Da POLISCRITTURE SU FB. In margine a un post (https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754) e in dialogo – spero – con Francesco Brusa che l’ha commentato.
di Samizdat
di Samizdat
Dalla pagina FB di Tito Truglia
a cura di Samizdat
Ennio Abate
Un lamento simile qui:
Stefano G. Azzarà 22giugno ore 8:26
Il M5stelle è politicamente finito - persino prima di ogni previsione possibile - e non esiste uno straccio di sinistra non dico in grado di approfittarne e riempire il vuoto ma nemmeno di riprendersi lo spazio e gli elettori che erano suoi.
Stop lamenti.
Tito Truglia
Ennio io però non pensavo a Luigino. Non ce ne po’ frega dde meno. Anzi in quel caso la divisione potrebbe avere qualche utilità. No la frase l’avevo fatta in riferimento (che non si vedeva) alla giusta indignazione di Cremaschi su Draghi. Cremaschi come tutti noi è appunto fermo sull’indignazione. Cosa ci indigniamo a fare? Fanno quello che vogliono. Ennio prima di tutto unirsi. Poi si vedrà. Se fosse una unità di intelligenze sarebbe meglio. Ma intanto unire i pezzetti. I pezzi non sono buoni? Sono quello che sono. Al momento sono i migliori che abbiamo…
Ennio Abate
Se fai uno spoglio dei post precedenti di Azzarà (anche vecchi), vedrai che il suo “lamento” non riguarda solo “Luigino”. Insiste pure lui, da anni, sul mettere insieme i “cocci” o i “pezzi” (dei comunisti, della sinistra). Per me è una strada bloccata. Ad ogni passo si rischia la nostalgia per miti tramontati e ci si impantana su contraddizioni reali e irrisolte di quella storia (marxismo/anarchismo; Lenin/Stalin, ecc.). Tutti i tentativi fatti (da Rifondazione ai nuovi PCI) si sono dimostrati fallimentari. Con gli epigoni di una storia male elaborata (nei suoi lutti e tragedie) non si fa molta strada. Meglio il silenzio? Sì, a volte penso che un silenzio (attivo, che studi com’è andata, perché è andata così e che cosa si può fare al di fuori dalle solite vecchie polemiche in cui ogni epigono lucida il suo pezzo di storia “più buono” del tuo) sia meglio della solita chiacchiera, lamentosa appunto.
Tito Truglia
Ennio sì d’accordo, totalmente, che andrebbero ridiscussi alcuni temi forti della “tradizione” così come andrebbe ridiscussi il senso sul presente, le analisi sulle forme attuali del potere, di noi, delle emergenze attuali, delle strutture, ecc. Senza questo lavoro si va di rattoppi. Ma è questo lavoro che sembra impossibile fare a causa delle difficoltà di creatività e di intelligenza sociale (e politica). Il lavoro intellettuale è difficile se non impossibile, la comunanza delle sensibilità pure, figurarsi se si riesce a parlare di comuni interessi. Però bisognerebbe partire. E fare. È penoso dover affrontare il ghigno di Renzi o la prosopopea di Calenda oppure ora anche il draghetto Luigino. Ognuno di loro allo O,O2… Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi. Ma è solo una opinione personale… Saluti!!
Ennio Abate
“Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi.”
Mi permetto di aggiungere: prima nella propria mente e distanziandosi dalla “compagnia malvagia e scempia”.
Appendice
1.
