altrove ha chiamato “surrealismo di massa” e che consiste appunto nell’ipertrofica e generale proliferazione dell’”universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno)“. Ora, Fortini può giocare coi termini come gli pare – e a me sembra che almeno della memoria involontaria si sia fatto un’idea tutta sua -, ma memoria involontaria e surrealtà, se pure hanno dei legami, da precisare, col piacere, certamente nell’intenzione dei loro scopritori non sono “sogno”, anzi esattamente il contrario: sono l’unica realtà veramente vera, e se non marciano al suono del piffero marxista, non mi pare però corretto stravolgerle per arruolarle a forza. Ma per Fortini il punto non è né Proust né tantomeno i surrealisti. Quello che gli interessa è rivalutare il “ricordo”: la memoria discorsiva e facilmente trasmissibile di un passato collettivo, senza tante fisime di opere d’arte o stati psichici strani, e non importa se, non essendo ancorato nella verità della memoria involontaria o della surrealtà, il discorso collettivo è sempre tendenzialmente retorico, quindi falso, manipolabile, manipolato, necessariamente parziale, alla fine inutilizzabile. Questo non conta. L’importante è che abbia una “sua definitività narrativa“, che “già in sé [contenga] giudizio e scelta” – che sia cioè arbitrario, rispecchi una cocciutaggine, e che la sua definitività sia sufficientemente definitiva per passarlo di mano in mano nei secoli.
(da  SULLA MEMORIA di Elena Grammann, https://dallamiatazzadite.com/2021/09/08/sulla-memoria/)

 

13 settembre 2021

Ma noi discutiamo di…

Non so se nel frastuono che tutto copre delle polemiche su Green Pass e vaccini ci sia un’astuzia del potere, o se, semplicemente è l’effetto di una banale dinamica autorafforzante del mercato delle ‘notizie’ (il tema ‘vende’), unito alla lotta partitica feroce in corso sottotraccia, entro l’artificiale perimetro governativo (per cui si provoca la Lega, per danneggiarne il leader rispetto ai competitori esterni -Meloni- ed interni -Giorgietti-, e, d’altra parte se ne subiscono i veti, da cui la politica vorrei-ma-non-posso del GP), ma l’effetto oggettivo è quello di una nuvola nerastra e polverosa di polemiche vacue e urlate che nascondono completamente le tantissime cose serie, importanti, persino epocali che stanno accadendo (entro e soprattutto fuori del paese).

La dinamica dei prezzi e della sconnessione delle supply chain mondiali mostra l’avvio di un passaggio tra il modo di produzione neoliberista mondializzato e qualcosa di diverso (quanto, come e quando, nonché dove lo potremo misurare in qualche anno); la ritirata anglosassone prelude ad una avanzata del ‘mondo multipolare’ (che ha molto a che fare con il punto precedente); il lavoro potrebbe cambiare, tornando ad una qualche forma di potere e, al contempo trascinando modifiche della forma territoriale; la risposta politica a queste tensioni di trasformazione potrebbe prendere la forma di un attivismo statalista di nuovo conio. Nessuna di queste cose è già formata, sono tutti piani di conflitto intrecciati e possono andare in direzioni diverse.

Ma noi discutiamo di ciò che ci viene messo davanti agli occhi. Se uno insiste a sottoporre un tema ciò che bisognerebbe chiedersi non è se è giusto o sbagliato, ma quale altro nasconde. Ovvero, di cosa non si deve parlare.

( da Alessandro Visalli https://www.facebook.com/alessandro.visalli.9/posts/10219403875584090)

14 settembre 2021

 Fernando Savater su malattia mentale

 Savater sollecita l’attenzione di chi intende venire a capo della sofferenza comunicativa sopra il contesto in cui chi soffre è preso e si muove. Non tuttavia allo scopo di addebitare al contesto la responsabilità della sofferenza, perché alla determinazione del contesto di vita di chi soffre partecipa il soggetto stesso, qualora commetta l’errore di regolare le forme comunicative a modalità che egli trasferisce da alcune infelici forme comunicative in cui si era ritrovato in precedenza. I difetti di comunicazione – scrive Savater – possono essere messi in conto sia al «contesto in cui il soggetto si muove, sia ai […] principi applicati dal soggetto stesso»; dipendono, cioè, tanto «dall’incomprensione ostile dei destinatari del messaggio»,quanto«dalla perdita di autonomia che la sua accettazione positiva comporterebbe per il soggetto».[6]

A volte sono le forme comunicative presenti che non danno modo alcuno agli interlocutori di riconoscersi in una veste umana. A volte, non è tanto la relazione presente ad imbalsamare la comunicazione, ad afferrare in una morsa alienante il soggetto: in qualche caso è la parte che giuocano gli altri attori della comunicazione, quando il volto dell’incomprensione è necessario all’interlocutore per mantenere ruoli di potere e di prestigio; altre volte è lo stesso soggetto a porre la relazione comunicativa in una impasse: o perché giuoca il ruolo di partecipante passivo, secondo esperienze comunicative precedenti, o perché se ne sta chiuso in un mondo proprio, in cui rintanarsi, diffidente, se non chiaramente ostile, verso ogni interlocutore; oppure perché assume atteggiamenti camaleontici, disposizioni adattive ed imitative che evitano qualunque tensione tra gli interlocutori, assumendo condotte che, annullando il giuoco delle parti, vanificano la comunicazione.

In sintesi, Savater sostiene che il disagio e la sofferenza psichica possono esser accostati analogicamente alla malattia, perché accadono quando “cadono malate” le forme comunicative alle quali determinati individui affidano la funzione di riflessione della propria identità e di messa a punto della propria soggettività. Cioè, la comunicazione può essere definita, oltre che difettosa, come quasi sempre è, anche “malata” quando il difetto riguarda la possibilità concessa ai suoi interlocutori di rimanervi presenti nel ruolo di soggetti, i quali patiscono l’eventuale dislocazione dal piano delle affermazioni e dei riconoscimenti della propria soggettività.

 (da Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni (prima parte) – di Piernicola Marasco https://www.altraparolarivista.it/2021/09/12/riflessioni-di-savater-sopra-la-nozione-di-malattia-mentale-e-le-relative-sue-concezioni-di-piernicola-marasco/ )

 

  • L’immagine di copertina è ripresa dalla rivista “altraparola”

Il Re Pescatore



di Elena Grammann

Nella Pieve erano conservate le reliquie di San Celestino. Soltanto il teschio però, diceva sua nonna. Perché quando lo scheletro del santo era stato trasportato sul fiume, se lo erano conteso due barche: una della riva destra e una della riva sinistra. E così, proprio nel mezzo del fiume, nessuno dei due voleva mollare ed era finita che a loro era rimasto il teschio e il resto era andato a quelli dell’altra riva.

Quando sentiva questa storia Viviana si immaginava un fiume molto diverso da quello che conosceva. Un fiume gonfio, lumeggiato di bianco, e al centro, su due barche immobili a forza di remi, alcuni uomini che con ostinazione tirano a sé le estremità del corpo santo.

Dovevano essere due barchette da niente, due gusci di noce per navigare in quel fiume che era un torrente. Viviana se le immaginava come la barca del Re Pescatore, così piccola che ci stavano soltanto un uomo che remava e, a prua, il re intento a pescare. Intento a pescare per dimenticare la sua ferita.

Il Re Pescatore pescava gamberi nel canale quando era in secca e li friggeva nel cortile della Fornace. Viviana aveva assistito alla trasformazione dei gamberi da grigi a rosso acceso. Del sapore non conserva alcun ricordo. Conserva invece l’esatta cognizione della ferita del Re Pescatore, di cui lui pare non accorgersi, e che è il disprezzo della madre.

