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Ripensare Cologno Monzese nel 2022 (1-2)

Una riflessione a capitoletti

di Ennio Abate

Nel 1987, quando con alcuni amici facevamo la rivista autoprodotta «Laboratorio Samizdat»[i] preparammo un questionario. Lo intitolammo «Immagini dell’hinterland: Cologno Monzese» e noi stessi della redazione cominciammo a rispondere alle domande che avevamo preparato.  Riassumo con parole d’oggi  le mie risposte al questionario .

1. Consideri Cologno Monzese una città. Si, no, perché?


Per me non è ancora una città. Perché la storia recente e breve (quella dell’emigrazione interna degli anni ’50-‘70), trasformando e quasi cancellando le caratteristiche contadini del nucleo precedente (il borgo medievale, il paesino ottocentesco), ha prodotto un organismo sociale elementare, nuovo ma incoerente e poco unitario.  Prenderei sul serio la definizione di Cologno Monzese come  “citta dormitorio” per immigrati.  Evidentemente un dormitorio non è una città. È un ibrido, un “mostro urbanistico”. Certo, gli immigrati, oltre a dormire, hanno fatto altro, ma in condizioni materiali e psichiche comunque squilibrate. Sono gli amministratori – più che gli abitanti di Cologno-   ad avere la tentazione di sorvolare su questa storia pesante e complicata e a parlare senza troppo  riflettere di città.


2. Secondo te, quali sono i tre aspetti più negativi di  Cologno?

Uno. Il fatto di essere periferia (o di vivere in una condizione di perifericità). Intendo dire che la vita che possiamo condurre a Cologno Monzese avviene in uno spazio coatto e deprivato che, a differenza delle vere città, offre meno sotto ogni aspetto alla soddisfazione dei bisogni dei suoi abitanti.

Due. Gli immigrati  si sono  dovuti assuefare con molta sofferenza a vivere nello spazio coatto,  deprivato e spesso  brutto di Cologno Monzese. Che è stato progettato e costruito da altri. E imponendo i loro interessi economici ai bisogni di una vera vita sociale. Questo è avvenuto nel periodo (’55-’60) più selvaggio e sregolato della urbanizzazione di Cologno. Povertà culturale e bruttezza estetica hanno deturpato anche i linguaggi e i comportamenti dei suoi nuovi abitanti. Col tempo gli immigrati hanno cancellato i ricordi più dolorosi e non hanno pensato più a quel che hanno patito. O rinunciato perfino ad immaginare che questo territorio possa essere organizzato in maniera più rispettosa dei loro bisogni.  Al massimo,  hanno cercato la diversità altrove. Da turisti. O tornando, quando hanno potuto, ai paesi da cui emigrarono.


Tre.  Una sensibilità passiva e intorpidita sia nei confronti dell’ambiente circostante che verso gli “altri”. Io l’ho  chiamata colognosità, perché l’esperienza quotidiana  a Cologno – e specie  in campo politico – mi ha  messo di fronte a numerosi esempi locali di doppiezze, di tortuosità, di antintellettualismi,  di invidie. Ma ritengo che la colognosità abbia a che fare con concetti più generali, quali mentalità da servi (Nietzsche),   alienazione (Hegel, Marx, Lukács), psicologia (e pedagogia) degli oppressi (Freire). Indubbiamente rende più difficile individuare i centri di potere  reali che controllano la vita economica e sociale di questo territorio e impedisce una azione più precisa per contrastarne le scelte dannose per quanti qui vivono. 

3. Quali sono, invece, gli aspetti positivi di Cologno Monzese?

Ci sono centinaia di città che offrono  più merci e servizi di Cologno Monzese.  Se ci si mette nell’ottica dei consumatori, Cologno ha ben poco di positivo da offrire. Eppure, negli anni ’70, noi compagni del Gruppo Operai e Studenti  e poi di Avanguardia Operaia anche nel degrado della vita in periferia  scovammo alcuni aspetti positivi. Capimmo che gli immigrati avevano bisogno di aumenti salariali, di case, di scuole decenti per i loro figli. E lottammo con loro per dare forma politica a questo ribollire di bisogni ancora elementari e  insoddisfatti.

4. Fa’ un confronto fra Cologno Monzese e qualsiasi altra città o paese da te conosciuti. Cosa ha di più o di meno Cologno Monzese?

Il confronto io posso farlo  con Salerno, da cui provengo. Dalla formazione in quella città provinciale del Sud, che nel dopoguerra e fino agli anni ’50 conservò una cultura cattolica  – un misto di attaccamento rispettoso al mondo contadino e a quello piccolo borghese ancora non sfiorati dal consumismo -, avevo ricevuto una spinta ad una visione elitaria ed individualista. Mio padre  mi ripeteva il motto ricevuto dai suoi antenati:«miettete cu chille ca stanne meglie e te, nun cu chi sta peggio e te». (In sostanza: stai con  i più istruiti e i più ricchi, non con i poveracci). Al contrario la Cologno Monzese degli anni ’60-’70 – quella che ho vissuto più attivamente  e intensamente –  mi  ha spinto proprio ad andare verso il basso, a conoscere molti operai di piccole fabbriche o  studenti delle superiori o insegnanti delle elementari, medie e superiori e ad organizzarmi con loro proprio contro chille ca stevene meglie e nui. In quei tempi Cologno Monzese stava passando dalla condizione più passiva  e povera della  immigrazione esistenzialista (quella  registrata in «Milano, Corea»  di Alasia e Montaldi) ad una di proletarizzazione e politicizzazione attiva e innovativa. Sembrava  che il “dormitorio” potesse fare un salto verso una città proletaria, che confusamente cercammo di delineare nei nostri discorsi.

5. La tua attenzione a Cologno Monzese è aumentata o diminuita negli ultimi 10-15 anni? Perché?

È, contro la mia volontà, diminuita. Perché tutti i legami affettivi, sociali e politici, che come compagni del GOS (Gruppo Operai e Studenti) e di AO (Avanguardia Operaia) avevamo costruito con Cologno e la gente che vi abitava,  si sfilacciarono. E quel progetto ancora in fasce di città proletaria, a cui lavoravamo da appena dieci anni, si perse. Molti compagni entrarono nel PCI. Altri continuarono in DP. E poi ci fu, con la fine sia del PSI che del PCI, la scomparsa   di qualsiasi sinistra.

