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Prossime elezioni. Stato d’animo

Il meno peggio in questo contesto non c’è. (Forse non c’è mai stato). Meglio morire avendo almeno una qualche memoria del meglio che in qualche epoca c’è stato (da noi almeno Resistenza e ’68-’69). E fissarlo come si può (come in quei barattoli nascosti nei lager e poi ritrovati da quelli venuti dopo): verità dei vinti, ma irrinunciabile. La schiuma resta schiuma e non va scambiata per gli oceani.

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Enrico Pugliese, La ripresa della ricerca sociale in Italia nel dopoguerra

In «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (5)

di Ennio Abate

Enrico Pugliese ripercorre puntigliosamente la storia contorta e agli inizi stentata degli studi sociologici in Italia nei cosiddetti “trenta gloriosi” che videro una certa «ascesa della classe operaia» (pag. 107); e in vari punti si ricollega al saggio di Mariuccia Salvati, che  in questo stesso volume ha analizzato il resoconto di Montaldi sul 1° Congresso nazionale di Scienze sociali (Milano, 1958).
La ripresa degli studi sociologici si ha nel dopoguerra.  E gli ostacoli maggiori vengono dalla condanna dell’autorevolissimo allora  Benedetto Croce (pag. 123), che definì la sociologia «inferma scienza arbitraria [e] sconclusionata» declassandola ad “americanata”. Ma anche dai  crocio-marxisti: in genere gli intellettuali del PCI. Anch’essi la squalificarono come «scienza padronale» e «strumento di controllo sociale», appellandosi da scolastici alle critiche alla sociologia positivista presenti nei «Quaderni dal carcere» di un Gramsci isolato e pertanto all’oscuro  dei nuovi fermenti della ricerca sociologica a  livello internazionale.
Questo clima plumbeo e conservatore della cultura italiana si prolungò fino almeno alla metà degli anni ’60. E Pugliese fa bene a riportare le accuse  di estremismo e di «scarsa saldezza teorica» lanciate da intellettuali del PCI contro i «Quaderni Rossi» (pag. 125), le dure critiche che accolsero la pubblicazione dell’inchiesta di Gianni Alasia e Danilo Montaldi confluita nel libro «Milano, Corea» (1959) e i tentativi di censura nella stessa Einaudi contro il libro di Goffredo Fofi, «L’immigrazione meridionale a Torino» (1964).
Pochi  sfuggirono al conservatorismo di quei decenni. Pugliese  cita per il Sud il lavoro poetico e letterario di Rocco Scotellaro (pag. 115) che, in rapporto con la ricerca sociale condotta da Manlio Rossi Doria a Portici, nella sua opera incompiuta, «Contadini del Sud», stava tessendo (in sintonia con Montaldi) «dettagliate biografie di personaggi rappresentativi  della società meridionale».  E per il Nord,  oltre alle inchieste sugli immigrati di Alasia e Montaldi e di Goffredo Fofi appena ricordate, l’inizio a Torino da parte di Raniero Panzieri e dei redattori di «Quaderni Rossi» di un discorso sull’«uso socialista dell’inchiesta» in diretto rapporto con le nuove realtà del lavoro operaio. Con le parole di Giovanni Mottura le sue caratteristiche vengono così sintetizzate: – ridimensionamento (non sottovalutazione) delle tecniche (interviste, colloqui); – distinzione (ma non contrapposizione) tra  «il momento della stasi» nella condizione operaia e quello della lotta;  – necessità di un’analisi ininterrotta per cogliere  il continuo mutare delle forme e dei fenomeni specifici dello sviluppo capitalistico; – funzione politica attiva (militante) di chi svolge l’inchiesta e formula le domande  (pag. 128).
Queste esperienze innovative Pugliese le vede proseguire fino agli inizi degli anni Settanta  e confluire nella rivista «Inchiesta»  a cui collaborano giovani ricercatori provenienti dall’ambito sia accademico che sindacale (pag. 126).
Non ci troviamo, però, di fronte ad un loro sviluppo irresistibile e senza contrasti. Nella stessa area dei pionieri degli studi sociologici in Italia l’incerta dialettica tra una sociologia “dall’interno” (inchiesta, con-ricerca), avviata da Panzieri e da Montaldi,   e  una sociologia accademica  finisce in un netta contrapposizione.
I fautori di una sociologia come  “scienza fredda” – i Guiducci , i Pizzorno – puntano  allo «“sdoganamento” della sociologia nella cultura» e a conquistare per essa «la  rispettabilità accademica». Mentre  Montaldi – Panzieri morì presto nel 1964 – ribadisce che il ricercatore  «è innanzitutto un militante» (pag. 131)  e denuncia il «limite di natura politica» , la piega  “riformistica”, che andava prendendo una «sociologia ormai istituzionalizzata» e intenta all’«invenzione di un proletariato sociometrico» (pag. 130).
Questo contrasto segnala, secondo me, una pesantissima e tuttora irrisolta crisi, che viene elusa. Quando in questo suo saggio Enrico Pugliese si rammarica per  per la scarsa attenzione data alla nuova trasformazione in  corso, che per lui  rappresenterebbe una «novità di portata paragonabile a quella dei tempi dei lavori di Montaldi e dell’inchiesta operaia dei “Quaderni Rossi» (pagg. 109-110) e dimostrerebbe l’attualità dei contributi di Montaldi e la necessità di ripensare  quelle sue esperienze, trascura due cose. La prima. Che, come ho già detto (qui), dopo gli anni ’70 (meglio: la sconfitta degli anni ’70) di riprese della pratica dell’inchiesta o della con-ricerca se ne sono viste o se ne vedono poche. La seconda. Che come minimo l’istiuzionalizzazione o accademizzazione della sociologia ha impoverito e marginalizzato le esperienze militanti.  E, perciò, a me pare debole e contraddittorio lo stesso auspicio di Pugliese. Come si fa, infatti, a considerare «ovvio che Montaldi non abbia mai ricercato  né accettato una collocazione accademica» (pag. 132) senza chiedersi il perché di quella sua scelta; e aggiungere, invece, poco dopo che «c’è da chiedersi se per condurre con-ricerca oggi sia indispensabile aderire alle opzioni ideologiche e politiche di Montaldi, alla creazione del gruppo “interno- esterno”, all’intento di realizzare un progetto politico come il suo»?
Ancora oggi quel conflitto tra sociologi accademici e “sociologi”  militanti mi pare indicare un bivio che ha sospinto ricercatori e studiosi in direzioni molto diverse, se non del tutto contrapposte. Ridimensionarlo in modi concilianti, come mi pare faccia Pugliese –  ora  lusingato dal fatto che Pasolini  sottolineò «soprattutto la qualità letteraria» di Montaldi (seguito in questo a ruota da Piergiorgio Bellocchio), ora  affermando che il narratore Montaldi «può essere un grande sociologo e mostrarlo anche attraverso la narrazione» – mi pare una scelta riduttiva.
E del comunista Montaldi che diciamo, che ne facciamo?

