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Fachinelli e/o Fortini? (3)

Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Terza parte

1.
Nel clima agitato del ’68 era facile tagliare con l’accetta, non avendo il bisturi. A me, nei due scritti di Fachinelli e Fortini, fu difficile distinguere distanze, contrapposizioni o concordanze tra le loro posizioni. O capire a quali dimensioni sociali e politiche diverse – cosmopolite o internazionaliste? – si richiamavano.
Nei decenni successivi, smorzatosi prima il movimento e dispersasi poi, con la tragedia dell’uccisione di Aldo Moro nel 1978, anche la nuova sinistra, sono spesso tornato a riflettere su quelle loro parole.
A rileggerli, i due saggi mi sono parsi frontalmente opposti già nei titoli: quello che per Fachinelli era centrale (il desiderio), per Fortini era soltanto un «benefico fall-out» [ricaduta], un evangelico «sovrappiù».i
Forse vale ancora la pena di riassumere i punti di contrasto.
Per Fachinelli era riemersa anche in Italia una giovanile e inappagabile tensione, che avrebbe dovuto allenarsi al continuo rifiuto di ogni rappresentanza partitica – (i giovani avrebbero dovuto prendere le decisioni sempre in comune e accettare solo leader provvisori) – e opporre al nemico «un perenne NON BASTA», erodendone il potere repressivo delle Istituzioni con una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio, che si estende dal “sogno”, all’”astrattezza”, fino all’agire “folle” e “fuori delle regole».ii
Per Fortini un tale atteggiamento era romanticismo (negativo), niccianesimo, da respingere e non mescolare con Marx o Lenin, per non precipitare nella «volenterosa Negazione della Negazione» (Hegel) o subordinarsi ai «tenebrosi Geni della Distruzione e dell’Odio».
Fachinelli
parlava di un recupero dell’infanziaiii contro il rischio di addomesticamento del movimento e vedeva i giovani «sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe».
Fortini, invece,
chiedeva al movimento degli studenti di riallacciarsi al passato della storia socialista rivoluzionaria, che gli pareva potesse, a certe condizioni,iv rivivere. E, però, doveva riconoscere che nell’immediato erano «più vicini agli utopisti che a Lenin»;v e, di conseguenza, più alla sensibilità di Fachinelli che ai suoi ragionamenti da marxista.vi
Insomma, Fachinelli voleva avanzare senza caricarsi mai più sulle spalle il vecchio Anchise (di sinistra, marxista) e muoversi in compagnia di Nietzsche e Freud. Fortini si aspettava che fossero gli studenti – gli intellettuali di massa – a caricarsi sulle spalle l’Anchise cristiano-comunista, che egli ed altri s’era portati appresso durante la loro esperienza di militanti comunisti e socialisti del secondo dopoguerra.
La contrapposizione fra Fachinelli e Fortini non era occasionale. O limitata all’interpretazione del movimento giovanile/studentesco del ’68. Anche le loro letture della cultura del passato, in parte comune ad entrambi, perché si riferivano entrambi a Brecht, Benjamin o Adorno, erano diverse e in parte contrapposte. E, infatti, nel settembre 1976, la prima iniziativa della neonata casa editrice L’erba voglio diretta da Fachinelli  fu la pubblicazione, con il titolo provocatorio di Minima imMoralia, degli aforismi mancanti nell’edizione italiana curata da Renato Solmi per Einaudi nel 1954 ei Minima Moralia (Cfr. https://www.poliscritture.it/2021/08/20/minima-immoralia/).

Ho pensato spesso di poter far risalire lo scontro tra i due a quello tra la corrente calda e la corrente fredda della storia del movimento operaio intravisto ai suoi tempi da Ernst Bloch.vii
Erano proprio due visioni contrapposte. Entrambe “militanti”. E una medesima speranza veniva forse declinata in quei modi diversi e contrapposti. Con delle inevitabili forzature in senso più indeterminato e libertario da parte di Fachinelli e in senso molto (o troppo?) determinato e leninista da parte di Fortini. Ma poi, intervenuta la sconfitta per entrambe le loro posizioni  mi hanno sempre particolarmente colpito sia l’episodio del «diverbio» tra Fachinelli e Fortini, che nel 1986 il secondo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali»,viii e sia il suo successivo rammarico per le sue «inadempienze verso persone a cui s’è voluto bene e con le quali non si è stati abbastanza umani, abbastanza affettuosi, abbastanza pieni di amore» (Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, 2003, pag. 700)  o l’elogio di Fachinelli al momento della morte.ix

