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Fachinelli e/o Fortini? (3)

Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Terza parte

1.
Nel clima agitato del ’68 era facile tagliare con l’accetta, non avendo il bisturi. A me, nei due scritti di Fachinelli e Fortini, fu difficile distinguere distanze, contrapposizioni o concordanze tra le loro posizioni. O capire a quali dimensioni sociali e politiche diverse – cosmopolite o internazionaliste? – si richiamavano.
Nei decenni successivi, smorzatosi prima il movimento e dispersasi poi, con la tragedia dell’uccisione di Aldo Moro nel 1978, anche la nuova sinistra, sono spesso tornato a riflettere su quelle loro parole.
A rileggerli, i due saggi mi sono parsi frontalmente opposti già nei titoli: quello che per Fachinelli era centrale (il desiderio), per Fortini era soltanto un «benefico fall-out» [ricaduta], un evangelico «sovrappiù».i
Forse vale ancora la pena di riassumere i punti di contrasto.
Per Fachinelli era riemersa anche in Italia una giovanile e inappagabile tensione, che avrebbe dovuto allenarsi al continuo rifiuto di ogni rappresentanza partitica – (i giovani avrebbero dovuto prendere le decisioni sempre in comune e accettare solo leader provvisori) – e opporre al nemico «un perenne NON BASTA», erodendone il potere repressivo delle Istituzioni con una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio, che si estende dal “sogno”, all’”astrattezza”, fino all’agire “folle” e “fuori delle regole».ii
Per Fortini un tale atteggiamento era romanticismo (negativo), niccianesimo, da respingere e non mescolare con Marx o Lenin, per non precipitare nella «volenterosa Negazione della Negazione» (Hegel) o subordinarsi ai «tenebrosi Geni della Distruzione e dell’Odio».
Fachinelli
parlava di un recupero dell’infanziaiii contro il rischio di addomesticamento del movimento e vedeva i giovani «sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe».
Fortini, invece,
chiedeva al movimento degli studenti di riallacciarsi al passato della storia socialista rivoluzionaria, che gli pareva potesse, a certe condizioni,iv rivivere. E, però, doveva riconoscere che nell’immediato erano «più vicini agli utopisti che a Lenin»;v e, di conseguenza, più alla sensibilità di Fachinelli che ai suoi ragionamenti da marxista.vi
Insomma, Fachinelli voleva avanzare senza caricarsi mai più sulle spalle il vecchio Anchise (di sinistra, marxista) e muoversi in compagnia di Nietzsche e Freud. Fortini si aspettava che fossero gli studenti – gli intellettuali di massa – a caricarsi sulle spalle l’Anchise cristiano-comunista, che egli ed altri s’era portati appresso durante la loro esperienza di militanti comunisti e socialisti del secondo dopoguerra.
La contrapposizione fra Fachinelli e Fortini non era occasionale. O limitata all’interpretazione del movimento giovanile/studentesco del ’68. Anche le loro letture della cultura del passato, in parte comune ad entrambi, perché si riferivano entrambi a Brecht, Benjamin o Adorno, erano diverse e in parte contrapposte. E, infatti, nel settembre 1976, la prima iniziativa della neonata casa editrice L’erba voglio diretta da Fachinelli  fu la pubblicazione, con il titolo provocatorio di Minima imMoralia, degli aforismi mancanti nell’edizione italiana curata da Renato Solmi per Einaudi nel 1954 ei Minima Moralia (Cfr. https://www.poliscritture.it/2021/08/20/minima-immoralia/).

Ho pensato spesso di poter far risalire lo scontro tra i due a quello tra la corrente calda e la corrente fredda della storia del movimento operaio intravisto ai suoi tempi da Ernst Bloch.vii
Erano proprio due visioni contrapposte. Entrambe “militanti”. E una medesima speranza veniva forse declinata in quei modi diversi e contrapposti. Con delle inevitabili forzature in senso più indeterminato e libertario da parte di Fachinelli e in senso molto (o troppo?) determinato e leninista da parte di Fortini. Ma poi, intervenuta la sconfitta per entrambe le loro posizioni  mi hanno sempre particolarmente colpito sia l’episodio del «diverbio» tra Fachinelli e Fortini, che nel 1986 il secondo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali»,viii e sia il suo successivo rammarico per le sue «inadempienze verso persone a cui s’è voluto bene e con le quali non si è stati abbastanza umani, abbastanza affettuosi, abbastanza pieni di amore» (Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, 2003, pag. 700)  o l’elogio di Fachinelli al momento della morte.ix