Mentre leggo questi nuovi saggi su Danilo Montaldi si rafforza un’obiezione sicuramente antipatica contro un non detto da parte di chi ancora s’occupa di queste esperienze; e che potrei formulare provocatoriamente così: Danilo Montaldi l’avrebbe davvero meritata una bella laurea honoris causa in sociologia (magari dei “marginali”). O nel nuovo settore della storia orale. O – perché no – in letteratura. Ma era un militante, pensava ancora al “comunismo  delle origini” («livornismo»). E però i tempi sono troppo cambiati. Certo, è attuale il sociologo, è attuale il narratore, ma risparmiateci il comunista,  l’ideologo insomma! Lodiamolo, sì, ma prendiamo  – poco, poco, eh! –  le distanze. Forse tornerò su questa mia “impressione”. Nel frattempo  aggiungo qui sotto, in appendice, alcune citazioni. Anch’io ogni tanto faccio il «pescatore di perle». E chi le leggerà  deciderà per conto suo dove vado (o vorrei andare) a parare…

 

Appendice

1.
«Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette. […]. Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo.»

(Da «L’autonomia di classe…innanzitutto!» (16 Maggio 2016) https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/di Sandro Moiso )

2.
«Perché la tentazione che secondo me ha avuto questa generazione di operaisti è quella di diventare semplicemente dei sociologi, e non a caso sono stati prodotti alcuni dei principali sociologi italiani: Massimo Paci, Vittorio Rieser, Giovanni Mottura, abbiamo riempito di illustri baroni e meno baroni l’università italiana, dei sociologi veramente di altissimo livello. Altri però più che sociologi volevano diventare qualcos’altro»

(da Sergio Bologna, «Operaismo e composizione di classe», https://www.infoaut.org/notes/operaismo-e-composizione-di-classe)

 

Stralci dal saggio di Enrico Pugliese

1.

2.

Bruno Cartosio, A Milano. L’incontro con Danilo Montaldi

in «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (4)