 

2.
Quando partecipai al movimento studentesco del ’68, la mia infarinatura liceale di niccianesimo o romanticismo giovanile s’era esaurita a contatto con la realtà sociale di Milano e della periferia e la mia partecipazione all’occupazione della Statale  non la ridestò né me la rese di nuovo attraente.
Avevo allora
pochi rapporti con quel tipo di giovani o studenti che dirigevano assemblee e manifestazioni e  viaggiavano o avevano amici e relazioni in altri paesi. E se il movimento era composito e fatto di vari pezzi, io non ero in quel pezzo più libertario che entusiasmòvforse Fachinelli. Alla vigilia dell’occupazione della Statale avevo intessuto legami soprattutto con quelli che facevano parte del pezzo che parlava di lotta di classe, di classe operaia e lavorava nelle fabbriche o guardava alle fabbriche. Forse Fachinelli quel mondo giovanile medio-alto borghese lo conosceva da vicino e ne coglieva meglio di Fortini la dimensione mondiale americanizzante.
Era la mia stessa condizione di studente lavoratore proletarizzato che faceva da schermo respingente verso quel desiderio dissidente teorizzato con tanto entusiasmo da Fachinelli. Fu per questo che il suo discorso
mi arrivò attutito. Poi, con la scelta di militanza in Avanguardia Operaia, gli scritti sia di Fachinelli che di Fortini come di altri autori dei Quaderni Piacentini o di altre rivist del tempo andarono in secondo piano. Rimasero per me letture personali, altra cosa dal discorso che m’impegnava coi compagni di Avanguardia Operaia, da tenere per me, sapendo quanto fossero sospettosi verso letteratura, psicanalisi e ogni interesse culturale non strettamente politico.
Nei quasi 10 anni successivi al 1968, gli scritti di Fachinelli li lessi con più distacco rispetto a quelli di Fortini, che leggevo su “il manifesto” e mi parevano confermassero o non si allontanassero troppo dalla mia esperienza di allora – di militante di Avanguardia Operaia,  lavoratore studente, immigrato, vita in periferia e pochi soldi.

Entrambi mi tornarono a parlare, dai loro libri, anni dopo ma in periodi diversi. Fortini dopo la fine della mia esperienza politica in  Avanguardia Operaia, verso la fine degli anni ’70 e in particolare dal 1977, dopo la lettura di Questioni di frontiera Fachinelli, che non ho mai conosciuto di persona – l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988,alla Casa della Cultura di Milano tra il pubblico  durante una conferenza di Sergio Bologna sui Verdi tedeschi – e di cui avevo poi sentito parlare spesso da Giancarlo Majorino, tornò nella mia riflessione molto più tardi, alla  fine degli anni ’80, quando la mia crisi, da politica, tornò ad essere esistenziale e familiare. Fu allora che lessi Il bambino dalle uova d’oro e  La mente estatica. A Milano nel 1998 seguii il convegno sulla sua  figura e la sua opera(qui) e mi parve che l’aspetto politico-sociale,che più poteva averlo avvicinato e  messo anche in urto con Fortini, venisse cancellato:«il Fachinelli dissidente, un Sansone della contestazione, è morto con tutti i “filistei” e i “padri” dell’Ideologia (marxista o psicanalitica) operanti in quegli anni; e resta un Fachinelli “New Age” o “fach/iro”, orientaleggiante, estaticamente contemplativo magari del futurismo Internet o delle Origini maternali». 

 

3.
Ma Fachinelli – mi chiesi più tardi – era poi un ingenuo esaltatore di quella marea desiderante? Dal suo saggio del 1968 avrò avuto quell’impressione. Ma quando, sempre alla fine degli anni ’80  arrivai a leggere Cosa chiede Edipo alla Sfinge sul numero 40 (aprile 1970) dei Quaderni piacentini mi accorsi dell’errore di avergli attribuito un certo roussovismo.
Nelle mie successive riflessioni ho accantonato ogni velleità di trovare una risposta alla questione del rapporto fra marxismo e psicanalisi o sulla scientificità o meno della psicanalisi. E ho abbandonato anche il dilemma se si dovesse scegliere tra i due orientamenti o tra le posizioni di Fachinelli e quelle di Fortini.
Oggi poi che rileggo i loro scritti, sapendo che le ipotesi affacciatesi nelle loro menti in quell’anno di speranze sono orami sconfitte e svanite, quali domande potrei ancora farmi su entrambi?
Non mi pare che valga più la pena scervellarsi per stabilire chi tra i due avesse più ragione o fosse più proiettato nel futuro. E userei per entrambi la formula «Aveva torto e non avevo ragione» che usò Fortini nei confronti del suo fraterno antagonista Pasolini.