Non ricorda se la pesca dei gamberi si ripeta in occasione di ogni prosciugamento del canale o se sia avvenuta una volta sola. Propende per la seconda ipotesi. Il padre non è uomo della costanza; è piuttosto il tipo dell’infatuazione passeggera e dell’impresa singola. Una volta recupera, da certi locali dismessi, le tubature di piombo per fonderle e farne lingotti da scambiare con cartucce già pronte. Viviana ricorda con precisione l’espressione di disprezzo e quasi di schifo con cui l’uomo della ferramenta, che è il padre di sua madre, prende i lingotti di piombo di cui non sa che farsi e gli dà le cartucce. Lui di sicuro, suo padre, non se ne accorge.

Se ora pensa a lui, Viviana lo pensa giovane, fra il fiume e il canale. Indica con la punta della scarpa, nel greto, le deiezioni secche e tonde delle lepri. Va a caccia col fucile. Una volta – non sono lontani da casa – la manda avanti, oltre il cartello di divieto di caccia, le dice di aggirare un campo di mais le pare, o di sorgo, e poi di tornare indietro e attraversarlo per alzare le pernici, o parare avanti le lepri, o quello che c’è, in modo che passi di qua dal cartello e lui possa sparargli. Viviana non si fida mica tanto, ha paura dello sparo, della rosa di pallini; ha paura che lui la pianti lì e se ne vada.

Una volta ha costruito per i conigli una grossa gabbia di legno senza fondo, che viene trascinata da un punto all’altro del prato affinché i conigli possano servirsi direttamente di erba. Loro però scavano buche e scappano.

Un’estate la madre va al mare con i figli, gli affida la cura delle galline. Quando torna non ce n’è più neanche una: il padre le ha vendute al macellaio.

In tutto questo tempo la sua ferita, che lui non sente neanche, continua a gocciolare.

Il fiume dove camminava suo padre era un largo, larghissimo greto in cui, di dieci chilometri in dieci chilometri, i frantoi ribaltavano la ghiaia. Era il punto più basso del paese; quello in cui si perde ogni determinazione. C’erano piste che non portavano da nessuna parte, impronte di copertoni, piccole depressioni dove il fango si mantiene bruno sotto una crosta cinerina che si accartoccia. Dappertutto arbusti di pioppi e di tremoli che la corrente ha stretto in isole. Più avanti, verso il centro del letto, grossi sassi sui quali si perde l’equilibrio; poi, finalmente, un ramo d’acqua grigia.

Nel fiume si bruciavano larghi cumuli di immondizia, ci abitava gente che le sembrava strana: robivecchi, ferraioli, gente che comprava in giro le pelli di coniglio e le inchiodava ad asciugare al sole. Era un luogo privo di riferimenti. Un grado zero.

Per tutte le cose ci deve essere – Viviana è convinta che ci debba essere – qualcosa come un grado zero: un livello, una soglia, a partire dal quale la cosa si manifesta nelle sue reali proporzioni, come vista dall’esterno e da un ottimo punto di vista, dal migliore in assoluto, quello che la rivela. Il loro grado zero, la prospettiva che li mostra quali essi stessi nemmeno sanno di essere, è la ferita del Re Pescatore.

Per il paese dove vivono, l’accozzaglia un po’ casuale di strade con o senza marciapiedi, con o senza lampioni, con o senza cartacce e coni smangiucchiati di gelato e cicche di sigarette lungo i marciapiedi o impigliati nelle erbacce, con le salite e le discese e le scorciatoie e le scalette, con le case vecchie e i cortili labirintici intorno alla piazza che vengono sostituti da condomini i cui garage hanno tetti catramati, sono una distesa di tetti catramati – per questo insomma che è il paese o il centro del paese, che è una cosa che sta già diventando incomprensibile e lo sarà sempre di più – incomprensibile e indifferente e necessariamente disperso nei chiusi cortili del privato – per tutto questo il grado zero è il fiume. Da lì, guardando verso l’alto, si vede esattamente il rilievo del paese come un paté di sabbia.

Ora questo naturalmente non significa nulla.

Il rilievo – come la memoria, i racconti e gli antenati – appartiene alla madre. Il padre predilige il grado zero, i luoghi piani, lo scivolare del tempo nella non-memoria. Non ha mai voluto trattenere. Gliene viene una noncuranza; la soddisfazione di vivere nel presente.

Del grado zero, Viviana eredita l’evidenza con cui si impongono certe cose. Ad esempio la ferita. Che lui la avverta o no, è a causa della ferita del Re Pescatore che la terra è desolata e sassosa, piena di fumi e di ossa come il greto di un torrente.

E a dirla tutta, il terreno del fiume è vasto e pauroso; ogni passo nasconde un pericolo, a ogni passo si scoprono cose non del tutto umane.

Una volta, quando era molto piccola, ci è andata con una più grande, che abitava in città ed era così stranamente compita. Aveva una carnagione molto bianca e delicata, come un soufflé. Videro lo scheletro completo, ripulito e in parte imprigionato nella sabbia di un grosso animale – forse un asino, o un vitello. Era perfettamente bianco e pareva strano che potesse starsene così, sotto il cielo.

Poco dopo la ragazza dalla carnagione delicata, vestita molto leggermente di bianco perché è estate, cade di peso in un cespuglio di rovi – una caduta inspiegabile se si esclude la stupidità o il destino. Fatica a rialzarsi e a districarsi e ripete con signorile autocontrollo: “Oddio sono caduta nei rovi. Oddio adesso sono caduta nei rovi”. Viviana pensa che il fiume finirà per mangiarsela – lei, il suo vestito bianco e la sua carnagione di soufflé.

Parole straniere. Quattro sonetti di Ann Cotten

di Elena Grammann

Ann Cotten è una poetessa e prosatrice di lingua tedesca, nata nel 1982 a Ames, Iowa, e trasferitasi all’età di cinque anni a Vienna con la famiglia. Attualmente vive fra Vienna e Berlino. Benché il tedesco sia la lingua base della sua produzione, il bilinguismo la porta verso più marcate commistioni, che si allargano anche al giapponese sia per un interesse per la cultura nipponica che per le caratteristiche semiotiche di questa lingua.

Nel 2007 pubblica la sua prima raccolta poetica: Fremdwörterbuchsonette [letteralmente: Sonetti del dizionario delle parole di origine straniera] con Suhrkamp, una delle più importanti e titolate case editrici tedesche. Qualche chiarimento su titolo e struttura della raccolta:

Fremdwort. Un Fremdwort è una parola entrata nella lingua e normalmente germanizzata, ma di origine straniera: greca, latina, più di recente inglese. Ci sono Fremdwörter di uso comune, ad esempio ‘Plastik‘, ma perlopiù essi appartengono al registro colto e/o a linguaggi scientifici, specialistici, tecnici (es. loxodrom, Kontingenz).

Sonetti. Quando mi è arrivata la raccolta e l’ho aperta ci sono rimasta male perché mi aspettavo dei sonetti e non ne vedevo nemmeno uno. In realtà non si tratta veramente di sonetti ma di quelle che Cotten chiama, con una certa libertà mi pare, “sonettesse”, cioè, da definizione, sonetti caudati la cui “coda” si ripete. Ma mentre nel sonetto caudato la coda, ripetibile ad libitum, è una strofetta composta da un settenario più due endecasillabi, le sonettesse di Cotten sono di fatto dei doppi sonetti: cioè a una prima struttura 4-4-6 ne segue un’altra identica (quindi: 4-4-6-4-4-6), o speculare (4-4-6-6-4-4). (Quasi) tutti i settantotto componimenti della raccolta sono doppi, talvolta tripli sonetti.

Struttura. Se si dà un’occhiata all’indice, si vedrà che non riporta i numeri delle pagine (che in effetti non sono numerate) ma i numeri dei sonetti, raggruppati a due a due sulla base del Fremdwort da cui prendono spunto. L’indice, cioè, è costituito da un elenco di Fremdwörter ai quali sono associate coppie di sonetti simmetricamente distribuite attorno a un centro ideale costituito dai sonetti contigui  39-40. I sonetti 33 e 46, sotto, sono una di queste coppie.

Complicato – e costruito. Costruzione e complicazione sembrano presiedere anche alla composizione dei singoli testi – come viene rilevato con un misto di riconoscimento per la versatilità tecnica e rampogna per presunta latitanza dei contenuti. Ma di questo dirò dopo i sonetti.

