Carlo Rovelli: «Ecco perché penso che mandare armi all’Ucraina sia un errore»
La guerra vicina scatena in tutti noi emozioni intense. Ci inquieta. Le immagini di morti, sofferenza, devastazione, ci fanno un nodo alla gola. Brucia la domanda di come fermare l’orrore. Come arrestare questa sofferenza insensata che è la guerra? Ci sentiamo sotto attacco anche noi, non solo per solidarietà, ma anche per la sensazione inquietante che la sicurezza in cui pensavamo di vivere sia fragile, le persone che vediamo soffrire ci sembrano condividere i nostri valori. Quando l’inquietudine è così forte, è difficile districare le emozioni dalla ragione ed è facile, trascinati dall’emotività, commettere errori. Lo è per tutti noi e lo è per chi prende le decisioni collettive, rispondendo alle passioni di tutti. Sento intorno a me due modi di reagire all’orrore: le decisioni sono difficili, e vedo le ragioni di entrambi.
Da una parte ci sono le parole di tanti che spingono per una immediata diminuzione dello scontro, per negoziati senza pregiudiziali e rigidità, aperti a concessioni reciproche. Sono tante queste voci. Dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres ai tanti paesi che alle Nazioni Unite hanno preferito non sostenere la risoluzione di condanna alla Russia: sono oltre trenta nazioni che rappresentano più di 3 miliardi di abitanti, quasi metà del pianeta. Tra queste voci ci sono massimi leader religiosi, come il Papa, o il Dalai Lama. In Italia, sono voci di colori ideologici e politici diversissimi che vanno da sindacati di sinistra al mondo cattolico di Pax Christi, da chi è impegnato da anni contro la guerra, non solo questa, come la Rete italiana Pace e disarmo o Emergency, a generali del nostro esercito come il generale Fabio Mini, fino a molte voci di intellettuali di collocazioni assai diverse fra loro, che ci chiedono di riflettere e considerare la complessità della situazione, prima di farci travolgere in passi di cui rischiamo pentirci.
Dall’altra parte c’è la reazione immediata al fatto che siamo di fronte a un’evidente aggressione feroce da parte di un Paese con un regime politico che la maggior parte di noi detesta — io per primo —, contro un Paese che viene ridotto in macerie per essersi avvicinato alla nostra Europa. Per una volta almeno sembra chiaro da che parte stia il torto, e la reazione istintiva è concentrarsi solo su questo, la ovvia condanna dell’aggressore e la difesa del Paese aggredito, aiutandolo militarmente, indipendentemente da qualunque altra considerazione. Questa reazione naturale alimenta il «noi contro loro», lo spirito di gruppo. Fa crescere la belligeranza. Questa è da sempre la logica della guerra: concentrarsi sulle nefandezze del nemico (spesso, ahimè, reali) ignorando il resto, demonizzarlo sempre di più, dipingerlo come pazzo sanguinario, alzare lo scontro, sentirsi dalla parte della moralità, della giustizia, e per questo arrivare a sparare, uccidere.
È questa, la logica della guerra. Molto simile alla logica delle faide fra bande, in cui l’attenzione sull’ultima grave offesa subita è motivo per sentirsi autorizzati a far crescere lo scontro, o la logica dei litigi fra individui, in cui entrambi si convincono, spesso in parte a ragione, di essere vittime. In questa logica, nessun compromesso è possibile. Il problema non è più trovare il modo per fare finire la guerra. Anzi, un compromesso è visto come un pericoloso cedimento al male. Le voci di dubbio sono percepite come voci che sostengono il nemico. Oggi questa seconda reazione è prevalente negli Stati Uniti e, con più dubbi, in Europa. La mia opinione, per quello che vale, è che sia un errore di cui ci pentiremo, soprattutto in Europa. Penso sia un errore per due motivi, uno a corto termine e uno a lungo termine. Il primo è che dare più importanza alla logica dello scontro che non alla cessazione delle ostilità implica aumentare, e non diminuire le sofferenze dell’Ucraina. Qualcuno pensa davvero che mandando armi in Ucraina diminuiamo le sofferenze della guerra, diminuiamo il numero di morti e la quantità di devastazione? Le armi mandate in Siria sono servite a fare soffrire meno Aleppo? Le armi che vari Paesi mandano in Libia hanno pacificato la Libia? Sono decisioni difficili, ovviamente. Ma abbiamo sentito alla televisione molti «combattiamo fino alla morte» di giovani ucraini, e io non mi sento dalla loro parte.
Rileggiamo «La Storia» di Elsa Morante per capire cosa succede in guerra. Ci sono i «combattiamo fino alla morte», e c’è la folla sofferente delle Iduzze che semplicemente non vuole la guerra. Io mi sento più dalla parte di questi. A me, come a tanti altri nel mondo, sembra che mandare armi in Ucraina sia cadere nel terribile gioco usuale delle superpotenze: armare i piccoli perché facciano la guerra, per procura, contro altre potenze. Usare morti e devastazione ucraini, e morti russi, per fare pagare un prezzo alto alla Russia. Il secondo motivo per cui penso che la reazione in corso sia un errore, a lungo termine, è che ci spinge in una logica di scontro totaleche rischia di fare del XXI secolo un secolo perfino peggiore del XX. Se vediamo il mondo in modo manicheo, diviso in buoni e pericolosi cattivi, le buone democrazie occidentali e i cattivi autocrati di Russia e Cina, se pensiamo che l’unica salvezza sia imporre a tutti il nostro predominio con le armi, penso che andiamo verso catastrofi. L’alternativa, ancora una volta, è quella che ripete il segretario generale delle Nazioni Unite e che indicano in moltissimi: accettare la complessità, la varietà politica ed ideologica, lavorare per la legalità internazionale, per la diplomazia.