Lanfranco Caminiti
l’idea è questa di qua: non c’è più interconnessione globale dei mercati, quella che – come abbiamo pensato in europa – allontana i conflitti e le guerre. c’è la geopolitica: sovrani o coloni. e la geopolitica è forza. e l’ucraina è solo “un esempio”. una specie di guerra fredda – due mondi – che si è fatta calda assai, ma dove non c’è più la contrapposizione ideologica, ma solo quella di potenze. l’imperialismo – e putin è imperialista – è, come ci spiegava lenin, sostanzialmente: guerra
Maurizio ‘gibo’ Gibertini
Lanfranco, ti risulta che la globalizzazione abbia allontanato conflitti e guerre? O meglio si le ha più o meno allontanate – ti evito la lista no? – a parte Serbia ecc. E poi le ha riportate in Europa con enormi flussi di profughi a cui hanno pensato Polonia Ungheria da una parte e i turcomanni dall’altra. Che un solo mercato dettasse le condizioni per sempre imponendo regole e unità di scambio decise dal più forte era impensabile e l’affermarsi di altre economie forti e globali non poteva portare che a nuove forme e a nuove unità di misura. Guerre intercapitaliste ci sono sempre state e sono cicliche, Qualche popolo ne uscirà massacrato, qualche confine verrà ridefinito, noi continueremo a parlare tanto quello che diciamo non conta un cazzo e alla fine loro ristabiliranno un nuovo equilibrio. Per lo meno evitiamo di schierarci con gli uni o con gli altri perché in questo ‘gioco’ noi siamo solo carne da macello.
2.
Brunello Mantelli
Putin ha poco da offrire: a) le armi atomiche (ma a che servono? Come i cannoni contro le zanzare), b) gas e petrolio (non li ha solo lui); 3) un apparato militare (sgalfetto, si è visto); 4) un vasto repertorio di simboli (da soli non bastano). Se vuole trasformarsi nel braccio militare (una grande compagnia di ventura Wagner) della Cina non è un gran destino (Cina ed India hanno prospettive tra loro non proprio compatibili). MI pare il suo un discorso da canna del gas.
3.
Giuseppe Muraca
Sul piano culturale le migliori cose le ho organizzate da solo, o con pochi amici.Per esperienza diretta se si è più di due o tre si finisce sempre per litigare.
Ennio Abate
Mi spiace ammetterlo ma dolorosamente sono arrivato alla stessa conclusione. E’ però un segno di sconfitta.
4.
Pierluigi Sullo
Mah, io mi sono fatto un’idea che avevo anche cominciato a scrivere. Lo spunto era la mia lettura giovanile di Emilio Sereni sul capitalismo nelle campagne. Dopo la guerra, i comunisti cominciarono a studiare un paese che non conoscevano più, e meno male che c’erano i quaderni di Gramsci. Ma lo studio non era inerte, bensì un’esplorazione minuziosa di ogni possibilità di mettere in movimento le masse dei lavoratori, dei contadini, dell’intellettualità. Oggi noi dovremmo ripartire da zero: sarebbe immaginabile un istituto, un centro di ricerca, altrettanto non inerte, ma staccato dalla politica, nella sua miseria, e utile a capire, a proporre, a immaginare? Temo di no, anche perché molti intellettuali di sinistra sono diventati “pacifisti”, loro sì inerti, alla maniera che Zizek descrive. Chissà.
Brunello Mantelli
Secondo me sì. Un pochino (pochino) ci si sta provando con “Officina Primo Maggio” (vedi anche on line).
Lanfranco Caminiti
ricordo benissimo lo splendido testo di sereni. credo che, in fondo, tutta la conricerca di alquati davanti la fiat – conoscere sta massa di operai che venivano dalle campagne del sud (panzieri li conosceva bene, li aveva organizzati nelle occupazioni delle terre, poi sconfitte) – si iscrivesse in questo “bisogno di capire” come stava cambiando l’organizzazione del lavoro e il lavoro vivo. non saprei dirti sulla tua proposta – anche sergio bologna ha lavorato molto sul logistico, la distribuzione, i nuovi lavoratori, a esempio. io credo piuttosto che servirebbe una nuova voce politica “a sinistra”: e penso a un soggetto che si faccia carico di costruire una “nuova europa” a partire dai suoi movimenti sociali, da lisbona a vladivostok.
5.