 

2.
Quando partecipai al movimento studentesco del ’68, la mia infarinatura liceale di niccianesimo o romanticismo giovanile s’era esaurita a contatto con la realtà sociale di Milano e della periferia e la mia partecipazione all’occupazione della Statale  non la ridestò né me la rese di nuovo attraente.
Avevo allora
pochi rapporti con quel tipo di giovani o studenti che dirigevano assemblee e manifestazioni e  viaggiavano o avevano amici e relazioni in altri paesi. E se il movimento era composito e fatto di vari pezzi, io non ero in quel pezzo più libertario che entusiasmòvforse Fachinelli. Alla vigilia dell’occupazione della Statale avevo intessuto legami soprattutto con quelli che facevano parte del pezzo che parlava di lotta di classe, di classe operaia e lavorava nelle fabbriche o guardava alle fabbriche. Forse Fachinelli quel mondo giovanile medio-alto borghese lo conosceva da vicino e ne coglieva meglio di Fortini la dimensione mondiale americanizzante.
Era la mia stessa condizione di studente lavoratore proletarizzato che faceva da schermo respingente verso quel desiderio dissidente teorizzato con tanto entusiasmo da Fachinelli. Fu per questo che il suo discorso
mi arrivò attutito. Poi, con la scelta di militanza in Avanguardia Operaia, gli scritti sia di Fachinelli che di Fortini come di altri autori dei Quaderni Piacentini o di altre rivist del tempo andarono in secondo piano. Rimasero per me letture personali, altra cosa dal discorso che m’impegnava coi compagni di Avanguardia Operaia, da tenere per me, sapendo quanto fossero sospettosi verso letteratura, psicanalisi e ogni interesse culturale non strettamente politico.
Nei quasi 10 anni successivi al 1968, gli scritti di Fachinelli li lessi con più distacco rispetto a quelli di Fortini, che leggevo su “il manifesto” e mi parevano confermassero o non si allontanassero troppo dalla mia esperienza di allora – di militante di Avanguardia Operaia,  lavoratore studente, immigrato, vita in periferia e pochi soldi.

Entrambi mi tornarono a parlare, dai loro libri, anni dopo ma in periodi diversi. Fortini dopo la fine della mia esperienza politica in  Avanguardia Operaia, verso la fine degli anni ’70 e in particolare dal 1977, dopo la lettura di Questioni di frontiera Fachinelli, che non ho mai conosciuto di persona – l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988,alla Casa della Cultura di Milano tra il pubblico  durante una conferenza di Sergio Bologna sui Verdi tedeschi – e di cui avevo poi sentito parlare spesso da Giancarlo Majorino, tornò nella mia riflessione molto più tardi, alla  fine degli anni ’80, quando la mia crisi, da politica, tornò ad essere esistenziale e familiare. Fu allora che lessi Il bambino dalle uova d’oro e  La mente estatica. A Milano nel 1998 seguii il convegno sulla sua  figura e la sua opera(qui) e mi parve che l’aspetto politico-sociale,che più poteva averlo avvicinato e  messo anche in urto con Fortini, venisse cancellato:«il Fachinelli dissidente, un Sansone della contestazione, è morto con tutti i “filistei” e i “padri” dell’Ideologia (marxista o psicanalitica) operanti in quegli anni; e resta un Fachinelli “New Age” o “fach/iro”, orientaleggiante, estaticamente contemplativo magari del futurismo Internet o delle Origini maternali». 

