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Vogliamo dircelo?

commento a un post su FB di Lea Melandri

di Ennio Abate

Non sono mai riuscito a condividere la cancellazione del Marx “vecchio” a favore del Marx “giovane”, quello che secondo Lea Melandri «non sembrava ancora Marx». (E potrei aggiungere – anche se il discorso per vastità si complicherebbe troppo – la cancellazione della «Dialettica dell’illuminismo» a favore dell’illuminismo. O del Freud “vecchio” di eros e thanatos dal Freud “giovane”. O del Fortini di «Il dissenso e l’autorità» a favore del Fachinelli del «desiderio dissidente». O del ’68 con il suo strascico militante e anche sanguinoso degli anni ’70 fino all’uccisione di Moro a favore del ’68 “innocente”). E non perché preferisca il “vecchio” al “giovane”, la scienza (dentro il Capitale) all’utopia. Ma perché non si deve nascondere un fatto incontrovertibile: che nel corso dei decenni successivi i «“limiti” e le inadeguatezze della politica tradizionalmente intesa» sono cresciuti. E che dopo quel “movimento-lampo” del ’68 di lampi non ce ne sono stati più e anzi siamo in tempi bui. Certo, allora «si è cominciato a ragionare e a prospettare cambiamenti su quell’area di esperienze, individuali e collettive, che è stata considerata “non politica”», ma vogliamo dircelo che non si è andati oltre l’inizio, il balbettio, l’urlo? E che la sinistra è scomparsa non perché sia rimasta ancorata al Marx “vecchio” ma perché ha scaricato il Marx “vecchio” e quello “giovane” consegnandosi al pensiero (heideggeriano) di destra o alle sue varianti (“There is no alternative”)?
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Questo il post di Lea Melandri:

I “Fantasmi” di Marx

Nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, gli scritti giovanili dove Marx non sembrava ancora Marx, compariva a margine della critica dell’economia politica un interrogativo radicale, indicato come l’ “enigma della storia”: che cosa spinge “originariamente” l’uomo a quel “sacrificio di sé” che è la consegna del proprio lavoro, e del prodotto del medesimo, nelle mani di un altro uomo che se ne fa in questo modo “proprietario”.

Questa domanda richiamava per me l’altra, non meno essenziale, posta da Freud come “enigma del sesso”: il sacrificio di sé che viene chiesto alla donna -espresso indirettamente nel “rifiuto del femminile”- affinché da forza attiva e centrale nel processo generativo si trasformi in “tramite” o mediazione ad una discendenza solo maschile, di padre in figlio.

Mi piaceva anche nei “Manoscritti” che si parlasse di “ritorno all’ umano”, inteso come “totalità di manifestazioni di vita umana”, quella “autorealizzazione” da parte dell’uomo che il ’68 ha creduto di prefigurare nella “tensione utopica” che permette di vedere il possibile “attualmente impossibile”, e che a Franco Fortini sembrava invece un “benefico sovrappiù”, conseguente “solo” alla trasformazione del mondo, cioè alla rivoluzione.

L’uscita dalla dimensione essenzialmente “privata” della vita mi è stata possibile quando, per l’improvviso capovolgimento di gerarchie date come “naturali”, immodificabili, si è cominciato a ragionare e a prospettare cambiamenti su quell’area di esperienze, individuali e collettive, che è stata considerata “non politica” – e di conseguenza sui “limiti” e le inadeguatezze della politica tradizionalmente intesa: un’area vastissima, estesa quanto il tempo che occupano vicende cruciali dell’essere umano, come la nascita, la morte, l’invecchiamento, il gioco, l’amore, la memoria, sulle quali si possono vedere i segni di una “disumanizzazione “ non meno violenta di quella che agisce nello sfruttamento economico.

E’ l’area che la sinistra ha sempre considerato genericamente “improduttiva”, popolata da “fantasmi” che stanno, dice Marx, “fuori dal regno della produzione”, soggetti variabili –diversamente dall’operaio, soggetto per eccellenza, che resta fisso anche quando è in via di sparizione: studenti, pensionati, disoccupati, ecc.; variabili anche nel posto che occupano nell’elencazione, come capita per le donne, sempre difficili da “collocare”.