Suntino e stralcio  a cura di Ennio Abate

Bruno Cartosio è stato prima lettore di alcuni libri di Montaldi e, più tardi, l’ha conosciuto di persona. Qui, in forma  autobiografica,  narra  di quando lesse «Milano, Corea», tra 1963-1965, studente alla Statale di Milano ai tempi in cui vi insegnavano Dal Pra, Berengo e Gambi. E così scoprì che la metropoli  milanese aveva anche un’altra faccia, quella degli immigrati dalle zone povere d’Italia (pag. 186). Ad «Autobiografie della leggera», pubblicato nel 1961, ci arriva subito dopo, nel 1971.  Dopo essersi recato, nel 1969, negli USA  e essere stato in Canada per due anni come insegnante. Qui si era imbattuto  in «Marty Glabermann, ex operaio, studioso e militante, ex trockista a cui faceva capo un gruppo operaio e intellettuale marxista» (pag. 191), che lo aveva messo al corrente di  un destinatario italiano –  Montaldi, guarda un po’! – a cui spediva la sua/loro rivista «Correspondence».  E Glabermann accompagna a Cremona nel 1974 per conoscere,  con lui e di persona, Danilo Montaldi.  Nella sua testimonianza Cartosio  dice molte altre cose interessanti: – come la sua formazione di studente (allora legato al PCI) e poi di storico  ricevette stimoli e suggestioni dai libri di Montaldi (nel 1965 intervistava “alla Montaldi” alcuni vecchi partigiani); –  come si addentrò nel campo della etnomusicologia assieme a quelli del Nuovo Canzoniere Italiano (Bosio, ecc.) e dell’Istituto Ernesto De Martino (Coggiola, ecc.),  o in quello (nascente) della storia orale (Bermani, Portelli); – come queste esperienze in Italia s’intrecciarono con la rete  della «nuova storia sociale» statunitense: quella operaia di Gutman e quella di Rawick, l’autore di  «Lo schiavo americano dal tramonto all’alba».  C’è un troppo veloce accenno alla polemica, secondo me da scavare, tra il mantovano Bosio e il cremonese Montaldi. E, però, Cartosio riconosce in pieno la funzione di pioniere che Montaldi ebbe in queste vicende: «che la storia collettiva è fatta di storie individuali – non solo dei dirigenti ma anche dei militanti di base, non solo dei militanti di base ma anche dei lumpen, non solo del passato ma anche del presente –  il primo a dirlo era stato Danilo Montaldi, a partire dal 1960» (pagg. 194-195).

Stralcio:

Mariuccia Salvati, Montaldi e la sociologia

in «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (3)

Suntino e stralcio a cura di Ennio Abate

Sì,  siamo in un tempo che ha bisogno di «uno sguardo nuovo». Si ha l’ esigenza di una nuova riflessione su questo tempo e su Montaldi (pag. 79). La cui immagine sempre più assomiglia all’arendtiano  “pescatore di perle”  di  Benjamin. Perché al filosofo tedesco Montaldi  si rifà nel lungo saggio «Sociologia di un congresso» al centro di questo saggio di Mariuccia Salvati e perché anche lui amava le  citazioni (pag. 93).  Montaldi  era ben inserito nel campo  della ricerca sociologica che si andava consolidando anche in Italia. E lo dimostra questo suo resoconto del 1° Congresso nazionale di Scienze sociali che si tenne a Milano nel 1958.  Non scendo nei particolari  – nomi (Abbagnano, Ardigò, Bobbio, Treves, Pizzorno, Ferrarotti, Lombardi) o temi, come quello dei  rapporti città/ campagna (pag. 98). Come fa invece benissimo  la Salvati. Indico soltanto alcuni punti che mi hanno colpito o che conoscevo  in maniera vaga: –  l’ interesse di Montaldi  per la sociologia religiosa (pag. 96); e, più esattamente, per il personalismo francese e la sociologia religiosa cattolica (pagg. 103-104) ; –  l’amicizia duratura ma non senza screzi tra Montaldi  e Pizzorno (pag. 100); – il ritardo della ricerca sociologica al Sud (pag. 102): «colpisce che […] Montaldi, per parlare di Mezzogiorno  non possa che citare la letteratura», perché pare che «i sociologi italiani al Sud arriveranno dopo: dopo Banfield, dopo Putnam»; – la distinzione abbastanza netta che Mariuccia Salvati fa  tra un Montaldi sociologo e un Montaldi «narratore- sociologo», quello delle «Autobiografie della leggera»  (pag. 105).

Stralcio:

Maria Grazia Meriggi, Danilo Montaldi: militante politico, ricercatore originale

in «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (2)

 

