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Vecchie polemiche. Fortini su “Doppio Diario” di Giame Pintor


NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI (14)

di Ennio Abate

Ricontrollare ancora questa “querelle”. Senza scandalizzarsi. Senza ritrarsi. Per interrogarsi ancora. Su di essa ora possiamo leggere anche quanto emerge dal CARTEGGIO FORTINI-ROSSANDA* (pagg. 102-104 in particolare): https://media.fupress.com/files/pdf/24/15077/42913

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Poesia per un esodo

LAVORANDO A “NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI”
Da
un’intervista (2013) di Ezio Partesana a Ennio Abate1

Il nostro discorso dovrebbe proseguire adesso sul secondo passaggio, ovvero quello che riguarda la pubblicazione e la diffusione, la sfera della circolazione insomma, che mi pare potremmo dividere in due parti: una prima dove avviene la decisione su cosa pubblicare, e una seconda che consta di come e dove promuovere i (pochi) libri di poesie che oggi si pubblicano in Italia. Vuoi dirci come vedi le cose in generale rispetto al tuo lavoro, alla «poesia in esodo» che proponi?

Oggi come ieri a decidere che testi pubblicare sotto la voce ‘poesia’ sono tre attori ancora precisi: le case editrici e gli organizzatori di premi di poesia; gli «intenditori di poesia»,  di solito poeti e/o critici che hanno già pubblicato; gli «scriventi versi» (Majorino), termine che equivale in parte al mio «moltinpoesia» e a «pubblico della poesia» (Berardinelli). Oggi la novità (o la complicazione?) sta nel fatto che ciascuno dei tre attori agisce in una filiera che ha dimensioni di massa. Perciò caso, caoticità, contraddizioni (micro e macro politiche) – presenti da sempre – oggi incidono di più. Quindi, più fretta di pubblicare e innumerevoli sollecitazioni a farlo (a pagamento); apparati critici risibili; idee confuse degli aspiranti poeti su se stessi, sugli altri poetanti, sul ruolo della critica, sui lettori reali di poesia. La «perdita dell’aura» ha suscitato – e non è una novità – entusiasmi ingenui, come si fosse raggiunta davvero una liberalizzazione o democratizzazione della poesia. E, per reazione,allarmi per una presunta «dittatura dell’ignoranza», spontanea o pilotata che sia. Come in politica, anche in poesia ci si dibatte tra populismi ed elitarismi, che offuscano la possibilità di capire permanenze del passato e innovazioni (reali o possibili). È un  «fall-out della poesia» (o delle «patrie lettere»). Scuola di massa, industria culturale  e ora il Web diffondono la “radioattività poetica” oltre la solita cerchia dei “cultori della materia”, raggiungendo strati sociali acculturatisi da poco e frettolosamente ai saperi moderni. È questo il fenomeno dei moltinpoesia, ma si potrebbe parlare anche di molti in critica o di molti in editoria.

Da una parte assistiamo alla semplificazione, velocizzazione, moltiplicazione delle pubblicazioni e alla loro (spesso incerta) diffusione. Dall’altra la ruminazione lenta del poeta, la critica seria, la diffusione ragionata di opere valide sembrano eclissarsi. La critica, in particolare, è quasi azzerata o stordita. Come se si fosse trovata di fronte a un nubifragio. O a un’invasione “barbarica”. O si è ritirata, vedendo vilipesa la sua funzione autorevole/autoritaria, che prima aveva una indubbia, seppur relativa, efficacia. In assenza – dico con un po’ di ironia – di un «Lenin della poesia», capace di raccordare punti di alta elaborazione poetica (che ci sono) e punti di ricerca poetica naif o selvaggia (da non disprezzare), la mia idea di poesia in esodo è un invito a non cedere né alle semplificazioni populiste né all’individualismo elitario-corporativo. Ma la crisi generale, nella quale non dimentico mai di iscrivere quella della poesia, si prolunga e s’aggrava. E temo che la «distruzione della ragione» possa avere occasioni di replicarsi in modi farseschi).