Nevio Gambula
La sfiducia di un antimilitarista nella realtà della guerra. Questo potrebbe essere la sintesi del mio stato emotivo, sempre più propenso al pessimismo. Malgrado il mio ottimismo di fondo, l’andamento della guerra in Ucraina e l’ipocrisia occidentale mi influenzano più di quanto vorrei – e lo scetticismo avanza inesorabilmente dentro di me.
Riesco sempre meno a riconoscermi nelle parole d’ordine di quest’epoca. Mentre tutti si prostrano dinanzi al militarismo, io continuo a rimanere fedele all’obiettivo del disarmo e della neutralità del mio paese. Ma l’epoca, con la sua narrazione bellica dominante, fa coincidere la pace con il riarmo – e la democrazia con l’alleanza militare.
Io continuo a sognare una società dove sia bandita la guerra. Rifiuto di riconoscere legittimità all’idea che il nostro destino dipenda dall’uso della forza militare. Il mondo è piccolo, abitiamo uno accanto all’altro, condividiamo le stesse paure e le stesse risorse; niente può proteggere o rassicurare quanto la vocazione a sentirsi parte della stessa specie. Perché, invece di tendere le braccia, dovremmo impugnare la clava?
Ho sempre saputo, ovviamente, che nella realtà del capitalismo scorre il sangue della guerra. Tra la pace e la barbarie, l’abisso è profondo – e il ponte che le precedenti generazioni avevano costruito non esiste più. Dunque, l’epoca non può che celebrare la guerra, affermando in modo categorico che il discorso pacifista è impotente, astratto o, peggio, colluso col nemico.
Anacronistico rispetto all’epoca, il pensiero di chi rifiuta la guerra “come soluzione delle controversie internazionali” è considerato utopista, e quindi una visione troppo distante dalla realtà. Ciò è probabilmente vero. E allora, che fare?
Giungono alle mie orecchie le risatine sarcastiche dell’epoca: – Devi guardare in faccia la realtà una volta per tutte; la guerra è il nostro destino. Che fare? Accordarmi all’epoca?
Nel giorno del bombardamento di Bagdad, insieme a milioni di persone nel mondo, e con la forza di chi ha ragione, mi sono lasciato trascinare dalla folla che manifestava contro la guerra. Ho protestato, anche rumorosamente, contro tutte le guerre che sono venute dopo, chiunque fosse l’aggressore. Ho continuato e sviluppato questa critica del militarismo in nome di un’umanità diversa, plurale ed eguale – un’umanità finalmente capace di rinunciare a ogni velleità imperiale. Dimenticare me stesso?
Il capitalismo implica la guerra. Pertanto, l’epoca non può che adagiarsi fedelmente alle sue esigenze. La pace svanisce quando la crisi economica si risolve nello scontro di potenze: prevale «una politica di conquista armata dei mercati».
Ma se nel momento in cui l’epoca smette di essere pacifica abbandoniamo il sogno di un mondo dove ogni popolo «si vede e si dimentica negli altri affinché tutti siano più uniti», che senso ha vivere? Se smettiamo di sognare il disarmo e la neutralità, per cosa possiamo fremere? Per un tank nemico distrutto? Per evocare con naturalezza una catastrofe atomica?
Riordinadiario 10-22 giugno 2022
di Ennio Abate
1.
Nel 1998 seguii a Milano un convegno su «Il desiderio dissidente. Il pensiero e la pratica di Elvio Fachinelli» e ne feci un resoconto (qui) che mi pare ancora punto fermo della mia riflessione su di lui. In un’ottica forse “scuolocentrica” (era il mio ultimo anno d’insegnamento, accennavo anche al «dibattito-scontro culturale, politico e pedagogico fra Fachinelli e Fortini», che ho ripreso nelle ultime settimane pubblicando la prima parte (qui). Continua la lettura di Su Fachinelli. Appunti di lettura
Trascrizione da dattiloscritto. Pre-narratorio.