6. Da quali quartieri e zone di Cologno Monzese, che hai frequentato di più, ti sei costruita la tua immagine (o idea) di Cologno?

Riferendomi sempre agli anni ’60-’70  posso dire che ho frequentato sotto la spinta delle lotte politiche  particolarmente il Quartiere  Stella (qui), diverse piccole fabbriche di allora (Bravetti, Panigalli, Trapani Rosa, Siae Microelettronica, ecc), le scuole elementari e medie;  e le case dei compagni sparse per Cologno. L’immagine di Cologno  che mi stavo costruendo era, come ho detto, quella della città proletaria.  

7. Quali sono i quartieri o le zone di Cologno Monzese che più ignori? A chi ti rivolgeresti per fartene un’idea?

Come ho detto, qui a Cologno negli anni di mia militanza politica ho frequentato soprattutto  famiglie di operai, di studenti, di insegnanti e i luoghi della politica (sedi di partito o dei sindacati, il Consiglio Comunale). Ignoro o conosco poco, dunque,  le zone (non certo soltanto di Cologno) in cui abitano imprenditori e politici. Ed ho avuto meno rapporti e conoscenza  anche delle zone in cui operano i più emarginati. Al momento non saprei, come rivista, a chi potremmo rivolgerci per capire di più.


8. Quali sono state negli ultimi 10-15 anni le trasformazioni per te più evidenti di Cologno Monzese? Come le giudichi?

Lo sprofondamento nei discorsi pubblici e politici dei ceti operai e dei loro bisogni. Con la deindustrializzazione, l’informatizzazione e le nuove forme dei consumi sono emerse le generazioni cetomediste, ipnotizzate dalla competizione imitativa coi “nuovi ricchi”. A Cologno il cambiamento ha  premiato soprattutto un ceto di acculturati, magari provenienti anche da famiglie operaie e di immigrati, ma sempre più grossolani e pacchiani e ostili alle tradizioni di famiglia.

9. Quali sono i tuoi sentimenti verso Cologno Monzese?

Li ho raccontati in «Samizdat Colognom», un libretto di “poeterie” pubblicato con la Libreria CELES di Cologno nel 1982. (Ne parlerò in un altro capitoletto). I miei sono sentimenti di contrapposizione e di critica ragionata soprattutto verso il mondo politico colognese, spesso con rappresentanti davvero meschini. Di impazienza e delusione verso gente che vive in condizioni quasi simile alla mia ma che  briga nel sottobosco politico, economico e culturale. Di insofferenza verso gli stili della vita individualistici e  falsamene libertari.

10. Quali sono le tre esperienze più significative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?

Forse ho già risposto al punto 6. Ma meglio ripetere. Le lotte che ho condotte con molti compagni e compagne fra il ’68 e il  ’76. Quella per la scuola materna al  Quartiere Stella. Quelle con gli operai della Bravetti, della Panigalli, della Trapani Rosa, della Siae Microelettronica e tante altre. Quella dell’occupazione delle case di Via Papa Giovanni. (Son di sicuro più di tre).

11. Quali sono le esperienze più negative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?

La scissione di Avanguardia Operaia e il successivo “riflusso” con compagni finiti nella droga,  nel “privato” o che scelsero di entrare nel PCI. L’impotenza e l’isolamento rispetto ai fenomeni di disgregazione anche fisica che coinvolsero  molti giovani di allora. Il disfacimento morale, politico e culturale della sinistra.

12.  Ritieni possibile costruire una nuova immagine di Cologno Monzese? Se sì, in quale direzione (politica, culturale, economica, ecologica) impiegheresti le tue energie?

Un’immagine culturale nuova di Cologno, che non può più essere la città proletaria a cui avevamo pensato, resta indispensabile per ritessere  rapporti sociali non subordinati o di semplice colonizzazione rispetto ai centri di potere (che per Cologno stanno a Milano ma non solo lì).

13. Pensi che a questa nuova immagine di Cologno Monzese possano contribuire di più i viaggiatori (quanti lavorano fuori Cologno o hanno di frequente rapporti con altri luoghi o Paesi anche stranieri) o i sedentari? Perché?

Verrà fuori, credo,  dal confronto scontro tra  le immagini di città  degli uni e quella degli altri.


Nota 1
[i] «Laboratorio Samizdat» è stata una rivista ispirata al pensiero comunista (marxismo critico) della Nuova Sinistra, che a Cologno era stato rappresentato negli anni Settanta prima dal «Gruppo operai e Studenti» e poi dalla sezione di «Avanguardia operaia». Fu preparata - in una prima fase “in casa” (fotocopiata) e solo negli ultimi numeri stampata - a Cologno Monzese e diffusa a mano. Fra il 1986 e il 1990 uscirono, oltre al numero zero di prova, 8 numeri. In redazione: Ennio Abate, Roberto Fabbri, Erica Golo, Eugenio Grandinetti, Roberto Grossi, Marcello Guerra, Roberto Mapelli, Donatella Zazzi.
Nota 2
Questo stesso articolo pubblicato su POLISCRITTURE COLOGNOM su Facebook, su segnalazione di non so chi,  è incorso nella censura di FB. Non ho capito se per il contenuto o per l'immagine che l'accompagnava (sotto).

Collage da FB del 21 luglio 2022

dalle ore  7, 15 alle ore 18,52

a cura di Ennio Abate

il primo gesto politico che dovrebbe fare oggi enrico letta è stracciare queste ridicole primarie in sicilia con i cinquestelle per scegliere un candidato comune alle elezioni regionali. un errore fino a ieri, un orrore oggi. sarebbe forse più giusto ancora che letta si dimettesse – la sua segreteria segnata dal “campo largo” all’inseguimento di giuseppe conte è stata disastrosa. e non è esente da colpe, in nome di questo patto rovinoso, nella caduta del governo draghi.

tu che speravi che draghi cadesse. assumitene le responsabilità, almeno: per essere contro “l’uomo delle banche”, consegni il paese a salvini. che così difenderà le ragioni sociali

L’invasione degli economisti che come una metastasi hanno occupato tutti i gangli della vita civile: e del resto non poteva essere così, se nel mondo l’unica cosa che conta è che il panetto di burro non cresca di prezzo dello 0,1% all’anno gli economisti sono gli unici depositari degli Arcana Mundi in grado di decifrare la Vita e l’Universo. Dopo trenta anni di questo andazzo, il paese è completamente annichilito, demolito, distrutto, devastato. Un cumulo di macerie fumanti creato da questi sapienti del Mondo Nuovo, da questi rabdomanti dello spread, da questi sacerdoti del moltiplicatore keynesiano, da questi alchimisti della partita doppia.