 

3.
Ma Fachinelli – mi chiesi più tardi – era poi un ingenuo esaltatore di quella marea desiderante? Dal suo saggio del 1968 avrò avuto quell’impressione. Ma quando, sempre alla fine degli anni ’80  arrivai a leggere Cosa chiede Edipo alla Sfinge sul numero 40 (aprile 1970) dei Quaderni piacentini mi accorsi dell’errore di avergli attribuito un certo roussovismo.
Nelle mie successive riflessioni ho accantonato ogni velleità di trovare una risposta alla questione del rapporto fra marxismo e psicanalisi o sulla scientificità o meno della psicanalisi. E ho abbandonato anche il dilemma se si dovesse scegliere tra i due orientamenti o tra le posizioni di Fachinelli e quelle di Fortini.
Oggi poi che rileggo i loro scritti, sapendo che le ipotesi affacciatesi nelle loro menti in quell’anno di speranze sono orami sconfitte e svanite, quali domande potrei ancora farmi su entrambi?
Non mi pare che valga più la pena scervellarsi per stabilire chi tra i due avesse più ragione o fosse più proiettato nel futuro. E userei per entrambi la formula «Aveva torto e non avevo ragione» che usò Fortini nei confronti del suo fraterno antagonista Pasolini.

So che valgono poco le mie impressioni su l’uno o l’altro. O ricordare – a chi poi? e con quale scopo oggi? – che Fortini mi è potuto apparire “più concreto” di Fachinelli. Subito dopo mi dovrei correggere, pensando che lo fu anche Fachinelli, se aveva posto il problema di allargare il “pubblico della psicanalisi” agli esclusi, ai proletari; e se aveva partecipato attivamente all’esperienza dell’Erba voglio e dell’asilo autogestito di Corso Ticinese a Milano.
Meglio, perciò, continuare a leggerli. E difendere, e salvare sia la lezione di Fortini, alla quale mi sono sentito più vicino per le ragioni che detto, e sia quella di Fachinelli. E a non mollare l’antipatia per molti dei rispettivi apologeti o discepoli più accreditati che oggi ne gestiscono l’immagine pubblica (qui).
Nella riflessione di entrambi entrava, assieme al “carattere” e alle “ideologie” in conflitto, il reale e non la sua attuale versione amputata e caricaturale. Troveremmo perciò, in entrambi, una capacità oggi persa di nominare molto più da vicino le sofferenze individuali e collettive.
E allora? Concludo riproponendo quanto scrivevo in quel lontano 1998: «Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era più visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo».

(Fine)

Note

i "Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù" (Mt. 6;33)

ii Quando Fachinelli scriveva:« il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio” » aveva una forte spinta utopistica ad individuare nel movimento per lui dei giovani una apertura, un possibile..ma non si poneva affatto il problema di riuscire a condensarla politicamente. Anzi vedeva proprio questo come un rischio di chiusura… di burocratizzazione… Più che limitarsi, puntava tutto sulla dissidenza, sulla contestazione, sulla possibilità che il movimento mettesse «in causa i modi tradizionali di concepire e fare politica» o mirava verso bersagli più lontani delle vecchie figure di autorità (gli uomini che si dicono di ferro, che parlano più forte, che minacciano la morte nucleare)». Bisognava che il movimento fosse antiautoritario sempre, che mai si “sporcasse” con il problema dell’autorità (o del partito)

iiiFachinelli sottolineava quanto sia importante il ricordo: «La vera misura della vita è il ricordo»,... al contrario di Proust Benjamin non fugge il futuro, ma lo ritrova in quelle esperienze infantili dove esso germinava, per essere poi sepolto nel presente»Fachinelli parla di «sensibilità acuta e delicata su cui si è retto, io credo, il rapporto con lui [Benjamin] dei “sessantottini”»
Fachinelli...L’infanzia vi appariva come un’estasi: «Straordinaria capacità [...] di demolire in un attimo ogni fissità funzionale degli oggetti e delle situazioni. Tutto è preso, cambiato, lasciato in una rapida corsa”. L’analista non dovrebbe imparare dall’estasi dell’infanzia? Non dovrebbe “recuperare e praticare il gesto infantile del gioco”? L’infanzia non è più solo una tappa della nostra vita destinata a essere superata dalla sua maturazione stadiale, bensì una risorsa costantemente presente. Essa non coincide con quella perversa-polimorfa del bambino freudiano, né con quella infernale – schizoparanoica – del bambino kleiniano, né, infine, con il “corpo in frammenti” del bambino lacaniano.
L’infanzia gli appare piuttosto come un luogo benjaminiano, una fonte inesauribile di possibilità, una promessa del futuro: È il segreto che abita l’ottimismo di chi corre incontro alla vita senza riserve e senza paura. Si tratta per Fachinelli di un “modello totale di felicità” (Cfr. https://www.poliscritture.it/2022/06/22/su-fachinelli-appunti-di-lettura/#_ednref4)
Su questa tematica andrebbe ricordato anche un articolo di Paolo Virno, “Il linguaggio in mezzo al guado” sul numero 2, Gennaio 1991  di  Luogo comune. (Cfr. https://archivioautonomia.it/fondo-deriveapprodi/la-rivista-luogo-comune/)