Oggi questi orfani della politica, assegnati in epoche di gloriose lotte operaie al “territorio” circostante la fabbrica, assomigliano sempre più ai “fantasmi” descritti da Marx: “i furfanti, gli scrocconi, i mendicanti, i disoccupati, l’uomo da lavoro affamato, miserabile e delinquente”, una parte considerevole di umanità che esiste solo “per gli occhi del medico, del giudice, del poliziotto”. 

 

Ronn’Enze Qu

Narratorio. Da “A vocazzione”

di Ennio Abate

Ogni tanto ronn’Enze Qu viene in mezzo a noi ragazzi. Ma per poco tempo. Ha sempre da fare. Va di qua, va di là, riceve gente in sacrestia, dà ordini al sacrestano, scompare per ore. Chiero lo osservò intimidito e sospettoso. Era il primo prete che conosceva. Basso di statura. Robusto. La testa squadrata e volitiva. La barba spesso non rasata per qualche giorno. Con peli corti e fitti. Pure questo notavi? Pure questo. Mìneche si rasava. Così pure Zì Vicienze e i parenti.  Non c’erano maschi con la barba tra quelli che conobbe. E la voce di ronn’Enze Qu? Baritonale, da comandante, priva di affetto,  burbera. Sì, burbera va bene. Anche gli altri adulti  – Mìneche per primo – avevano voci aspre. Lo scuotevano. Appena aprivano bocca e se parlavano di lui sentiva una loro superiorità ostile.  E a volte lo schernivano con inconsapevole cattiveria. Per la sua magrezza (“me pare nu stuzzicarienti”). Per le grandi orecchie (“ecché so chelle e Dumbo!”). Per la timidezza (“sempe attaccate a gunnelle e mammeta!”). Perché silenzioso (“ma nun parle mai?). Continua la lettura di Ronn’Enze Qu

L’umiliazione

Da A vocazzione, capitolo: Mazz’e panelle. La scuola dei signori

di Ennio Abate

Cumme succerette na vote, sotte Natale, quande iette a parlà, assieme a u guaglione, cu nu miezze cunuscente, nu certe Zarbutte, ca faceve o preside e scola medie.  Iette pe se fa cunsiglià si aveva ‘scriver’ o no o figlie rint’a scola medie e Piazze re sciuri. Ca  a gente riceve ca o palazze ere viecchie, ngere stata a guerre, ere lesionate ra e bombe e puteve caré. E  sapite che  succerette? (Ca o guaglione, ca ere jute cu Nannnìne, so ricurdaie pe tutta a vite). Succerett’e ca doppe ca isse e Nannine avevene aspettate dint’o salotte pe nu belle poche e  doppe ca Nannine aveve parlate cu stu preside Zarbutte, ca ng’aveve ritte sì, sì, nun ve preoccupate, e se ne stevene pe ascì, trasette tutt’agitate a cammeriera e chistu signurone. Ricenne ca  a signora – a mugliera – nun truvave chiù l’orologie  – nun saccie si  r’ore o r’argient’e –  e ca nun se ricurdave chiù addò l’aveve lasciate. E allore, sapite che facette stu strunze e preside? Vulette ca Nannine arapresse a bursette ca teneve mmane pe veré sì –  pe case! – se foss’arrubate l’orologie ammente ca aspettavene rinte ao salotte ra sule mamme e figlie primme ca isse arrivave. Quann’ascett’ere ra chella case, a mamme steve quase pe chiagne. Continua la lettura di L’umiliazione