69        An Induktion To The Blues
 
 
It’a a very attractive little device that combines a frequency follower with a device that puts out harmony notes to what you’re playing … Its main drawback is that the tone that comes out of it is somewhat like a Farfisa organ.
 
Frank Zappa on the Electro Wagnerian Emancipator
 
 
Se ne stava coi gomiti piantati vicino al piatto dello stereo
e io mi sentivo tremendamente analoga,
così in balìa e inerme come un cilindro fonografico,
impressivamente riavvolgendomi. Naufragando on the dancefloor,
 
coliambica nelle percussioni alcaiche. Alcaiche?!
Non ero preparata, qui, a dei bassi così sottili!
E ancora non avevo buttato un occhio alla console,
sobbalzando poi al broncio anacreontico.
 
Mi percorse le vene furiosa la sua vista.
Tese l’orecchio il battito cardiaco e non si peritò
di stendermi come un corto travolta sulla pista.
Il vinile si scioglieva come liquirizia. Rigata ancora di spavento
mi trascinai al bordo di quel solco.
Rimasi a portata di suono. La mia volontà batteva piano.
 
Al piatto, stentava a tener gli occhi aperti
e per due volte per poco non cadde lui o rovesciò la birra,
e quando passava da un brano all’altro
suonava come un dormiveglia a cui si cerca di resistere.
 
(Probabile che lavorasse durante la giornata
a un Numero Verde e udisse voci
sussurrargli odi attraverso le linee,
che il cranio sbattesse contro le istanze dei clienti.)
 
E dopo un altro paio di ore toste,
l’aria nel locale è già densa per le odi           
il mio genio stremato mette su l’ultimo disco
e si siede di fianco a me. Cortesemente la sua testa cerca un dialogo,
tutto il mio scritto è imbrattato dal suo ciuffo,
si mette a parlare in sogno,                ma dialetto.
63        Vertiginosi indizi
 
 
Informazioni sbagliate. Scivola il cappello dalla testa
senza sonoro. Con quello avrei dovuto assomigliare,
senza assomiglio come una scema a Pete Doherty,
barcollo per sale cinematografiche come un clone
 
del cinema. Ciò che vidi è da tempo sci-
volato via, e per i titoli di coda ero di nuovo lì;
a destra e a manca parlano di cliché e roba del genere,
io mi attacco alla birra del buffet, quella è gratis.     Ah!
 
Ora che ci penso, ho dimenticato il tampax.
Finisco di leggere l’articolo e vado al cesso
e appoggio la birra vicino allo specchio. È un po’
che non mi aspetto miglioramenti dalle memorie.
La memoria è la morte della sorpresa. E io
non mi riconosco. Oh, un effetto della moda.
 
Ci son passata da un pezzo, non mi fa
né caldo né freddo affondarmi bevendo,
e scrivendo, la faccia. Son poi sempre io
e mi avvito storta, alla desperado, nella filettatura
 
dello squagliarsi. Del non essere all’altezza. Motti di spirito da me
d’ora in poi li avrà soltanto chi ne fa
richiesta scritta. Esco poco, mi frammento parlando
con me stessa, divido il letto solo più
 
coi libri. Con i gilet di maglia ostento
disprezzo per i cineasti,
spruzzo contraddittoriamente marcature
in forma di commento da birra. Si meraviglino pure.
Al cinema ci van sempre gli stessi,
escon fuori e han tutti le nappine.

33        Estensione, Estasi
 
 
Clic. Esso dove cominciò a ruotare
indicò così lungo le rive
il fiume. Anorganicamente luminescente,
infuriare soltanto in superficie dove
 
infuriava e irraggiungibilmente stridulo
ruotava e la luce si polverizzò,
schizzò, e perciò – e adesso voglio ridere –
refrigerio offrì alle rive, amorevole e chiara.
 
E così iniziando dagli occhi,
bocca, ah, capisce niente, in essa
si trovano capelli e lottano
con lingue per l’attenzione degli sguardi,
iniziando, ricercando sguardi? Niente di tutto ciò. Se
il punto è: per mezzo di estensione ottenere estasi,
 
deve stare ogni frase e contemplare,
espandersi orizzonte e divenire suolo
per selvaggi pensieri di espansione
a piccole avviticchiati pietre per esempio bianche.
Trova poi l’occhio da ruminare nel rispecchiamento,
in riflessi di luce che su superfici si scatenano
 
e dicono ciò che mai lingue muoveranno
a ripetere. Allora, polmoni, immobilizzatevi
e guardate, come le conseguenze
vanno alla testa del vostro, be’, cliente. Come
 
ansimano le cellule grigie dietro alle
corrispondenze che visitano qui le vostre rime
e cercano stimoli. Ehi, volete fare qualcosa?
E allora, polmoni, respirate acqua lucente!

46        Estensione, Possesso
 
 
Il tuo nome si allarga e pensare che un tempo era
Cioè cosa? Ancora l’altro giorno eri per me parola
straniera. Ora quasi parola non vedo senza che tu stia
per tutto ciò che mi manca, e nessun riso
 
si spegne che non mi tenda tu un agguato al fondo;
la rima evapora, la misura del verso non torna ed eccoti lì,
inghirlandato di foglie e sonetti spazzatura,
e, bizzarro volatile, fa una riverenza il tuo concetto e fugge.
 
Di te resta l’immagine dello scomparire
da cantarmi in versi dietro la tua schiena,
forse la cosa tua più bella in assoluto, o
piuttosto l’unica che mi resta da celebrare
giacché, scomparso tu, il nome tuo p.t.
nient’affatto oltre le labbra – per iscritto? Mai!
 
Eppure: nei lemmi stranieri cerco soltanto il tuo parlare,
la tua schiena, che sarebbe indennizzo a ogni parola.
Ma invece del silenzio mi tocca un blaterare torbido,
abbandonare la speranza, tentare versi mediocri,
 
questo sommesso costante soppesare singole parole,
la cosa più prossima, per me, al tuo silenzio.
E mi fa da modello la tua schiena p.t.
per tutto ciò che balugina come costrutto ideale.
 
Se mi frantumi il mondo in cui io vivo,
mi rimane il tuo nome in ogni caso e amo
il suono, che, forestierante, da qualche dove giunge, e ride
in faccia ai tentativi. Una paroletta straniera basta
a richiamarti nei miei versi, ed è pur vero
che la tua non spiega nulla, ma promette molto. *
 
 
*p.t. = praemisso titulo. Formula usata soprattutto in Austria davanti a nomi specialmente collettivi di persone (es. 'pubblico') delle quali non si è in grado di specificare il titolo. L'uso qui è chiaramente ironico.

Poiché in tedesco gli aggettivi in posizione predicativa non si accordano, non è dato sapere il genere della persona a cui si rivolge questo sonetto.  Ho seguito la consuetudine e ho optato per il maschile. Ma non è detto.