iv Non vedo troppa differenza tra un Fortini, che nel suo saggio non esitava ad abbandonarsi ad un ipotetico e speranzoso “se…”: «Se la richiesta etica si fosse misurata alla realtà dei rapporti di classe, gioia, integrità e autenticità sarebbero facilmente apparse, come sono, beni non individuali che si realizzano solo nell’azione comune per una meta», e un Fachinelli, che vedeva il movimento « sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe» ma appunto questo informe non poteva dire in cosa consistesse e d era ipotetico….
Fortini era come se dicesse da pedante o da saggio più consapevole della storia e della forza di resistenza del potere: se questi giovani avessero studiato la storia, che i partiti non sono stati in grado di passargli, capirebbero quanto è vano o errata l’interpretazione del movimento data da Fachinelli,che sostiene che esso: «sembra sgusciare verso qualcosa di nuovo», «qualcosa che è per forza ancora informe».
Fachinelli difendeva quell’ informe senza poter dire in cosa consistesse. Ma non dovette poi accorgersi di quanto fosse impraticabile quell’antiautoritarismo perenne? Ed, infatti, già nell’articolo«Gruppo chiuso o gruppo aperto?» in "Quaderni piacentini", n.36, novembre 1968 (https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/11/ennio-abate-riflessione-di-un.html)   capisce l’autodistruttività di certe spinte “libertarie”.

v Un’eco di questo schema interpretativo lo ritroviamo più tardi nel 1977 quando parlò dell’Autonomia. Anche in quel caso Fortini sottolineerà che l’”Autonomia”, vedendo l’organizzazione come «una trappola» ( un po’ come Fachinelli nel 1968) e rifiutando «un programma, un comitato, una sede», volendo «coincidere col «movimento», pronunciava ancora una volta la verità, ma «con le parole dell’errore». (Cfr,https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/)

vi Ha scritto poi un’amica femminista: «Fortini si richiamava a un rapporto tra insurrezione e partito che non esisterà … che non si realizzerà e si potrebbe dire che viveva in un pensiero dell’autorità che non poteva più affermarsi » (Fischer)

vii «Bloch parla di speranza concreta o di utopia concreta volendo dire due cose: da un lato che l'utopia, la speranza, l'attesa di un mondo migliore, non possono essere affidate soltanto alla "corrente fredda", cioè all'idea che la razionalità si faccia spazio da sola. Non basta, infatti, enunciare una cosa vera perché questa cosa vera penetri nella testa degli uomini. D'altro lato Bloch cerca di temperare questa "corrente fredda" con una "corrente calda", cioè non basta mobilitare gli uomini per raggiungere certi effetti, per credere che questa mobilitazione vada in una direzione accettabile.

3. Può spiegare la differenza tra la "corrente calda" e la "corrente fredda", anche in relazione al marxismo? 
L'esempio che fa è quello del nazionalsocialismo, che Bloch definisce un "giacobinismo del mito". È importante un aneddoto che Bloch racconta: nel 1933, poco prima dell'avvento del nazionalsocialismo, ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino tra un rappresentante del partito comunista tedesco e un rappresentante nazista. Il comunista entra e comincia a spiegare la caduta tendenziale del saggio di profitto secondo Marx, la gente non capisce niente, e queste verità non fanno presa. Arriva invece il nazista che comincia a parlare in termini mitici della pugnalata alle spalle che gli ebrei e i demoplutocrati hanno dato al popolo tedesco, fa dei discorsi che hanno una grande presa emotiva, usa termini come patria, casa, quelle forme cioè di richiamo all'identità delle persone ed esce tra le ovazioni di tutti. Ora, per Bloch il punto, e forse anche per noi, è quello di capire che non si può staccare la razionalità dagli affetti, ma che non si può avere una pura razionalità, un socratismo, per cui basti enunciare il vero perché il vero si raggiunga, né si può avere, come nel caso del nazionalsocialismo, una pura mobilitazione basata su problematiche irrazionali.»