[1]Pezzo ripulito dell’intervista 2013
https://www.poliscritture.it/2015/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-2013-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/

Sempre di moda la lagna generazionale?

di Ennio Abate

Mio commento a Massimo Morasso, Poeti italiani nati negli anni ’60 di Francesco Napoli  (qui)

Me la volete spiegare questa «consapevolezza di essere generazione»? Cosa significa? Quanto mai una generazione non ha tratti simili e altri differenti da quelle precedenti? Quanto mai si può illudere di avere una identità tutta sua e soltanto“generazionale”? A leggere l’articolo di Morasso, oltre alla solita lagna (“nuova generazione perduta”, “generazione mancata”), non accompagnata daalcuna onesta spiegazione sul perché essa sia “perduta” o “mancata”, vedo soltanto la solita accusa generica – ai “padri” o ai “fratelli” maggiori? – perché sarebbe stata – in blocco? come singoli/e? – ”occultata […] fra le pieghe meno esposte del sistema cultural-aziendalista che ha forze economiche e mediatiche “), su cui da decenniparecchi s’intrattengono per consolarsi e smaltire la propria bile pensando di essere “critici”. E mi volete spiegare perché, secondo voi, “gli anni ’60 siano stati un giro di boa tra un mondo vecchio e un mondo nuovo”? Quale sarebbe per voi il “mondo vecchio”, quale il “mondo nuovo”? No, cari non miei e non mie amici/amiche, la vostra “colpa” non è quella di non essere riusciti – come sfacciatamente confessa Morasso -a farvi “lobby degna di rispetto” [1], che a me pare quasi un’apologia dei metodi mafioso-letterari vigenti nelle università e nelle “Grandi” Case Editrici (ma anche in molte delle “piccole”). Né dovete prendervela con un generico destino peressere incappati “in una sorta di faglia epocale sfortunata”. La vostra vera colpa – questa è la mia opinione – è di aver messo a servizio “ carattere, personalità e giusta ambizione” in progetti minuscoli, rigorosamente impolitici/apolitici (“qui non si fa politica!”), fingendo di non vedere che cosa accadeva o accadenella realtà sociale di questo Paese (e nel Mondo) o di non sapere cosa sia accaduto negli anni ‘70 del Novecento. Masoprattutto di aver rimosso, di non aver voluto ragionarci su [2], continuandoa gingillarvi sui vostri blog e pagine FB con la “Poesia Pura” senza riconoscere mai la Crisi della Poesia (e del Mondo in cui boccheggiamo tutti/e) .

Note [1]

“quel “contar poco” è anche l’effetto di una loro colpa consiste nel non essere stati in grado di costruire una societas generazionale e, di conseguenza, di non essere stati capaci di stringersi “a coorte” e immaginare almeno l’aura del fantasma di una “opera comune”, spalleggiandosi l’un l’altro, come accade in ogni lobby degna di rispetto”.

[2] Cfr. https://moltinpoesia.blogspot.com/2024/06/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano.html

Lavorando a “Nei dintorni di Franco Fortini”

 

di Ennio Abate

Su Disobbedienze

E ora – con uno schematico elenco – direi che per me Fortini disobbediva:
– al gergo, al cosiddetto «politichese» o «sinistrese»;
– alle burocrazie di partito con la loro «boria degli «eredi» e dei «saputi»»(24, I);
– al marxismo «di uso corrente», che, almeno da dopo Lenin, non ha saputo parlare più «del valore che si sposa alla disperazione (la solidarietà, il coraggio, la lealtà, l’amicizia, l’amore» (28, I);
– alla cancellazione della memoria e al sogno/utopia di abolirla (37, I);
– allo stacco fra parole e azioni; e quindi alla «riduzione a «cultura» delle opere, cioè, a erudizione, a nozione, a sapere slegato dai bisogni sentiti oinespressi o mal espressi.(«Da noi… puoi dire quasi tutto ma non puoi fare nulla senza l’immediato intervento del nemico», 39, I);
– a un «modo astratto e dottrinario» o, per contrasto, leggero e disincantato di guardare il mondo e gli orrori della storia;
– all’estetismo, che giudica bello anche «il falso», mentre per Fortini «non è possibile un «bellissimo» che sia falso» (49, I), essendo la bellezza per lui un valore, «non […] una decorazione, una gala, un vestito della festa, una consolazione» e,perciò, non slegata dal fare, dalla politica, essendo «ogni opera di poesia è una proposta politica perché ogni poesia è una notizia sui modi di essere degli uomini» (50, I), mentrearte e poesia sonosoltanto casi particolari della «più generale capacità formativa e formale» degli uomini; – alla visione illuministica dell’uomo tutto Ragione; e, quindi, alla riduzione della religione a «misticismo e irrazionalità» (48, I), del marxismo a giacobinismo, del comunismo ad antifascismo (49, I);
– a chi vuole «vivere di analisi già fatte, di sintesi che invecchiano»;
– alla faciloneria con cui si affronta di solito il rapporto vecchio/nuovo o «il mai concludibile discorso sul rapporto fra azione politica e azione intellettuale e morale» (90, I);
– alla tradizione ebraica paterna, per cui scelse posizioni sempre nettamente critiche nei confronti della politica di Israele verso palestinesi e arabi. ( Cfr. Cani del Sinai, ma anche Un luogo sacro in Extrema ratio, Garzanti 1990).
Potrei riassumersi così la sua posizione: Dire tutto il dicibile e tentare, il più possibile, di scavare nell’indicibile.