So che valgono poco le mie impressioni su l’uno o l’altro. O ricordare – a chi poi? e con quale scopo oggi? – che Fortini mi è potuto apparire “più concreto” di Fachinelli. Subito dopo mi dovrei correggere, pensando che lo fu anche Fachinelli, se aveva posto il problema di allargare il “pubblico della psicanalisi” agli esclusi, ai proletari; e se aveva partecipato attivamente all’esperienza dell’Erba voglio e dell’asilo autogestito di Corso Ticinese a Milano.
Meglio, perciò, continuare a leggerli. E difendere, e salvare sia la lezione di Fortini, alla quale mi sono sentito più vicino per le ragioni che detto, e sia quella di Fachinelli. E a non mollare l’antipatia per molti dei rispettivi apologeti o discepoli più accreditati che oggi ne gestiscono l’immagine pubblica (qui).
Nella riflessione di entrambi entrava, assieme al “carattere” e alle “ideologie” in conflitto, il reale e non la sua attuale versione amputata e caricaturale. Troveremmo perciò, in entrambi, una capacità oggi persa di nominare molto più da vicino le sofferenze individuali e collettive.
E allora? Concludo riproponendo quanto scrivevo in quel lontano 1998: «Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era più visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo».

(Fine)

Note

i "Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù" (Mt. 6;33)

ii Quando Fachinelli scriveva:« il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio” » aveva una forte spinta utopistica ad individuare nel movimento per lui dei giovani una apertura, un possibile..ma non si poneva affatto il problema di riuscire a condensarla politicamente. Anzi vedeva proprio questo come un rischio di chiusura… di burocratizzazione… Più che limitarsi, puntava tutto sulla dissidenza, sulla contestazione, sulla possibilità che il movimento mettesse «in causa i modi tradizionali di concepire e fare politica» o mirava verso bersagli più lontani delle vecchie figure di autorità (gli uomini che si dicono di ferro, che parlano più forte, che minacciano la morte nucleare)». Bisognava che il movimento fosse antiautoritario sempre, che mai si “sporcasse” con il problema dell’autorità (o del partito)

iiiFachinelli sottolineava quanto sia importante il ricordo: «La vera misura della vita è il ricordo»,... al contrario di Proust Benjamin non fugge il futuro, ma lo ritrova in quelle esperienze infantili dove esso germinava, per essere poi sepolto nel presente»Fachinelli parla di «sensibilità acuta e delicata su cui si è retto, io credo, il rapporto con lui [Benjamin] dei “sessantottini”»
Fachinelli...L’infanzia vi appariva come un’estasi: «Straordinaria capacità [...] di demolire in un attimo ogni fissità funzionale degli oggetti e delle situazioni. Tutto è preso, cambiato, lasciato in una rapida corsa”. L’analista non dovrebbe imparare dall’estasi dell’infanzia? Non dovrebbe “recuperare e praticare il gesto infantile del gioco”? L’infanzia non è più solo una tappa della nostra vita destinata a essere superata dalla sua maturazione stadiale, bensì una risorsa costantemente presente. Essa non coincide con quella perversa-polimorfa del bambino freudiano, né con quella infernale – schizoparanoica – del bambino kleiniano, né, infine, con il “corpo in frammenti” del bambino lacaniano.
L’infanzia gli appare piuttosto come un luogo benjaminiano, una fonte inesauribile di possibilità, una promessa del futuro: È il segreto che abita l’ottimismo di chi corre incontro alla vita senza riserve e senza paura. Si tratta per Fachinelli di un “modello totale di felicità” (Cfr. https://www.poliscritture.it/2022/06/22/su-fachinelli-appunti-di-lettura/#_ednref4)
Su questa tematica andrebbe ricordato anche un articolo di Paolo Virno, “Il linguaggio in mezzo al guado” sul numero 2, Gennaio 1991  di  Luogo comune. (Cfr. https://archivioautonomia.it/fondo-deriveapprodi/la-rivista-luogo-comune/)