Vorrei chiedere al sindaco Gualtieri – che ha detto pochi giorni fa: «in due anni trasformerò Roma in una città pulita e vivibile come un borgo del Trentino» – quando intende iniziare a far rimuovere i detriti dell’ultimo incendio al Parco archeologico di Centocelle: l’olezzo molto trentino, in queste calde mattine d’estate al borgo, sale aulentissimo e arriva fino ai Castelli Romani.

Poi una volta capito che il governo non aveva più la maggioranza in Parlamento, s’è annunciato che lo spread stava già salendo, che s’era trattato di una «tragica scelta» (Di Maio) e addirittura che eravamo in presenza d’un «Parlamento contro l’Italia». Questa mattina sulla prima pagina della «Stampa» campeggia un inequivocabile titolone: «Vergogna».
La profezia inizia a compiersi: la crisi derivata da una guerra che interessa gli Usa ma non l’Europa sta generando crisi politiche in tutti i paesi. Ci sono poche figure che rappresentano più di Draghi l’establishment del potere europeo. Ma questo non annulla la politica. E in Italia c’è ancora politica, anche se purtroppo non c’è una presenza di una sinistra parlamentare come a molti di noi piacerebbe

Il PD come Staatspartei. O (magari!) come la vecchia DC.

La repressione in Italia ovviamente non è paragonabile a quello che succede in Russia, ma gli arresti dei Si Cobas sono molto preoccupanti. Non oso pensare cosa succederebbe con un governo nero verde

L’8% dell’inflazione segnalato dall’ISTAT (si tratta del valore più alto dal 1986) è il risultato dell’aumento dei prezzi dell’energia causato dalle riduzioni russe e dalla speculazione, contemporaneamente, sulle materie prime. Si sta propagando agli alimenti e, in misura più contenuta, ai servizi. E aumenta le differenze di classe: la spesa delle famiglie meno abbienti è passata dal + 8,3% del primo trimestre al +9,8% del secondo trimestre 2022, mentre per quelle più abbienti dal +4,9% al +6,1%. I più colpiti sono i minori poveri, ci dice Save The Children. Qui le ragioni basilari di chi chiede da due anni l’estensione del “reddito di cittadinanza”: ma senza risposta. Del tema, infatti, Draghi non ha mai voluto sentir parlare.

ho espresso pubblicamente dure critiche al governo Draghi, ma ascoltando per ore e ore i vari interventi al Senato dei critici di Draghi, son costretto a dire che, scomparso il governo Draghi, faremmo il tragico salto dalla padella alla brace.

Elezioni: Unione Popolare si sbrighi a nascere e, se ci sarà questo spazio, sostenga Conte. Non bisogna lasciarsi terrorizzare e ricattare da chi dice che vince Meloni. Al tempo stesso, però, bisognerebbe attrezzarsi per evitare che vinca davvero, organizzandosi e ricominciando a fare politica.
 Draghi per conto mio è stato un pessimo governante, non ha risolto un solo problema, ha azzerato la democrazia, ha abbracciato una posizione guerrafondaia che mi fa venire i brividi. D’altra parte chi l’ha affondato non è migliore di lui
The Italian leader....was a key architect of the tough sanctions against Russian president Putin". Si tratta di una battuta d'arresto, scrive il Financial Times", per l'alleanza occidentale contro Mosca.

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A Colognom

di Ennio Abate
Colognosità
LE PERLE LINGUISTICHE DEI POLITICI COLOGNESI (3)

Ovvero piccoli consiglieri comunali (e probabili candidati sindaci) crescono

 

Ho simpatia e stima per il giovane Andrea Arosio, volto ancora pulito e serio della politica colognese. Però non condivido il bilancio che ha fatto della sua esperienza di consigliere comunale (https://www.facebook.com/…/pfbid0wBPhV9CGQyh82r26ehhakx…). Perché a me pare basato su un’idea di Politica apparentemente di buon senso ma riduttiva.
Certo, una Politica può essere (in singoli casi molto limitati) anche «SERVIZIO» (dei cittadini o della città). Ma attenzione a non farla diventare assistenza sociale. Come se i cittadini (a Cologno o altrove) fossero “deboli”, “minorenni, “disinformati” o “indifferenti” quasi soltanto per proprie colpe o debolezze. Sono degli sconfitti. Da tempo espropriati di diritti prima riconosciuti (al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla cultura). E non hanno più organizzazioni, che li educhino a rivendicarli questi diritti e non a rivolgersi a questo o a quel burocrate come dovessero ricevere una elemosina. Dobbiamo riorganizzarci e tornare a lottare.
Certo, fa parte della Politica anche la dimensione sociale e popolare. Che significa anche «entrare in contatto con tante persone, realtà locali e associazioni, commercianti e famiglie» o «saper osservare e mostrare il lato umano delle situazioni». Ma la crisi – anche per la sciagurata partecipazione alla guerra in Ucraina del governo Draghi – continua ad aggravarsi. Le bollette aumentano, il lavoro per i giovani non si trova o è mal pagato, gli sfratti scardinano la vita di molte famiglie. E, quindi, dopo che abbiamo osservato questo «lato umano» – esperienza che può essere anche « stimolante e arricchente» per il politico che se l’era dimenticato o lo ignorava – cosa si fa?
Certo, è lodevole che dei consiglieri comunali permettano «a quanti più Colognesi possibili di informarsi su quanto accadeva giorno dopo giorno» in Consiglio Comunale. Ma se da tempo il Consiglio Comunale di Cologno diretto da Rocchi era diventato un indecente e grottesco teatrino di arrampicatori sociali e di yes man incapaci di far politica, cosa potevano ricavare i cittadini dalla cronaca delle sedute o dal puntuale diario di bordo di Arosio?
Che all’inizio Arosio possa essere stato « ingenuo a credere che ci potesse essere un dialogo franco e costruttivo sui contenuti» con l’Amministrazione di Rocchi ci sta. Era un neoconsigliere. Ma dopo un po’ di fronte alla « miopia e arroganza» o alla « chiusura, strumentale e faziosa», che si fa? Si continua a picchiare la testa contro il muro? Ci si accontenta di informare in modo «trasparente e propositivo» ma inascoltati su questa brutta recita attraverso il diario di bordo?
Una buona politica è prima di tutto gestione e soluzione di conflitti. Quando ci si è accorti che l’opposizione in Consiglio comunale era svuotata, sarebbe stato meglio organizzarsi subito coi cittadini per farlo smettere il prima possibile questo teatrino indecente, invece di aspettare che crollasse da solo per beghe interne diventando tutti spettatori impotenti e mugugnanti.
Io, dunque, la rivedrei questa Politica come Servizio. Nei discorsi di Arosio e di CSD sento troppa eredità democristiana: troppi valori enunciati astrattamente (« competenza, serietà e passione»); troppa voglia di non scontentare nessuno e di bonificare (ma solo a parole e con bei sorrisi) le sacche spesso motivate di pessimismo e malcontento; troppa tendenza a nascondersi dietro affermazioni generiche (come questa: « non esistono soluzioni facili a questioni complesse. Non esiste il leader infallibile, la ricetta facile per ogni situazione»). Se si dice che «Cologno Monzese è infatti una città complessa ma con grande potenziale», bisogna pur chiarire in cosa consista questa complessità e in cosa consisterebbe il suo «grande potenziale». (Specie se subito dopo si afferma che Cologno è «una città economicamente e socialmente fragile, culturalmente eterogenea, politicamente deludente »). Non m’importa che Arosio e CSD ci credano che si possa «raggiungere questo nostro potenziale come Colognesi o come Città». Dov’è un’analisi ragionata ( e non un elenco della spesa) dei problemi di questa città?

