Ah, chillu passaggie a livella! Qaunni vote a matine, quanne jeve a scola media abbascie a Via Arce o a miezze iuorne quanne turnaveme a ccase, steveme vicine ae sbarre abbasciate. P’aspettà ca ra nu mumente a n’ate passasse o trene. Quanne c’era nu poche e folle, chille ca arrivavane ra Porta Rotese o ra Via Verniere s’infilavane miezz’a gente c’aspettave. Passe o treno o nun passe? Nge vo tiempe o sta arrivanne? E ‘ngere sempe quacch’une ca se sfasteriave e ‘spettà e passave ambresse ambress, guardanne ra parte addò o trene aveva arrivà. Oppure chiane chiane, cumme se vulesse fa verè ca ere curaggiuse e se ne fregave ro trene. E accusì pure nui gugliune (ma ng’erene pure gent’anziene e quacche femmene), reveme n’uocchie primma a ddestre pò a sinistre e passaveme, ment’ a campanelle sunave, ca significave ca ‘ngere pericole. Ere cumm’a na sfide. Nui simme chille ca nun ‘nge ferme manc’a a paura e muri! E o guardiane ca steve dint’a stanzetta [guardiola] s’ere abituate e lasciave fà. E po’, pe spuntà a Via Arce, faceveme chella stradine ca curreve miezze a ‘sti murette. Erene mure vasce e fatte e prete grosse. E accussì puteveme verè tutti sti giardine: cull’insalate e e file e piante e pummarole. E erene chine pure e piante e limone, e nespule, r’arancie e mandarine. Po’ a forze e passà tutte e iuorne, quaccunne me ricettere ca si, turnanne ra Via Arce ieve dritte, invecie e fa tutta a vie re muretti, truvave na scorciatoie p’arriva subite ae binarie e po’ ao passaggie a livvelle. E accussì pigliaje pure io l’abbitudine e passà miezz’a a nu squarcie e na rete e fierre ca quacchune aveve rotte. E c’erene pure certi spuntun’e fierre ca te putevene ferì e cosce mente scavalcave. E po’ quante tiempe risparmiave? Na fesseria. Pe me però cuntava a sfide. Ie pure vuleve fà comme a l’ate guagliuni chiù curaggiuise e ‘nziste.
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Dentro l’immigratorio italiano
Riordinadiario 2006. Introduzione alle scritture
di Armando Tagliavento (Hermann) con intervista.
di Ennio Abate
Ieri sono andato a far visita ad Armando Tagliavento. Per me è rimasto il bidello-scrittore, anche se ora è in pensione e nella vita (Armando è nato nel 1930) prima di “ficcarsi nella scuola” ha fatto il manovale, il fattorino, il disoccupato, il capomastro. Stava per diventare persino capufficio di una ditta di materiali edili ed ha sfiorato una carriera di scrittore di professione. Infatti, quando negli anni Settanta la cultura italiana ebbe un ritorno di fiamma populista-neorealista (ricordo la letteratura “operaia”: Brugnaro, Guerrazzi, la rivista Abiti-lavoro…), Tagliavento ottenne un effimero successo come narratore: nel 1973 Feltrinelli gli pubblicò nella collana dei Franchi narratori (patron Goffredo Fofi, che firmò la prefazione) un romanzo, Tra fascisti e germanesi. Vi narrava – con brio, spudoratezza e crudezze macabre quasi malapartiane – le sue avventure per sopravvivere durante gli scontri che insanguinarono l’Italia fra il ’43 e la liberazione.
Io l’ho conosciuto più tardi, negli anni Ottanta, all’istituto tecnico Molinari di Milano, dove appunto era bidello. L’ondata del ’68-’69, che aveva sollevato la sua esistenza assieme a quella di tanti fino alla ribalta massmediale, era da tempo esaurita e tutte quelle speranze rivoluzionarie, studentesche e operaie, affondavano nel mondo dei vinti metropolitani.
Tagliavento passava la giornata al suo tavolino, in fondo a uno dei corridoi a lui assegnato. Leggeva o scriveva appena possibile, intrattenendosi a chiacchierare ogni tanto con gli studenti, per i quali era ancora un mito, e con qualcuno dei pochi insegnanti che lo coccolavano, l’occhio marpione pronto a scattare su studentesse e insegnanti bellocce.
Era malvisto da molti perché, chissà da quando, aveva preso a bere di brutto, creando malumori e allarme. Qualcuno si mosse per farlo licenziare. Feci un cartello, interessai quel che restava del sindacato nella scuola e un’amica dottoressa, che lo spalleggiò nella visita di controllo all’ospedale militare di Baggio a cui l’avevano costretto. Rimase in servizio e arrivò alla pensione forse grazie a quella mobilitazione o forse per un sussulto di tolleranza della preside. Non senza passare però per Villa Turro, dove a suon di psichiatria – non credo basagliana – lo tirarono fuori dal suo alcoolismo cronicizzato.
Suo confidente “letterario” in quegli anni, lessi e gli commentai parte della sua incessante, fluviale e torbida produzione di scritture, convincendomi sia del suo valore sia della difficoltà di trovare lettori che non si arrestassero di fronte alla sua foga espressionistica, barocca, persino kitsch, alla monotonia dei temi (in prevalenza porno-erotici), alle ripetitive e capricciose architetture narrative, alle trasgressioni ortografiche.
Per far risaltare il buono di quelle pagine, gli avevo suggerito di potarle da ridondanze ed eccessi, ma Tagliavento non mi ha dato mai ascolto: rivendica gelosamente il “suo” linguaggio, il “suo” stile; e continua a giudicare un oltraggio qualsiasi aggiustamento o ripensamento. Preferisce pescare liberamente, anche arbitrariamente, sia nei bassifondi linguistici sia nelle limpide acque dei classici. Non crede al confronto, ma all’ispirazione, alla genialità o – detto senza moralismo e sprezzo -, alla follia inventiva. Don Chisciotte è davvero il suo modello: aristocratico, d’altri tempi o fuori dal tempo.
Ma come sono queste sue strabordanti scritture? Esse presentano un lato onirico, visionario, sublimante e un lato ossessivamente vitalistico. Nascono da un immaginario fortemente maschile (e maschilista). Poggiando su una base autobiografica alla quale mai ha rinunciato e che anzi continua a coltivare nella memoria, Tagliavento porta alla luce immagini arcaiche ed elementari fortemente mitizzate, senza preoccuparsi della successione logico-temporale. E si è costruito un gusto letterario delimitato ma sicuro attraverso letture di opere della tradizione colta, popolare e di massa. Da autodidatta, in modo disordinato ma quasi eroico, specie se si pensi alle condizioni di partenza e agli ambienti in cui è vissuto quasi sempre impermeabili al richiamo dei libri.
Nelle sue pagine ha macinato dati delle sue esperienze con echi soprattutto di Gadda (a livello linguistico), Pasolini (per la tematica “sottoproletaria” e cruda), dei grandi romanzi (soprattutto Cervantes, Hugo e Manzoni per gli aspetti più visionari e tragici) e con altre influenze grottesco-populiste, realistiche, fantapolitiche o allegoriche, riferibili alla vasta gamma che va dai romanzi d’appendice ottocenteschi fino ai fumetti e al cinema di Totò. Ha succhiato cioè cultura dove poteva e l’ha rielaborata in quello che lui stesso, in questa intervista, chiama un «pot-pourri» (postmoderno potremmo aggiungere).
Sarebbe interessante, da un punto di vista storico-antropologico-sociale e non solo letterario, capire come forme culturali così eterogenee siano filtrate in uno che ha scritto da outsider e alle prese con problemi materiali elementari di sopravvivenza e in contatto diretto con le fasce sociali più escluse. Le sue testimonianze di vita avrebbero potuto ben figurare tra le voci che Danilo Montaldi e Franco Alasia raccolsero attorno al 1960 in Milano, Corea fra gli immigrati presi nel vortice delle trasformazioni dell’Italia dal dopoguerra al boom economico.