Qui, cliccando su ‘Übersetzungen: englisch’ una versione inglese – molto libera, di fatto una riscrittura – fornita dall’autrice stessa. Si può anche sentire la lettura del testo originale dalla voce di Ann Cotten. (NdT)

Da un esame sommario del materiale, non abbondantissimo, che si può trovare in rete su Ann Cotten e in particolare sui Fremdwörterbuchsonette, emerge una divisione abbastanza netta fra le valutazioni tiepide o benevolmente paternalistiche da parte della stampa ufficiale (FAZ, Die Zeit) e l’entusiasmo dei giovani intellettuali e soprattutto della scena dei poetry slam. Ciò che l’ufficialità eccepisce o comunque sottolinea è una mancanza di serietà. Dei Sonetti viene rilevato il carattere di gioco – gioco con le costrizioni della forma fissa, gioco delle libere associazioni a partire dalla trovata stravagante delle parole straniere. I più benevoli avanzano paragoni poetici: la tenda del circo, gli acrobati, la danza su un puro ritmo. Una venticinquenne Ann Cotten, un po’ impacciata ancorché si subodori il carattere deciso (qui una breve conversazione, con lettura dei sonetti 63 e 69), non nega e anzi rincara: a proposito del progetto complessivo – dunque non solo la forma fissa del sonetto, ma l’intera costruzione della raccolta – parla di Denkmaschine: macchina per pensare, come se da un pensiero spontaneo, diciamo libero, non ci si potesse più aspettare gran che (libero e spontaneo – specifichiamo a scanso di equivoci – nel senso di ‘naturale’; ma l’artificio, il “corsetto del sonetto” o di altro dispositivo, è del tutto estraneo a supposti interessi collettivi). Viene svelato anche l’arcano dei Fremdwōrter, delle parole straniere – bizzarra fonte di ispirazione dalla connotazione iperculturale e vagamente pedante. Il motivo, viene spiegato nella breve conversazione, è che le parole straniere sono un po’ come corpi estranei nella lingua, non sono cariche di associazioni come le altre, le quali altre proprio per questo appaiono usurate e inservibili. Le parole straniere sono precisamente una sfida a cercare associazioni impensate – impensate perché a nessuno verrebbe in mente di cercarne, ad esempio, a ‘lossodromico’ (che è il primo lemma della raccolta), e in generale a termini, come si diceva nell’introduzione, sostanzialmente scientifici o tecnici. Una sfida a trovare associazioni e approdare così a sentieri imbattuti della lingua-mente. Dove mi porta salpare da una parola, il cui significato devo spesso cercare o controllare sul dizionario? Da quali nuove angolature mi mostra le cose? Cosa mi dice, eventualmente, di me e dell’altro? È chiaro che questo tipo di approccio presuppone la subordinazione del soggetto immaginante a una rete di immaginari che esiste e si sviluppa in modo indipendente dall’individuo; la stessa subordinazione o, se si vuole, cambio di prospettiva, che nei sonetti di Cotten sposta il focus della visione dal soggetto e dal fatto a circostanze concomitanti, a derive, tipiche Cotten, in cui la parola (es. il solco del disco in An Induktion To The Blues) prende corpo e ingigantisce la sua essenza metaforica fino a inglobare la realtà del soggetto: “Rigata ancora di spavento / mi trascinai al bordo di quel solco”; o Estensione, Estasi, dove ai polmoni viene chiesto, per corrispondere alla richiesta di estasi, di respirare acqua lucente. L’immaginario di Ann Cotten è la metaforicità della lingua, presa sul serio e indagata in spazi non ancora logorati dall’uso. È questo che i recensenti ufficiali chiamano ‘gioco’, magari sotto la tenda poetica del circo, e che scatena invece l’entusiasmo del pubblico dei poetry slam. Sicuramente una parte di gioco c’è, ma è un gioco serio perché individua la potenza del linguaggio e del suo immaginario, e il dominio che esso esercita su soggetti che l’abbaglio di una certa tradizione vorrebbe continuare a rappresentarci come istanze di giudizio indipendente.

La Ann Cotten dei Sonetti è una poetessa venticinquenne: molto giovane benché provvista di rimarchevole autocoscienza. Nei prossimi post vorrei seguire il suo sviluppo.

Ann Cotten, Fremdwörterbuchsonette, Suhrkamp 2007

Le cugine. Un’archeologia

Reggio Emilia, via San Carlo con la chiesa dei santi Carlo e Agata

di Elena Grammann

Appartenevano al ramo cittadino della famiglia. Il padre aveva all’ingresso della città, appena passato il ponte di San Pellegrino, uno stallo la cui insegna fino a poco tempo fa si leggeva ancora. Erano sei sorelle. Di una, della suora, non so nulla, a parte che era la farmacista del convento, o forse di una casa di cura annessa al convento, su, a Verona mi pare. Nemmeno quella sposata, che andò poi a stare in Liguria, l’ho mai conosciuta; ma di lei, dell’Anna Tolve, so nome e cognome – parlo del cognome del marito, naturalmente. Questo perché mia madre ne parlava spesso; e poi è una combinazione che si ricorda: Anna Tolve – un nome e un cognome che stanno bene assieme. Insomma lei, l’Anna, a parer mio ha fatto bene a sposare Tolve, anche se poi lui le faceva un sacco di corna; perché le corna sono comunque qualcosa di molto diffuso e i bei nomi no. Così, questa Anna che non ho mai visto è un personaggio noto, una carta sicura nelle partite un po’ monotone che sono diventate le conversazioni con mia madre: Chi dici, mamma? Ah, sì, l’Anna Tolve!

Una cosa che mi è sempre piaciuta è che al marito dell’Anna ci si riferisse soltanto col cognome: Tolve diceva questo, Tolve faceva quello. Non ho mai saputo come si chiamasse di nome e mia madre, di sicuro, se l’è scordato. C’era, nell’uso, la volontà di marcare una distanza: un marito è sempre un estraneo, uno che viene da fuori; ma c’era anche, in una famiglia a forte prevalenza femminile, qualcosa come una specie di deferenza e, contemporaneamente, di diffidenza nei confronti della virilità.

Tolve era uno della questura e, naturalmente, meridionale.

Non è dell’Anna, comunque, che volevo parlare. Lei a un certo punto si sposò, il marito fu trasferito – a Savona, credo; lei, come la suora, era fuori.

No, io vorrei parlare delle quattro che rimasero in città e non si separarono mai. Mia madre le chiamava, collettivamente, “le cugine”, il che indicava una parentela – erano, infatti, cugine di secondo o di terzo grado – ma soprattutto un genere, una formazione compattamente femminile.

C’erano, per essere esaustivi, anche due fratelli. Uno era sposato e gestiva l’albergo Principe, con annesso ristorante, in via del Cavalletto. Per noi, egli gravitava a parte dalle cugine. Io non l’ho mai visto e le informazioni che ho sono discordanti. So che era di aspetto estremamente distinto e che allungava calci in culo alla moglie se non la trovava sufficientemente sollecita nel servizio dei clienti. Col che si dimostra che l’esterno non corrisponde esattamente all’interno e si smentiscono, ove bisogno fosse, le teorie del Lombroso.

A proposito dell’incongruenza fra il dentro e il fuori, e prima di abbandonare definitivamente l’Anna Tolve, resta un episodio da riferire. All’epoca l’Anna, che non era ancora sposata, lavorava nella lavanderia all’inizio di via Emilia Santo Stefano, appena oltre piazza del Monte, sulla destra. Lavanderia che ad un certo punto cominciò ad essere frequentata da un signore molto distinto, un professore, recentemente trasferitosi dal Meridione, il quale si mise a farle una corte serrata. Si parlava di matrimonio. Stante le origini lontane dello spasimante la madre delle cugine, una Spaggiari di Masone, molto di chiesa, pensò di prendere informazioni. Risultò che il distinto professore si era trasferito al nord dopo aver ammazzato la moglie colpevole di adulterio. Il matrimonio non si fece e Tolve, più tardi, ebbe via libera.

Le cugine abitavano in una villetta in via Palestro, appena fuori dai viali; ma poiché erano assidue alle pratiche religiose, dopo la guerra si trasferirono in centro, in via San Carlo, per essere più comode alla chiesa di Santa Teresa. Era un appartamento antico e labirintico all’angolo con via Toschi e aveva un terrazzo su via San Carlo. Io su questo terrazzo non ci sono mai stata e comunque non credo che di lì si vedesse gran che, a parte la strana chiesa di fronte che dà il nome alla via e non sembra neanche una chiesa, attaccata alle case e con quel cornicione dritto di palazzo. Ma immagino che dal terrazzo si vedesse il cielo sopra piazza della Verdura. Sicuramente la Laura, quando stende il bucato, lo vede, forse lo guarda; se c’è vento lo sente anche, senza bisogno di guardarlo.

La Laura è, delle quattro, quella che bada alla casa; quella, come si diceva, che sta in casa. Le altre lavorano fuori, sono in mezzo alla gente. Quando morì, disse Tolve: povera Laura, è quella che è stata sacrificata.