Sui futuristi

3. Essendo prevalsa con la Prima Guerra Modiae la faccia distruttrice e dominatrice del Capitale, quella esaltata dai futuristi italiani e marinettiani, e avendo visto che anche quella dei futuristi russi o di Gramsci fu proletaria e socialista solo nella Russia di Lenin del 1917 e davvero per poco tempo, si possono alimentare, a Novecento concluso, ancora speranze su una modernizzazione «buona» o «dal basso» (o pensare a dei futurismi buoni e dal basso), tipo quelle diffuse tra i primi gruppi operai torinesi raccolti attorno a «l’Ordine nuovo» di Gramsci?
Direi di no. Ed ecco perché tra un Sanguineti, che si attesta sul giovane Gramsci «movimentista» o sul Majakovskij antimperialista o sull’anarchismo Dada e un Fortini che tiene conto del Lukács de «La distruzione della ragione» mi pare più attuale e interessante il giudizio radicalmente negativo che Fortini dà non solo del futurismo italiano ma di tutte le avanguardie del primo Novecento (l’espressionismo, il futurismo russo, il surrealismo), perché indica il limite nichilista di fondo di tutti questi movimenti in cui almeno una parte della piccola borghesia intellettuale ,anche quando non fa la scelta bellicista e poi fascista dei futuristi italiani, con la sua esaltazione acritica e neutra del “nuovo” a tutti i costi si brucia o confluisce nella incessante “rivoluzione capitalistica”.
Fortini, infatti, coglie i gravi equivoci in cui incapparono sia l’avanguardia russa che i surrealisti, quando ebbero legami «molto complessi e talvolta tragici e sanguinosi» con anche con la rivoluzione socialista.
Majakovskij e l’avanguardia russa degli anni Venti, Brecht e una parte degli scrittori tedeschi dell’età di Weimar, i surrealisti francesi fra il 1925 e il 1935 e pure la neoavanguardia italiana degli anni ‘60 del Novecento «dimostrano che l’arte e la letteratura d’avanguardia esistono solo in quanto antagoniste di qualsiasi ordine» ma si ritrovano poi spiazzati o inerti quando o il fascismo o lo stalinismo o il neocapitalismo impongono loro il “ritorno all’ordine”.

Su “Il professore come intellettuale” (1998)

RIORDINADIARIO 1999. Stralci da una lettera a Romano Luperini

di Ennio Abate

Il 24 gennaio 1999 scrissi una lunga lettera a Romano Luperini sul suo libro Il professore come intellettuale. In essa mettevo in evidenza il processo di scollamento tra intellettuali universitari e intellettuali massa. Gli rimproveravo di accogliere “il processo “riformatore” di Luigi Berlinguer guardando le cose della scuola dal punto di vista degli appartenenti a una “corporazione buona”. Dicevo che: “i “nuovi” progetti e i “grandiosi” problemi “epocali” trattati da Ministro, Saggi, Esperti, ecc. si [andavano] ancora una volta scaricando sulle spalle di insegnanti e studenti costretti a marciare a testa bassa, ingolfati in assillanti “vecchi” e “nuovi” problemi quotidiani”. Notavo che, mentre Fortini aveva suggerito “una energica riduzione dell’insegnamento delle patrie lettere” e scriveva: “ Non so che cosa si aspetti a farla finita, ma sul serio, con Dante […] il silenzio e ‘ignoranza vera sono sempre preferibili alla pratica corrente del “tutto e male”, ossia dell’ignoranza falsa” (Insistenze, pag. 114) e Remo Ceserani e Lidia De Federicis aveva lanciato sul mercato Il Materiale e l’immaginario, anche lui, Luperini, pur con altro taglio, pubblicava un manuale La scrittura e l’interpretazione di dimensioni altrettanto gigantesche. Riletta oggi, di fronte al disastro della scuola italiana, mi sento di difendere ancora la mia inquietudine di allora niente affatto settaria (ma soltanto solitaria). Ne pubblico oggi alcuni stralci.