Da quel coro di “subalterni” però Tagliavento in parte si distacca, proprio perché accanito scrittore in proprio più che testimone orale. Nei fondali delle sue poesie e dei suoi romanzi s’incontrano, sì, squarci di vita di famiglie contadine e sottoproletarie, di caserma o di ambienti malavitosi, cioè di un tessuto sociale messo in subbuglio dal grande esodo verso l’industrializzazione. Però, lontano da ogni rappresentazione realistica, egli accentua nei personaggi estratti dai suoi incontri “dal vero” aspetti grotteschi, orrorifici o stregoneschi. Fino a spingersi nel fiabesco, presentandoci eroi litigiosi e spacconi, animali parlanti e protettivi, terribili mostri e draghi, principesse bellissime e sfuggenti oppure battaglie ripetute fino all’esaurimento da poema ariostesco o paesi utopici calcati su Eldoradi alla Voltaire.
Tagliavento ci mostra i sussulti dell’immaginario di un migrante d’origini povere e contadine alle prese con il miraggio metropolitano. E soprattutto quello erotico-sessuale dei migranti maschi, di cui ha parlato Tahar Ben Jelloun[1] in Le pareti della solitudine, ricordando come in fondo ai loro deliri ci sia «quella donna sognata che, anche se è soltanto un’immagine sulla carta patinata di una rivista», parla e tiene compagnia, alleviando e tenendo aperta una «ferita».
Quest’immagine di donna – reale e immaginaria – è onnipresente nei romanzi e nelle poesie di Tagliavento. I bei corpi femminili suscitano nel protagonista maschile una voglia ossessiva di possederli e peripezie tragicomiche. E in genere tutte le figure maschili, per lo più tratteggiate approssimativamente sotto l’aspetto fisico e morale, hanno per così dire una vita in pubblico ridotta, perché sempre intente a prepararsi al rituale della seduzione e del coito.
Il narratore, quando arriva a descriverlo, molto liricizzando il goloso godimento dei corpi, fa esplodere tutta una sensualità orgiastica, sadica, maschilista, ricorrendo ad una batteria inesauribile di aggettivi, iperboli, neologismi, termini bassi popolareschi o dialettali. Sia per le immagini che per il lessico Tagliavento qui oscilla (ecco l’elemento novecentesco) fra dannunzianesimo e pasolinismo da una parte e fiabesco e sublimante dall’altra (ecco l’elemento arcaico, popolare). E in più si presenta come un Gadda plebeo soprattutto per la scelta di termini sbilenchi o strapazzati, arcaismi o chicche che, non potendo essere dotte, sono involontaria parodia del linguaggio letterario aulico.
Il piacere non è però paganamente goduto dai suoi maschili cacciatori. L’atto sessuale pur così ambito è giudicato una «porcheria» peccaminosa, una pericolosa ruberia da ladri e viene animalizzato o spiegato come oscura azione demonica che sottomette tutti: vecchi e giovani, preti e laici.
A fare le spese dell’oscuro conflitto che accompagna questa ricerca del piacere però sono soprattutto le figure femminili, ricondotte tranne qualche eccezione allo stereotipo popolaresco della femmina-vacca. Il protagonista maschile paga invece il suo pedaggio diventando preda di sensi di colpa, che lo portano alla fuga, a ravvedimenti improvvisi, moralistici e improbabili, alla morte.
Malgrado parecchie scene sembrino boccaccesche (lo sono secondo me solo a livello della descrizione dei comportamenti esteriori) manca l’indifferenza di Boccaccio verso la morale ufficiale o la comicità e la schiettezza di un Rabelais verso i bisogni materiali e sessuali dei corpi. Tagliavento si dibatte tra un erotismo sognante (a livello del profondo tutto iscritto nell’orbita del materno e del bisogno di protezione o accoglienza) e moralismo ideologico di marca cattolica.
In quel che gli resta di vita pubblica, il protagonista delle scritture di Tagliavento è invariabilmente eroe picaro, astuto e un po’ furfante. Va contro tutti ed è sottoposto a continue prove per uscire dal suo isolamento. Quando gli capita poi d’ottenere l’agognato riconoscimento del suo valore, finisce però per rifiutarlo, per ricominciare il suo vagabondaggio fino all’annullamento-punizione finale.
A differenza infatti degli eroi delle fiabe, che sono unitari e vincitori, quello dei romanzi di Tagliavento è scisso: ora inerme e vittima, ora spaccatutto e giustiziere; ma comunque soccombente ai suoi innumerevoli nemici, che però sono controfigure o emanazioni diaboliche di qualcosa di oscuro e ostile: il Destino.
Le peripezie che questo impone vengono raccontate attraverso passaggi bruschi e poco motivati o troppo convenzionalmente giustificati. Il narratore inserisce così nel tessuto fiabesco più tradizionale, in apparenza ingenuo e sotto sotto orrido – stravolgendolo dunque – tremori e angosce esistenziali novecentesche. E così la storicità contraddittoria ritorna in evidenza: Tagliavento partecipa a suo modo delle acquisizioni raffinate della letteratura alta e nel contempo non ha mai abbandonato la tradizione popolare e fiabesca del C’era una volta.
Egli ha tentato altre volte, dopo il primo insperato successo, di pubblicare. Ma, trovate chiuse, anche per il clima culturale mutato, le porte dell’editoria che conta, l’ha fatto qualche volta a sue spese, vendendo («come uno straccivendolo», dice sua moglie, una proletaria casalinga che gli bada da una vita lavorando da sarta) fra amici e conoscenti qualche copia dei suoi romanzi. Forse anche per una orgogliosa e autodifensiva autosufficienza, romanzi e poesie da lui scritti sono in gran parte inediti. Ed egli ora ha quasi rinunciato a farli leggere, impegnandosi testardamente a continuare a scrivere, senza neppure più aspettarsi un qualche risarcimento.
Potrebbe essere scambiato per un semplice grafomane. Non lo è. A me le sue scritture sembrano notevoli soprattutto per il gusto immediato e bizzarro nella scelta delle parole, nelle rincorse etimologiche e analogiche, nell’attenzione alle assonanze. Sono poi un esempio di letteratura prodotta in quelle condizioni di vita marginalizzate in cui si trova tuttora una buona parte dell’ex-proletariato da cui è venuta fuori l’odierna figura dei lavoratori più istruiti e dei precari laureati.
Quanti tra loro (e penso in particolare ai nuovi immigrati) vanno oggi producendo i loro racconti e fossero in grado di sentirsi vicini ad esponenti di quelle classi sconfitte che li hanno preceduti potrebbero trovare nelle scritture “selvagge” di Tagliavento un loro antenato.
INTERVISTA DI ENNIO ABATE A ARMANDO TAGLIAVENTO
Quand’è che hai cominciato a scrivere?
Il discorso di scrivere è una cosa che nella mia vita salta, zompa, balugina. Non è una cosa che mi sono prefisso. Comunque cominciò a Fondi nella zona della Ciociaria, dove sono nato, con la figlia del maestro Spirito. Avevo sei anni circa e doveva venire Mussolini o un federale, che si chiamava Amato (mi pare), a inaugurare una colonia. Mi disse: Armà, scrivi una poesia. E allora io scrissi: Viva viva il nostro duce / che con sé porta la luce / e viva il federale Amato / che di gioia ci ha colmato. Poi a una diecina d’anni cominciai a andare appresso alle cugine e allora scrissi una poesia che cominciava così: Saltano macchie, siepi e rupi / per sfamare i loro lupi /quando è notte e tutto tace / coi begli occhi di fornace / vanno in cerca del lungo bruco / eccetera. Non ricordo più bene.
Tu che scuola hai fatto?
A Fondi avevo fatto la seconda e la terza elementare. Andavamo da un certo frate che c’insegnava a leggere e scrivere. Si chiamava padre Giacomo. Poi non ci andammo più perché dovevamo pagarlo. Poi è venuta la guerra. E quand’è finita il paese è tutto un mucchio di polvere. Tutto bruciato, polverizzato. Non s’è trovato più un documento. Niente. Fondi è stata incenerita proprio. Ci rifugiammo nella chiesa di S. Francesco vicina al monastero. Ciascuno si arrangiava alla meglio. Poi è morta mamma. Mio padre è un essere umano che meriterebbe di essere ucciso mille volte. Prima di tutto ha caricato mamma di figli: mia madre a 33 anni ha fatto 12-13 figli. Ne sono sopravvissuti 8. Appena arrivati gli americani, noi per due o tre giorni andavamo per il paese rovistando per trovare qualcosa da mangiare. Un giorno zia Santina, la moglie di un fratello di mamma buon’anima, ci ha detto: Guarda Armà, noi usciamo. Mi raccomando Antoniuccio. Qui c’è una bottiglietta col biberon. Ogni tanto ci date da bere. Il fratellino, di cui non abbiamo neppure una foto, dormiva dentro un tiretto del comò. Quello era il lettino suo. Noi ragazzi per andare in giro – mangiucchia di qua, rubacchia di là – l’abbiamo dimenticato. Quando siamo tornati, stava morendo.