Era vivace però, e con gli anni non perse di vivacità. Dalla casa a cui bada fa in modo di lanciare occhiate fuori. È di chiesa, come le altre; però è curiosa, vuole sapere, racconta. Ha avuto un moroso a Castelfranco, quando teneva la casa per l’altro fratello, quello che lavorava nei magazzini del formaggio. Era un maestro – il moroso, dico. Poi però non si decise. Lei ne parla: per esempio vuol rendersi conto se il modo in cui la baciava è il modo canonico. Chiede a mia madre com’è stato con i suoi, di morosi, per un raffronto. Mia madre, più contorta e schifiltosa, ride di imbarazzo, si schermisce, la rimprovera. Lei non si lascia smontare, va per la sua strada sincera che non la porta da nessuna parte.

Fare le faccende di casa comporta che si aprano le finestre, si dia aria, si scuotano i tappeti, si scrollino stracci e piumini. Dirimpetto alle finestre che danno su via Toschi, alla stessa altezza, c’è un altro appartamento, e in questo appartamento c’è un signore che, anche lui, apre le finestre, o le trova già aperte, o comunque guarda attraverso i vetri; e le ammicca, le fa segno. Lei risponde. Può ben farlo, non è mica monaca. La cosa va avanti un po’, con una strada di mezzo e senza parole, come in un film muto o in un sogno.

Mia madre, interpellata, inorridisce; la esorta vivamente a interrompere questi scambi di ammiccamenti. Non è serio. E lui chi è poi? Che intenzioni ha? Perché non si fa avanti se ha intenzioni oneste?

Adesso che è vecchia e non ha niente da fare mia madre segue con vivo interesse, in televisione, i casi di ammazzamenti, strozzamenti, annegamenti, smembramenti, occultamenti, seppellimenti di donne da parte del marito o dell’amante. Ogni nuovo caso la conferma nella convinzione che gli uomini, in fondo, sono tutti inaffidabili e dei potenziali assassini. Tuttavia è poco probabile che la Laura abbia corso un reale pericolo. Di sicuro la cosa è finita lì, è morta da sola, un giorno il signore non si è più fatto vedere, oppure ha smesso di ammiccare, oppure è stata lei a smettere, per stanchezza, o perché le è venuto un crampo. E così questa storia attraverso le finestre, questa bollicina nella monotonia della vita sarà stata qualcosa di appena esistente, qualcosa di lieve e impalpabile come un riflesso di sole su un vetro di via San Carlo.

Che invece se penso alle altre, a quelle che lavorano fuori, alla Marta e alla Rina, che hanno il bar, le vedo venir su per via Toschi la mattina presto in una nebbia di novembre, il collo di pelo del cappotto – volpe o marmotta – rialzato e premuto sotto il naso, tagliare in piazza San Prospero e poi subito sotto Broletto, passare davanti ai leoni di marmo lisci come foche senza alzare il capo, per il freddo, alle logge che nel chiuso del brolo sfuggono alla foschia. Costeggiano il duomo camminando sul marmo della gradinata scivoloso di condensa, marmo per terra e marmo la facciata, mentre il resto sono intonaci e mattoni, grigi o bruciati o rossastri, lontani e indifferenti nella nebbia. Attraversano obliquamente piazza del Monte, sono quasi arrivate; nella piccola via Crispi sollevano la saracinesca del bar.

Il bar è minuscolo, un buco, un corto corridoio con il banco a destra e un unico tavolino rotondo verso il fondo. Oltre mi pare che ci sia una tenda con un lavabo, dalla parte del banco. Il locale si scalda in fretta, le luci stesse scaldano, la macchina del caffè. Arrivano i primi clienti, le prime chiacchiere, c’è un’atmosfera cittadina; della nebbia, fuori, non ci si accorge neppure.

La Marta è del mestiere. Prima di rilevare il bar assieme alla sorella è stata a lungo gerente del caffè Elvezia, sulla medesima via Crispi, un grande locale elegante con qualcosa di internazionale, di europeo. La Marta era molto bella. Io me la ricordo sulla sessantina, ed era ancora bella. Aveva tratti fini e una distinzione naturale, educata dagli anni al caffè Elvezia. Chissà che zotici le apparivamo, noi di campagna. Una volta, quando era parecchio più giovane, incontrò in via Emilia un parente dal paese. Si sbrigò a salutarlo e a piantarlo lì perché, disse, non voleva farsi vedere in giro con uno col tabarro. I capelli che erano, o erano stati, biondi, li portava raccolti in chignon sulla nuca, ma con una specie di piccola onda sulla fronte che toglieva all’acconciatura ogni severità.

Ci sono, nel bar, dei momenti morti, dei momenti in cui non entra nessuno. Allora la Marta, quando è sola, guarda oltre il vetro la nebbia bianca e rada in via Crispi; una nebbia finta sembra, una nebbia da sceneggiato televisivo in bianco e nero. E anche la città, le vien da chiedersi se è vera o se non è piuttosto un’abitudine: così piccola, così sempre la stessa. Da Santa Teresa a via San Carlo, da via San Carlo a via Crispi, qualche volta al cinema, al D’Alberto, sotto i portici. Potrebbe essere benissimo, quella che lei e le altre chiamano Rès, niente più che un paio di quinte. E anche la via Crispi, lì davanti, quella corta strada centrale scolorita dalla nebbia in cui ora non passa nessuno, eccola lì, fissa, vuota, come una scena in attesa di essere smontata.

Allora la prende un senso di inutilità, una stanchezza nelle spalle e in tutta la persona; scuote la testa, ma se si mette a asciugare i bicchieri o le tazzine ha una debolezza nei gomiti e nei polsi, un piccolo tremore all’avambraccio; deve appoggiare il burazzo sul banco, stendere le braccia, strofinarsi la gonna con le mani, aspettare.

Dalla stretta vetrina del bar si vede sull’altro lato della via il palazzo della Società Anonima Annibale Franzini: ingrosso di ferramenta con rivendita al minuto nei locali del pianoterra. Lì, quando ancora lavorava al caffè Elvezia, la Marta si era innamorata. Di uno dei Franzini; o, se non  proprio di un Franzini, quantomeno di un dirigente, dice mia madre che tiene alto l’onore della famiglia, e più il grado di parentela si allontana più alto lo tiene. Non si capisce perché poi, dal momento che lei ha sposato un operaio. Ma tant’è: snobismo per interposta famiglia In ogni caso l’amore non fu corrisposto e la Marta non volle più sposarsi. Non volle più degnarsi, diciamo.

A volte mi chiedo quando sono state, di preciso, tutte queste cose, se prima o dopo la guerra. Mia madre spesso esita, non è sicura, si confonde. Si ha l’impressione che la guerra non sia stata poi quella gran cesura. Finita la guerra, la gente ha continuato a vivere più o meno come prima.

È stato più tardi che le cose hanno cominciato a irrigidirsi, e la gente a essere incanalata, e di tutte le possibilità della vita a non restarne, al massimo, che un paio. È stupefacente, a pensarci: prima succedevano un sacco di cose, non facevano che succedere cose; la gente viaggiava: a piedi, in treno, in moto, in bicicletta; cambiava di posto, dove andava conosceva altra gente; si conosceva un sacco di gente. Più tardi ci furono più treni, ci furono più moto e ci furono le automobili, tante automobili; però la gente non viaggiava. Si muoveva, questo sì, per muoversi si muoveva: come avesse un pepe in culo; ma a ben guardare non cambiava affatto posto, se lo portava dietro, il posto. Tutto rimaneva uguale: non si conosceva gente e le uniche cose che succedevano erano quelle della cronaca nera. E questo è stupefacente, in un certo senso.