Bisogna ripensare Cologno e la politica a Cologno.

* La foto di accompagnamento (Vecchia Chiesa di Cologno Monzese in Piazza XI febbraio) è di Mauro Cambia

Anticololognosità

RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (1)
Una riflessione a capitoletti

Nel 1987, quando con alcuni amici facevamo la rivista autoprodotta «Laboratorio Samizdat»[i] preparammo un questionario. Lo intitolammo «Immagini dell’hinterland: Cologno Monzese» e noi stessi della redazione cominciammo a rispondere alle domande che avevamo preparato. Eccole:
1. Consideri Cologno Monzese una città. Si, no, perché?
2. Secondo te, quali sono i tre aspetti più negativi di questa città?
3. Quali sono, invece, gli aspetti positivi di Cologno Monzese?
4. Fa’ un confronto fra Cologno Monzese e qualsiasi altra città o paese da te conosciuti. Cosa ha di più o di meno Cologno Monzese?
5. La tua attenzione a Cologno Monzese è aumentata o diminuita negli ultimi 10-15 anni? Perché?

6. Da quali quartieri e zone di Cologno Monzese, che hai frequentato di più, ti sei costruita la tua immagine (o idea) di Cologno?
7. Quali sono i quartieri o le zone di Cologno Monzese che più ignori? A chi ti rivolgeresti per fartene un’idea?
8. Quali sono state negli ultimi 10-15 anni le trasformazioni per te più evidenti di Cologno Monzese? Come le giudichi?
9. Quali sono i tuoi sentimenti verso Cologno Monzese?
10. Quali sono le tre esperienze più significative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
11. Quali sono le esperienze più negative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
12. Cologno ti appare come periferia di Milano. Si no, perché?
13. Ritieni possibile costruire una nuova immagine di Cologno Monzese? Se sì, in quale direzione (politica, culturale, economica, ecologica) impiegheresti le tue energie?
14. Pensi che a questa nuova immagine di Cologno Monzese possano contribuire di più i viaggiatori (quanti lavorano fuori Cologno o hanno di frequente rapporti con altri luoghi o Paesi anche stranieri) o i sedentari? Perché?

 

Nota
[i] «Laboratorio Samizdat» è stata una rivista ispirata al pensiero comunista (marxismo critico) della Nuova Sinistra, che a Cologno era stato rappresentato negli anni Settanta prima dal «Gruppo operai e Studenti» e poi dalla sezione di «Avanguardia operaia». Fu preparata – in una prima fase “in casa” (fotocopiata) e solo negli ultimi numeri stampata – a Cologno Monzese e diffusa a mano. Fra il 1986 e il 1990 uscirono, oltre al numero zero di prova, 8 numeri. In redazione: Ennio Abate, Roberto Fabbri, Erica Golo, Eugenio Grandinetti, Roberto Grossi, Marcello Guerra, Roberto Mapelli, Donatella Zazzi.
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Colognosità e italianità


di Ennio Abate 

Questi 4 articoli, che ho pubblicato nei giorni scorsi su POLISCRITTURE COLOGNOM e altre pagine di social locali,  trattano di personaggi che recitano  in modi tragicomici il misero copione della  colognosità, che poi in fondo ha parecchio in comune con l’italianità. (Risalire fino al classico  Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani di Giacomo Leopardi? Perché no.) La colognosità – scrissi in un appunto di diario già nel lontano 1987-  è «una sensibilità verso il mondo.  Forse altri avranno parlato di “mentalità da servi”,  di “alienazione” o di “psicologia degli oppressi”. Fatto sta che la mia esperienza quotidiana con la gente che ha fatto e fa politica a Cologno Monzese (periferia di Milano), dove abito dal 1964 in partiti, associazioni culturali, liste civiche, etc. di qualsiasi colore politico mi ha  messo di fronte a numerosi e vari esempi di: doppiezze servili, tortuosità nel condurre  confronti e polemiche,  antintellettualismo esibito come un vanto,  invidie malcelate ma rivolte non contro burocrati più o meno arroganti, che si trovano  un po’ ovunque, ma proprio verso chi osi mettere in dubbio o criticare  i comportamenti e i codici da clan parentali o amicali che in politica sono pane quotidiano. E  nei molti decenni venuti dopo il lampo del ’68-’69 ho assistito al mutarsi di  ribellismi  e progressismi –  forme abbastanza false e con un fondo di malafede – in rassegnazione, in settarismi o in collaborazione subordinata ai potenti di turno (maggiori o minimi, locali o regionali o nazionali). E, dunque, allo svelarsi anche di una sfiducia profondamente impolitica sulla possibilità di costruire rapporti non esclusivamente gerarchici tra individui e gruppi  sociali.».  Negli articoli uso nomi e cognomi  di alcuni politici locali ma avverto che la mia attenzione critica  non è accanimento personale contro di loro  e  va alle maschere di ambigui interessi, desideri e bisogni sociali che essi forse inconsapevolmente esprimono. [E. A.] Continua la lettura di Colognosità e italianità