Sul libro di Andrea Graziosi

L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia

di Ennio Abate

So che la guerra in Ucraina a quasi  dieci mesi dal suo inizio (24 febbraio 2022) è allo stallo ma continua  a produrre morti e distruzione –  un temporale sul quale incombe il fantasma di un nube apocalittica. So pure che gli schieramenti contrapposti nel dibattito dei primi giorni di guerra si sono stancamente cristallizzati e vengono ripetute  le stesse accuse o gli stessi argomenti. Per lo più propagandismo piatto.  Mi sono, perciò, imposto di seguire da lontano e in silenzio i commenti o gli articoli che sull’argomento riesco a captare. Ma il libro dello storico Andrea Graziosi, segnalatomi da un amico, per scrupolo ho voluto leggerlo e commentarlo. Malgrado avessi letto con sospetto l’elogio che ne ha fatto l’”interventista” Adriano Sofri sulla sua pagina FB. Forse – mi sono detto – offre dati o argomenti che ignoro. O che potrebbero farmi rivedere o correggere la posizione che ho preso  allo scoppio della guerra e nelle riflessioni immediatamente successive (ad. es. qui e qui). Continua la lettura di Sul libro di Andrea Graziosi

Molti (non “tutti”) scrivono, ma perché?

Due domande ad Adriano Barra

 

a cura di Ennio Abate

Riporto da FB spunto e primi commenti per una riflessione sulle cosiddette “scritture di massa” (o poliscritture?). 
o

Adriano Barra
Per una – un po’ inquietante, va detto – tendenza alla semplificazione, io, fra i miei rari amici amici elettronici, passo ormai per quello che sostiene che la letteratura è morta. A forza di sentirmelo dire, ho finito per pensare che devo spiegarmi meglio: urge una correzione, ecco. Dunque, quello che penso io non è che la letteratura è morta, ma semmai che è troppo viva, cioè che ce n’è troppa. Tutti scrivono, e, soprattutto, tutti pubblicano, E poi ne parlano, e poi commentano, e poi si lodano, e poi si imbrodano, e poi se ne hanno a male, se qualcuno dice che non gli piace. È un putiferio, un bailamme, un casino infernale. Così, alla fine, viene solo voglia di fare come i giocatori della nazionale tedesca di calcio – vedi foto -, viene voglia di tapparsi la bocca. I giocatori della nazionale tedesca di calcio dicono che l’hanno fatto per protestare contro l’omofobia del paese che ospita i mondiali. Mah. Quando uno sta zitto corre sempre il rischio di essere equivocato. Ma, visto che si è equivocati anche quando si parla, allora meglio risparmiare il fiato. Meglio tacere. Meglio ascoltare, anzi, forse, nemmeno quello. C’è anche da dire che i tedeschi, poi, hanno perso. Ma forse, anche in questo caso, è meglio così: meglio perdere.

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Sulla guerra in Ucraina. Rileggere, rileggersi (1)

Riordinadiario del 4 aprile 2022

di Ennio Abate

Senza un ordine preciso rileggerò e selezionerò le cose scritte da vari autori (quasi tutti incrociati su FB) sulla guerra in Ucraina dal momento del suo scoppio (la mia prima reazione del 23 febbraio 2022 qui). Questo è il primo appunto. Continua la lettura di Sulla guerra in Ucraina. Rileggere, rileggersi (1)

Contro il culto del “Divino Proust”

DA UNA VECCHIA DISCUSSIONE [*] SU POLISCRITTURE
A PROPOSITO DELLA LEZIONE DI PROUST

di Ennio Abate

Dedico questo vecchio pezzo del 2015 – per contrasto – ai fanatici del “Divino Proust” che hanno ammorbato la giornata – ieri 18 novembre – del centenario della sua morte.