Loro però, le cugine, benché verso la fine degli anni cinquanta cominciassero seriamente a invecchiare e fossero più facilmente esposte a questo genere di riflessioni o anche soltanto di sensazioni, tenevano bene il colpo. Casa loro era oscura e protetta, c’erano grandi mobili pesanti, ricordo una saletta con una tavola ovale, mi pare, una tovaglia bianca e una fragranza di dispensa, di frutta e briciole di pane. E inclinata verso di me vedo la Rina – ed è l’unica immagine che conservo di lei, benché di sicuro l’abbia vista altre volte, sia prima che dopo – che mi ha appena apparecchiato, si appoggia con una mano alla tavola e ha l’aria di dire: niente paura, che adesso le do da mangiare io a questa ragazza.

Mi ero presentata da loro a ora di pranzo, di sicuro nemmeno annunciata, una volta che, al ginnasio, avevo lezione di educazione fisica al pomeriggio. Credo di esserci andata quell’unica volta.

Ma loro le vedo bene, attorno alla tavola ovale con la tovaglia bianca nella luce un po’ festosa di quella stanza, da sole o con un parente, qualcuno che è capitato in città, mia madre raramente adesso che ha famiglia; magari mio zio un giorno di mercato, o altri cugini del paese, o mia zia che è sposata a Bologna ma ha mantenuto una grande dimestichezza con le Ferrovie dello Stato. Sono allegre, tirano fuori le posate d’argento col monogramma di un qualche bisnonno o prozio che è stato importante; si mangia bene da loro, la Laura cucina bene, ma soprattutto la Rina, che era cuoca all’albergo Principe, da suo fratello.

Sono allegre anche quando sono soltanto fra loro – finché ci sono tutte, voglio dire. Prendono una tovaglia stirata dal canterano, fatto prima che si cominciasse, in Italia, a correr dietro alle mode francesi e a parlare di luigi quindici e luigi sedici; fatto più o meno negli stessi anni in cui si fece la facciata di San Carlo, lì fuori, elegante e poco appariscente. Per quanto che anche le mode di Francia, quando sono fatte in Italia, sono eleganti e poco appariscenti e traspare sempre, sotto, una realtà a motivo della quale sono fatte; mica come le cose francesi, che devono per forza essere eccessive e non capisci mai se sono originali o copie di un originale che non esiste neanche; e in ogni caso sono lì esattamente per far finta che ci sia un motivo; mentre c’è, al massimo, uno scopo – e molto discutibile, anche.

Ma loro, le cugine, prendono una tovaglia stirata e apparecchiano e siedono a mangiare; e il tempo che passa, le cose che cambiano, la nuova durezza dell’esterno, un sospetto come di tedio, che non conoscevano – tutto ciò non è più che una lievissima malinconia; e non son neanche sicure che ci sia veramente, come a volte, di una nenia lontana, appena percettibile, non si sa se sia all’esterno o dentro l’orecchio.

Ieri l’altro ho fatto una ricognizione sui luoghi; non perché pensi che i luoghi visti siano più veri dei luoghi ricordati, anzi; tuttavia volevo evitare grossolani errori materiali. Ho chiesto al signor Bizzocchi, che ha un negozio di arredi sacri e bondieuseries dietro al vescovado, se sapeva quando la chiesa di San Carlo era stata sconsacrata. I Bizzocchi, sempre che si chiamino come il loro negozio, sono due: uno moro coi baffi, l’altro più rossiccio; io ho parlato con quello moro. Mi ha detto che la piccola chiesa era ancora in uso nel dopoguerra, ma che verso la fine degli anni cinquanta è stata chiusa. Lui se lo ricorda molto bene, perché era ragazzino e ha aiutato il sagrestano a vuotarla dagli arredi. Quando però sia stata sconsacrata, questo di preciso non lo sa.

Ieri sono tornata a guardare il signor Bizzocchi: è grigio, non è moro. Però i baffi ce li ha.

La Rina era la più vecchia e aveva, in effetti, qualcosa di più vecchio delle altre: di più rassegnato, di più pesante. Il padre, quello dello stallo al ponte di San Pellegrino, è morto presto e lei è andata a servire in Liguria. Forse è questo che le è rimasto.

Il polso calcato sulla tovaglia è grosso come la base di una colonna, il viso inclinato ha un colore scuro, un colore d’ombra e di tramonto sull’espressione sollecita. A differenza della Marta e della Laura non riesco a immaginarla giovane. Eppure lo sarà stata anche lei. Nelle cucine dell’albergo Principe doveva essere ancora giovane, se anche non più giovanissima.

Un uomo le diede un appuntamento; lei chiese a mia madre di accompagnarla. Che testa!, esclama mia madre. Sì, dico, e che testa anche tu ad andarci. Cosa vuoi, allora era così; almeno, per certe persone era così. A me l’architetto Pattacini, Pasqualino, lo ha detto chiaro e tondo una volta: se non la pianti di andare in giro con tua sorella non troverai mai nessuno. Mia sorella mi veniva sempre dietro; sempre, sempre …

All’appuntamento, il tizio non si presentò. Figurati, dice mia madre, ci avrà viste da lontano, ha visto che non era da sola e ha tagliato l’angolo.

Una volta, durante una villeggiatura in campagna, chiesero a mia madre qualcosa da leggere. Una collega le aveva giusto passato Il prete bello, di Parise, che mi aveva rifilato perché lei non aveva tempo. (Dopo che si fu sposata mia madre non ebbe più tempo di leggere, come non ebbe più tempo di andare a messa. Il che in buon italiano vuol dire che non le fregava un accidente né di leggere né di andare a messa). Il romanzo fu passato alle cugine che lo restituirono quasi immediatamente come scandaloso e immondo; si meravigliarono, anche. Mia madre ci rimase male; non potendo controbattere per ignoranza dell’oggetto mi chiese se veramente era così tremendo. Io risposi che secondo me no e lei concluse che insomma le cugine erano un po’ esagerate.

Mia madre aveva delle stranezze. Lei si considerava, orgogliosamente, una persona pratica. Secondo me non aveva idea di niente. Più o meno all’epoca del Prete bello – avrò avuto tredici, quattordici anni – avevo pescato dalla sua biblioteca prematrimoniale, alloggiata in un armadietto in solaio, Anna Karenina, edizione anteguerra in due volumi, e lo leggevo di buzzo buono. A un certo punto mia madre si sovvenne di un’amica, ai tempi, che leggeva Anna Karenina e era rimasta incinta – non di Tolstoj, immagino – e mi nascose il libro. Così, a metà lettura. Io diventavo matta.

Tornando alle cugine, non credo che fossero esagerate; non erano letterate, e non essendo letterate prendevano tutto alla lettera. Erano abituate ad avere a che fare con la realtà; credevano di avere sempre a che fare con la realtà; dove non arrivava quella, arrivava la religione. La religione gli rimase fino in fondo; credo invece che da ultimo la realtà  finisse per sfuggirgli.

 La Marta visse più a lungo di tutte. Mia madre la vide una volta, negli ultimi tempi, che usciva dal forno Melli. Era molto vecchia, e curva, e come smarrita. Come se la strada, i muri, le pietre della piazza non avessero, ai suoi occhi, quasi più significato. Ritrovava la via di casa non come qualcosa di sensato ma come qualcosa di quasi disgustoso, viscido di fredda umidità, cieco. Scomparsi la facciata di San Prospero, i leoni di pietra, il Torrazzo malamente accostato alla chiesa, le finestre dei palazzi sopra gli archi, l’abside del duomo con l’edicola scolorita; rimaneva, e a stento, il selciato che percorreva con cautela, per non scivolare. Così la città, da una parte all’altra e da nord a sud, la via Emilia, la spianata nebbiosa davanti al Municipale, i giardini con ancora, sui muretti perimetrali, i monconi della cancellata meravigliosa che andò a far cannoni, e, all’altra estremità, lo slargo davanti alla chiesa del Cristo che pare dipinta, e tutte le vie silenziose, le finestre discrete, i portoni chiusi sulle esistenze private, i bar in quell’ora smarrita che molto più tardi sarà l’ora dell’aperitivo – tutto ciò minaccia di sbriciolarsi, e perdersi, e andare in polvere, e non rimanere appeso ad alcuna memoria.