La guerra l’hai vissuta da vicino, vero?
Cavolo. Da una fessura tra le rocce ho visto i marocchini violentare le donne. Uno di loro portava dei campanelli. Faceva un gesto così e si riunivano. Quando siamo sfollati, ci siamo andati a rfugiare per quasi un anno in cima al Cocoruzzo e abbiamo abitato dentro la capanna, dove c’erano prima i somari di Angellella Franco, la padrona di quel pezzo di montagna, questa ciociara. Più sopra ancora c’era la Crocetta di Campo di Mele, un altro paesetto. Si chiamava così perché era un incrocio. Lì c’era Elvira, che veniva sempre a vendere i fichi a Fondi. Era tutto un incrocio di montagne, di vallate. Noi ragazzi ci mettevamo sulle soglie delle capanne, che erano fatte di pietre con il tetto di paglia. Ci mettevamo a vedere gli aerei che sfrecciavano nella vallata di Fondi e quasi rasentavano le nostre capanne. Per noi era un divertimento. Sotto, dove c’erano sette sorgive d’acqua, non potevamo scendere. Qualche volta gli aerei per venire a bombardare si schiantavano vicino alle rocce. Avranno scaricato più di mille bombe. Noi le chiamavamo fasuleglie, cioè fagiolini. Se uno volesse.. Io potrei scrivere ancora un altro libro intero sulla guerra.
Hai notato un cambiamento tra il periodo di prima e quello di dopo la guerra? Tu, la tua famiglia avevate simpatia per i fascisti o no ?
Uno non ci pensava neanche. Eravamo tutti fascisti allora. Dicevamo: Churchille, Churcillone/ se ci esce l’America/ ci pensa il Giappone. Dei comunisti niente, noi ragazzi non sapevamo niente. Io so solo che il primo partito che hanno fatto a Fondi era la Lista Castello, perché c’è il Maschio come a Napoli, più piccolo però. Erano fascisti e democristiani insieme. Io a Latina ho fatto due nottate dentro perché, per avere un pezzo di pane, insieme ad altri ragazzi vendevo senz’autorizzazione L’Unità, Rinascita, Noi donne. Da piccolo uno che capisce? Tu sei povero, hai bisogno di un posto di lavoro, di un letto caldo. Hai bisogno di una mamma. Noi non avevamo più niente.
Ma poi ti sei avvicinato ai comunisti fino a prendere la tessera? Perché?
Sì, io presi la prima tessera, quella della Fgci. Me l’ha firmata Berlinguer. Lo feci per avere un’esistenza, un’identità. Io non potevo mai essere democristiano, perché ero figlio di poveri. E vedevo i comunisti vicini ai poveri. Io non avevo casa, non avevo niente. Papà aveva una casa che aveva pagato 75 lire. Ci hanno buttato tre bombe sopra. C’era disoccupazione. Tutti erano disperati. A Fondi ci abbiamo la scalinata Santa Maria. E lì si mettevano i disoccupati. Allora tu sei esasperato contro qualsiasi forma di ricchezza. Vedessi l’arroganza di certi padroni bastardi. Cominciai a andare ai comizi, ai cortei. Dai comunisti più che un aiuto mi aspettavo una giustizia. Il lavoro per tutti, ad esempio. E poi l’amicizia.
Ma così non ti mettevi contro altri amici tuoi che erano fascisti?
Sempre una lotta è stata. Io sono stato sempre, diciamo, un po’ opportunista. Tutti lo siamo. Il padre di un mio amico s’è iscritto a un partito per far operare d’appendicite una sorella. I ricchi hanno sempre odiato i poveri. Io però ho sempre dato più adito [importanza] alle cose non politiche. Quando mi faceva comodo andavo anche dai preti a chiedere. Ero uno sfaticato, lassista. Non mi è mai piaciuto essere [inquadrato]. Ho fatto sempre il doppio gioco. A Milano poi sono stato coi capelloni, ma ho votato sempre comunista. Il fatto del voto è sacro.
Ma la tua famiglia era fascista o no?
Mio padre era analfabeta. Anche lui era un opportunista. Mi diceva: nella vostra vita non fatevi mai le tessere. Era fascista, ma la tessera io non ce l’ho mai vista. Aveva un’idea e basta. Papà era crudele. Gli uomini di prima erano tutti come lui: un bicchiere di vino, la zappa. Però è stato in Germania. C’era andato col sindacato fascista. Ha lavorato sulla Bahn’hof, sulla ferrovia tedesca. Non poteva più tornarsene e se ne scappò. Lì ha imparato la lingua. Lui a cinema non c’è mai stato. E s’arrabbiava con chi ci andava. Diceva: vai a cinema a vedere le stesse cose che fai tu? Sono soldi sprecati. La mia era una famiglia di poveracci. Mamma sempre un po’ malaticcia. E ‘sto lazzarone e disgraziato di mio padre. Far fare a una donna tutti quei figli!
Dopo la guerra che cosa hai fatto?
Ho vissuto 8 anni a Roma. Vi scappai con mio fratello Enio, un mezzo delinquente, uno scapestrato. Prima si è messo coi partigiani, poi coi tedeschi, poi per soldi si era messo con gli americani per andare a cercare i tedeschi. A Roma è andato ad attaccare i manifesti al Vaticano e lo hanno sbattuto dentro a Regina Coeli per un paio di mesi. Era amico del Gobbo del Quarticciolo, che era contro la legge. Non uccideva. Rubava per mangiare. Era un giustiziere. Aiutava i poveri e perciò alcuni lo chiamavano Zorro. Quando uno non aveva il lavoro, lui andava e diceva: se non dai il lavoro a questo, io ti faccio fuori. Nella banda c’era lui, poi c’era Pezzancule, Pisciasotte, che l’avevano operato male e si pisciava sempre addosso. Ci faceva parte anche mio fratello Enio. Un regista francese ci ha fatto anche un film su tutta questa storia. In quel periodo lì io ero guaglione. C’avevamo una fame. Noi stavamo con zio Michele, figlio del patrigno di mio padre, che era impiegato all’assistenza postbellica. Lui ogni tanto prendeva in casa un nipote. Lo svezzava lì. E così ha fatto con Enio. Poi con me e man mano con altri. Era uno zozzone. C’aveva un paio di donne e poi maltrattava la moglie, che faceva la serva al Testaccio, lavava i piatti, stirava e il marito le portava via anche quei quattro soldi che guadagnava. Mio zio aveva anche una fabbrichetta di varechina ai Parioli e io stavo al negozio con mio fratello Enio. La varechina ce la facevamo noi. C’era «la Bianca», «marca Bianca». Prendevamo dei vasconi e compravamo l’estratto per fare la varechina in questi vasconi. Poi coi tricicli andavamo girando per Roma. Eravamo talmente affamati, che man mano che prendevamo una lira, la rubavamo per comprarci la pizza. Mio zio diceva: prendete trenta litri di estratto per allungare la varechina nei vasconi. E noi ne prendevamo la metà. Tutt’acqua era. Alla fine è fallito. Poi io trovai un portafoglio di un signore. Glielo riportai. E quello: che cosa vuoi? Dammi un lavoro. E allora sono finito in piazza Epiro, vicino a Cinecittà. Facevo il custode, il servotto anche degli attori. Ho conosciuto Bob Hope. Poi Enio ha buttato un gatto dentro la gabbia dell’ascensore e mi hanno cacciato dal lavoro. Vivevo così. Poi ho preso a leggere di tutto. Salgari, ad esempio. Poi ho letto Atte, la liberta di Nerone e mi sono innamorato follemente del latino. Sono sempre stato innamorato della roba antica.
Ma come ti procuravi i libri?