Questo richiede accettare che altri paesi abbiano idee diverse dalle nostre, non esserne spaventati. Lavorare per la collaborazione fra Paesi, e non vedere il mondo come un luogo dove il nostro vantaggio non può passare che attraverso la riduzione degli altri. È la paura degli altri la peggiore consigliera. Leggete «Mein Kampf» di Hitler: è basato sul fatto che bisogna avere paura degli altri. Che gli altri sono pericolosi. È la paura la radice dell’aggressività. Da una parte come dall’altra. Il primo passo verso la non belligeranza è uscire noi per primi (in fondo, in realtà, siamo militarmente ed economicamente più forti) dalla logica della paura. L’élite al potere in Russia era terrorizzata dalla prospettiva di missili nucleari Nato in Ucraina. Vi sembra strano? Era per promuovere la distensione che la Nato faceva esercitazioni militari nel Mar Nero davanti alle basi russe, l’anno scorso? Questo non scusa nulla, ma ci aiuta a capire. Per evitare missili sovietici a Cuba gli Stati Uniti sono stati pronti a sfiorare la guerra nucleare. Non è poi così incomprensibile che il Cremlino faccia lo stesso. La soluzione trovata da Kennedy e Kruscev fu che l’Unione Sovietica rinunciava a mettere missili a Cuba in cambio del ritiro dei missili americani dalla Turchia. Un vero accordo diplomatico, in una situazione molto più ideologicamente polarizzata di oggi. Un passo indietro ciascuno. Così si va verso la pace. Perché non possiamo fare lo stesso? Non per un mondo di sfere di influenza, ma per un mondo in cui nessuno cerchi di imporre sugli altri con la guerra le proprie idee o i propri interessi. Un mondo in cui combattano idee, non armi.
Perché metà del pianeta si è rifiutata di condannare la Russia,nonostante sia da condannare? Credo che il motivo sia ovvio: perché agli occhi di molti le bombe russe su Kiev sono orrore, ma lo sono state anche le bombe Nato su Belgrado, Tripoli, Bagdad, o Kandahar, tutte lanciate su Paesi che non avevano aggredito alcun Paese Nato e contro le indicazioni delle Nazioni Unite. Come ci ricorda il generale Mini in una recente intervista, la guerra in Ucraina non nasce adesso. Una sanguinosa guerra civile, di cui pochi da noi si commuovevano, era in corso da quasi dieci anni, con devastazioni e morti. Da anni l’Occidente inviava già pesanti finanziamenti per sostenere le spese militari di una delle due parti. (l’impeachment di Trump, ricordate?, era proprio per aver ritardato 400 milioni di dollari in aiuti militari a Zelensky).
Sono orrore anche le bombe fabbricate in Italia che il nostro alleato Arabia Saudita scarica anche oggi sullo Yemen, in una guerra che, come la guerra in Afghanistan scatenata dall’Occidente, illegalmente, fa moltissimi più morti, rifugiati, devastazione e dolore che non la guerra in Ucraina. Perché tutto questo è rilevante? Perché naturalmente noi siamo profondamente scossi dalla guerra vicina, ma se consideriamo la guerra come un immenso orrore quando la fanno gli altri, e una triste necessità quando conviene a noi, non siamo credibili, e non lavoriamo per la pace. L’Europa non era ostile a promuovere una logica di collaborazione. Ora si sta facendo trascinare fuori da questa logica, più per emozione che per ragione, mi sembra. L’Italia per cultura e storia ha una tradizione di ricerca del dialogo. Penso che dobbiamo uscire dalla logica suicida di rispondere alla violenza fomentando violenza. Dobbiamo trovare, con dialogo e politica, come seppero fare Kennedy e Kruscev, una soluzione che non parta dalla demonizzazione e demolizione del nemico come unica prospettiva.
Perché non possiamo semplicemente vivere senza che la gente muoia sotto le bombe? Perché diamo più peso a interessi economici e giochi di potenza, che all’immenso dolore delle persone? Perché cadiamo tutti in questa logica guerresca? Non lo so, e cerco come tutti risposte, ma il clima di belligeranza che percepisco attorno a me, in cui vedere sofferenze ci spinge a sostenere la guerra, e chiamiamo «pace» l’inviare armi, mi preoccupa profondamente, mi fa pensare che stiamo forse commettendo un errore. Tante altre volte i Paesi si sono eccitati in questo modo, e spesso è finita male. Abbiamo paura gli uni degli altri. Siamo spaventati dalla nostra stessa ombra, e trasformiamo la nostra terra in un inferno. La gente sta morendo in Ucraina. Stanno morendo civili, giovani soldati ucraini che combattono, giovani soldati russi che individualmente non hanno colpa di nulla. La guerra non risparmia nessuno, nessuna guerra lo fa. Io penso che la vera urgenza sia salvare loro