Delle quattro che vissero insieme nell’appartamento in via San Carlo non tutte, per la verità, erano nubili. La più giovane, la Ceci, era vedova. Il matrimonio, senza figli, era stato di breve durata. Lei stessa non vi accennava mai, come a una parentesi dimenticata.

Del marito si è persa, su questo lato della famiglia, ogni traccia e ogni eco; nemmeno il santino, distribuito in occasione delle esequie, si trova più. Cerco di capire, almeno, se il grosso della convivenza ha avuto luogo prima o dopo la guerra. Mah! Mia madre non si raccapezza proprio; però se lo ricorda, questo marito della Ceci, perennemente in camicia nera, il che fa pensare che la sua vicenda terrena fosse già conclusa prima della fine della guerra.

Delle sorelle, o almeno di quelle che ho conosciuto, la Ceci era la meno bella. Aveva preso dalla razza del padre, tracagnotta e bovina. Me la ricordo non tanto alta, tozza, le sopracciglia spesse, gli occhi un po’ sporgenti, e una fossetta sul mento che sembrava tagliata con l’accetta. Era alla mano e ridanciana tanto quanto la Marta era fine e un po’ sulle sue. Il marito, o, prima, il fidanzato, la caricava in moto e partivano rombando. Me la immagino, seduta di traverso sul sellino per via della gonna, un braccio attorno alla camicia nera, partire con un fracasso che disturba il quartiere, allontanarsi a gran velocità da via san Carlo, via Squadroni, via San Filippo, via delle Quinziane, Santa Teresa. San Giorgio, Sant’Agostino, tutti i santi e le sante, uscire dalla città, allontanarsi, scomparire nella polvere sollevata dai pneumatici.

Le sorelle disapprovavano.

Dopo la morte del marito tornò a vivere con loro e riusciva difficile immaginare che se ne fosse mai staccata. Al mattino presto, quando la Marta andava a aprire il caffè Elvezia, lei e la Rina attraversavano la piazza, si infilavano sotto l’arco di via Palazzolo e andavano fino in fondo, dove c’erano le cucine dell’albergo Principe e, nella strada, un vapore caldo si mischiava alla nebbia.

Parlando del marito disse una volta a mia madre: «Pensare che l’ho curato tanto, quando si è ammalato. E dopo che è morto ho saputo che mi faceva pure le corna».

Intermezzo natalizio 1974

di Elena Grammann

[ “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia” (Elvio Fachinelli, citato da E.A. qui). Si muovono ondeggiano e fluttuano, ma l’uscita dalla famiglia non è stata una passeggiata.]

 

“Sembra un treno del Far West” commentò il ragazzo giovane straniero salendo sulla littorina con i sedili di legno che faceva servizio locale.

La ragazza giovane autoctona provò a guardare il treno con occhi diversi per vedere se poteva avere la stessa impressione. Ma aveva visto poche cose straniere e soprattutto era troppo tesa per riuscirci. Però forse sì, forse i sedili a listelli di legno erano antiquati, ammise a se stessa con un sorriso forzato.

Il ragazzo straniero era, in un senso non ufficiale ma non per questo meno sostanziale, il suo fidanzato. Si erano conosciuti da qualche parte in Europa, si erano scritti quasi giornalmente per cinque o sei mesi ed ora eccolo qui. Per tutta l’interminabile mattina in cui lo aveva aspettato alla stazione aveva sperato che non arrivasse.

Se la ragazza fosse capace di riflettere sarebbe sicuramente meno tesa. Non si sentirebbe responsabile per i sedili di legno, per le occhiate della gente sul trenino locale, per l’incontro, fra poco, con i suoi genitori e per ogni singolo istante che scocca. Se la ragazza fosse capace di riflettere magari gli avrebbe scritto, semplicemente, di non venire. Avrebbe fatto una bella lista dei motivi che sconsigliavano di continuare quel rapporto: troppo complicato, troppo pieno di problemi, soprattutto troppo inconsistente (ma che ne sa lei, di consistenza e inconsistenza), e gli avrebbe detto addio. Per lettera.

Ma forse, a pensarci bene, non è che non sia capace di riflettere; anche questo, sì, in un certo senso; ma soprattutto non riesce a immaginare il futuro, non riesce a immaginare che il presente possa diventare irrilevante, possa modificarsi; è prigioniera del presente, lo prende terribilmente sul serio, ad ogni stimolo una reazione: immediata, definitiva; e, per il rispetto che si deve, eterna.

È debole e orribilmente ricattabile. Basta farle pesare un po’ di sofferenza, un po’ di amore, un debito minimo, che lei si sente subito in colpa; insisti un po’ e farà esattamente quello che vuoi; insisti un po’ e vedrai che la leghi ben stretta; poi, quando non ce la fa più e scalpita, tutti trovano che è volubile e egoista.

Il ragazzo straniero le ha scritto tutti i giorni per sei mesi. Nelle lettere le diceva quanto stava male e che non riusciva a respirare e il medico aveva detto che era psicosomatico. Le diceva anche tutto quello che stava facendo per iscriverla all’università, trovare un appartamento eccetera. Ora lui è qua e lei è orrendamente a disagio ma non può assolutamente ammetterlo perché non è la reazione corretta.

Poi è anche vero che lei è giovane, malleabile, sventata, pronta a cavare dal presente quel che si può. Pian piano il disagio si allenta, diventa sopportabile, anzi a tratti non lo avverte nemmeno più.

La vigilia di Natale vanno a fare un giro in città. La città è bella: scura, illuminata, luccicante. Dove sta lui di città così belle non ce ne sono. Lui la prende un po’ come se gli fosse dovuta.

Per uno che non riusciva a respirare si è rimesso piuttosto bene: è deciso, sa quello che vuole, si incazza se non lo ottiene. Ad esempio ha deciso che offrirà ai genitori di lei un cesto natalizio e cesto natalizio dev’essere. Lei non capisce nemmeno bene cos’è. Loro non si fanno manco i regali per Natale, figuriamoci i cesti. Però bisogna andare dal cestaio e fare il giro dei negozi di alimentari del centro e cercare esattamente quel che vuole e fare una cosa proprio come lui se la immagina. Lui si prende ridicolmente sul serio – forse perché è uno che fa le cose sul serio; lei lo sfotte un po’ per questo – forse perché lei in fondo non fa mai niente sul serio. In seguito lui la odierà per le sfottiture e lei lo odierà perché lui gliele farà pagare care. Per il momento però lui ha abbastanza buon gioco perché sa con precisione quello che vuole: vuole portarsela là nel suo paese. Lei invece non sa affatto quello che vuole, è completamente disorientata, la realtà è una matassa che non riesce a districare, è perfino incapace di trovare una via e un numero civico, figuriamoci le linee direttrici di un’esistenza. A dir la verità c’è una cosa che vuole assolutamente e sa di volere, ed è scrivere un romanzo; ma lo rimanda a più in là nella vita perché non ha idea di cosa metterci dentro.

Fra Natale e Capodanno fanno i soliti giri, questi succedanei striminziti del Grand Tour: Bologna, Firenze, Venezia. Andata e ritorno in giornata. Quando vanno a Bologna il treno è talmente stipato che fino a Modena viaggiano in una specie di vagone spedizioni dove c’è anche un maiale in gabbia. A Venezia vanno al consolato del paese straniero a far vidimare dei documenti che serviranno alla sua inscrizione all’università straniera. Lui ha preso in mano la situazione; lei lascia fare, stupita che queste cose si facciano realmente, che siano fatte, che accadano. Allo stesso tempo ognuno di questi passi la porta più vicina all’università straniera, senza che lei abbia detto veramente di sì. Anzi sul momento, la prima volta che la cosa era saltata fuori, le era parsa un’enormità.

Di nuovo la fa ridere perché la cosa che gli sta veramente a cuore, a Venezia, è mangiare in un ristorante tipico. Non corrisponde alla sua idea di cultura, che è austera. Però ammira la naturalezza con cui lui entra nei ristoranti, ordina, consuma e paga. Lei al ristorante ci è andata pochissimo, e mai con la famiglia; i camerieri le fanno soggezione, quasi quasi si alzerebbe in piedi quando arrivano; inoltre fino all’ultimo ha il terrore di non avere abbastanza soldi.