di Ennio Abate

Concordo con due importanti sottolineature di questo saggio di Maria Grazia Meriggi:
1. Montaldi irriducibile alle analisi del neomarxismo anni Sessanta/Settanta (pag. 175). La sua visione più plurale della classe (qui echi della lezione di Stefano Merli) e la concretezza del legame con Cremona e i “gruppi locali” di «Unità proletaria» (1957-1966) e Karl Marx (1967- 1975) lo tennero a distanza critica dal “settarismo/patriottismo” dei gruppi “fondatori” del “nuovo” partito rivoluzionario. Gli conservarono, cioè, sguardo plurale e capacità di ricerca sul plurale della classe («più che “classe operaia”»). Fino al progetto della sua ultima ricerca «in un rapporto soprattutto personale, non con un gruppo politico ad esclusione di altri, ma con alcuni militanti di alcune organizzazioni», troncata dalla morte ( pag. 181).
2. «Livornismo» (Cortesi) di Montaldi e, perciò, leninismo “pulito” o “elementare” più che bordighismo tendente all’ortodossia e alla logica ferrea ma astratta (pag. 175). O – ben detto – «rigore del comunista di sinistra» e originale creatività del suo lavoro di ricercatore ( pag. 183). Per cui la sua innegabile tensione minoritaria (dovuta alla sua formazione giovanile a contatto coi “vecchi compagni”) è capace di espansioni feconde.
Da qui: – la differenza rispetto a Pasolini (pag. 177) del suo “ascolto” (sempre di carattere politico e mai “estetizzante”) dei “marginali”; – la sua tenacia duttile a non separare «centralità dell’individuo» e «liberazione collettiva», “io” e “noi”, centro e periferia, Marx e Simone Weil, le «figure bronzee di operai con le braccia incrociate» e gli immigrati dell’hinterland milanese di «Milano, Corea». (E fu per queste sue doti di militante “diverso” – (“comunista speciale” come Fortini?) – che ci conoscemmo, anzi che ci venne a cercare lui a Cologno Monzese nel ’69-’70) .
Mi restano alcune perplessità che spero di poter approfondire in dialogo con Maria Grazia.
Capisco il valore che lei dà all’influenza del Montaldi fondatore della storia orale sui giovani storici che lo conobbero e che hanno poi cercato di innovare il loro campo di studi «in direzione della storia sociale e soprattutto della storia del conflitto sociale» (182), ma questa “continuità settoriale” (direi, senza polemica, “accademizzata”) del discorso montaldiano non basta. E specie dopo la sconfitta di quell’«altro mondialismo» (pag. 184) che nel 2006, quando io rilessi Montaldi e feci l’«elogio di un compagno periferico», ancora sembrava respirasse. Anche se già allora insistevo sulle difficoltà : « Sono tanti i nodi, tanti gli scarti fra esperienza proletaria montaldiana o operaia e esperienza precaria dell’oggi che a volte pare che ci si debba limitare a porre onestamente solo il compito di tradurre nell’oggi quel senso alto e nobile che Danilo Montaldi ebbe della condizione proletaria.» (https://www.poliscritture.it/…/montaldi-riletto-nel-2006/).
Mi spiace, dunque, dover farmi “temere” per il mio ( non so quanto) «sempre acuto giudizio» chiedendo perché mai, dopo la morte di Danilo, i tanti da lui convocati a collaborare a quel progetto troncato dalla sua morte lo lasciarono cadere?
Nei tanti decenni successivi a me vengono in mente solo alcuni tentativi di riprendere il metodo della conricerca montaldiano: quello – sempre attorno al 2001- 2006 – della rivista «Posse» (http://www.manifestolibri.it/shopnew/category.php…); quelli di Sergio Bologna ora consolidatisi – pare – attorno alla rivista «Nuova Officina Primo maggio» (https://www.officinaprimomaggio.eu/).
Poca roba nel deserto che continua a incombere.

 

APPENDICE/STRALCIO

(DAL SAGGIO DI MARIA GRAZIA MERIGGI)

Riordinadiario 28 giugno 2002

Prima del Laboratorio Moltinpoesia di Milano.
Lettera a Maurizio Cucchi su moltitudine e poesia