SEMINARIO ARCIVESCOVILE DI SALERNO
accettai la medicina/ da mani amiche/ nauseante clausura/ ho fotografato ad anni di distanza e d’esperienza/ con tremito di breve sconfitta/ la mia prigione di una settimana nel tiepido autunno del 1951/ con quanta imperizia/ da bambino/ palpai frastornato le immagini del mondo che mi era stato assegnato/ mi avviarono oscuri filosofi/ parenti sfuggiti alla guerra/(non potevano morire/ senza gravarci del viscido ossequio/ ai gestori dell’angoscia)/ non bastarono le immagini campagnole raccolte da fanciullo/ (non fummo primitivi)/ me le avevano già spazzate via/ a 12 anni ero stato ripulito/ purificato/ come un impiccato di Villon/ cavia volontaria di gioie cattoliche da dopoguerra/ poche/ speranze neppure una/ scampato poi/ in esilio/ scampato per ribellione viscerale/ marchiato comunque/ ribelle comunque/ ah, la vergogna di camminare nella fila dei seminaristi/ teste già rasate/ l’orrore delle pulci nel letto/ la prepotenza del capo sala/ l’esempio inimitabile del fuggitivo riacciuffato/ il cibo scarso/ la solitudine/ peccati?/ e che peccati?/ l’indisponibilità al gioco/ lo sfottò negli sguardi della gente/ dipendenza da inconsapevoli torturatori/ angoscia pesantissima/ inesprimibile/ l’invidia addirittura di una persona conosciuta intravista nella strada/ compagno di sventura/ si chiamava Tisi Aldo/ nessuna concezione alternativa/ manco un comunista allora/ Salerno: manicomio clericale/ contro il capitalismo?/ ma se eravamo ignari leccaculi di un deputato democristiano e del prete?/ ci salvò il risveglio sessuale/ si ribellò il corpo/ l’intelligenza non poteva/ la voglia di amicizia/ la claustrofobia/ poche le fanciulle/ punti di appoggio per liberarsi ed esprimersi: quelli/ visto che anche fuori dal seminario le amicizie erano quelle/ le strade quelle/ aggirarsi sentendosi come traditori/ fra quegli stessi preti e stesse bigotte/ non aver soddisfatto la loro attesa/ e restavano potenti/ avevano centri d’organizzazione e autorità/
da dove venivo?/ veniamo da dove/ compagni? da questo marcio/ marcio visibile per voi/ addosso/ dentro/ sotto la pelle/ per noi del Sud/ anni dovranno passare/ studi amicizie letture ribellioni impercettibili/ per prendere le distanze/ poter fotografare/ ancora quasi tremante/ quella prigione e non reliquia/ quel seminario arcivescovile/ mentre la DC perdeva voti/ diminuivano le vocazioni/ su Epoca conoscevamo le prime illustrazioni degli impressionisti/ imparavamo a cercare nei libri segni di mondi più respirabili/ altro che conoscenza libresca!/ per noi i libri erano un lusso/ al loro posto incontravamo gente/ assorbivano un po’ i nostri spurghi d’angoscia/ i nostri amori fiacchi/ carte assorbenti/ gente gente gente/ ma conosciuta in esilio/ e quanti altri vi restarono in quel seminario e furono preti?/ per un pezzo scartato/ quanti riusciti?/ e uno scarto resta sempre uno scarto/ porta il segno di un progetto nel suo corpo/ ma fallito/ e non basta l’invettiva/ contro i filosofi oscuri del dopoguerra che ci trasmisero il fardello/ il linguaggio di angoscia e di morte/ riusciti nell’impresa/ traspare ancora nel nostro linguaggio “nuovo”/ permanenza/ accanto alla scommessa disperata nel futuro/ la rende meno pericolosa/ virile e contenuta accettazione?/evita puerilità nelle rivolte?/ ora che siamo scampati anche ad un seminario rosso?/ appena in tempo e non senza danni?/ carte ancora scompaginate/ l’osservatorio che sembrava tanto in alto/ da permettere una visione unitaria del passato/ appare troppo in basso/ancora soltanto ai piedi della montagna/ ci si deve rimettere in cammino/ nuovo esilio/ vederci ancora ragazzi/ proletari/ vittime/ perché il cattolicesimo riguarda i proletari/ le vittime/ la parte più sguarnita dei nostri/ e non basta
Nota