Chiedevo ai vecchi. A quei tempi là si andava in giro a raccogliere le cicche e poi le davamo ai vecchietti di Piazza del Popolo. Roma io la conosco a millimetri perché l’ho girata per tanti anni. I libri li chiedevo a chiunque. Ci avevo una faccia tosta. Facevo amicizia con uno, con un altro. Andavo a portare la varechina nelle case. Parlavo. Guagliò, di dove sei? Ero già piazzato. Avevo 14 anni ed ero molto bello e sempre a caccia di donne.
Quali libri hai letto? Quali ti hanno appassionato?
A me piace soprattutto il Don Chisciotte. Lo leggerei due volte l’anno. Tutto ho letto.
Beh, dimmi di cos’è fatto ‘sto ‘tutto’…
I promessi sposi li ho letti quattro volte. Don Chisciotte della Mancia l’ho letto in italiano e in spagnolo. Il tuo ex collega del Molinari, Merisio, lui mi ha portato il Don Chisciotte in spagnolo. Ho letto quasi tutto. Ad esempio I fratelli Karamazov di Dostoewskij. Poi il Dictionnaire philosophique di Voltaire in francese, che adesso sto leggendo un’altra volta. Poi ho letto per 4 anni la Bibbia. Lì è un macello, un marasma. Ci sono tanti personaggi. È meravigliosa per questo. A me piace molto l’immagine dei contadini che stanno tirando l’acqua dal pozzo, quando arriva Mosè. Va letta tutta la vita. E anche se la leggessi per mille anni, la leggerei sempre come un ameno libro di lettura. Non come un libro sacro. Ho letto tanto in francese. A me piaceva Notre Dame di Hugo, cose toste. Poi Madame Bovary di Flaubert, Balzac, Zola, Baudelaire.In italiano di Dante so dei canti a memoria. Ho letto pure I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, il Decamerone. Poi ho studiato inglese e anche qualche po’ di russo. Le lingue mi sono sempre piaciute, perché mio padre è stato in Germania più di vent’anni e quando veniva, gli chiedevo di portarmi una grammatica. Sono stato sempre un po’ esaltato dalla lingua tedesca. Stern l’ho letta per tantissimi anni. Il tedesco l’ho portato avanti fino adesso. E in Germania ci sono andato d’estate per vacanze. Mi stavano quasi prendendo al porto a fare l’interprete di tre lingue e mi davano 6 milioni al mese. Però c’erano i bambini [figli], dovevo lasciare tutto. Ho letto pure Umberto Eco. M’ha scandalizzato. Dice più Fontamara. Cristo si è fermato ad Eboli mi dice mille volte più di Eco. E poi più leggevi e più approfondivi. Qualsiasi cosa. Cominci una frase e subito viene una rima. È come se ci fosse un dialogo. Poi come giornali leggo Settimana enigmistica, sempre quella. Sono settant’anni. Prima si chiamava NET, Nuova Enigmistica Tascabile. Io quando prendo le parole crociate, guarda qua… Io tutta la vita avrei dovuto farlo questo, ogni settimana: ritaglio le foto degli attori e l’appiccico qui, faccio un archivio.
E che ti serve avere tutti questi volti? Perché t’interessano tanto?
Niente, curiosità. Perché amo tanto la cinematografia. A Roma andavo in tre cinema gratis: Arcobaleno, Iovinelli – dove vedevo sempre Claudio Villa – e Brancaccio. Perché mio zio andava in giro a portare le pizze con la bicicletta. Mi portava con lui. E così vedevo i film senza pagare.
Ma le parole crociate perché ti appassionano?
È una rivalsa. Quando prendo la Settimana enigmistica, faccio le più difficili.
Ti appassiona lo studio dei nomi, dei dizionari, dell’enciclopedia?
Sì, sì. Perciò poi faccio tutto questo casino quando scrivo, è come un fiume, come dici tu. Mi sono insaccato, nutrito di tutto, senza fare distinzioni.
Ma le preferite di queste letture?
Don Chisciotte. Perché sono io. Pensa a Dulcinea. Quella era una contadina che sceglieva i ceci in mezzo all’aia e lui si esaltava. Secondo me, lui si sarebbe accontentato anche di una strega pur di avere vicino una donna. Aveva un animo grande. Era pazzo, no? Con la sua immaginazione rendeva bella anche una donna brutta. Don Chisciotte era secondo me malato. Non esiste poeta contento. Come fa uno felice ad essere poeta? Se non soffri, non puoi scrivere. Il poeta è uno che vive ammollato nella sofferenza. La sofferenza mi piace. Quando non c’è sofferenza, non c’è niente.
E ne parlavi con qualcuno delle tue letture?
Con i ragazzi del Molinari. Ho fatto il bidello lì per 35 anni. In mezzo a tutta quella gente lì parlavamo di letteratura, di lingue. Ne parlavo anche con qualche professoressa. Poi ho fatto il liceo classico al serale. Quando c’era il greco e qualche materia che c’interessava, stavamo in classe. Se no, con una scusa, ce n’andavamo. Ci davamo l’appuntamento al cinema di piazza Argentina con sei, sette studentesse. Ubriacature, sigarette… Ero esaltato. Sono stato sempre un po’ femminaro, diciamo. Ma adesso son vecchio, brutto, non ce la faccio più.
E se dovessi presentare a dei giovani I promessi sposi che gli diresti?
Beh, c’è l’arroganza di don Rodrigo che è fondamentale. Poi c’è il perdono quando sta per morire. In tutti i personaggi mi trovo io. Anch’io sono don Rodrigo. Tutti sono don Rodrigo. Nessuno è buono. Crediamo in Dio quando ci fa comodo. Siamo opportunisti, vigliacchetti.
Ma da Roma a Milano come e quando sei arrivato?
Dopo la guerra ho fatto diciotto mesi il soldato a Como e Varese. Poi sono tornato a Fondi. Poi sono stato da una zia di Monterotondo. E lì questa qui voleva appiopparmi la figlia Adele. Si arrivò al punto che mi fecero ubriacare e mi misero la figlia a fianco nel letto. Stavano preparando persino la dote. Io non dico niente a nessuno e di notte me la filai a Monterondo città, in una pensione di due vecchie, una più cattiva dell’altra. Lì conobbi Peppino, che faceva il camionista e che per poco non mi metteva sotto, mentre io con altri stavo giocando con una palla di pezza per strada. Io dovevo pagare 8 mesi a questa pensionante, ma non avevo una lira ed ero disoccupato. E quell’anno fece otto volte la neve e a Monterotondo vennero i lupi. Peppino mi porta a casa sua. Qui una volta ad un battesimo di una vicina venne invitata una ragazza, Ersilia. Ci siamo conosciuti e con lei sono andato in Abruzzi, a Lanciano, nei pressi di Pescara. Lì mi sono sposato con lei. Poi Peppino e la sua famiglia, che mi avevano ospitato, si trasferirono vicino Vergiate, nella zona di Varese. Siccome ci scrivevamo, andai anch’io da loro e feci venire Ersilia e i due bambini che intanto erano nati. Poi il fratello di questo Peppino, che faceva l’autista di un miliardario, ottenne una casa in via Brembo. E noi avemmo un locale al quarto piano di questa casa. Dopo qualche anno sono usciti due locali al piano di sotto. Ma eravamo senza lavoro e non abbiamo potuto pagare l’affitto. È venuto l’ufficiale giudiziario, ci ha fatto il sequestro e siamo andati a finire in Via Oglio, nelle case degli sfrattati. Abbiamo fatto tre anni lì e poi abbiamo fatto la domanda per le case popolari. E così abbiamo avuto questa dove abitiamo adesso, in Via Chiari.
Te la sei vista brutta a Milano?
Quando stavo in via Brembo – era il 1960 – andavo raccogliendo le bottiglie vecchie con un amico di Ersilia. Poi ho fatto il muratore. L’avevo fatto da sempre. Anche a Fondi bambino zappavo l’orto. Poi mi sono iscritto all’Istituto Tecnico Svizzero, una scuola per corrispondenza, e mi hanno dato il diploma di capomastro edile. Ho lavorato in piazza Frattini, dove abbiamo fatto un quartiere. Poi mi sono ammalato. Sono stato operato d’ulcera. E nel 1966 entrai al Molinari come bidello, dove sono restato fino alla pensione. Ma prima per quattro anni ho fatto l’impiegato amministrativo alle Macchine Edili, che allora era in viale Ortles. Mi avevano preso come telefonista. Poi era morto il capo e volevano fare me capo di questa ditta di due, tremila persone. Ma un ruffiano andò a dire che avevo la tessera della CGIL e mi cacciarono via. Così, non trovando niente, un amico di mia moglie mi suggerì: ficcati nella scuola. Feci ‘sta domanda. Io ero invalido civile per le operazioni che avevo subito. Ero diventato proprio un fuscello. Ebbi il primo posto e arrivai al Molinari.