So di annoiare tirando in ballo sempre Fortini ( e qualcuno me lo continua a  rimproverare…), ma devo riconoscere onestamente che è ancora da due suoi scritti – «Alla ricerca del tempo perduto» ( in «Ventiquattro voci per un dizionario di lettere», Il saggiatore, Milano 1968); «Il controllo dell’oblio» (in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985) – che ho potuto da una parte riordinare le mie confuse impressioni di “provinciale” della lettura giovanile che feci subito dopo il liceo di quasi tutta la «Ricerca»; e dall’altra cogliere le implicazioni problematiche e attualissime – tra il personale e il politico, tra l’io e l’io-noi – della distinzione tra memoria volontaria («ricordo» dice, consapevolmente semplificando, Fortini) e memoria involontaria.
Cosa poteva ricavare il ventenne provinciale che fui a SA agli inizi dei Sessanta dai volumi della «Ricerca» che comprava man mano che uscivano nella Mondadori economica (quella con la costa in tela rossa)? Suggestioni, solo suggestioni. Quella evocazione era grandiosa e coinvolgente, ma riguardava un mondo borghese-aristocratico per lui inarrivabile e ignoto, fatto di personaggi raffinati, spudorati e coltissimi e di modi di sentire e pensare e colloquiare che lo stupivano e forse lo scandalizzavano (data l’educazione cattolica ricevuta).
E però anche un esempio (e forse un modello) di dedizione eroica e caparbia allo scavo nella memoria personale, che incoraggiò una sua predisposizione – allora spontanea e acritica – alla medesima operazione. Perché aveva già avviato per conto suo e in segreto (sotto lo stimolo della passione per la letteratura, ma anche per lo stacco subìto dal mondo paesano dell’infanzia con il trasferimento in città e una scolarizzazione penosa che chiedeva risarcimenti..) una raccolta di ricordi, appunti, esplorazioni riguardanti quel suo pezzo di esperienza campagnola, che, scrivendone, si colorava di mito. E che poi è continuata e continua ma in condizioni diverse, precarie e tra mille interruzioni (di cui tra l’altro nei suoi scritti Fortini spiega le radici materiali e storiche) .
Fortini (nei due brani citati, ma soprattutto nel secondo), mi ha fatto capire meglio la complessità letteraria del lavoro di Proust (il suo legame con «due fonti di tradizione francese: – la prima che va da Montaigne a Laclos, a Bergson,[…]); – la seconda «della memorialistica e saggistica di costume, di Saint-Simon come di tanti autori del Seicento e del Settecento, presente anche nella «Commedia» balzacchiana») e il suo intento “enciclopedico” («”Romanzo annegato in un trattato”, è stato detto: ed infatti allo sforzo continuo di dedurre leggi generali dalle osservazioni particolari si aggiungono innumerevoli paragrafi su argomenti specifici, dall’araldica alla linguistica, dalla recitazione teatrale all’arte militare. Ma soprattutto la “Ricerca” contiene una estetica, una morale e una fenomenologia della conoscenza; per non dire una storia di buona parte della letteratura francese, una somma di giudizi su molti autori stranieri, osservazioni penetranti sull’arte del medioevo gotico, del rinascimento italiano ,della pittura olandese e dell’impressionismo francese. Proust vi ha gettato tutto il suo bagaglio di conoscenze, per farne un “tesoro”, nel senso medievale della parola»).
Ma è sul contrasto tra memoria volontaria e involontaria che Fortini diceva (negli anni Ottanta!) qualcosa degna di discussione, perché misura tutta la distanza nostra da Proust e contestualizza *politicamente* la questione della memoria volontaria e involontaria, riportandola ai nodi irrisolti della nostra esistenza individuale e politica tuttora irrisolti. Riporto perciò un lungo brano dal secondo scritto:

È risaputo che dopo i primi vent’anni del nostro secolo l’opera di Proust propose ai propri lettori una pratica di ascesi, di conoscenza e di redenzione fondata sul recupero di particolari esperienze trascorse. «Le verità che l’intelligenza afferra direttamente nel mondo della piena luce hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quel che la vita ci ha comunicato nostro malgrado in una impressione; che è materiale perché ne siamo stati penetrati per la via dei sensi ma della quale noi possiamo *dégager l’esprit*, liberare, e svolgere, l’essenza spirituale».
Nulla di troppo nuovo, in questa proposta; analoghe discipline sappiamo essere state sempre vigenti in società o gruppi umani di forte vita religiosa; dove si è sempre insegnato come disporsi a ricevere la Grazia o a salire i gradini dell’estasi. La novità era semmai questa: Proust constatava che il recupero salvifico era possibile solo convertendo l’esperienza «richiamata» dalla memoria in un equivalente spirituale che definiva «opera d’arte». Vedremo che questa, a prima vista bizzarra pretesa di trasformare tutti gli uomini in artisti, può aiutare a chiarire alcuni aspetti della nostra realtà contemporanea.
Proust distingue fra una memoria volontaria, che egli tende a vedere come già formulata in pensiero verbale (e che, per semplificare, possiamo chiamare «ricordo») e una involontaria, che ci riporta invece una totalità di esperienze, concentrate in un punto del tempo che è passato e che torna presente. Decostruire le totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ripropone, per crearne un equivalente metaforico: questo ne consente la riappropriazione e in tale riappropriazione è la sola nostra possibile compiutezza umana.
Per quanto questo itinerario si proponesse a tutti in realtà esso opponeva ancora una volta – in analogia con numerose formulazioni elitarie apparse fin dall’alta età del romanticismo tedesco – una capacità di separazione dal volgare «ricordo» che è di tutti, non senza colpire le pretese della storiografia positivista, con la sua sottintesa o esplicita nozione di tempo quale continuità o flusso senza cesure. Ebbene, quel che qui posso enunciare solo in modo assertivo, e non dimostrare, è che il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi della emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo».
Invece di ricordare, si gestiscono episodi di memoria involontana preconsci o subliminali (come li chiamava Joyce; che parlava anche di «epifanìe»). Essi vengono così adibiti ai piccoli cerimoniali dell’angoscia e della privata superstizione, a delizie coatte, a forme degradate di mistica. Brodo di coltura delle nevrosi, consolazioni di melodie private.
Lo sviluppo contemporaneo non si è davvero limitato ad attrezzare un diverso paesaggio (come, un po’ ingenuamente, avevano previsto i futuristi) e neanche a diminuire (come avevano voluto i surrealisti) la distanza fra universo della coscienza e zone del preconscio. Con tutto questo si restava ancora sulla solida, diurna terra; e i «viaggi» delle esperienze erotiche, oniriche o mistiche, con o senza l’aiuto di droghe, avrebbero continuato a essere forniti di biglietto di ritorno. Si era ancora ben lontani da quella giustapposizione schizoide fra universo del «ricordo» (ossia della razionalità e della prestazione) e universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno). O, per meglio dire, tale giustapposizione, sempre presente, non era diventata, come oggi è, costitutiva della società e istituzionalmente intrattenuta e sfruttata.
È quasi inutile rammentare che questo processo – altra volta ebbi a chiamarlo «surrealismo di massa» – ha una sua sorgente nei modo produzione della fabbrica moderna (si vedano e pagine di Braverman) che le successive «generazioni» elettroniche stanno bensì alterando ma forse non diminuendo; anzi aggravando. Non sarà (già non è) più la ripetitività del lavoro al pezzo a indurre lo stato di diminuita lucidità e l’emersione di episodi di memoria involontaria di cui hanno scritto non pochi psicologi della vita di fabbrica; ma semmai la sempre più irrecuperabile distanza tra l’operatore e l’esito degli automatismi, con la scomparsa – al limite – di ogni «materialità» ossia di ogni esperienza sensibile insieme ad ogni vera attività intellettuale.
Ridicolo pensare di sfuggirvi passando dal tempo coatto, iscritto in un fatale «software» (sequenze audiovisive o della pubblicità o dei pubblici trasporti o dell’auto) a quello privato della contemplazione o della meditazione. È proprio quest’ultimo ad essere definitivamente imbevuto dai «tempi» forniti dalla fabbrica, dal mercato e dalle fabbriche di consenso. Qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata? Quale la capacità di attenzione sostenuta? Non paradossalmente, quanto più si rinuncia a «ricordare» ossia a formulare verbalmente la storia che conosciamo, di noi e degli altri, tanto più la congerie dei frammenti memoriali emergenti da esperienze scomparse diventa medium delle nostre giornate, un glutine attraversato da pulsazioni e da soprassalti. Quando ci illudessimo di poterne elaborare un