Sede del Museo Diocesano di Salerno, l’antico Seminario Arcivescovile (adibito prima a sede della Scuola Medica Salernitana) sorto a ridosso della cattedrale, fu fondato dall’arcivescovo Gaspare Cervantes in ottemperanza ad una disposizione del Concilio di Trento (1543 -1563), al quale aveva preso parte, che ordinava ad ogni Diocesi di istituire un collegio nel quale formare i giovani decisi ad avviarsi alla vita sacerdotale. L’edificio venne, quindi, ampliato dal suo successore, Antonio I Colonna, nel 1570 e successivamente ancora rimaneggiato. Nel 1731, sotto l’Arcivescovo di Capua, la struttura venne completamente ricostruita e collegata alla Cattedrale con una scala ed infine assunse una fisionomia rigorosamente neoclassica nel 1832, quando l’arcivescovo Lupoli fece sopraelevare il secondo piano e trasformò l’intera facciata principale. Con l’Arcivescovo Mons. Marino Paglia (1835-1857), che avviò lavori di rinnovo (costruzione dell’altare in marmo nella cappella; rifacimento dello scalone; realizzazione dei grandi finestroni in ferro dei corridoi di affaccio delle camerate; affreschi con figure di santi e sapienti nell’atrio) la fama raggiunta dal Seminario di Salerno, quale luogo di erudizione scientifica e letteraria, fu tale da farlo ritenere uno dei migliori istituti del Regno. Per questo motivo fu visitato da Giacomo Leopardi nel 1836, da Papa Pio IX e dal Re di Napoli Ferdinando II nel 1849. Il terremoto del 23 novembre del 1980 causò notevoli danni alle strutture dell’edificio, tanto da rendere necessario, dopo oltre quattro secoli, il completo e definitivo trasferimento dei seminaristi in un complesso di recente costruzione.
© 2021 MiC – Ultimo aggiornamento 2020-05-21 14:53:25 (da qui)
di Ennio Abate
Non vorrei distrarre nessuno dall’analisi storica della tragedia in corso in Ucraina ma a me vengono sempre in mente ancora adesso le riflessioni pessimistiche ma lucide e ineludibili di un libro pubblicato nei lontanissimi anni ’90 di Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, che se non ricordo male lessi su segnalazione di Cesare Cases su L’indice dei libri.
Ne voglio citare qui un passo del Cap. 1 Ordine e violenza, che riflette sul mito della nascita della società:”[Il mito] non narra soltanto dell’origine della società e della fondazione dello stato, ma del ciclo della civilizzazione, del ritorno all’inizio. Non raffigura la fine della violenza, bensì il mutare delle sue forme. Allo stato di natura seguono potere, tortura e persecuzione; l’ordine si compie nella rivolta, nel tripudio del massacro. La violenza rimane onnipresente: attraversa la storia del genere umano, dall’inizio alla fine. La violenza crea caos e l’ordine crea violenza. Questo dilemma è irrisolvibile. Fondato sulla paura della violenza, l’ordine stesso genera paura e violenza. Poiché le cose stanno in questi termini, il mito conosce la conclusione della storia.Cosa spinge gli uomini gli uni verso gli altri? La risposta è inequivocabile. La società non si basa su un irrefrenabile impulso alla socievolezza, né sulla necessità del lavoro. E’ l’esperienza della violenza che unisce gli uomini. La società è una misura preventiva di reciproca difesa. Mette fine alla condizione della libertà assoluta. Da questo momento in poi non è più tutto permesso. Il mito lavora secondo un modello essenziale. Non scomoda né l’economia né la psicologia. Non fa cenno all’avidità, alla proprietà e alla concorrenza, e nemmeno alla sete di gloria, alla cattiveria e all’aggressività. Esso si concentra esclusivamente sui fatti fisici e sociali, su regola e potere, su corpo e violenza. Se nessuna convenzione limita l’agire, gli abusi sono sempre possibili. La lotta per la sopravvivenza è inevitabile. Non è il fatto che ciascuno eserciti continuamente la violenza a caratterizzare uno stato di