E berardinelleggiar m’è dolce in questo mare

Nessuna descrizione della foto disponibile.
Da POLISCRITTURE SU FB. In margine a un post (https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754) e in dialogo – spero – con Francesco Brusa che l’ha commentato.

di Samizdat

Francesco Brusa

Secondo me [Marchesini] così la butti un po’ in caciara. Quello che chiami “rapporto malato con la verità” era in realtà [da parte di Fortini] attenzione e fedeltà assoluta al “dover essere” (suo e dell’ambiente politico-culturale in cui ha pensato di volta in volta di riconoscersi), che magari portava a forzature ed “estremismi”, ma che ha sempre rappresentato un sincero sforzo di proiezione in avanti del pensiero. Lo stesso Bellocchio lo riconosce come tale.
Non è goliardica “caciara”. E’ scelta politica “fogliacea” abilmente mascherata di letteratura “etica” individualista. Sulla scia del suo maestrino Berardinelli “il saggio o il sapiente […] l’‘orientale’ che vive in un altro presente – un presente liberato dalle scorie delle ideologie, dalla chimera del futuro, e quindi dalle velleità dei progetti di dominio […] una mente taoista. “, come scrive sopra (PER ALFONSO BERARDINELLI, NATO L’11 LUGLIO (dal Foglio) https://www.facebook.com/…/pfbid02sXjtQD4USYnqNu9tubd8W…).
Francesco, questa – (Mughini non docuit?) – è la novissima “giovane critica”.
Che si è “dimessa da tutto” (ma non dai giornali, i quali – lo sanno anche i bambini – non hanno a che fare “con l’ordine sociale e con il potere economico e politico” (perché, se no, come e dove si va a fare i “Socrate giornalista”?).
Che sbandiera l’esser “nato “in una famiglia operaia old fashion”” per pavoneggiarsi della “condizione berardinelliana”(sic!) alias comunemente piccolo borghese.
Che finge “un senso di radicale inappartenenza”, ma s’appaga della nicchia (di potere piccolo borghese) in un rapporto ambivalente non opposto ma subordinato “a quello degli amici borghesi, rivoluzionari e no”.
Che quanto più la realtà sociale italiana è stata spronata negli ultimi decenni all’io-io dell'”individualismo proprietario” (Barcellona) tanto più si rappresenta in malafede un’Italia come “paese nemico dell’individualismo”.
E Berardinelli avrebbe “la gioia di vedere ogni mattina la realtà dalla prospettiva di chi non rappresenta altri che sé stesso”?
Ma mi faccia il piacere!
Parla a nome di questo individuo-massa ex piccolo borghese e lo gratifica e lo coccola nella sua pretesa di “diversità” dagli ex borghesi e dall’ex proletariato.

Meditazioni fessbucchiane sul disastro

Dalla pagina FB di Tito Truglia

a cura di Samizdat

 

Ennio Abate
Un lamento simile qui:

Stefano G. Azzarà  22giugno ore 8:26
Il M5stelle è politicamente finito - persino prima di ogni previsione possibile - e non esiste uno straccio di sinistra non dico in grado di approfittarne e riempire il vuoto ma nemmeno di riprendersi lo spazio e gli elettori che erano suoi.

Stop lamenti.

Tito Truglia
Ennio io però non pensavo a Luigino. Non ce ne po’ frega dde meno. Anzi in quel caso la divisione potrebbe avere qualche utilità. No la frase l’avevo fatta in riferimento (che non si vedeva) alla giusta indignazione di Cremaschi su Draghi. Cremaschi come tutti noi è appunto fermo sull’indignazione. Cosa ci indigniamo a fare? Fanno quello che vogliono. Ennio prima di tutto unirsi. Poi si vedrà. Se fosse una unità di intelligenze sarebbe meglio. Ma intanto unire i pezzetti. I pezzi non sono buoni? Sono quello che sono. Al momento sono i migliori che abbiamo…

Ennio Abate
Se fai uno spoglio dei post precedenti di Azzarà (anche vecchi), vedrai che il suo “lamento” non riguarda solo “Luigino”. Insiste pure lui, da anni, sul mettere insieme i “cocci” o i “pezzi” (dei comunisti, della sinistra). Per me è una strada bloccata. Ad ogni passo si rischia la nostalgia per miti tramontati e ci si impantana su contraddizioni reali e irrisolte di quella storia (marxismo/anarchismo; Lenin/Stalin, ecc.). Tutti i tentativi fatti (da Rifondazione ai nuovi PCI) si sono dimostrati fallimentari. Con gli epigoni di una storia male elaborata (nei suoi lutti e tragedie) non si fa molta strada. Meglio il silenzio? Sì, a volte penso che un silenzio (attivo, che studi com’è andata, perché è andata così e che cosa si può fare al di fuori dalle solite vecchie polemiche in cui ogni epigono lucida il suo pezzo di storia “più buono” del tuo) sia meglio della solita chiacchiera, lamentosa appunto.

Tito Truglia
Ennio sì d’accordo, totalmente, che andrebbero ridiscussi alcuni temi forti della “tradizione” così come andrebbe ridiscussi il senso sul presente, le analisi sulle forme attuali del potere, di noi, delle emergenze attuali, delle strutture, ecc. Senza questo lavoro si va di rattoppi. Ma è questo lavoro che sembra impossibile fare a causa delle difficoltà di creatività e di intelligenza sociale (e politica). Il lavoro intellettuale è difficile se non impossibile, la comunanza delle sensibilità pure, figurarsi se si riesce a parlare di comuni interessi. Però bisognerebbe partire. E fare. È penoso dover affrontare il ghigno di Renzi o la prosopopea di Calenda oppure ora anche il draghetto Luigino. Ognuno di loro allo O,O2… Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi. Ma è solo una opinione personale… Saluti!!