Caro Maurizio,
ti ringrazio per le osservazioni al mio scritto. Vorrei rassicurati circa i timori che mi pare di cogliere in alcuni passaggi  della tua lettera. Gli incontri in preparazione sulla poesia fra i redattori milanesi di INOLTRE  e alcuni poeti (Majorino, tu, Neri, ecc.), proprio perché seminariali e d’approfondimento, dovrebbero evitare le battaglie da pollaio. Lascio da parte la questione del successo letterario, estranea alle mie ambizioni(su questo punto credo di essere, con tutte le conseguenze anche negative, un asceta, un eremita). Invitando voi, che comunque avete pubblicato e conoscete dal di dentro (o più da vicino) i meccanismi di selezione e riconoscimento di editoria e accademia, non ho inteso tendervi una “trappola” per dar sfogo ai latenti (e pur presenti, lo sai bene) mugugni di poeti o scrittori “non ufficiali” contro altri “ufficiali”. Sono convinto, quanto te, della ingenuità di una manichea divisione tra ufficialità e non ufficialità e in quel che scrivo e faccio credo di contrastarla decisamente. Meno convinto, invece, resto sulla inutilità  di una fortiniana verifica dei poteri delle  corporazioni (o, se la parola infastidisce, degli aspetti istituzionali ed organizzativi sui quali la poesia pur poggia; a meno di non vederla come colomba spirituale che volteggia sulle umane miserie e si posa imprevedibile sugli eletti ora in un casolare di montagna ora in un vicolo napoletano ora in un ufficio metropolitano). Riconsiderare gli aspetti “materiali” e “socio-istituzionali” del fare poesia può sembrare oggi superato. Tu giustamente sottolinei alcuni dati che scoraggerebbero un impegno in tal senso: le corporazioni ci sono sempre state, e semmai peggiori [di quelle d’oggi]; chi è dentro ha più o meno lo stesso ascolto di chi è fuori. Vale a dire sostanzialmente nullo; mai la ricerca letteraria che conta ha avuto un vero pubblico; e comunque, malgrado le corporazioni, i poeti veri (Fortini, Penna, Sereni, ecc.) non sono mai stati trascurati. Di mio aggiungerei addirittura altri inconvenienti. Ad esempio, che questo tipo di ricerche potrebbero dar la stura a chiacchiere sui poeti, sulle biografie, sulla dimensione sociologica della poesia a scapito delle questioni più interne (formali, psicologiche, linguistiche, stilistiche, interdisciplinari, tecniche, metriche, di rapporto con il “mondo”, la “realtà”, ecc.). Eppure, malgrado queste nubi incombenti sulla serietà dei miei intenti, credo che serva oggi una riconsiderazione della poesia in grado (se ne fossimo capaci!) di criticare con ponderazione sia la routine  accademico-editoriale, che si è ritagliata prevalentemente [il compito del]la trattazione specialistica – spesso raffinata e ammirevole – degli “interni” della poesia, trascurando boriosamente o stoicamente o cinicamente  le crepe  della sua facciata, il crollo dei cornicioni, ecc.,  sia l’ossessiva e tumultuante ripetizione di arrembaggi inconcludenti da parte di esclusi o rampanti: dotati o meno, scrittori in ombra o scriventi,  bisognosi di  terapie più che di poesia o termometri di un disagio vero non solo esistenziale ma anche del sapere poetico (e, in generale, letterario o artistico o umanistico). 
E proprio per incrociare e far valere alcune delle esigenze che tu pure – mi pare con una certa disperazione – hai presente (quando parli di un qualunquismo e una confusione generale organizzata; o quando sottolinei che chi pur sta dentro se la vede brutta). Perciò, malgrado le obiezioni, la tua lettera mi incoraggia. Sei scettico sull’ esodare e mi poni la questione: come si fa a uscire quando non si è davvero dentro? Quando nessuno ti vuole davvero dentro? Qui censuro la mia molla “utopese” che  si troverebbe forse in attrito (e a mal partito) col  tuo lombardo realismo. Intendendo il termine dentro da te usato non semplicemente  riferito  – che so – ad un’istituzione, ad un  ambito pubblico visibile, mi limito  per il momento a constatare che siamo tutti dentro un affanno  esistenziale e storico che ci impone, appunto, mercato o lamentazione. L’esodo forse deve essere da questi due ghetti: uno oggettivo (terribile!) e l’altro soggettivo (logorante fino alla follia).
Un caro saluto 
Ennio

Riordinadiario 5 maggio 2002

Dopo la lettura di «Nuovi poeti italiani contemporanei» di R. Galaverni, Guaraldi 1996

di Ennio Abate

Il noi usato nel testo si spiega con le speranze di potermi interrogare in quel periodo sulla “questione poesia” non più da solo ma con i collaboratori che si erano raccolti attorno alla redazione milanese della rivista «Inoltre» (1996-2003). [E. A.]

Anche quest’antologia di Galaverni ritaglia una fetta di poeti italiani contemporanei “di qualità” (come fanno, del resto, le altre antologie recentemente uscite). È una scelta forse obbligata dovuta alla frammentazione esasperata della attuale ricerca sia in poesia che nella critica. (E Il problema di confrontare e valutare i criteri di giudizi  sui quali si basano le varie antologie mi pare soltanto accennato ma non affrontato. Così mi pare di capire leggendo Cortellessa  a proposito dell’antologia di Niva Lorenzini, Poesia del Novecento italiano, Carocci editore. Cfr. Alias n. 18,  4 maggio 2002).
In questa di Galaverni prevale  il criterio della vicinanza generazionale fra il critico, che è nato nel 1964, e i poeti da lui selezionati, in prevalenza nati negli anni ’50. Dai suoi richiami alle personalità più affermate delle generazioni poetiche precedenti  – ricorrono soprattutto i nomi di Montale, Luzi, Sereni, Caproni e talvolta Fortini – colgo (indirettamente) le sue preferenze. Nell’introduzione Galaverni si dichiara per una poesia «alta» e «nobile». Che, dopo l’esaurimento dell’azione (per lui) chiassosa e superficialmente dirompente dello «sperimentalismo espressivo», cioè della neoavanguardia, sarebbe cominciata «sullo scorcio degli anni Settanta – penso con l’antologia de La parola innamorata di Pontiggia e di Mauro – per affermarsi negli anni Ottanta  soprattutto con Giuseppe Conte e l’esperienza della rivista Niebo (1977-1980), che avrebbero riaffermato con forza il principio della «verticalità» della poesia contestato dagli sperimentatori. Non a caso, perciò, Galaverni sceglie il 1980 «come più opportuno anno d’inizio per una possibile antologizzazione». Perché in quell’anno vennero pubblicati «tre libri di particolare significato» (di Benzoni, D’Elia e Magrelli, ai quali aggiunge Mussapi, Ceni e Pagnanelli) per la loro «novità tonale ed emotiva» ed il «carattere propriamente augurale, di auspicio».
Le preferenze di Galaverni si orientano su tre filoni:
–  verso la poesia dove c’è «alleggerimento del controllo razionale» e «fiducia totale nella verità delle insorgenze sentimentali»; cioè verso una poesia che, sulla spinta di un’inquietudine religiosa, esprime un «sentimento sacrale della parola poetica» (Mussapi,  Ceni, Rondoni, Scarabicchi);
– verso la poesia descrittiva e classicista (Magrelli, Albinati, Pusterla (in parte), Fiori, Gibellini, Riccardi);
–  verso la poesia «altamente letteraria» e manieristica (D’Elia in quartine; Valduga petrarchista e barocca e dantesca; Anedda, che  rende le parole «diamantine»).
Le sue scelte sono coerenti e omogenee. (Dubito solo per la collocazione di Pusterla, proprio per quel «radicamento in uno spazio storico» della sua poesia che Galaverni gli riconosce).