E in mezzo a tutti questi movimenti, quand’è che hai cominciato veramente a scrivere?
Le poesie da sempre. A scrivere di più ho cominciato sotto le armi. Ma in effetti ho scrivere molto nelle case degli sfrattati di via Oglio. Lì ci avevo del materiale accumulato, tutto un malloppo di carte scritte a macchina, un pot-pourri. Lì scrissi il primo libro intitolato L’uomo sbagliato.
Ma Tra fascisti e germanesi, il libro che ti pubblicò Feltrinelli nel 1973?
Feltrinelli ha messo questo titolo a un pezzo tratto da L’uomo sbagliato. La storia è andata così. Ti ricordi Pozzolini, quel professore d’italiano toscano che era venuto anche in televisione con Enzo Tortora ed insegnava al Settimo Itis? Lesse ‘sto malloppone di 7-800 pagine. Lui curava una rivista lì da Rizzoli. E disse: portalo a Rizzoli. Rizzoli stava quasi per pubblicarlo, ma lo trovarono troppo comunista, troppo rosso. E allora Pozzolini dice: mandalo a Feltrinelli che hanno una collana Franchi narratori. Mi chiamano alla Feltrinelli e questo dottor Tagliaferri ha preso praticamente solo un pezzo di questo libro mio e gli ha dato lui il titolo. Goffredo Fofi ci ha fatto un’introduzione. Quello è un libro che a farci un film…Poi lì alla Feltrinelli mi dissero loro stessi: fai un libro sulla scuola vista da un bidello; e io ho scritto Scuola serrata, ma non me l’hanno preso. Al Molinari c’era un certo Willy, che lavorava con questo editore Ghisoni e nel 1975 mi hanno pubblicato Scuola serrata. Poi a mie spese ho pubblicato a Lanciano nel 1993 Frau Magda. L’ultima donna. Adesso non m’interessa più pubblicare. L’altro inedito che ho scritto Il gran deluso l’ho sta leggendo anche il prete di qui che mi ha detto: Tu sei furbetto. Si è accorto che sono un po’ doppiogiochista in politica.
Facciamo un attimo l’elenco preciso dei tuoi inediti…
È un bel problema, perché io comincio, poi lascio lì. Non ho mai dato un ordine. Non ho pensato neppure a scrivere la data sui libri che ho fatto rilegare.
Però un po’ d’ordine bisogna farlo. Vediamo…Dopo L’uomo sbagliato scritto tra il ‘65 e il ‘70 hai terminato Lo sbandato attorno al ’72. Poi dal 1975 all’’80 hai fatto Il gran deluso. L’ultimo comunista, mentre Dissacrazione e verità raccoglie i racconti di tutta la vita e Una vita a pezzi (circa 260 pagine) tutte le tue poesie. Hai poi da parte – qui ben rilegati nella tua libreria – una estrosa guida turistica, Hamburg zu fuss [Amburgo a piedi], nata dalle tue visite a quella città, e i due libri sui dialetti: un Vocaromanzo, cioè romanzo-vocabolario, dove analizzi le parole del dialetto di Fondi collegandole alle vicende della tua biografia [romanzata] e un Vocabolario del dialetto abruzzese che hai depositato nella biblioteca civica a L’Aquila. Infine stai lavorando adesso a Gente senza faccia, che definisci un poema. Se dovessi riassumere la trama di quest’ultimo libro?
Tutti i falliti si riuniscono dentro questa capanna di paglia (mi rifaccio al tempo della guerra…) e ognuno racconta le sue beghe e i suoi guai di una vita da barboni. Per me è un capolavoro, una specie di Decamerone che potrei intitolare anche I ragazzi del capanno.
Ma questi libri li hai fatti leggere ad altri?
Adesso non sto bene. Non ci penso neppure a farli leggere, però chi legge le mie robe le trova buone e io vado avanti a scrivere. Adesso mi sono infervorato e sto lavorando. È tutta una trama a flash-back. Parlo di tre donne però che alle fine è una sola ed è mia sorella Elisabetta. E io m’invento che il marito la spara. E vado avanti…
Parlami un po’ del lavoro che fai quando scrivi…
Qui è un macello. Io invento tante cose. Non mi servo delle parole che hanno scritto gli altri. Ho il mio linguaggio. Sono capriccioso, scapigliato diciamo. Scrivo come voglio. Delle date proprio non me ne curo.
I temi che mettono in moto la tua fantasia quali sono?
La guerra è fondamentale. La donna ovviamente per tutti gli uomini è il perno attorno al quale girano tutte le fantasie, perché la donna fa i figli. Poi l’amore, l’affetto. La religione niente, per me non esiste. Gli altri? Mi occorrono. Ho bisogno di tutti. I parenti? Io li sparerei. Non m’interessano, ci do poco peso. E poi i luoghi: Fondi, Napoli. Roma no. Più i luoghi sono disastrosi più [accendono la mia fantasia].
Fai differenza tra quanto scrivi in poesia e quanto scrivi in prosa?
Bah, non penso. Per me è tutto uguale. Mi metto a scrivere lì. Io sono stato sempre di questo parere – lo dicevo anche ai ragazzi al Molinari – che se Dante avesse scritto la Divina commedia in prosa, come ha fatto Boccaccio, questa sarebbe davvero un capolavoro. Io insomma tengo più per la prosa. Nella poesia la rima condiziona.
Tu hai continuato per tutti questi anni a scrivere da solo, senza incoraggiamenti. Perché lo fai?
Questa è una domanda a cui non è facile rispondere…
Ti accontenti di scrivere per te?
Purtroppo che fai? Mica ti puoi imporre. È come la morte. Io certe volte ho paura della morte, di rimanere solo. Però mi dico: se gli altri muoiono, tu perché non vuoi morire? Nasciamo e muoriamo. Se uno non nasce, non muore. Tu una volta mi hai chiamato ‘scrittore clandestino’. Non mi va.
Volevo intendere irregolare, non riconosciuto…
‘Clandestino’ non mi piace, perché tiene qualcosa di delinquente. Uno che fa qualcosa contro la legge. Tu non mi fai essere famoso e io te lo faccio apposta. Io non direi ‘clandestino’. Io mi sento un innamorato della saggezza.
Hai mai pensato di ripulire, aggiustare, sintetizzare, tagliare questa tua vasta produzione scritta?
Se dovessi fare una cosa del genere, farei crollare questo castello. Meglio lasciarlo così. È uscito così dall’anima, dal cuore, dalla tua volontà. Tu desideri una cosa e la ottieni. Io quando scrivo una cosa e mi piace…. È inutile stare a cambiare.
Ma il lavoro dello scrittore non è anche quello di ripulire, aggiustare?
Non mi piace, non mi piacerebbe. Tu mi consigli di ripulire, rendere meno rozzo questo linguaggio? Io voglio mantenerlo così. Non può venire meglio. Non accetto i limiti. Al circolo dell’Arci qui sotto casa hanno messo una targhetta: ingresso riservato agli iscritti. Io non ci vado più.
Tu sei vissuto sempre in questi ambienti proletari e sottoproletari…
Sì, mi sono messo sempre coi poveracci, i più analfabeti, i più malati.
Ti sei trovato in mezzo a loro…
No, lo facevo apposta. Non mi piace di essere meglio degli altri. Ho paura di far male agli altri. Ad esempio, io sono capace più di un altro a scrivere, ma non glielo dico, non mi vanto.
La differenza la vedi, ma non vuoi metterla in risalto? Vuoi mantenerti solidale con lui?
Sì, solidale.
Ma coi bidelli del Molinari com’erano i rapporti?
Nessuno mi poteva vedere, perché ero diverso. Non perdo tempo a chiacchiere…
Eri più amico dei i ragazzi però?
Sì, ma era anche pericoloso. Si andava a mangiare e a bere in quello sgabuzzino lì. Li mandavo dal pizzicagnolo a prendere il vino per conto di Armando, un amore di vino calabrese. Quante volte eravamo ubriachi. Io nun saccio chi santo mi ha aiutato a tirare la pensione. Quante ne ho combinate!