iv Non vedo troppa differenza tra un Fortini, che nel suo saggio non esitava ad abbandonarsi ad un ipotetico e speranzoso “se…”: «Se la richiesta etica si fosse misurata alla realtà dei rapporti di classe, gioia, integrità e autenticità sarebbero facilmente apparse, come sono, beni non individuali che si realizzano solo nell’azione comune per una meta», e un Fachinelli, che vedeva il movimento « sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe» ma appunto questo informe non poteva dire in cosa consistesse e d era ipotetico….
Fortini era come se dicesse da pedante o da saggio più consapevole della storia e della forza di resistenza del potere: se questi giovani avessero studiato la storia, che i partiti non sono stati in grado di passargli, capirebbero quanto è vano o errata l’interpretazione del movimento data da Fachinelli,che sostiene che esso: «sembra sgusciare verso qualcosa di nuovo», «qualcosa che è per forza ancora informe».
Fachinelli difendeva quell’ informe senza poter dire in cosa consistesse. Ma non dovette poi accorgersi di quanto fosse impraticabile quell’antiautoritarismo perenne? Ed, infatti, già nell’articolo«Gruppo chiuso o gruppo aperto?» in "Quaderni piacentini", n.36, novembre 1968 (https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/11/ennio-abate-riflessione-di-un.html)   capisce l’autodistruttività di certe spinte “libertarie”.

v Un’eco di questo schema interpretativo lo ritroviamo più tardi nel 1977 quando parlò dell’Autonomia. Anche in quel caso Fortini sottolineerà che l’”Autonomia”, vedendo l’organizzazione come «una trappola» ( un po’ come Fachinelli nel 1968) e rifiutando «un programma, un comitato, una sede», volendo «coincidere col «movimento», pronunciava ancora una volta la verità, ma «con le parole dell’errore». (Cfr,https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/)

vi Ha scritto poi un’amica femminista: «Fortini si richiamava a un rapporto tra insurrezione e partito che non esisterà … che non si realizzerà e si potrebbe dire che viveva in un pensiero dell’autorità che non poteva più affermarsi » (Fischer)

vii «Bloch parla di speranza concreta o di utopia concreta volendo dire due cose: da un lato che l'utopia, la speranza, l'attesa di un mondo migliore, non possono essere affidate soltanto alla "corrente fredda", cioè all'idea che la razionalità si faccia spazio da sola. Non basta, infatti, enunciare una cosa vera perché questa cosa vera penetri nella testa degli uomini. D'altro lato Bloch cerca di temperare questa "corrente fredda" con una "corrente calda", cioè non basta mobilitare gli uomini per raggiungere certi effetti, per credere che questa mobilitazione vada in una direzione accettabile.

3. Può spiegare la differenza tra la "corrente calda" e la "corrente fredda", anche in relazione al marxismo? 
L'esempio che fa è quello del nazionalsocialismo, che Bloch definisce un "giacobinismo del mito". È importante un aneddoto che Bloch racconta: nel 1933, poco prima dell'avvento del nazionalsocialismo, ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino tra un rappresentante del partito comunista tedesco e un rappresentante nazista. Il comunista entra e comincia a spiegare la caduta tendenziale del saggio di profitto secondo Marx, la gente non capisce niente, e queste verità non fanno presa. Arriva invece il nazista che comincia a parlare in termini mitici della pugnalata alle spalle che gli ebrei e i demoplutocrati hanno dato al popolo tedesco, fa dei discorsi che hanno una grande presa emotiva, usa termini come patria, casa, quelle forme cioè di richiamo all'identità delle persone ed esce tra le ovazioni di tutti. Ora, per Bloch il punto, e forse anche per noi, è quello di capire che non si può staccare la razionalità dagli affetti, ma che non si può avere una pura razionalità, un socratismo, per cui basti enunciare il vero perché il vero si raggiunga, né si può avere, come nel caso del nazionalsocialismo, una pura mobilitazione basata su problematiche irrazionali.»