La lettura di quest’antologia mi fa capire come le cose erano o sono vissute da un critico che considero sull’altra sponda. Sia in senso generazionale (cioè dei più giovani di me) sia in senso culturale. Galaverni, infatti, è guidato da un’idea di poesia autonoma, separata dal resto; e cioè proprio la storia, la politica, il sociale, i linguaggi non letterari e massmediali, che io non riesco affatto a considerare resto. Non vedo la novità di questi «poeti nuovi…in cui ancora si rinnova il volto più antico della poesia». Li sento, anzi, dei restauratori: gente che s’è adattata alla rimozione del lavoro (non solo poetico, ma storico, politico e sociale) della generazione precedente che aveva voluto collegare poesia e realtà, poesia e storia, poesia e vita sociale. Certo, questi poeti hanno dovuto ricominciare da capo, hanno dovuto fronteggiare la «disillusione storica e politica» del post ‘68 (pag. 15), ma tutti abbiamo dovuto farlo. Non mi attira, dunque, il loro «rifiuto di ogni sperimentalismo espressivo» (pag. 16); l’atteggiamento «postumo» (riferito a Benzoni, a D’Elia, a Pusterla, ma anche ad altri); la loro «ipotesi di una nuova etica comunicativa del discorso poetico, da definirsi proprio a cominciare da un sentimento di rottura nei confronti dei presupposti e delle componenti di una tradizione non soltanto letteraria ma culturale» (pag. 18); la loro «fiducia assoluta nel linguaggio della poesia» (pag. 47) o – addirittura –  nel «senso assoluto e sacrale della parola poetica» (pag. 127); la ricerca, che mi sembra retorica, di padri spirituali (pag. 58); la volontà di «controllo definitivo sul mondo esterno e le proprie emozioni» (pag. 64); l’accettazione quasi soddisfatta (o rassegnata) che «si parla solamente del parlare» (pag. 65) o del parlare per «enigmi continui» (pag, 73), parole riferite a Giampiero Neri, come se i suoi «enigmi» non potessero essere interrogati alla luce della storia; l’adesione all’idea della «poesia come rituale» desunta dal modello petrarchesco (pag.158); la facilità con cui essi convalidano – dopo Freud! – il candore da fanciullino pascoliano  e sabiano tutto raccolto dentro un «suo piccolo mondo poetico» (pag. 243), eccetera.

[E se confrontassimo il discorso  di Galaverni sulla poesia con quelli di carattere storico-politico sui medesimi anni che lui ripercorre? Forse si coglierebbe meglio qual è il “contenuto” di queste “novità”. Ma Galaverni non tocca questi problemi; e –  spesso in modo abbastanza piatto, specie nel caso di Villalta ma anche di Magrelli, ad es.) – si accontenta di seguire fedelmente l’ideologia poetica dei poeti che ha selezionato]

Non dobbiamo, comunque, vergognarci dei contenuti imbevuti di politica (o di filosofia politica) della nostra poesia; e neppure di quelli esistenziali  legati ad una nostra condizione periferica e, di certo, meno “piccolo borghese” di quella dei poeti italiani.