Ennio Abate
“Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi.”
Mi permetto di aggiungere: prima nella propria mente e distanziandosi dalla “compagnia malvagia e scempia”.

Appendice

1.
Lanfranco Caminiti
l’idea è questa di qua: non c’è più interconnessione globale dei mercati, quella che – come abbiamo pensato in europa – allontana i conflitti e le guerre. c’è la geopolitica: sovrani o coloni. e la geopolitica è forza. e l’ucraina è solo “un esempio”. una specie di guerra fredda – due mondi – che si è fatta calda assai, ma dove non c’è più la contrapposizione ideologica, ma solo quella di potenze. l’imperialismo – e putin è imperialista – è, come ci spiegava lenin, sostanzialmente: guerra

Maurizio ‘gibo’ Gibertini
Lanfranco, ti risulta che la globalizzazione abbia allontanato conflitti e guerre? O meglio si le ha più o meno allontanate – ti evito la lista no? – a parte Serbia ecc. E poi le ha riportate in Europa con enormi flussi di profughi a cui hanno pensato Polonia Ungheria da una parte e i turcomanni dall’altra. Che un solo mercato dettasse le condizioni per sempre imponendo regole e unità di scambio decise dal più forte era impensabile e l’affermarsi di altre economie forti e globali non poteva portare che a nuove forme e a nuove unità di misura. Guerre intercapitaliste ci sono sempre state e sono cicliche, Qualche popolo ne uscirà massacrato, qualche confine verrà ridefinito, noi continueremo a parlare tanto quello che diciamo non conta un cazzo e alla fine loro ristabiliranno un nuovo equilibrio. Per lo meno evitiamo di schierarci con gli uni o con gli altri perché in questo ‘gioco’ noi siamo solo carne da macello.

2.
Brunello Mantelli
Putin ha poco da offrire: a) le armi atomiche (ma a che servono? Come i cannoni contro le zanzare), b) gas e petrolio (non li ha solo lui); 3) un apparato militare (sgalfetto, si è visto); 4) un vasto repertorio di simboli (da soli non bastano). Se vuole trasformarsi nel braccio militare (una grande compagnia di ventura Wagner) della Cina non è un gran destino (Cina ed India hanno prospettive tra loro non proprio compatibili). MI pare il suo un discorso da canna del gas.

3.
Giuseppe Muraca
Sul piano culturale le migliori cose le ho organizzate da solo, o con pochi amici.Per esperienza diretta se si è più di due o tre si finisce sempre per litigare.

Ennio Abate
Mi spiace ammetterlo ma dolorosamente sono arrivato alla stessa conclusione. E’ però un segno di sconfitta.

4.
Pierluigi Sullo
Mah, io mi sono fatto un’idea che avevo anche cominciato a scrivere. Lo spunto era la mia lettura giovanile di Emilio Sereni sul capitalismo nelle campagne. Dopo la guerra, i comunisti cominciarono a studiare un paese che non conoscevano più, e meno male che c’erano i quaderni di Gramsci. Ma lo studio non era inerte, bensì un’esplorazione minuziosa di ogni possibilità di mettere in movimento le masse dei lavoratori, dei contadini, dell’intellettualità. Oggi noi dovremmo ripartire da zero: sarebbe immaginabile un istituto, un centro di ricerca, altrettanto non inerte, ma staccato dalla politica, nella sua miseria, e utile a capire, a proporre, a immaginare? Temo di no, anche perché molti intellettuali di sinistra sono diventati “pacifisti”, loro sì inerti, alla maniera che Zizek descrive. Chissà.

Brunello Mantelli
Secondo me sì. Un pochino (pochino) ci si sta provando con “Officina Primo Maggio” (vedi anche on line). 

Lanfranco Caminiti
ricordo benissimo lo splendido testo di sereni. credo che, in fondo, tutta la conricerca di alquati davanti la fiat – conoscere sta massa di operai che venivano dalle campagne del sud (panzieri li conosceva bene, li aveva organizzati nelle occupazioni delle terre, poi sconfitte) – si iscrivesse in questo “bisogno di capire” come stava cambiando l’organizzazione del lavoro e il lavoro vivo. non saprei dirti sulla tua proposta – anche sergio bologna ha lavorato molto sul logistico, la distribuzione, i nuovi lavoratori, a esempio. io credo piuttosto che servirebbe una nuova voce politica “a sinistra”: e penso a un soggetto che si faccia carico di costruire una “nuova europa” a partire dai suoi movimenti sociali, da lisbona a vladivostok.