(da Remo Bodei, Bloch e il principio speranza,  https://www.sitocomunista.it/marxismo/altri/bloch.html

viii A pag. 229 di “Non solo oggi” (Editori Riuniti 1991):«Rammento che nel maggio 1968 ebbi una discussione anzi un diverbio con Elvio Fachinelli a proposito della interpretazione di quanto nelle università e per le vie in quel momento accadeva. In un saggio che avrebbe allora pubblicato, Fachinelli poneva in evidenza, o almeno mi parve, che quei gruppi di adolescenti vivevano sé medesimi come secessionisti dalla società adulta e come chi rifiuta la successione, in violenta difesa della propria purezza. Non senza ovvie risonanze omosessuali, essi consumavano quel momento come liberazione nella fraternità e rifiuto inorridito del compromesso e della mediazione. Insieme a considerazioni di opportunità politica, gli opponevo quel che allora venivo svolgendo in un mio scritto, intitolato e non a caso, Il dissenso e l’autorità: che cioè si sarebbe dovuto guardare ai caratteri di classe del fenomeno e tentare una lettura sociologico-storica prima che psicologica o psicanalitica; e non considerare quindi soltanto i figli di un ceto economicamente e culturalmente dirigente ma le condizioni affatto diverse di chi da poco tempo era approdato alle università da istituti professionali o magistrali o tecnici (che conoscevo bene), carne di cannone sul campo di battaglia della esistenza. Dieci anni più tardi avrei potuto constatare come tutti e due avessimo avuto torto: la purezza omicida e suicida si sarebbe coniugata con l’accettazione della mitologia neoliberista, scientista, efficientista; la rivolta dei figli degli oppressi e degli sfruttati sarebbe stata calpestata nella recessione (falsa o vera), nella disoccupazione e nelle fantasmagorie della spazzatura culturale di massa».

ixPag 557 di Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994 (Bollati Boringhieri 2003): «Ma di Elvio Fachinelli ricordo anche lo straordinario lavoro fatto con “L’erba voglio”, ricordo un bellissimo saggio, pubblicato sulla rivista “Il corpo”, che faceva con Giancarlo Majorino, sulla denegazione. Ho in mente anche,la straordinaria qualità della sua scrittura. Sapeva scrivere, sì. Sapeva anche tacere, sapeva come e perché tacere. Elvio Fachinelli appartiene a quel novero di persone senza le quali non è pensabile una storia degli anni ‘67-77.»

APPENDICE

Da Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri 2003 pagg. 556-557

 

  • I due capitoli precedenti di “Fachinelli e/o Fortini?”  si leggono qui e qui

Fachinelli e/o Fortini? (2)

Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Seconda parte

FRANCO FORTINI,  IL DISSENSO E L'AUTORITA'
(QUADERNI PIACENTINI N. 34 - MAGGIO 1968

Dicevo nella conclusione della Prima parte: «Tutte queste perplessità si rafforzarono dopo la lettura della  replica di Fortini a Fachinelli».
Sul numero successivo dei Quaderni Piacentini – il 34 del maggio ’68 –  nel saggio «Il dissenso e l’autorità» di Franco Fortini trovai, infatti, un immediato contrappunto al discorso psicanalitico del saggio di Fachinelli.
Qui si suonava un’altra musica, dissonante rispetto a quella utopistica e suadente-ambivalente di Fachinelli. Ho pensato  più tardi che, leggere Fortini dopo Fachinelli, fu come passare  dal tiepido-bollente dell’occupazione della Statale di Milano a una doccia fredda in una stanza appartata e in ombra. Vediamo perché. Continua la lettura di Fachinelli e/o Fortini? (2)