frammento, interrogarlo (come Proust ha fatto) fino in fondo, ci dovremmo accorgere che il tempo di contemplazione di cui si dispone si esaurisce rapidamente, come in certe affollate esposizioni o nei dibattiti televisivi dove, ben presto, «il tempo sta per scadere». Nella cella dove credevamo, attardati seguaci di Teresa di Avila e di Marcel Proust, di poter conversare con le intatte vergini della memoria profonda o involontaria, appaiono invece le oscene meretrici mondane che ossessionarono gli antichi monaci penitenti. E la maggioranza dei nostri pari ci grida che va bene così. Per di più, tutto questo, oggi e nel nostro paese, appare non come un processo in corso ma come alcunché di stabile e di solido e di cui ormai nessuno più si accorge. Questa è la «modernizzazione», lungo più di un secolo auspicata da intellettuali e politici. Penso all’ultimo Vittorini, ai suoi scritti sulle *Due tensioni,* di recente ristampati; e a come si fosse sbagliato. Penso ai politici, all’arco amplissimo che va dagli uomini della destra tecnologica e laica a quelli della sinistra operaista: oggi sposi.
Quei desideri sono adempiuti. L’Italia è un paese «moderno» con qualche trascurabile ritardo. Se fra il grado di informazione dei gruppi dirigenti e quello delle masse dirette ci sono ancora delle «discrasìe», come non senza eleganza ha detto giorni fa uno specialista in «ricordi» cioè uno storico (Paolo Spriano), discorrendo delle vicende del suo partito; se cioè i meno hanno sistematicamente mentito ai più per vent’anni, nulla di male; un po’ di pazienza e il progresso (o un congresso) metterà tutto a posto.
Le conseguenze di tutto questo non però sono state quelle che erano temute dai deprecatori del tecnologismo e dai nostalgici dell’umanesimo; e neanche quelle auspicate dagli apologeti della «rnodernizzazione» che ho sopra nominati. O meglio: si sono avute queste e quelle ma le une e le altre sono state, e di molto, oltrepassate dalle conseguenze della situazione economica e, ancor più, di quella politica. Con brutalità, gli anni del «miracolo» avevano «modernizzata» tanta parte della penisola; quelli della fine del decennio Sessanta avevano, con altretanta brutalità, alterato gli equilibri fra società e ceto politico.
Con l’inflazione, vale a dire con l’impossibilità di risparmio equivalente a impossibilità di «ricordo» e di «previsione», con la disoccupazione e la sottoccupazione e, finalmente, con la liquidazione d’ogni possibile prospettiva politica, l’ultimo decennio ha avuto bisogno di produrre una gran e quantità di tranquillanti e di analgesici che abbassassero la soglia della coscienza; l’oblio omerico, quello che toglie ogni ricordo della patria e ogni nostalgia è diventato un bisogno collettivo. Alla lettera, non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo. Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali. Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti.
Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora. Di questa permanente produzione di effimeri psichismi in sospensione aveva già profetizzato e forniti esempi la grande letteratura europea fra il 1915 e il 1935. Quel ventennio aveva così anticipa to modi di esistenza che oggi sono cibo e escremento quotidiano di masse enormi. Di qui si può vedere che il presente ragionamento si ricollega al tema delle adolescenze prolungate e del sarcasmo come cultura del nullismo, dunque, della assenza di «ricordo», e quindi di storia, per chi vuole sapere qualcosa del proprio passato e di quello del proprio padre. Il gesto di chi si droga è simbolico di noi tutti, lo sappiamo da un decennio. Chi vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescenti e di servi) vuole anche che le esperienze della memoria involontaria e le emersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici – siano diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un gas decompresso. L’espropriazione del «ricordo» cioè della tra dizione è il vero esito della colonizzazione; perché di questa, in definitiva, sto parlando. Su questo tema Simone Weil ha scritto parole indelebili.
So bene, così rivendicando ricordo e storia contro l’immagi-aria pienezza della memoria «profonda», di scrivere contro due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin. Manon si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e signori. Non si può, come dice il poeta, nutrirsi dei «sogni giocondi d’error». I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusione provvisoria) vivono quindi nella dimensione degradata, dell’«estetico».
E quando si è afferrati dall’angoscia di morte, entro di noi non sappiamo trovare se non feticci di figurazioni culturali o frustoli di poesia. Il «ricordo» invece, nella sua definitività narrativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano. Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei paradisi e degli inferni solo interiori. Costruisce dure sequenze di una temporalità non individuale. Esige il patto fra persone e generazioni; e la fedeltà al patto.

( da F. Fortini, «Insistenze» pagg. 133-137)

*La discussione si svolse il 24 ottobre 2015 e si legge per intero qui