 5.
Nevio Gambula
La sfiducia di un antimilitarista nella realtà della guerra. Questo potrebbe essere la sintesi del mio stato emotivo, sempre più propenso al pessimismo. Malgrado il mio ottimismo di fondo, l’andamento della guerra in Ucraina e l’ipocrisia occidentale mi influenzano più di quanto vorrei – e lo scetticismo avanza inesorabilmente dentro di me.
Riesco sempre meno a riconoscermi nelle parole d’ordine di quest’epoca. Mentre tutti si prostrano dinanzi al militarismo, io continuo a rimanere fedele all’obiettivo del disarmo e della neutralità del mio paese. Ma l’epoca, con la sua narrazione bellica dominante, fa coincidere la pace con il riarmo – e la democrazia con l’alleanza militare.
Io continuo a sognare una società dove sia bandita la guerra. Rifiuto di riconoscere legittimità all’idea che il nostro destino dipenda dall’uso della forza militare. Il mondo è piccolo, abitiamo uno accanto all’altro, condividiamo le stesse paure e le stesse risorse; niente può proteggere o rassicurare quanto la vocazione a sentirsi parte della stessa specie. Perché, invece di tendere le braccia, dovremmo impugnare la clava?
Ho sempre saputo, ovviamente, che nella realtà del capitalismo scorre il sangue della guerra. Tra la pace e la barbarie, l’abisso è profondo – e il ponte che le precedenti generazioni avevano costruito non esiste più. Dunque, l’epoca non può che celebrare la guerra, affermando in modo categorico che il discorso pacifista è impotente, astratto o, peggio, colluso col nemico.
Anacronistico rispetto all’epoca, il pensiero di chi rifiuta la guerra “come soluzione delle controversie internazionali” è considerato utopista, e quindi una visione troppo distante dalla realtà. Ciò è probabilmente vero. E allora, che fare?
Giungono alle mie orecchie le risatine sarcastiche dell’epoca: – Devi guardare in faccia la realtà una volta per tutte; la guerra è il nostro destino. Che fare? Accordarmi all’epoca?
Nel giorno del bombardamento di Bagdad, insieme a milioni di persone nel mondo, e con la forza di chi ha ragione, mi sono lasciato trascinare dalla folla che manifestava contro la guerra. Ho protestato, anche rumorosamente, contro tutte le guerre che sono venute dopo, chiunque fosse l’aggressore. Ho continuato e sviluppato questa critica del militarismo in nome di un’umanità diversa, plurale ed eguale – un’umanità finalmente capace di rinunciare a ogni velleità imperiale. Dimenticare me stesso?
Il capitalismo implica la guerra. Pertanto, l’epoca non può che adagiarsi fedelmente alle sue esigenze. La pace svanisce quando la crisi economica si risolve nello scontro di potenze: prevale «una politica di conquista armata dei mercati».
Ma se nel momento in cui l’epoca smette di essere pacifica abbandoniamo il sogno di un mondo dove ogni popolo «si vede e si dimentica negli altri affinché tutti siano più uniti», che senso ha vivere? Se smettiamo di sognare il disarmo e la neutralità, per cosa possiamo fremere? Per un tank nemico distrutto? Per evocare con naturalezza una catastrofe atomica?

 

Su Fachinelli. Appunti di lettura

Riordinadiario 10-22 giugno 2022

di Ennio Abate

1.
Nel 1998 seguii  a Milano un convegno su «Il desiderio dissidente. Il pensiero e la pratica di Elvio Fachinelli» e ne feci un resoconto (qui) che mi pare ancora  punto fermo della mia riflessione su di lui. In un’ottica forse “scuolocentrica” (era il mio ultimo anno d’insegnamento, accennavo anche al «dibattito-scontro culturale, politico e pedagogico fra Fachinelli e Fortini», che ho  ripreso  nelle ultime settimane pubblicando la prima parte (qui). Continua la lettura di Su Fachinelli. Appunti di lettura

Riordinadiario 26 dicembre 1977

Trascrizione da dattiloscritto. Pre-narratorio.

SEMINARIO ARCIVESCOVILE DI SALERNO

accettai la medicina/ da mani amiche/ nauseante clausura/ ho fotografato ad anni di distanza e d’esperienza/ con tremito di breve sconfitta/ la mia prigione di una settimana nel tiepido autunno del 1951/ con quanta imperizia/ da bambino/ palpai frastornato le immagini del mondo che mi  era stato assegnato/ mi avviarono oscuri filosofi/ parenti sfuggiti alla guerra/(non potevano morire/ senza gravarci del viscido ossequio/ ai gestori dell’angoscia)/ non bastarono le immagini campagnole raccolte da fanciullo/ (non fummo  primitivi)/ me le avevano già spazzate via/ a 12 anni ero stato ripulito/ purificato/ come un impiccato di Villon/ cavia volontaria di gioie cattoliche da dopoguerra/ poche/ speranze neppure una/ scampato poi/ in esilio/ scampato per ribellione viscerale/ marchiato comunque/ ribelle comunque/ ah, la vergogna di camminare nella fila dei seminaristi/ teste già rasate/ l’orrore delle pulci nel letto/ la prepotenza del capo sala/ l’esempio inimitabile del fuggitivo riacciuffato/ il cibo scarso/ la solitudine/ peccati?/ e che peccati?/ l’indisponibilità al gioco/ lo sfottò negli sguardi della gente/ dipendenza da inconsapevoli torturatori/ angoscia pesantissima/ inesprimibile/ l’invidia addirittura di una persona conosciuta intravista nella strada/ compagno di sventura/ si chiamava Tisi Aldo/ nessuna concezione alternativa/ manco un comunista allora/ Salerno: manicomio clericale/ contro il capitalismo?/ ma se eravamo ignari leccaculi di un deputato democristiano e del prete?/ ci salvò il risveglio sessuale/ si ribellò il corpo/ l’intelligenza non poteva/ la voglia di amicizia/ la claustrofobia/ poche le fanciulle/ punti di appoggio per liberarsi ed esprimersi: quelli/ visto che anche fuori dal seminario le amicizie erano quelle/ le strade quelle/ aggirarsi sentendosi come traditori/ fra quegli stessi preti e stesse bigotte/ non aver soddisfatto la loro attesa/ e restavano potenti/ avevano centri d’organizzazione e autorità/
da dove venivo?/ veniamo da dove/ compagni? da questo marcio/ marcio visibile per voi/ addosso/ dentro/ sotto la pelle/ per noi del Sud/ anni dovranno passare/ studi amicizie letture ribellioni impercettibili/ per prendere le distanze/ poter fotografare/ ancora quasi tremante/ quella prigione e non  reliquia/ quel seminario arcivescovile/ mentre la DC perdeva voti/ diminuivano le vocazioni/ su Epoca conoscevamo le prime illustrazioni degli impressionisti/ imparavamo a cercare nei libri segni di mondi più respirabili/ altro che conoscenza libresca!/ per noi i libri erano un lusso/ al loro posto incontravamo gente/  assorbivano un po’ i nostri spurghi d’angoscia/ i nostri amori fiacchi/ carte assorbenti/ gente gente gente/  ma conosciuta in esilio/ e quanti altri  vi restarono in quel seminario e furono preti?/ per un pezzo scartato/ quanti riusciti?/ e uno scarto resta sempre uno scarto/ porta il segno di un progetto   nel suo corpo/  ma fallito/ e non basta l’invettiva/ contro i filosofi oscuri del dopoguerra che  ci trasmisero il fardello/ il linguaggio di angoscia e di morte/  riusciti nell’impresa/ traspare ancora nel nostro linguaggio “nuovo”/ permanenza/  accanto alla scommessa disperata nel futuro/ la rende meno pericolosa/ virile e contenuta accettazione?/evita puerilità nelle rivolte?/ ora che siamo scampati anche ad un seminario rosso?/ appena in tempo e non senza danni?/ carte ancora scompaginate/ l’osservatorio che sembrava tanto in alto/ da permettere una visione unitaria del passato/ appare troppo in basso/ancora soltanto ai piedi della montagna/ ci si deve rimettere in cammino/ nuovo esilio/ vederci ancora ragazzi/ proletari/ vittime/ perché il cattolicesimo riguarda i proletari/ le vittime/ la parte più sguarnita dei nostri/ e non basta