Lei ha già la patente, lui no. Vanno un po’ in giro con la vecchia millecento di suo padre, il pomeriggio o la sera. Si vede che lui è abituato in un mondo in cui i figli fanno abbastanza quello che gli pare e nessuno gli chiede conto, molto diverso da qui. Però lui si intende che le cose debbano andare come è abituato lui e di nuovo lei è grandemente a disagio e ci sono alcune scene spiacevoli fra lei e i suoi genitori.

Una volta – sono in macchina per un giro panoramico sulle colline – litigano di brutto. Lui insiste perché lei si trasferisca su da lui, si iscriva all’università là eccetera. Ha preparato tutto e non vede alcun problema. Lei dice chiaramente che è una roba da matti e che non se la sente. Lui la mette come se lei si fosse rimangiata la parola e le ingiunge di portarlo immediatamente alla stazione. Lei lo prega di non partire; striscia quasi, finché lui magnanimamente rinuncia alla rottura e alla partenza. Subito dopo lei se ne pente. Si chiede perché non ce lo ha portato alla stazione, visto che voleva partire. Non sa se lo ha fatto perché tiene a lui o perché ha paura della figura che farebbe; perché ormai si sente tenuta a un certo comportamento. Comunque sospetta che non sarebbe partito, sospetta che fosse tutta una finta.

Se la ragazza fosse un po’ meno ingenua, un po’ più abituata a riflettere, un po’ più consapevole di certi meccanismi neanche tanto nascosti, fiuterebbe il ricatto, si farebbe diffidente e remerebbe al largo finché ha una possibilità di manovra. Perché più tardi, quando è andata a finire che lei è su nel paese straniero e lui ha il coltello dalla parte del manico, allora le fa vedere i sorci verdi col suo sistema del ricatto.

Alla fine delle vacanze di Natale, subito dopo Capodanno, il ragazzo riparte. Sono praticamente d’accordo che lei lo seguirà qualche giorno dopo.

Lei prova a dirlo in famiglia, prova a chiederlo. Sua madre non prende nemmeno in considerazione la possibilità, suo padre invece le fa una scenata tremenda in sala da pranzo. Si vede che finalmente è sbottato, si vede che finalmente dice la sua dopo essersi dovuto sopportare la presenza di quel tizio che non si capiva bene cosa ci facesse lì; si vede che se fosse stato per lui non lo avrebbe certo tollerato; si vede che il tizio ha potuto soggiornare nella casa soltanto in virtù di una certa eccentricità della madre, di una sua visione un po’ barocca delle convenienze, di un suo mettere il cuore prima delle regole – sempre che le regole vengano poi rispettate, si capisce. Suo padre la investe con una violenza che esplode raramente in lui, che esplode in lui quando non ne può più, quando ha l’impressione che le cose vadano veramente oltre. Lei sta in un angolo e piange come una vite tagliata, piange e singhiozza orribilmente, orribilmente consapevole che suo padre ha ragione, consapevole che tutto il tempo lo ha offeso e lo sta offendendo, consapevole della propria abiezione e in qualche oscuro modo consapevole della necessità di questa abiezione. “Cosa vuoi da noi?” urla suo padre, “Ma cosa vuoi da noi?” urla ancora. Giusto, giustissimo, corretto, non può che essere d’accordo. Cosa vuole da loro? Hanno accolto in casa questo tizio che viene da lontano e si scopa la loro figlia, cosa che loro non sanno ma potrebbero benissimo immaginare; cosa vuole ancora da loro? Niente, corretto, non può volere niente.

Così un pomeriggio parte di nascosto – senza autorizzazione, senza benedizione, e ovviamente senza soldi.

Durante quelle vacanze di Natale una volta vanno al cinema. Non sa proprio cosa ci siano andati a fare, dal momento che lui non sa la lingua e quindi non capisce niente. E infatti a metà film si stufa e vuole uscire, vuole che se ne vadano. A lei dispiace un po’ perché il film le piaceva, ma se lui vuole andare bisogna andare, non c’è niente da fare. Vanno in un locale in cui lei non è mai stata perché non va mai in città di sera. Effettivamente, nell’arretratezza generale della provincia bisogna dire che lei è particolarmente arretrata. Sono seduti uno di fianco all’altra su divanetti bassi e bevono qualcosa e lui dice c’è una cosa che mi piace moltissimo di te e sfiora col dito lo zigomo o meglio una specie di gonfiore dolce fra la palpebra e lo zigomo. Più avanti lei si guarda qualche volta nello specchio, di profilo, ed è vero, c’è questo gonfiore così dolce e lei prima non lo sapeva.

Le racconta che, da ragazzino, si era messo in testa che voleva sposare una giapponese. Lei crede che sia per questo che le piace: per la follia ragionata, pianificatrice; per il senso del possesso: ancora adesso non può che provare ammirazione per il modo in cui, mezza giornata dopo averla conosciuta, dichiara a quelli del suo gruppo che da questo momento lei viene con lui.

In un suo modo egoistico (ce n’è un altro?) lui l’ha amata e continuerà ad amarla sinceramente, profondamente. Ma cosa vuol dire? Soltanto che ha bisogno di lei, non vuol dire altro.

Quando nel paese straniero lei faticosamente si metterà sulle sue gambe, e sarà indipendente, e non sarà più ricattabile, quando sarà stufa di vedere i sorci verdi e finalmente lo pianterà, lui soffrirà moltissimo.

Quattro poesie di Jan Wagner a proposito di impegno e disimpegno

di Elena Grammann

Da Achtzehn Pasteten (Diciotto terrine, 2007)

sambuco[1]

per Richard Pietraß


a che l’inchiostro, ci si chiede, nelle frasche
le gocce nere che si addensano impensate
in schizzo di merli? quale testo
per qual catasto di terreni, qual regesto?

di fianco al vecchio fienile, dove la terra
affonda nelle prese, dietro lo steccato. il profumo
delle infiorescenze in aprile, la carta a
mano che trae dalle sue profondità

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A Parma

di Elena Grammann

Ci sono cose che fa anche se sa che sono sbagliate, o che non hanno senso, o che non porteranno ad alcun risultato, o che porteranno a un risultato spiacevole. Generalmente le fa perché a un certo punto ha deciso di farle; non vede altri criteri per l’azione. Quando ha deciso magari le sembravano buone idee, che aprivano nuove prospettive, che potevano cambiare in meglio la vita. Continua la lettura di A Parma

Le parole o le cose?

Ugo Mulas – Suino danese

Storia del mio rapporto con “Lplc”

di Dario Borso

Le parole

L’11 settembre 2017 proposi al redattore del litblog “Le parole e le cose” Italo Testa, che avevo conosciuto al Baghetta 2013 (qui al minuto 4’30”), cinque prove di traduzione dal poeta tedesco Jan Wagner. Una settimana dopo Testa mi comunicò che la Redazione aveva approvato e che il testo sarebbe uscito a breve. Continua la lettura di Le parole o le cose?

Rileggendo “Una lettera a Nietzsche” di Franco Fortini

di Ennio Abate

Sono passati ben 37 anni da quando lessi «Una lettera a Nietzsche», la sezione di dieci testi che apre «Insistenze» (Garzanti 1985)[1] e l’acuta analisi che Elena Grammann ne ha fatto su Poliscritture (qui) mi ha spinto a riprendere in mano questo libro. Continua la lettura di Rileggendo “Una lettera a Nietzsche” di Franco Fortini

Il sarto di Ulm – rivisitato

di Elena Grammann

                        Der Schneider von Ulm hat's Fliega probiert
                        No hot'n der Deifel en d' Donau nei g'führt
                                     
                        (Il sarto di Ulm ha provato a volare
                         Belzebù nel Danubio lo ha fatto cascare)
                                                  (rima popolare)
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