Co-identita’ e differenza sessuale

di Cristiana Fischer

Gli ultimi due libri pubblicati da Elvio Fachinelli sono Claustrofilia, Adelphi, 1983 e La mente estatica, Adelphi, 1989, poco prima della morte. L’ultima parte de La mente estatica, è un capitolo intitolato Essi temevano la gioia eccessiva, in cui Fachinelli individua, a livello biografico e teorico, il punto cieco che ha impedito a Freud e Lacan di avvicinarsi alla zona perinatale su cui Fachinelli sta riflettendo.
Egli sa che i suoi studi riguardano “territori antropologici finora ai margini della psicanalisi”, nei quali si annida la gioia smisurata del “desiderio preistorico” di compenetrazione col corpo materno.
Se per Freud quella gioia è prossima alla pulsione di morte (in quanto “cessazione di ogni tensione, cioè della vita stessa”), per Lacan l’esperienza mistica, di cui Fachinelli si occupa nel suo libro, è un aspetto antropologico -o rifiutato o assimilato all’impostazione religiosa- per cui “la gioia eccessiva, che è al cuore dell’esperienza estatica, viene trascurata” (p. 195).
Il libro La mente estatica racconta che l’estasi si raggiunge in campi diversi, in quanto “si trova ciò che in noi qualcuno, al di là dell’io, cercava: Dio, l’arte, la scienza; o anche, immediatamente, semplicemente, la sospensione del tempo della caducità” (p. 30).
A cosa si riferisce con “qualcuno al di là dell’io”? In un altro capitolo intitolato AREA PERINATALE egli afferma la continuità tra gli ultimi mesi di stato fetale e i primi mesi dopo la nascita, quando si configura il Sé emergente del bambino ma permane attiva la co-identità con la madre. Questo ambito rimane sempre attivo o attivabile, e “si avrà in ogni momento coesistenza dell’uno e dell’altro” (p. 119). Un doppio che si presenta nelle situazioni estatiche della vita adulta, quando si verificano stati di abolizione dell’io cosciente insieme al senso di un inglobamento in uno stato più grande, bello e vero dell’io stesso, accompagnati da angoscia e poi da gioia indicibile. In queste situazioni, se l’io cosciente viene attenuato o addirittura represso, emerge comunque un soggetto altro, cui si deve il resoconto –per quanto inadeguato- dell’esperienza avvenuta. D’altra parte lo stesso linguaggio comune dà conto di situazioni in cui, letteralmente,  il soggetto si dichiara “fuori di sé”.
In Claustrofilia Fachinelli ne scrive a lungo, facendo della particolare comunicazione del feto-bambino con la madre il modello per successive consonanze telepatiche. Nella vita adulta i processi di individuazione stabiliscono una barriera tra il prima dell’unità duale e il dopo di unità separate, ma Fachinelli si è reso consapevole che, da quando ha sviluppato una acuta attenzione per i sogni e le fantasie perinatali, egli stesso è coinvolto nella relazione analitica in stati di allargamento percettivo, dove avvengono fenomeni di anticipazione temporale in cui il futuro è già accaduto e diventa ricordo, e di penetrazione nello spazio mentale altrui, di persone terze sconosciute.
Nei casi raccontati in Claustrofilia ho osservato che nei pazienti emerge l’istanza di realizzarsi come soggetto sessuato adulto, maschio o femmina, con un corpo che è sessuato e non neutro. Judith Butler non aveva ancora pubblicato “Gender trouble. Feminism and the Subversion of Identity“, Routledge, 1990 (edizione italiana Questioni di genere, Laterza, 2013). Fachinelli neppure immagina quella scissione tra sesso e genere su cui l’autrice ha scritto il libro. Non per questo privilegia il soggetto cisgender, ossia “chi percepisce in modo positivo la corrispondenza fra la propria identità di genere e il proprio sesso biologico”[1],  colei o colui la cui identità di “genere” implica anche il desiderio sessuale rivolto al sesso opposto. Nei casi che egli racconta l’omosessualità sta accanto alla differenza sessuale.
Proprio grazie alla riflessione sull’area perinatale Fachinelli può offrire una teoria che stringe la differenza sessuale a un naturale binarismo. Se la situazione di co-identità ha come meta l’identità con la madre, questa posizione entra in tensione con l’esistenza di un terzo, il padre, con cui la madre partecipa all’atto sessuale “si coglie così che la situazione di co-identità è contigua all’intensa e ambigua scena primaria”, il bambino è insieme escluso e partecipe, “tutto questo prima che -dal punto di vista logico- s’instauri un’identificazione col padre” (Claustrofilia, p.159-160), e siamo fuori dall’Edipo.
Ma questo non può che concernere il bambino maschio!