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Su una lettera del 1992 di Attilio Mangano

di Ennio Abate

Voglio commentare questo passo della lettera di Attilio Mangano a Giuseppe Muraca del
1 ottobre 1992 traendola dal carteggio pubblicato qui:

«Potrei definirmi un fortiniano come te e Ennio, ho avuto anche io un culto particolare per la sua lezione, solo che – come forse ti ho spiegato, ho costruito degli anticorpi precisi: in primo luogo, anche se questo può presentare aspetti nevrotici e mitici da criticare, io ho separato il mio culto per il suo scritto dalla persona, mi sono attentamente rifiutato di conoscere il mio legame “segreto” e per il resto sapevo che il personaggio era così difficile e spigoloso, permaloso e impossibile, da preferire non incontrarlo e non incazzarmici. Certo, è come se uno avesse amato in segreto una donna senza mai dirglielo e capisco le obiezioni e le ironie legittime su tutto ciò. Ma in fin dei conti tutto ciò mi ha “salvato” da crisi e delusioni particolari perché ha consentito un doppio legame; di amore e di distanza critica. Io non ho mai accettato in toto il suo discorso, tanto meno il suo rapporto come dire lukacsiano sulla grande letteratura e la sua distanza dalle avanguardie, sono sempre stato schierato con gli avanguardismi, adoro il surrealismo e la sua storia cultural-politica, prediligo le minoranze. La mia critica della modernità, pur non condividendo l’impianto del pensiero debole e del post-moderno, recupera le culture pre-moderne eretiche e perdenti, il nomadismo delle culture disperse, sono dunque per una specie di koinè, per il melting pot delle culture, le differenze, gli zingari, gli ebrei, le streghe. E pertanto la classicità statuaria che Fortini costruisce e il fatto di cogliervi dentro e sotto un marxismo tutto speciale non mi sta bene, etc. etc. Da questo punto di vista vorrei dire senza cattiveria alcuna che la scoperta di Ennio del suo meridionalismo, marginalismo etc. era ora che venisse fuori, anche se certo tutto ciò è debole e contraddittorio e potrebbe essere facilmente stroncato dal super-padre. Il marxismo della triade Fortini-Asor Rosa-Luperini non mi convince più e non mi seduce in nessuna delle tre diverse varianti ma qui il discorso si complica perché la mia stessa evoluzione è in corso e non so definirla del tutto, sai comunque che questa scelta dell’immaginario comporta rotture con il marxismo e che in fin dei conti tutti e tre i citati con motivi diversi finiscono per escluderla o farla rientrare nel rivoluzionarismo piccolo-borghese, nel neo decadentismo o altro. A me sembra infine che pur essendo padri putativi della nuova sinistra i Fortini come anche i Luperini non si siano mai misurati con alcuni aspetti fondanti della “cultura del ‘68”, con l’intreccio di culture di massa, controculture, pratiche della soggettività che agiscono nell’immaginario del movimento; a suo tempo almeno Leonetti con “Che fare” apriva ai beats e all’antipsichiatria (ma anche Stalin.., non dimentichiamolo). Per me la differenza rimane questa: che tra “Alfabeta” e “Indice”, pur non condividendo nessuno dei due, trovavo il primo pieno di stimoli e di suggestioni e comunque disposto a traversare il post-moderno, il secondo noiosissimo e snob nel senso del gruppo torinese.»

Non saprei se ero o sono stato fortiniano. Forse lo sono stato ma non in senso stretto: da discepolo che ha avuto il privilegio (e l’onere) di una frequentazione assidua e di un dialogo non occasionale con lui. Sono rimasto “nei dintorni di FF”, che è il titolo indicativo del libro che dovrei pubblicare. E per tante ragioni, su cui ora non mi soffermo. Ma la definizione che di lui ho spesso dato di “maestro a distanza” in parte si avvicina all’atteggiamento (edipico?) che qui Attilio dichiarava nei confronti di Fortini. Per cui sentiva il bisogno di costruirsi «degli anticorpi precisi» per tenere a bada gli «aspetti nevrotici e mitici» che la figura paterna e “resistenziale” di Fortini gli suscitava. Credo sia un atteggiamento “generazionale” di tanti altri, allora giovani.

A differenza di Attilio, però, pur avendo avuto notizie che «il personaggio «[fosse] così difficile e spigoloso, permaloso e impossibile», io lo avvicinai e lo frequentai nell’ultimo decennio della sua vita. Sia pur saltuariamente; e sempre subordinando il legame personale ad occasioni e ragioni di carattere politico-culturale. E gestendomi – come ho raccontato in «Un “filo” tra Milano e Cologno Monzese» (qui) – i momenti di cordialità e collaborazione e quelli di incomprensione o delusione.