Nota

Sede del Museo Diocesano di Salerno, l’antico Seminario Arcivescovile (adibito prima a sede della Scuola Medica Salernitana) sorto a ridosso della cattedrale, fu fondato dall’arcivescovo Gaspare Cervantes in ottemperanza ad una disposizione del Concilio di Trento (1543 -1563), al quale aveva preso parte, che ordinava ad ogni Diocesi di istituire un collegio nel quale formare i giovani decisi ad avviarsi alla vita sacerdotale. L’edificio venne, quindi, ampliato dal suo successore, Antonio I Colonna, nel 1570 e successivamente ancora rimaneggiato. Nel 1731, sotto l’Arcivescovo di Capua, la struttura venne completamente ricostruita e collegata alla Cattedrale con una scala ed infine assunse una fisionomia rigorosamente neoclassica nel 1832, quando l’arcivescovo Lupoli fece sopraelevare il secondo piano e trasformò l’intera facciata principale. Con l’Arcivescovo Mons. Marino Paglia (1835-1857), che avviò lavori di rinnovo (costruzione dell’altare in marmo nella cappella; rifacimento dello scalone; realizzazione dei grandi finestroni in ferro dei corridoi di affaccio delle camerate; affreschi con figure di santi e sapienti nell’atrio) la fama raggiunta dal Seminario di Salerno, quale luogo di erudizione scientifica e letteraria, fu tale da farlo ritenere uno dei migliori istituti del Regno. Per questo motivo fu visitato da Giacomo Leopardi nel 1836, da Papa Pio IX e dal Re di Napoli Ferdinando II nel 1849. Il terremoto del 23 novembre del 1980 causò notevoli danni alle strutture dell’edificio, tanto da rendere necessario, dopo oltre quattro secoli, il completo e definitivo trasferimento dei seminaristi in un complesso di recente costruzione.

© 2021 MiC – Ultimo aggiornamento 2020-05-21 14:53:25 (da qui)

“Saggio sulla violenza”. Leggere (o rileggere) Sofsky

di Ennio Abate

Non vorrei distrarre nessuno dall’analisi storica della tragedia in corso in Ucraina ma a me vengono sempre in mente ancora adesso le riflessioni pessimistiche ma lucide e ineludibili di un libro pubblicato nei lontanissimi anni ’90 di Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, che se non ricordo male lessi su segnalazione di Cesare Cases su L’indice dei libri.
Ne voglio citare qui un passo del Cap. 1 Ordine e violenza, che riflette sul mito della nascita della società:”[Il mito] non narra soltanto dell’origine della società e della fondazione dello stato, ma del ciclo della civilizzazione, del ritorno all’inizio. Non raffigura la fine della violenza, bensì il mutare delle sue forme. Allo stato di natura seguono potere, tortura e persecuzione; l’ordine si compie nella rivolta, nel tripudio del massacro. La violenza rimane onnipresente: attraversa la storia del genere umano, dall’inizio alla fine. La violenza crea caos e l’ordine crea violenza. Questo dilemma è irrisolvibile. Fondato sulla paura della violenza, l’ordine stesso genera paura e violenza. Poiché le cose stanno in questi termini, il mito conosce la conclusione della storia.Cosa spinge gli uomini gli uni verso gli altri? La risposta è inequivocabile. La società non si basa su un irrefrenabile impulso alla socievolezza, né sulla necessità del lavoro. E’ l’esperienza della violenza che unisce gli uomini. La società è una misura preventiva di reciproca difesa. Mette fine alla condizione della libertà assoluta. Da questo momento in poi non è più tutto permesso. Il mito lavora secondo un modello essenziale. Non scomoda né l’economia né la psicologia. Non fa cenno all’avidità, alla proprietà e alla concorrenza, e nemmeno alla sete di gloria, alla cattiveria e all’aggressività. Esso si concentra esclusivamente sui fatti fisici e sociali, su regola e potere, su corpo e violenza. Se nessuna convenzione limita l’agire, gli abusi sono sempre possibili. La lotta per la sopravvivenza è inevitabile. Non è il fatto che ciascuno eserciti continuamente la violenza a caratterizzare uno stato di illegalità, piuttosto il fatto che in ogni momento sia possibile colpire, con o senza uno scopo. La guerra di ogni singolo contro l’altro non consiste in un infinito bagno di sangue, ma nella costante paura che esso avvenga. Origine e fondamento della socializzazione risiedono nella paura reciproca degli esseri umani. Per questo il mito parla non degli assassini, dell’oscura natura ferina degli uomini, bensì delle vittime, della loro esigenza di protezione e di incolumità. Tutti gli esseri umani sono uguali poiché tutti sono corpi. Necessitano di contratti, perché sono vulnerabili, perché nulla è per loro più temibile del dolore nei loro corpi. Si stringono l’uno all’altro per difendersi l’uno dall’altro. Si mantengono in vita stabilendo come sopportarsi a vicenda. La costituzione della società si fonda in ultima istanza sulla costituzione corporea dell’uomo come essere vivente”(pagg. 5-6)

Continua la lettura di “Saggio sulla violenza”. Leggere (o rileggere) Sofsky

Fachinelli e/o Fortini? (1)


Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Prima parte

ELVIO FACHINELLI, IL DESIDERIO DISSIDENTE
(QUADERNI PIACENTINI N.33 - FEBBRAIO 1968)

Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato –   in un presente che allora ribolliva.  Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li  diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 –  vent’anni dopo  tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini»,  neppure l’avrei  notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni  Settanta, mi aveva  raggiunto e  preso in ostaggio. Continua la lettura di Fachinelli e/o Fortini? (1)