  • L’immagine di copertina è tratta da: https://neutopiablog.org/2017/02/07/una-situazione-della-poesia-contemporanea-italiana/

“la periferia come Magazzino della grande città”

RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)

di Ennio Abate

Tra quanti (abitanti a Cologno) risposero al Questionario di «Laboratorio Samizdat» del 1987 ci fu F. N. Non so se sia ancora vivo, se abbia voglia o meno di far pubblicare oggi la sua risposta e lo indico con le iniziali di nome e cognome. Che si distingue dalle altre, a volte telegrafiche e spicce, per l’attenzione ai fenomeni sommersi (soprattutto la delinquenza e il mercato della droga di allora) da lui vissuti da vicino; e anche per un certo scetticismo meridionale sulla possibilità di migliorare davvero le condizioni di vita in periferia. Ho mantenuto la forma discorsiva che F.N. diede alla sua testimonianza, semplificando solo alcuni termini e l’ortografia. [E. A.]
Egregio signor Abate, vorrei evitare di rispondere passo per passo al questionario perché vedo la necessità di fare un unico commento, prendendo ottimo spunto dalle domande elencate. Alla numero 1 [Consideri Cologno Monzese una città. Si, no, perché?] rispondo senza esitare: no; ed il perché è presto detto: la poca funzionalità di qualsiasi centro di ritrovo socioculturale che a mio avviso grava moltissimo nell’ossatura di una piccola-media comunità come Cologno. Forse alcuni anni or sono vi era un punto, o per meglio dire un centro ove la “nouvelle vague” colognese[i]avesse il tempo materiale per sviluppare le proprie idee-esigenze, ma poi tutto tornava a fare gli interessi interessi di pochi ed impreparati intimi. (Mi riferisco al «Babilonia»[ii]e non solo). Ancora oggi. se proprio vogliamo parlare di altre forme dell’interesse [culturale]di massa colognese, sottolineo la mancanza di cinematografi o perlomeno di “ teatrini” e cose di questo genere. [Mi esonero dal] tracciare qualsiasi profilo sia dei locali che dei frequentatori di bar o birrerie.
Per quanto riguarda gli aspetti negativi [di Cologno], uno va per forza detto: la delinquenza, frutto primario di un traffico di Droga a dir poco eloquente quanto visibile. Anche se non ho vissuto in modo intenso questa esperienza, ho potuto vedere e purtroppo continuo a vedere i segni [negativi] inconfutabili sulla pelle di gente che mi è vicina o di altra [gente] che mi è stata vicina. Questa è la negatività più opprimente e stressante. [Su tale problema] Cologno non ha mai [avuto] un periodo di tregua; e, diciamolo chiaramente, nessuno ha fatto molto perché ciò accadesse. Avendolo vissuto in prima persona, confermo l’invalidità [=inefficienza] di istituzioni a riguardo: centri sociali e sanitari. Questo pertanto è un aspetto che ha fatto sì che Cologno si guadagnasse l’appellativo, peraltro non per tutto sbagliato, di Ghetto, e Dio solo sa se non se lo merita.
Il terzo [aspetto] negativo di Cologno credo sia la scarsa informazione, cioè [la mancanza di un giornale]. Non pretendo un quotidiano, anche se non sarebbe una cattiva idea. Forse, e sottolineo ‘forse’, c’è un certo Diario,[iii] ma credo si limiti a “ben” informarci a livello comunale. Oppure a far sapere alla gente che sono state sorprese due “vittime” della droga, mentre si stavano bucando dietro un cespuglio sotto gli occhi di tutti. E in questo caso, allora, prima pagina, quattro colonne, nomi ed indirizzi. Questa [notizia] viene spacciata alla gente come un incredibile scoop! Questa non credo sia informazione. E lo conferma il fatto che da tempo ormai immemorabile si ricorre [soltanto] al volantino o al manifesto appiccicato al muro; e questo fa sì che la gente vive fisicamente a Cologno ma abita [con la testa] a Milano.
Quali gli aspetti positivi di Cologno? Ammetto che questa è stata una domanda che mi ha fatto molto pensare; e sono giunto ad una conclusione, forse ovvia, forse solo non compromettente tanto rispondere mi viene difficile o quasi impossibile. Forse [ce n’è] uno solo che le racchiude tutte e tre; cioè le amicizie che hanno spaziato dalla politica, [avendo io frequentato] sedi di opposte fazioni (destra e sinistra) molto marcate ma vuote di ogni orizzonte [ideale].
[C’è poi l’esperienza che ho fatto della] Cultura, ma con carattere alternativo. Difatti, credo che a Cologno esistano delle buone menti; purtroppo poco o quasi per nulla prese in considerazione. Ma comunque [questo della Cultura] per me [è un aspetto] significativo, [perché mi ha permesso] una sorta di confronto con alcune di [queste menti]. [È] un importante lavoro di cultura sommersa che solo negli ultimi anni sta avendo una sua forte presenza, [pur] fra i mille spauracchi che questo discorso si porta dietro da tempi immemorabili.