(da Remo Bodei, Bloch e il principio speranza,  https://www.sitocomunista.it/marxismo/altri/bloch.html

viii A pag. 229 di “Non solo oggi” (Editori Riuniti 1991):«Rammento che nel maggio 1968 ebbi una discussione anzi un diverbio con Elvio Fachinelli a proposito della interpretazione di quanto nelle università e per le vie in quel momento accadeva. In un saggio che avrebbe allora pubblicato, Fachinelli poneva in evidenza, o almeno mi parve, che quei gruppi di adolescenti vivevano sé medesimi come secessionisti dalla società adulta e come chi rifiuta la successione, in violenta difesa della propria purezza. Non senza ovvie risonanze omosessuali, essi consumavano quel momento come liberazione nella fraternità e rifiuto inorridito del compromesso e della mediazione. Insieme a considerazioni di opportunità politica, gli opponevo quel che allora venivo svolgendo in un mio scritto, intitolato e non a caso, Il dissenso e l’autorità: che cioè si sarebbe dovuto guardare ai caratteri di classe del fenomeno e tentare una lettura sociologico-storica prima che psicologica o psicanalitica; e non considerare quindi soltanto i figli di un ceto economicamente e culturalmente dirigente ma le condizioni affatto diverse di chi da poco tempo era approdato alle università da istituti professionali o magistrali o tecnici (che conoscevo bene), carne di cannone sul campo di battaglia della esistenza. Dieci anni più tardi avrei potuto constatare come tutti e due avessimo avuto torto: la purezza omicida e suicida si sarebbe coniugata con l’accettazione della mitologia neoliberista, scientista, efficientista; la rivolta dei figli degli oppressi e degli sfruttati sarebbe stata calpestata nella recessione (falsa o vera), nella disoccupazione e nelle fantasmagorie della spazzatura culturale di massa».

ixPag 557 di Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994 (Bollati Boringhieri 2003): «Ma di Elvio Fachinelli ricordo anche lo straordinario lavoro fatto con “L’erba voglio”, ricordo un bellissimo saggio, pubblicato sulla rivista “Il corpo”, che faceva con Giancarlo Majorino, sulla denegazione. Ho in mente anche,la straordinaria qualità della sua scrittura. Sapeva scrivere, sì. Sapeva anche tacere, sapeva come e perché tacere. Elvio Fachinelli appartiene a quel novero di persone senza le quali non è pensabile una storia degli anni ‘67-77.»

APPENDICE

Da Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri 2003 pagg. 556-557

 

  • I due capitoli precedenti di “Fachinelli e/o Fortini?”  si leggono qui e qui

Il professor Franco Fortini (4)

di Ennio Abate

Questo quarto capitolo  tiene conto di due accurate ricerche pubblicate di recente: quella di Lorenzo Tommasini, “Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università” (qui): e quella di Chiara Trebaiocchi, “Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini” (qui).  In esse ho trovato notizie importanti e da me finora ignorate sul periodo in cui Fortini è stato insegnante. La lettura delle due tesi mi ha offerto spunti per ragionare su alcune contraddizioni che a me pare di cogliere nel rapporto di Fortini con gli intellettuali. Ne approfondirò le implicazioni nel prossimo capitolo 5 e – spero – nel libro  “Nei dintorni di Franco Fortini” a cui sto lavorando. Continua la lettura di Il professor Franco Fortini (4)

Una lettera del 2001 a Renato Solmi


Riordinadiario 2001/ Lavorando a “Il professor Franco Fortini”

di Ennio Abate

La lettura di “Allora comincerò…”, di cui sto dando un resoconto a puntate,  mi ha rimandato a persone e temi riguardanti il ’68, la scuola e la mia stessa esperienza di insegnante nelle secondarie superiori. E, perciò,  ho deciso di affiancare al  discorso  che sto facendo su “Il professor Franco Fortini” alcuni documenti che mi sembrano ad esso complementari. Comincio da questi due, presi dal materiale del mio (purtroppo breve) carteggio con Renato Solmi: una mia lettera a lui del 16/22 febbraio 2001 e, in Appendice, la sua risposta del 24 febbraio 2001.
Continua la lettura di Una lettera del 2001 a Renato Solmi

Gli amici morti

Pink and Green Sleepers 1941 Henry Moore OM, CH 1898-1986 Presented by the War Artists Advisory Committee 1946 http://www.tate.org.uk/art/work/N05713

di Ennio Abate

Da un’ombra gli amici morti 
annunciavano: vorremmo aiutarvi.