Perché, invece, Attilio preferì non incontrarlo per non “incazzarsi” (o urtarsi) con lui e amarlo «in segreto senza mai dirglielo»? C’è davvero da credergli quando diceva che «in fin dei conti tutto ciò mi ha “salvato” da crisi e delusioni particolari perché ha consentito un doppio legame; di amore e di distanza critica»?
Non saprei rispondere con sicurezza a queste domande che riguardano i suoi sentimenti più intimi con la figura pubblica  e l’immagine che aveva di Fortini.
Mi pare, però,
che una ragione ben più evidente della sua “preferenza” la indicava lui stesso svelando il suo dissenso con il tipo di cultura marxista e comunista di Fortini («non ho mai accettato in toto il suo discorso, tanto meno il suo rapporto come dire lukacsiano sulla grande letteratura e la sua distanza dalle avanguardie, sono sempre stato schierato con gli avanguardismi, adoro il surrealismo e la sua storia cultural-politica, prediligo le minoranze») e il fascino che ebbero su di lui le culture pre-moderne,e perdenti, il nomadismo, il melting pot delle culture.
Si era nel 1992 e Attilio sapeva, anche se lo diceva in una lettera privata all’amico Muraca, che la scelta fatta agli inizi degli anni Ottanta assieme al suo maestro Stefano Merli di apertura e avvicinamento al PSI craxiano (qui)  e l’indirizzo della sua ricerca andavano in altra direzione rispetto a quella di Fortini («questa scelta dell’immaginario comporta rotture con il marxismo»). E anche alle mie posizioni. Come avemmo modo di dirci nella nostra corrispondenza (qui) e nel confronto sugli avvenimenti, pur mantenendo un legame “fraterno”(in quegli anni insegnavamo nella stessa scuola e tentammo in vari modi di mantenere aperta una qualche collaborazione tra noi).
Non sapevo, invece, di questa opinione/interpretazione di Attilio sul mio legame con il Sud: «la scoperta di Ennio del suo meridionalismo, marginalismo etc. era ora che venisse fuori, anche se certo tutto ciò è debole e contraddittorio e potrebbe essere facilmente stroncato dal super-padre». Ma ancora mi colpisce quel suo timore di una possibile stroncatura dal super-padre.
Che dire oggi?
Concluderei con quanto ho di recente scritto ad un altro amico su queti stessi argomenti:

«Delusioni e ferite ne abbiamo tutti e si può soltanto rielaborarle nel tempo – pensandoci o scrivendone o parlandone – in una sorta di corpo a corpo emotivo-intellettuale con i nostri fantasmi (paterni, in questo caso). Ma in fondo, con e malgrado Fortini, il nostro percorso l’abbiamo fatto.
Aggiungerei un’altra cosa: accanto agli aspetti psicologici, che non ho mai sottovaluto (e ho ritrovato con particolare intensità nei rapporti di Fortini con Fachinelli e con Ranchetti, su cui mi sono più documentato), mi chiedo spesso quanto abbiano pesato – e non in modi meccanici – le differenze di status tra un intellettuale tutto sommato tradizionale come Fortini e degli intellettuali di massa come Mangano o te o me (vedi alcuni accenni in Il professor FF 3). E quanto ancora più il venir meno della prospettiva del comunismo, entro la quale era cresciuta la mia attenzione nei confronti di Fortini, Luperini, Cataldi, etc.».

Esame di realtà


NE’ CON NETANYAHU NE’ CON HAMAS
di Ennio Abate
«Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi»

                                                         (B. Brecht, Cinque difficoltà per chi scrive la verità)
Il problema è che nessuno di quanti oggi si pronunciano sul conflitto in corso da tempo in Medio Oriente – e lo può fare, come noi, soltanto usando parole  che arrivano al massimo a cerchie ristrette di persone – è in grado di fermare i contendenti. Né esiste una forza politica capace di prospettare una soluzione politica “equa” (e cioè che escluda l’eliminazione o la sottomissione di Israele o quella dei palestinesi).
Bisognerebbe costruirla (o ricostruirla).

Anche se fosse mosso dalle migliori intenzioni (dire la “verità”, aiutare le vittime, combattere le ingiustizie, arrivare alla pace o ad una “soluzione”), non contribuisce a questo compito chi:
– si schiera apertamente con l’uno o l’altro dei contendenti e riecheggia le loro propagande senza controllarle;
– tratta tutte le posizioni non schierate come se invece lo fossero;
– occulta o semplifica la complessità dei problemi.