Gennaio 2006
APPENDICE: BRANI SCELTI
Da Tra fascisti e germanesi ( Feltrinelli, Milano 1973, pp.69-72)
La vita sul Cocuruzzo, sebbene da cani, correva lo stesso. lo avevo tanta paura della guerra. Avevamo fame ma Antoniuccio cresceva bello come il sole. Anche se si voleva scendere al paese per procurarci del cibo, dovevamo riunirci perché sarebbe stato un suicidio esporsi alle bombe americane. Sembravamo costretti a morire di fame dentro quei tetri tuguri di paglia e sassi. Ma un mattino, l’ultimo di gennaio, sbottammo. Il cielo era accappato di nero; elefanti di nuvole gonfie d’acqua s’alzavano avvolgendo gli aranceti. Io, zio Leandro, Lucino, Elio e una giunta di mortidifame calammo al paese, con la speranza di trovare qualcosa da mangiare. Scendemmo piano piano per i sinuosi sentieri che affogavano nel verde del monte. Zio Onorio si unì a noi. Proprio quando arrivammo ai piedi del Cocuruzzo, scivolando sulle erbe e sopra i sassi freddi, il cielo si coprì di macchie dell’antiaerea tedesca e una squadriglia di apparecchi incominciò a seminare bombe e pallottole a tutto spiano dentro le rocce e sopra i giardini d’aranci. Ci mettemmo al riparo e i tedeschi, che lungo la costa stavano all’aperto, sparirono nelle grotte. Uno di loro, però, non fece a tempo e col fucile si mise a sparare nel cielo. Non rimase in piedi per molto e gli aerei se n’andarano vincitori versa il mare. Avvicinammo il tedesco, e allibiti ascaltamma le sue ultime parale: “Non perderemo la guerra, il Fűhrer ha detto che abbiamo l’arma segreta, non fa nulla che voialtri italiani ci avete tradito, vinceremo lo stesso, gli americani li butteremo. a mare.” E piangeva con la mano. affondata nel buco che teneva sotta la pancia, aspettando di morire.
Giungemmo presso il paese a sera inoltrata: avevamo paura dei bombardamenti e d’essere rastrellati dai tedeschi. Erano due mesi che non ci azzardavamo a calare a Fandi. Il prablema era di entrare in paese senza che nessuna ci vedesse. Tentammo con cautela di aprirci un varco attraverso i comandi tedeschi. C’era nell’aria la natizia che i liberatori americani fossero oramai quasi alle parte, ma stentavamo a crederci; di cose allora se ne raccontavano tante. Giungemmo dentro il paese. Per i vicoli non latrava un cane, la paura ci straziava. Papà e zio Leandro ci precedevano camminando sotto gli architravi pericolanti e noi li seguivamo, sbattendo i denti per il freddo e per la fame. Poi mio padre se ne ritornò sul Cocuruzzo, accanto a mamma. A Fondi, le strade, i viali e le piazze, non esistevano più; il paese s’era trasformato in un immane cimitero senza croci. Percorremmo via Vetruvio Vacca senza incontrare una traccia di vita. Non ci perdemmo d’animo, specialmente zio Leandro, il quale, vista l’impossibilità di raccattare qualcosa da mangiare, propose di andare a vedere cosa mai era rimasto delle nostre case distrutte. Lui davanti e noi dietro, varcando come iene le macerie e i tritumi, arrivammo, stanchi e con la lingua fuori, sulle rovine della mia casa. Il ritratta di mamma e papà pendeva ancara affogato nella polvere dall’unica lembo di muro rimasto all’impiedi. Zio Leandro ebbe l’ardire di staccarlo dal muro senza procurarsi un graffio. Ritratto alla mano, mio zio avanzava barcollani, gettando gli acchi di qua e di là, coi capelli canuti rizzati in testa come un riccio. Noi lo seguivamo al calcagno.
Non finimmo di arrivare in piazzale Portella, che ci sorprese un bombardamento. Per fortuna non c’erano mura in piedi che ci potessero crollare sopra le spalle. Ci appiattellammo panciaterra sotta il marciapiede e restammo a baciare il selciato, finché i bombardieri si allontanarono. Ci rizzammo da quella posizione e ce la squagliammo. Attraversammo il Ponticello e andammo. a piazza Cardinale. Ci imbattemmo in un certo Cazzomatto, che con la sua faccia di puttana c’invitò a andargli appresso promettendoci di farci guadagnare il pane. Lo seguimmo e ci condusse dentro una casa dove, frugando ben bene, trovammo un barile di ulive all’acqua. Poi scendemmo in cantina, dentro la quale a stento si riusciva a tenersi in piedi. La trovammo piena di botti sforacchiate dalle palottole tedesche e fasciste; era tutta allagata di vino, con sopra uno strato di moscerini che si poteva tagliare a fette. Riempimmo delle damigiane e le nascondemmo per poi portarcele sopra la montagna. In altre cantine, c’era della gente che andava tastando i muri e i pavimenti a caccia della roba murata. Facevano man bassa di tutto. Noi li guardammo e prendemmo solamente da mangiare. Ci fornimmo di fagioli e di fichisecchi, mentre gli altri rapinavano gioielli, biancheria, vini. lo nel contempo guardavo Lucino, che sturava una bottiglia di liquore e l’assaggiava, e poi apriva e assaggiava l’altra ancora, fina a sbronzarsi. A un bel momento gli cominciò a girare la testa, ma lui non capiva ragione: assaggiava e rideva come uno scemo. A Elio venne un accesso di tasse (lui ne ha sempre sofferto), Lucino faceva il matto ragionando con l’alcool e io mi lamentavo che volevo mamma. D’improvviso, mentre carichi di mangiare e bere stavamo attraversando una lunga cantina scarrubbata, per portarci sulla strada e andarcene, passarono dei tedeschi. Ai gravi passi teutonici, sotto l’intimazione di zio Leandro, ci nascondemmo dentro le botti vuote. Elio tossì ancora e zio Leandro lo assalì con una valanga di improperi e minacce a bassa voce. Ma nessuno ci udì. Caricammo il vino, i fagioli e le olive e finalmente partimmo.