Impossibile, tra me dicevo. Esitavo, 
però, e, per non rompere con loro,
cominciavo: siamo tanto diversi.
(Voi morti ormai, noi vivi, intendevo).

In sogno ancora vi parliamo, dicevano.

Più in allarme, allora, mi chiedevo:
come fossimo vivi? o tutti già morti?
E, per uscire dal dubbio, proponevo:
su, prendiamo un caffè insieme.

Ma no. Volevano restare nel sogno,
non uscirne. E in coro insistevano:
aiutarvi, guidarvi, passarvi la nostra
saggezza.

Sempre scettico aggiungevo: come 
riconoscervi? Siete  in una folla
immensa. E stizzito: O avete continuato
a invecchiare e a capire più di noi?
Solo morendo, potremmo darvi retta. 

Sorridevano ora: con le vostre guerre
che fate, se non morire e far morire?
Troppo ingrossate il popolo dei morti
e trascinate nella nostra ombra
l’azzurro del cielo e del mare, il vento,
gli amori. Avvertirvi, fermarvi, vorremmo.

(9 settembre 2024)

Perché “Poliscritture Colognom”

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di Ennio Abate

In anni passati il tema della città riuscivo a esplorarlo con passione. Non per interessi professionali – non sono architetto, urbanista o sociologo o storico locale – ma politici.
Eravamo giovani, quasi tutti immigrati. E ci eravamo incontrati e organizzati, nel 1969, in un Gruppo Operai e Studenti di Cologno Monzese. Per anni tessemmo rapporti coi suoi abitanti, immigrati quasi tutti anche loro: operai di piccole fabbriche, donne e ragazzi dei quartieri, studenti delle superiori o di università.
Conobbi allora anche Danilo Montaldi, l’autore di Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Anzi, essendogli arrivato chissà come  tra le mani un nostro volantino, venne lui stesso a  cercarci a Cologno.
Nella postfazione alla nuova edizione del suo libro (1975) parlò anche di noi, “i giovani scattati col ’68-69”, e  fece  un ritratto secco, realistico, della città di allora  in drammatica trasformazione.  Lo ricopio: Continua la lettura di Perché “Poliscritture Colognom”

Il professor Franco Fortini (2)

di Ennio Abate

Tra le testimonianze interessanti  di “Allora comincerò…” ci sono quelle – di Franco Romanò, che già conoscevo, di Paolo Lacchini o di Paolo Massari – che, oltre a riportare i ricordi personali, fanno capire il ripensamento nel tempo da parte degli autori del loro incontro con Fortini. Altre sembrano genericamente elogiative: è il caso di “Un ricordo” di Angelo Branduardi. Mentre vanno lette con attenzione quelle di Broccaioli, Caporali, D’Angelo,  Piombini, Schliksup (e,  ancora, di Romanò). In esse si nota un certo distanziamento o persino una ostilità più o meno dichiarata verso Fortini. Pur ripetendo vecchi cliché, a volte contengono elementi di verità di solito taciuti o poco indagati da quanti studiano la biografia e l’opera di Fortini. E, perciò, se esaminate e approfondite criticamente e non trattate come pettegolezzi, potrebbero contribuire a delineare un’immagine di Fortini  non monumentalizzata, non accademicamente  imbalsamata o scostante ma viva, magari anche più  contraddittoria ma più vicina a noi che oggi viviamo bruttissimi tempi di crisi.

Vorrei qui, In particolare, accennare almeno a due problemi che mi ha posto la lettura della testimonianza di Ezia Pozzini, la studentessa che ricevette una “famosa” Lettera di Fortini del 20 maggio 1969 oggi ripubblicata in “Allora comincerò…” e l’interpretazione della medesima che ne ha dato Donatello Santarone nella postfazione al libretto.

Ho trovato sconcertante e inspiegabile che Ezia Pozzini, pur accennando ai suoi “molti ripensamenti” su quella Lettera, abbia deciso di non commentarla. O che si sia trincerata dietro una eccessiva modestia (“non è importante quello che posso dire io di Fortini insegnante. E’ importante “la lettera””, 51) e appellata all’immaginazione dei lettori ( “Lascio a ognuno immaginare che cosa abbia rappresentato per me ricevere quella lettera”).
Non conosco Ezia Pozzini né il suo percorso di vita e sono pronto a correggere le impressioni che sto per scrivere, ma, se provo io ad immaginare cosa abbia rappresentato per lei quella Lettera, credo di non sbagliare troppo affermando che non ebbe su di lei un effetto positivo. Temo, anzi, che dovette essere una mazzata, da cui ancora non si è ripresa. Per cui ipotizzo imbarazzi o reticenze  di lunga data.