illegalità, piuttosto il fatto che in ogni momento sia possibile colpire, con o senza uno scopo. La guerra di ogni singolo contro l’altro non consiste in un infinito bagno di sangue, ma nella costante paura che esso avvenga. Origine e fondamento della socializzazione risiedono nella paura reciproca degli esseri umani. Per questo il mito parla non degli assassini, dell’oscura natura ferina degli uomini, bensì delle vittime, della loro esigenza di protezione e di incolumità. Tutti gli esseri umani sono uguali poiché tutti sono corpi. Necessitano di contratti, perché sono vulnerabili, perché nulla è per loro più temibile del dolore nei loro corpi. Si stringono l’uno all’altro per difendersi l’uno dall’altro. Si mantengono in vita stabilendo come sopportarsi a vicenda. La costituzione della società si fonda in ultima istanza sulla costituzione corporea dell’uomo come essere vivente”(pagg. 5-6)
Continua la lettura di “Saggio sulla violenza”. Leggere (o rileggere) Sofsky
Per un libro da scrivere
di Ennio Abate
Prima parte
ELVIO FACHINELLI, IL DESIDERIO DISSIDENTE (QUADERNI PIACENTINI N.33 - FEBBRAIO 1968)
Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato – in un presente che allora ribolliva. Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 – vent’anni dopo tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini», neppure l’avrei notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni Settanta, mi aveva raggiunto e preso in ostaggio. Continua la lettura di Fachinelli e/o Fortini? (1)
Ricordando Lucio Paccagna
di Ennio Abate
Lucio Paccagna era nato il 19 marzo 1955 in provincia di Padova, a Megliadino (poi dal 2018 Borgo Veneto, un comune di circa 7000 abitanti nato dalla fusione dei comuni di Megliadino San Fidenzio, Saletto e Santa Margherita). La sua famiglia di origini contadine immigrò dal Veneto nel milanese nel 1961. Suo padre fu operaio alla Falk di Sesto San Giovanni e sua sua madre casalinga. Poi si aggiunse Carlisa, una sorella più piccola. Già da studente del Settimo ITIS di Milano, durante le vacanze estive, fece lavori di facchinaggio (“partiva la mattina e arrivava alla sera”) o d’altro tipo e sempre temporanei in piccole ditte. Per pagarsi i libri e per aiutare la famiglia. Diplomatosi in meccanica nel 1974, fu assunto in un’azienda elettronica, la Marconi S.P.A. di Milano. In un primo tempo come addetto al settore automazione e strumentazione di qualità, passò poi all’ufficio acquisti e ne divenne responsabile. Al Settimo ITIS ebbe i primi contatti politici con militanti di Avanguardia Operaia, che lì operavano; e fu in prima fila nelle lotte studentesche d’istituto. Poi, da quando cominciò a lavorare, svolse attività sindacale come delegato nel consiglio di fabbrica; e fu attivo per oltre 30 anni nelle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie, istituite nel 1998). A Cologno Monzese, dove ha abitato, partecipò alla Commissione piccole fabbriche della cellula di Avanguardia Operaia. Nel 1976, anno della scissione di quella organizzazione, entrò in Democrazia Proletaria e fu consigliere di zona dal 1985 al 1990, per continuare poi la sua militanza in Rifondazione Comunista per circa 15 anni, sempre restando iscritto alla CGIL. Pensionato, nelle ultime elezioni a sindaco di Cologno Monzese nel 2020, fu nella lista di Sinistra Alternativa. Continua la lettura di Un compagno perso di vista
Peripezie di un’associazione culturale a Cologno Monzese
di Ennio Abate
Lavorando al mio Riordinadiario, ritorno sulle «peripezie di Ipsilon». Ne avevo scritto a caldo già nel 1999 in Samizdat Colognom n. 2 (“foglio semiclandestino per l’esodo”) e poi nel 2009 (qui ). Ad ogni rilettura mi rifaccio le stesse domande: perché ci dividemmo? era inevitabile? cosa non capii io o non capirono gli altri le altre (qui sopra nella foto)?