La Notte di Natale (1982)
E' la notte di Natale. Va un tale ad accattare in un bare un cartoccio di sale per la sua zucca astrale. Egli s'insacca nella sua mantellina sbrindellata e ingerisce di volata i diciassette piani del palazzo in cima al quale tana. Egli è povero, non ha un cavolo. Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo da tutti reputare un rospo cornuto. Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito, tronfio d'ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato di mozzichi d'incinte mignatte, squarciando lo smog entra nella fumigosa mescita summentovata. Egli è avvolto nelle pene nere del mondo le più megere. Tiene gli occhi bruciati di pianto e s'alluma un mozzone di sigarro raccattato perterra fuori dal bare ai piedi della soglia di pietra di Trani. E' la notte di Natale e sotto i suoi fracichi, sporadici denti, da vetusto tempo costui non mascica un tubo. Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati di debiti nel ventre della vetrina di una tavola calda, mirando, traverso la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia vernice di caviale. E' la notte di Natale. L'individuo se ne va piangendo il male che tiene all'addome, e d'allora non mangia, e soffre dolori di fame. Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle aggobbite al termosifone e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore gli bazzuca nel cuore dardi scagliati da un arco baleno d'amore. Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano gli brucicchia le labbra spaccate, tinte di morte. Lo rimira ognora nel bare la gente e lui pensa: "E' la notte di Natale e il tossicoso locale mi guarda cogli occhi alcolini." Egli se ne frega; si muove, si raggomitola rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone e col suo brutto muso di cane barbone tracanna un ponce. . Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte colla manica lurcia del suo malnato cappotto . e sfodera a sorte dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate cento lire ammaccate. E ammicca al barmanne se dentro quel bare ci fosse un juke-box da suonare. "Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti! - gli sparacchiano a musincinti gli avventori e la racchietta mogliettina del gestore - Il suonatore a bottoni eccolo là! Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?" La gente del bare l'attornia, lo vuole scannare. Menomale! E' la notte di Natale. E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi che quel coso là non è affatto un juke-box, bensì una cucina a gas, allora cos’aspettate? Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame! Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni! Magari! - pensava il gringo fra sé e sé - un ovo di struzzo scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola di maiale." E’ la notte di Natale. Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale, se ne stanno andando, quando egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale poter cucinare quel gatto soriano che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?" Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare, se ne vanno, quando uno chiama un altro: "Andiamocene, Peppe! Non lo vedi? E' stato sempre così scemo e ignorante quellolà! " E la folla, noncurante, se ne va. E' festa. Il tipo accatta il sale per la sua testa. Sbocca dal locale e, gridando, se ne va appazzato nell'interno del viale. E' la notte di Natale. Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell'ariaccia smogosa. Si porta dal giornalaio e chiede un panino imbottito. "Signore, ma lei forse è ammattito? - gli spara l'edicoloso - E' la notte di Natale, non posso darle, barbone, che un giornale." Eppoi all'illuso lo vede un bambino, che gli fa una pernacchia e gli dice: "Cretino!" E' umiliato il tale. "Ma questo zozzo mandrillo è proprio un deficente?" pensa un mercenario della Polizia Stradale. E' la notte di Natale. Egli si diparte colle spalle gelate e chiappa un tassì provinciale. Mentre l'illuso non fa altro che granfare il tram che va alla Previdenza Sociale. E' la notte di Natale. Il criminale azzecca ansimante i diciassette piani del palazzo sul quale tana. Ma non piglia l'ascensore. Forse ha perduto la chiave, o che non paga la pigione quell'essere astrale? E' la notte di Natale. Ha le labbra screpolate di voraggini di fame, quel brutto muso di cane. Questo tale lo si chiappa sempre nelmentre si stende come una maledetta scolopendra o un porcello di Santantonio sotto il ponte ove egli effettivamente cova il suo odio come un serpente velenato, il fetentone, il megalomane nato. Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo e guarda dabbasso la rapa dell'animale e le cappotte di metallo addebbitate che scorazzano sopra la cambiale. E' la notte di Natale. Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana. Si fabbrica una cerbottana, colla quale, dopo aver abbussolettate le bollette non saldate, le bazzuca sul peccato ch'è dabbasso e ridacchia come un Drakula. Soffoca, sventra l'apertura della gelosìa, ammocca la testa matta dalla bocca della casa e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo e a sequestrarlo corre il mobiliere e l'altro usciere azzecca a bazzucarlo, solo perché il tale non pagava la cambiale. E' la notte di Natale. Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere e ragnatele e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere di vino e scribacchia sciocche poesie. Adesso a1luca, grida ei come un disgraziatone e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio tutto il mondo, questo tale, questo idiota, questo cane vagabondo. Il tipo ha uccisi tutti, dimodoché persona più protesta, e solamente lui al mondo resta a gettare gli occhi sul viale alla notte di Natale. Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero). Finalmente muore il tale cadendo col capo sul davanzale e accattando il sale per la notte di Natale.
IL BRIGANTE SILVESTRO da Dissacrazione e verità (raccolta inedita di racconti, pag. 135)
Nella Selva Vetere, chiamata così per via che viene tagliata dal fiume Vetere, metatesi di Tevere, che nasce dal Monte Perito e muore nel lago di Fondi, una volta vi abitava un pastore di nome Silvestro. Aveva ventidue anni allora; giovane tozzo, brutto e analfabeta, aveva sempre il fucile retrocarico a portata di mano, se lo poneva accanto al letto quando la notte dormiva. Camorrista e maffioso. Anche se aveva sempre ucciso e rapinato, lui, a botto di schioppettate, faceva dire di sé: «Fino adesso ha voglia la gente di parlare, Silvestro ha ventidue anni e nessuna condanna sopra le spalle, non ha mai fatto del male a nessuno».
Lo temevano tutti. La Selva Vetere era il suo dominio; nei suoi lugubri ventidue anni aveva campato sempre di prepotenza. Era un uomo solo, errante, anche attraverso i Monti Aurunci, dietro alle sue pecore, ogni tanto ne violentava una, facendola [s]trillare come una rigazzina di primopelo. Emarginato dalla vita, egli non amava nessuno; sapeva soltanto che ogniqualvolta si piccava una cosa in testa, manteneva sempre la sua promessa fatta: «O ti piglio, o mi subisci, o ti fai subire; o mi dai la carne tua, o sennò io me la piglio». La sua famiglia era degna di lui medesimo, strafottente rapinosa, vendicativa e faidale. Costoro dominavano colla minaccia, sempre sul chivalà e sicuri, col fucile in braccio, carico e inesorabile. Erano incapaci di pensare al bene, votati al male. Capacissimi di rapinare e uccidere a sangue freddo, nonché di bruciare le capanne, pagliari, rozze dimore di quei poveri selvaroli.
La losca famigliaccia cantava sempre: «Se ci rompete le ossa dentro ci trovate il rancore, se ci tagliate le vene, dentro ci trovate il veleno, se ci spaccate le cervella, dentro ci trovate il delitto; se ci aprite il cuore, dentro ci trovate una pietra».
Dietro la capanna, dimora della terribile famiglia, ci stava una grotta ignorata da tutti. Un giorno però questa venne scoperta da un boscaiolo, certo Polo, che lo fa subito presente alla Legge: «Sì, c’era puranco un mio collega con me; abbiamo visitato la grotta, calando giù per una scala a chiocciola. Dentro a essa ci stava un letto, tre o quattro sedie, un tavolo e tante armi moderne». Silvestro non agiva mai solo, aveva con sé un’ombra, il suo angelo custode e braccio destro Bellone, giovane diciannovenne, truculento; capigliatura corvina e riccia su capoccia arietina. Naso grifagno, occhi rossi, spupillati, bocca di caprone con zanne di lupo. Alto quanto un cerro, bestiale erotico maniaco sessuale ermafroditico. Come Bellone catturava qualcuno, maschio o femmina, bambino o vecchio alla luna, li violentava con stupro. Una volta lo ficcò dietro a un vitellino redo[2] appena nato, facendolo morire dissanguato. Questo animalone si sarebbe fatto uccidere per il brigante Silvestro, il pastore invaghito della bella contadina Driade, che dimorava in una pagliara della medesima contrada della Selva Vetere. La fanciulla Driade, bella come una mela cotogna, alta, florida, sana, colle carni fresche e sode e il seno, pieno, pieno di melloniche tette, assai schiattacore.
In famiglia erano lei, il babbo, la madre, la sorellina e il fratello Gildo, ragazzo robusto, alto e bello da mettere invidia. Non molto lontano dalla loro capanna abitava lo zio Corbo, uomo austero e forte, che anche lui, purtroppo, subiva angherie, rapine e minacce dal bandito Silvestro. Ciò non ostante, quest’uomo non osò mai lamentarsi, nè lui nè gli altri selvaroli, temendo rappresaglie dal bandito Silvestro, questo rozzo bandito camorrista, guappodicartone e mafioso. Silvestro sicché aveva il cuore in frittura per la bella contadina Driade, che di lui non voleva sapere proprio il bel resto di niente, facendo anzi capire in mille modi e maniere al giovane bandito, che le loro future nozze erano un’utopia. Intanto il bandito tutte le volte che la vedeva lavorare nei pantani, sotto il cielo azzurro di Fondi, scendeva da cavallo e la pigliava selvaggiamente:
«Vieni qua! Mi hai messo la febbre perniciosa nel sangue, ti desidero assai assai, con tutta l’anima; perché non vuoi darmela? Ebbene, allora ti sbardello sopra la terra spoglia e nuda e te lo ficco tutto quanto dentro la quadraccola. Vedrai come ce lo tengo il pistolone lungo e ciotto; ti fo addicreare una frega, ti azzaffo e affogo la zunna di saponella, ti voglio montare con tutta l’anima, come fa il montone colla pecorella. Ti impre[g]nerò facendoti partorire un bel marmocchio tutto nostro. E che, sei la regina di stocazzo, tu, che non puoi fare in culo con me?»
Le ripulse della bella Driade inasprivano sempre di più l’animo di Silvestro. Siccome in ogni colluttazione che intercorreva tra i due amanti, era sempre la femmina ad avere la meglio, data la sua consistente forza e statura, Silvestro, allora, che era una mezzasega, rispetto a lei, la minacciava con gli occhi di brage: «Ah, non molli? Nèh! Mi piglierò vendetta crudele su di te e sopra alla tua famiglia, vedrai, non finisce così, per me non è ancora notte! Non vuoi il mio amore ardente, allora io, un giorno o l’altro, come è vero Santrocco, te la faccio pagare a caro prezzo».