Nella interpretazione  della Lettera data da Donatello Santarone nella postfazione, invece, vedo una mitizzazione del Fortini insegnante ed educatore. Santarone considera la Lettera “un esempio eloquente della concezione educativa di Fortini” (119). Sarà, ma a me pare di vedere un passo falso di Fortini, una forzatura e una prova della “insensibilità psicologica” a cui ogni forma di militanza – anche quella “necessaria” – ci costringe. [i]
Rileggendola, trovo che vi prevalga una difesa dottrinaria del rapporto gerarchico fra insegnante e studente e che Fortini enfatizzi troppo la funzione di guida dell’insegnante, mortificando o sottovalutando quella dello studente (in questo caso, della studentessa Ezia Pozzini). Mi pare anche che non colse il valore politico della domanda che lei gli pose in quel tema. (Domanda che di lì a poco divenne collettiva e fu  sviluppata in modi potenti anche se discutibili dal femminismo allora in gestazione). Dubito, dunque, dell’attualità e bontà di quella concezione educativa di Fortini. [ii]  E ritengo che non riuscì a trovare la mediazione necessaria tra teoria  educativa e caso educativo concreto che allora si trovò di fronte. [iii]

(continua)

Note

[i] 
E' quasi d’obbligo, trattandosi di Fortini, richiamarsi al Brecht di “A coloro che verranno”: “Eppure lo sappiamo:/ anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso./ Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/ noi non si poté essere gentili."

[ii] 
Ecco schematicamente  le obiezioni che farei a Fortini se fosse vivo e potessi discutere davanti a lui di quella Lettera:

1. Fortini spostava su un piano politico e storico, e quasi senza mediazione, il problema “esistenziale” posto nella sua immediatezza dalla studentessa. E rimandava la soluzione a un futuro indefinito. Non le offriva, al momento, che  una predica e la censura di quel bisogno. Sulla scia - si potrebbe dire - del Freud de il “Disagio della civiltà”.

2.  In base a una somiglianza se non dubbia da precisare, assimilava quasi del tutto il rapporto “fra insegnante e scolaro” ad altri tipi di rapporti della nostra società capitalistica: quello “in una squadra di lavoro, in un esercito, in un gruppo politico”.
 
3. Dava valore esclusivamente all’”oggettività” (anch’essa, se non dubbia, molto problematica da fissare: in generale, ma di sicuro in un rapporto educativo): “Il terreno della comprensione e dell’affetto fra insegnante e scolaro è quello dell’oggettività”. (Dubito che comprensione e affetto, come Fortini sosteneva, “se nascono, nascono a causa dell’oggetto, in sua occasione. Non in sé..”. Non sempre accade questo). 

4. Accantonava il possibile senso politico (per brevità diciamo pure utopistico) della richiesta di Ezia Pozzini. La vedeva come richiesta “privata” da subordinare all’oggettività. (O al “noi” della scuola o della politica). In quel 1969 un tale atteggiamento poteva essere giustificato. Forti erano ancora le attese di mutamento. Per cui ottimisticamente poteva  pensare - come scrive nella Lettera -  che “la parola “vita”, i pronomi “tuo” o “suo” e la nozione di “bene” stessero cambiando e fosse in costruzione la “fraternità del gruppo” che avrebbe riassorbiti quei “motivi privati”.

5. Non mi pare, però, che la richiesta della studentessa provenisse interamente “dall’anima” (come insiste a dire anche Santarone). Da quel che riporta Fortini all'inzio della Lettera, Ezia Pozzini chiedeva che almeno a scuola si creassero le condizioni per capirsi( “se non si riesce a capirsi a scuola..”, 53). Era, cioè, per un capirsi - intendo io - più ampio, più gerneroso di quello a cui l'Istituzione obbligava (ed obbliga). E questa fu una delle istanze più vigorose del movimento degli studenti di allora, che  soltanto gli autoritari per vocazione classista (e non certo Fortini) si rifiutavano di riconoscere. Quindi, a me pare che reclamasse un’attenzione “quasi” già politica al “privato” (come faranno – ripeto - di lì a poco le femministe).