Ho sempre definito la periferia come Magazzino della grande città, [che] in questo caso per noi è Milano. Un confronto [con altre città] non credo sia semplice, perché credo che Cologno rientri [nella dimensione] di Hinterland. Se poi [la] si vuole intendere [come] città, credo non ne valga neanche la pena. Forse c’è una [minore presenza] di verde, ma in questa direzione anche Cologno si sta muovendo, tanto che credo che manderemo i nostri figli, quando sarà, a studiare ai parchi giochi.
Non credo di avere sentimenti particolari verso Cologno, ci abito e questo è tutto quello che provo. Per quanto riguarda la mia attenzione per Cologno [dico che] è diminuita, ma spero di non dovermi più allontanare per andare a cinema o, chessò, a bere una birra in centro ( a Milano). Ripeto: è sicuramente diminuita, ma un occhio ce lo butto ancora.
Per quanto riguarda le domande 6 e 7 [quartieri di Cologno frequentati e conosciuti]. Non ho mai trovato [a Cologno] niente di così stimolante da darmi un’idea o immagine [entusiasmante] di Cologno. Non ho mai giudicato in fretta una zona, un angolo, o, come dice lei, un pezzo [di Cologno], anche perché non si lascia molto giudicare nell’insieme. O, per meglio dire, non dà spunti alla fantasia [come accade a chi fa vita] metropolitana. Molti pezzi di Cologno hanno cambiato faccia, ma solo sotto il profilo estetico [più]squallido. Ho visto soltanto una corsa all’appalto selvaggio. Case e palazzi non si contano, [ma] i servizi [necessari] in pratica [non sono] mai stati edificati. La metropolitana? La tangenziale? Canale 5? Il problema casa? O quello urbanistico interno? Le concessioni [di spazi] per scopi culturali [sono] inesistenti. Come le giudico? Soffocanti! Utili le case certo! Ed il centro storico dove andrà? Forse questi [sono]i problemi [irrisolti che ci mettono] al di sotto di graduatoria [rispetto] ad altri agglomerati urbani. Sì, certo, Cologno è inconfutabilmente periferia milanese, anche se vive una vita a sé, ma non possiamo negare che è un polmone gentilmente offerto dai colognesi [a Milano]. Non pochi sono coloro che fanno girare le arterie della Grande metropoli. E di conseguenza è giusto che sia periferia o, come ho detto prima, Magazzino di manodoperaCostruire un’immagine nuova di Cologno potrebbe essere fattibile, ma si dovrebbe lavorare non poco. Io credo che la direzione da prendere sia politica, per far sì che tutte le altre [attività], come la cultura, l’economia, l’ecologia, possano avere risultati plausibili e [certi]. [Anche se oggi] alla base [della politica] c’è una male-organizzazione, che prendendo spunto dai “Palazzi romani”, punta soltanto ad una ristrutturazione dell’estetica cittadina pensando così ti portare aiuto ad un città come Cologno, ove [esistono] ben altri problemi e disfunzioni, che forse sono volutamente non visti [dagli attuali politici]. Sappiamo come funziona tale sistema. Anzi, mi correggo, come non funziona.
Non so chi sia il più indicato a ristrutturare Cologno Monzese, ma voglio esprimermi con una frase non mia; e [dire], cioè, “Cologno è dei colognesi”. Che ci pensino loro! Ed io [sarò] fra questi, se un qualcosa dovesse accadere in questo senso. Comunque, a parte una plausibile – oserei dire – forma di pessimismo, non credo che [la vita a] Cologno sia così malvagia. Anzi, credo che possa sicuramente migliorare. Ma bisogna cercare una collaborazione non poco intensa. Se a Cologno ci fosse una precisa [ e ben definita] fonte di informazione su questi ed altri punti, forse qualcosa potrà essere rinnovata. Ma spesso dimentichiamo una forma di mentalità o Cultura di radice, se così posso esprimermi, meridionale; di conseguenza conservatrice, restia alle esigenze comunitarie [e] sviluppata [invece]in forma di necessità esclusivamente personale. La gente di Cologno ha una visione del proprio futuro che si riassume in[poche cose]: una casa, un lavoro, un paio di figli da sposare e giungere alla pensione in modo sereno. Mentre per coloro che potremmo definire nuova generazione la riforma più eloquente del futuro in Cologno è proprio andarsene.

Note
[i] Col termine francese di «nouvelle vague» (un movimento cinematografico francese nato sul finire degli anni cinquanta del Novecento) intende quanti a Cologno erano aperti alle novità e al cambiamento.
[ii] Birreria- tavola calda aperta in Via Sormani nel1979 da alcuni protagonisti dell’esperienza del “Circolo La Comune” e della Libreria CELES.

[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.

* Foto di E. A.

 

 

Ripensare Cologno Monzese nel 2022 (3)

di Ennio Abate

Vorrei, ma non so se ci riuscirò, stampare una Antologia dei numeri della rivista «Laboratorio Samizdat». Per ora, a riprova del lavoro fatto, tra 1986 e 1990, con un bel gruppo di persone di Cologno Monzese ma anche di Milano (e di altre città), pubblico le copertine della rivista e un Indice veloce degli articoli e delle rubriche.

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