Continua la lettura di Dieci anni di IPSILON
Undici considerazioni di Brunello Mantelli e una Lettera all’autore di Ennio Abate
di Brunello Mantelli e Ennio Abate
Molto si dibatte sulla guerra in Ucraina e le due posizioni contrapposte (all’ingrosso: interventisti, pacifisti) duellano senza tregua sui mass media tradizionali e sui nuovi social. Prevalgono gli interventi di propaganda: ora in forme rozze, aggressive e dogmatiche ora in forme più dissimulate, ironico-sarcastiche. E, però, non mancano spunti di analisi o di riflessione, anche se sperduti nel rumore di fondo. Il documento che mi ha mandato in lettura lo storico Brunello Mantelli, “amico FB” col quale pur polemizzo ogni tanto, è a favore dell’invio di armi all’Ucraina di Zelens’kij per bloccare l’aggressione della Federazione russa di Putin. È la posizione opposta alla mia. Eppure, proprio perché Mantelli l’argomenta in modi razionali, mi è parso necessario misurarmi seriamente con i dati e l’interpretazione che egli dà di questa tragedia in corso. Gli ho perciò scritto una lettera piena di obiezioni, cercando io pure di essere puntuale e documentato. E ora, d’accordo con lui, pubblico di seguito i rispettivi testi su Poliscritture. Con due avvertenze ai lettori: – non si spaventino per la lunghezza (l’argomento purtroppo richiederebbe ben più spazio e sforzi costanti di aggiornamento); – tengano conto delle date di stesura delle Considerazioni (13 aprile) e della Lettera (20 aprile), perché gli sviluppi delle ultime settimane di guerra non sono qui esaminati. Questo scambio ha forse il merito di indicare una scelta e uno stile: è possibile ancora ragionare e riflettere anche su questioni attuali, controverse, dall’esito incerto e che scatenano passioni feroci, se ci si tiene al riparo e lontano dai talk show degli esperti (più o meno presunti) e dalle baruffe verbali tra leoni e leonesse da tastiera. E non per snobismo estetizzante. Sono, infatti, ancora una volta i troppi morti e la distruzione dei legami sociali che ci impongono di uscire dalla chiacchiera – signorile o plebea – più delirante e cinica. [E. A.] Continua la lettura di Ragionamenti sulla guerra in Ucraina
di Ennio Abate
11 novembre
Crisi con gli amici di Ipsilon Fatico a sbrogliare i miei umori viscerali da quelli più politici. Invidia o difficoltà di affrontare le nostre reali differenze politiche? Io parlo di una piega “salottiera” di Ipsilon ma in fondo a dividerci è l’atteggiamento verso l’attuale centro sinistra locale. Poi ci saranno anche risentimenti e delusioni più personali per piccoli sgarbi o disattenzioni o diffidenze nei miei confronti. Mentre io gli faccio spazio nelle iniziative a cui vengo chiamato a collaborare, essi non fanno lo stesso con me e mantengono ( o sono costretti a mantenere?) separate altre loro attività da questa di Ipsilon, che facciamo insieme. Oscillo tra confronto, mediazione e voglia di staccarmi per riprendere più apertamente la mia funzione di dissidente samizdat. Continua la lettura di Riordinadiario 1997 (5)