6. Fortini parlava da scrittore politico di lunga esperienza a una giovane e a dei ragazzi che probabilmente di politica non sapevano nulla o ben poco o non volevano saperne. E ipotizzo che Ezia Pozzini non poteva incuriosirsene o entusiasmarsene perché era aggrovigliata in oscuri ma per lei reali e impellenti desideri o paure. E tentava di chiarirsi i primi e di sfuggire alle seconde con l’aiuto di altri, sfruttando  anche l’occasione che gli venne offerta dal tema.(Non so se si trattasse di un tema-inchiesta che Fortini proponeva in classe per capire meglio le esigenze dei suoi studenti). 

7. La visione realistica di alcune affermazioni di Fortini (“un insegnante non è un padre, anche se lo somiglia; non è un innamorato, anche se dovrebbe averne il fervore e […] soprattutto non è un direttore di coscienza”, 53) è indubbia.  Con grande convinzione e bruschezza egli richiamava, però, soltanto i dati “oggettivi”; e accettava di ridurre o limitare l’espansione dei “sentimenti” esclusivamente a quelli “che debbono sorgere […] dall’oggetto, ossia da quel che si vuol sapere o imparare, non “dall’anima”” (55). Si dirà: giusto, inevitabile. Ma quando o se un insegnante, un educatore, si trova di fronte ad un’anima di studente o studentessa forte e "selvaggia"? E se l’"oggetto" non corrisponde affatto alla condizione ideale a cui Fortini faceva riferimento (“è necessario che quanto s’impari c’importi”; “ se lo scambio della comprensione e dell’affetto è avvenuto, fra insegnante e studenti, al livello giusto (quello dell'opera comune e della reciproca responsabilità) non c’è più bisogno di un particolare interessamento o segno di affetto, perché si partecipa di un affetto e di un bene socializzati” (55)? 

8. Di Fortini si può capire  fino ad un certo punto la passione politico-pedagogica e quella implicita accettazione obtorto collo della “violenza” - mascherata o addolcita - insita in ogni rapporto educativo. Non deve sfuggire, però, che l’accettazione realistica del “disagio della civiltà” induce troppo spesso ad una mera sopportazione o adeguamento all’esistente (e, cioè, alla violenza più organizzata e prepotente degli altri). Specie quando un progetto politico più valido, nel quale “si partecipa di un affetto e di un bene socializzati” (55), non riesce a sorgere  e si può avere soltanto la semplice e spesso sterile o distruttiva espressione anarchica del desiderio.

9. La Lettera è - a me pare - a senso unico. Il flusso comunicativo dall’insegnante (Fortini) alla studentessa (Pozzini) pare strabordante. E dopo la prima frase di lei, che Fortini cita all’inizio della sua Lettera,  il flusso comunicativo di lei dov’è? Cosa disse o scrisse Ezia Pozzini dopo quella Lettera? Parlò ancora con Fortini o non parlò più di quelle sue “cose” e si assoggettò ai suoi richiami all”oggettività”? 

10. Come valuterebbe oggi Fortini  la  decisione di Ezia Pozzini di non parlare – ancora adesso, a cinquantanni di distanza! - e di dare ancora la parola solo alla sua Lettera, e dunque a lui, al professore? Si tratta di un buon risultato pedagogico? O di un segno di sottomissione? 

11. Non capisco come Fortini, che pur nel 1967 era stato così pronto a scrivere una “Difesa del cretino” (Cfr. Quaderni Piacentini, Anno VI - n. 29, gennaio 1967), non s’accorgesse che in questo caso, invece di aiutare Pozzini a chiarirsi almeno un po’ (per quel che era possibile!) i suoi irrisolti ma veri “problemi esistenziali”, li annegava o seppelliva con un rimando astratto a un futuro, che a lui – adulto e militante – poteva apparire chiaro e certo, ma che a lei probabilmente restò indeterminato. 

[iii] Caso che, però, non conosco nei dettagli. Quali erano, ad esempio, le condizioni di vita a cui si richiamava allora Ezia Pozzini? Perché non si sentiva voluta bene? (E solo dagli insegnanti?).