Per la bambina la questione della co-identità con la madre e il raggiungimento di una identità sessuata adulta si è posta nella riflessione femminista, diventando insieme questione politica. Due articoli nell’ultimo numero della rivista della comunità filosofica femminile Diotima[2] affrontano il significato di dirsi donna. Essere donna è la posizione simbolica dalla quale lei parla, che non ha scelto, posizione relazionale che ha a che fare, fin dall’inizio, con la relazione con la madre: non siamo solo corpo biologico, come se potessimo guardarci dall’esterno, non solo nasciamo in relazione ma siamo corpo vivente in relazione politica con alcune altre. “Non appartiene per niente al nostro percorso di pensiero che la dimensione della sessualità sia riducibile al sesso biologico, anatomico, al sex oggettivo, ‘naturale’, ‘visibile’ empiricamente. Calcolabile nei cromosomi. Né che il genere sia solo una costruzione linguistica culturale storica, del tutto impermeabile alla nostra esperienza soggettiva del nostro corpo” scrive Chiara Zamboni nel suo articolo intitolato Identità di genere e differenza.
Le pratiche politiche di relazione, disparità e partire da sé, ci consentono di intraprendere un viaggio “sperimentale, non identitario, in fieri, sottraendoci alle definizioni e ai significati”. Nessuna o nessuno può dirci che cosa debba essere o non debba essere una donna, ma possiamo leggere il senso della nostra soggettività nella relazione con altre donne.
La visione politica di Annarosa Buttarelli implica la necessità di assumere tutta la storia che il nome donna contiene “che siate genericamente queer, che siate trans, che siate femmine, che siate maschi […] vi dovete assumere il fatto che noi donne siamo ancora uccise in quanto donne, vi dovete assumere il fatto che il corpo della donna è un luogo pubblico da millenni  […] che io sento profondamente di avere conquistato come una genealogia che mi segue, che voglio onorare e rispettare e che mi permette di dire tranquillamente ‘io sono una donna'”, articolo Perché il nome donna oggi causa aspri conflitti e turbamenti.
Donna è un concetto politico, che va contro il dominio che assoggetta le donne, ma anche contro ogni dominio che opprime. “Per molte femmine, l’istanza-donna si congiunge al fatto biologico e non si può separare più, essendo la vicenda delle donne quella di avere visto il proprio corpo usato sempre come luogo pubblico. Da questo ne consegue che anche il mio stesso corpo è politico […] Il femminismo radicale della differenza ha già così bene decostruito le perversioni concettuali, al punto che io so di essere una donna, sono psicofisicamente tale perché considero anche il mio corpo trattato politicamente da parte del dominio, e quindi so che il mio corpo è politico, e quindi so di essere un’unità psicofisica”.
Una trans può avere accesso ad alcune esperienze fisiologiche e ad alcune esperienze relazionali, ma non ad altre che avvengono solo a chi è una unità psicofisica, come soggettivamente io mi rappresento in quanto donna. E’ questa la mia stessa posizione, che riconosce la differenza sessuale e respinge l’idea di genere come costruzione linguistica, culturale e storica, da cui l’esperienza soggettiva -e politica- femminile viene esclusa.

Note

[1] https://www.treccani.it/vocabolario/cisessuale_res-5a925816-8996-11e8-a7cb-00271042e8d9_%28Neologismi%29/

[2] https://www.diotimafilosofe.it/per-amore-del-mondo/il-mondo-stringe-2022/
Si può vedere anche l’articolo di Benvenuto “Transessuale, Transgender immaginario, Travestito” http://www.psychiatryonline.it/node/7778, per le questioni di disforia di genere e identità sessuale.

Su Fachinelli. Appunti di lettura

Riordinadiario 10-22 giugno 2022

di Ennio Abate

1.
Nel 1998 seguii  a Milano un convegno su «Il desiderio dissidente. Il pensiero e la pratica di Elvio Fachinelli» e ne feci un resoconto (qui) che mi pare ancora  punto fermo della mia riflessione su di lui. In un’ottica forse “scuolocentrica” (era il mio ultimo anno d’insegnamento, accennavo anche al «dibattito-scontro culturale, politico e pedagogico fra Fachinelli e Fortini», che ho  ripreso  nelle ultime settimane pubblicando la prima parte (qui). Continua la lettura di Su Fachinelli. Appunti di lettura

Fachinelli e/o Fortini? (1)


Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Prima parte

ELVIO FACHINELLI, IL DESIDERIO DISSIDENTE
(QUADERNI PIACENTINI N.33 - FEBBRAIO 1968)

Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato –   in un presente che allora ribolliva.  Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li  diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 –  vent’anni dopo  tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini»,  neppure l’avrei  notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni  Settanta, mi aveva  raggiunto e  preso in ostaggio. Continua la lettura di Fachinelli e/o Fortini? (1)

Anni ’70: memorie non condivise degli sconfitti

a cura di Ennio Abate

Stamattina su FB sopra  questa foto del commissario Luigi Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972  a Milano  vicino alla sua abitazione, mentre si avviava alla sua auto per andare in ufficio, ho letto la riflessione di Lanfranco Caminiti:

alzi la mano - chi, tra i militanti rivoluzionari della mia generazione, non abbia considerato un atto di giustizia l'assassinio del commissario calabresi, cinquant'anni fa. non è una chiamata in correità, la mia - un atto di onestà, direi. poi, possiamo dire, oggi, che quella fu "la madre di tutte le battaglie", che eravamo accecati di ideologia, che ci stavamo infilando con tutte le scarpe in un tunnel lungo e buio da cui non saremmo più usciti, che eravamo folli e sanguinari, che stavamo diventando o saremmo diventati uguali e peggiori dei nostri carnefici - sì, carnefici, se ricordiamo la strategia della tensione. e che, vivaddio, abbiamo perso. ma quel giorno - alzi la mano, chi non lo considerò un atto di giustizia

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Sul Sessantotto. Una mail del 2008

Riordinadiario 2008

di Ennio Abate

6 gennaio 2008

Caro A., davvero il ’68 fu «un anno che ne durò solo dieci»? E poteva non finire? La tua interpretazione mi ha fatto venire in mente Elvio Fachinelli e il suo libro La freccia ferma. Se non ricordo male, egli vedeva quello dei giovani  del ’68 come un tentativo di fermare il tempo (un po’-  rispolvero vaghi e approssimativi  ricordi biblici – come  Giosuè che avrebbe fermato il  sole per poter sgominare  l’esercito nemico). Devo dirti che nei decenni successivi ho sentito con più forza l’esigenza di prendere le distanze dal mito del ’68. […]Questo per dirti  che, se anch’io mi sento di disprezzare i pentiti del ’68 (o gli avversari da sempre o da allora), non ho alcuna  voglia, dopo quarant’anni, di entrare in competere con i laboratori di regime o pseudo-indipendenti, che allestiranno le interpretazioni delle interpretazioni dell’”evento” per una sua rinnovata imbalsamazione o museificazione. Glielo lascio volentieri il pezzo più grosso del ’68, che in effetti è stato “loro”, credo fin d’allora, e cerco di scavare meglio nel “mio”. Continua la lettura di Sul Sessantotto. Una mail del 2008

Nel tumulto del 1968

“Nei dintorni di Franco Fortini”. Capitolo 1

di Ennio Abate

 si spandea lungo ne’ campi 
Di falangi un tumulto 
(Ugo Foscolo, Dei sepolcri)

 È  curioso, ma prima del 1968 il nome di Fortini non compare nei miei scritti [1]. E non c’è traccia del suo nome nella mia memoria prima dei due ricordi che ho riferito rievocando la mia partecipazione da studente lavoratore all’occupazione della Statale di Milano nel ’68 (qui): Continua la lettura di Nel tumulto del 1968

Al volo. Spunti. Sbratto.

a cura di Ennio Abate

Marzio Breda/ La crisi vista da un “quirinalista”

Quello che ha preso avvio nel 1990 è uno dei peggiori periodi di limite della storia repubblicana. Ha inaugurato anni che si sono fatti via via più difficili e cupi: «tempi che civettano sinistramente da notte dei tempi», li ha definiti il poeta Andrea Zanzotto in un epigramma che vale anche per tratteggiare i rapporti tra politica e Quirinale. Raccontarli è stato un compito impegnativo, cadenzato da ventuno crisi di governo e otto elezioni politiche, senza trascurare le consultazioni amministrative, europee e i referendum.

(da https://www.leparoleelecose.it/?p=43205) Continua la lettura di Al volo. Spunti. Sbratto.