I due malviventi, Silvestro colla sua spalla destra Bellone, una mattina sentivano un rotolare di carretto sopra la via. Si trattava di un certo Fiore. Appena i due banditi gli arrivarono a tiro, Silvestro lo fece scendere dal mezzo. Gli chiese: «Compare Fiore, dove si trova adesso Driade?».
«Alla pagliara della zia Bortone. Ci sta pure la sorella Emma, col cugino Tommasino con lei, in tutto sono quattro cristiani».
«E indove si trova Gildo, il fratello di Driade?». «E’ andato a fare delle compere a Fondi». «E suo cugino Aristide?». «E’ allettato per malattia, compare Silvestro». «Allora puoi andare pei fatti tuoi!» gli dice il bandito «Grazie, tante, grazie anzi delle notizie che mi hai fornite, addio!»
Il Fiore, col suo carretto ripigliava la via per Fondi.
Adesso i due briganti, Silvestro e Bellone, sicuri di avere campo libero, si versarono nella Selva Vetere. «Caro Bellone!» gli diceva ora Silvestro «Gildo è ito a Fondi, a fare delle spese, un uomo mancante; Aristide si trova a letto malato, un altro uomo di meno; Driade quindi non ha difensori di sorta, è sola; non c’è persona al mondo che la possa aiutare. La sua vecchia zia Bortone col cuginetto Tommasino, che giacciono con lei nella pagliara, non contano. Siamo quindi gli unici dominatori del campo, i padroni, possiamo agire a nostro pieno piacimento, nessuno ci disturberà. Però sono ancora le sei, ora in cui tutti lavorano; le mandrie non sono ancora rientrate nelle stalle; i vaccari, i bufalari, sono ancora sparpagliati per la Selva Vetere. Poi, chi zappetta, chi dissoda e ricaccia i pantani, sotto questo sole che brucia, come l’anima mia, per la bellissima Driade. Se ci muoviamo adesso e ci sentono, possono accorrere a difenderli, bisogna, per questo, aspettare, ancora non è il momento. Siamo cauti! Calma, perché vendetta sia fatta; non portiamo prescia, il gatto per la fretta fece i gattini ciechi. Verso la notte spaccata i villani dormono,[nessuna] persona ci vedrà a quest’ora, tranne la Luna d’argento». «Aspettiamo allora insino alle undici, Silvé!» consigliava il Bellone; queste cinque ore poi so’ io come fartele passare».
I due briganti penetrarono nella grotta nascosta, dove abitava la puttana di Bellone, colla quale Silvestro si sollazzava bonobono, ficcandoglielo ripetute volte nella zunna e altrove alla presenza del suo bracciodestro Bellone. Eppoi ancora con Bellone bevvero, mangiarono, cantavano e chiavavano insieme colla scrofa, chi davanti e chi didietro simile ad accoppiamenti animaleschi.
Arrivate finalmente le undici, i due manfrini, lasciata la puttana, sazia nella grotta, pigliarono a camminare verso la capanna nella quale dormiva Driade, la sorella Emma, la zia Bortone e il cuginetto Tommasino. Nessuno si trovava a quell’ora sveglio per la Selva Vetere, pareva che nel mondo non ci fosse più creatura vivente. Tutto taceva. Tale silenzio veniva rotto soltanto dal canto lugubroso degli uccelli di rapina e dal secco brusìo di qualche foglia che tombava vorticosa perterra in quell’amara notte. Si udiva però il losco rumore dei loro passi guardinghi che procedevano inverso il malaffare. I due briganti arrivarono davanti alla pagliara, la cui porta, che pareva una feritoia di casamatta, era serrata. Silvestro vi andò vicino, dopo avere fatto svegliare i quattro, prese a minacciare col suo fucile: «Allora, Driade, ti ostini ancora a non volermi?»
«No!» [s]trillava lei «Meglio la morte!»
«Ma che cosa ti ho fatto io di male? Io ti voglio solo per sposa, ti voglio bene!»
«No!» lei lo respingeva! «Uccidici piuttosto tutti e quattro!»
«Esci fuori dalla capanna, Driade!» Silvestro cominciava a innervosirsi. «Ti voglio per moglie. Perdonami se quella volta ti ho ferita col pugnalotto!»
«No!» insisteva lei caparbia: «E’ meglio morire».
«Porco della Ma. e Dio ansemble!» bestemmiava Silvestro con assai raccapriccio. «Allora, Bellone, taglia e prepara la legna».
Il brigante tagliava frasche e l’ammucchiava intorno alla capanna. Dopo pure tronconi lignei in croce piazzava in faccia alla porta.
Ammannito tuttoquanto perbene, Silvestro disse: «To,Bellone! Afferra questo fucile e spara qualora si avvicinasse qualchuno!».
Silvestro appiccò quindi il fuoco alla pagliara, da dove presero a uscire urla laceranti. Driade, alla quale si stavano già incendiando i panni addosso, cedeva pietosamente: «Silvestro! Sposo mio di letto, aprima [sic] la porta, spegni il fuoco; vengo fuori, esco e mi ti sposo, non bruciare pure la zia coi miei fratellini! Essi sono innocenti, non ci entrano niente coi nostri peccati».
Driade metteva la testa fuori dalla paglia della capanna, mentre Silvestro gliela respingeva dentro, dicendole:«E’ troppo tardi oramai!».
La pagliara bruciava e il fumo strozzava la gola dei quattro le cui carni venivano di già escoriandosi e brasandosi sotto la furia delle crepitanti lingue di fuoco.
Driade scongiurava. In quel mentre a un galoppo seguiva una figura oscura. «Chi è che disturba?» si chiedeva Silvestro «Tu intanto, Bellone, resta di guardia alla capanna, fino a che non è diventata un mucchio di cenere; io vo’ a vedere chi è».
Il brigante partiva, fucile spianato, pronto a uccidere. Scorgendo Gildo, fratello di Driade, che veniva da Fondi, gli alluccò: «Ma perché giungi a questa ora di notte? Sei un cazzo di ostacolo e ti frapponi come un bastone nodoso fra i miei piedi. Ma il destino si deve compiere in tutti i modi.Vattene, Gildo, da dove sei venuto, sennò ti sparo!».
Il giovane, ignaro di quelle fiamme, legava il suo cavallo, senza rendersi conto del pericolo che stava per correre. Come poi stava aprendo bocca, Silvestro gli deflagrò il primo colpo, facendo così cilecca. Gli disse allora: «Non ci fa una minchiazza, Gildo, ti metti in corriva con me? Vuoi ficcare il naso nelle mie cose? Il mio schioppo è un duebotte, l’altra cartuccia è già in canna: banghe!». Gli uccide il cane, che guaì pietosamente, con uno strascico che echeggiava per tutta la Selva Vetere. Gildo l’aveva capito che nella pagliara della zia Bortone stava morendo bruciata la sorella cogli altri innocenti. Siccome Silvestro stava ricaricando il duebotte, egli pensò:«Qua io, in tutti i modi, sono un uomo morto; loro due, Bellone armato di accetta e Silvestro di fucile. La capanna brucia, vorrei andare ad aprire la porta, per salvare mia sorella Driade cogli altri. Ma mi faranno fuori. Eppoi chi saprà mai chi fu l’artefice che aveva bruciato queste quattro anime innocenti? Quindi, l’unico testimonio sono io». Gildo eccosì monta a cavallo e corre dallo zio Corbo, che saputo del fattaccio, lo consiglia di avvertire la legge.
Compiuta la strage, mentre Driade colla zia Bortone e i due bambini finivano di carbonizzarsi nella brage della capanna, Silvestro e Bellone s’allontanavano dal focaraccio accostandosi alla dimora dello zio Corbo. Là giunti, i due banditi lo invitavano ad apparire sull’uscio. Il povero disgraziato, prendendoli colle buone, affinché suo nipote Gildo facesse a tempo ad avvertire la legge, apparve sulla porta della sua capanna, scalzo e in camicia allungo. Allora Silvestro gli scaricò il fucile addosso, facendolo cadere secco in una piscolla di sangue. Poi con Bellone si diedero alla macchia. Di lì a poco il povero Corbo moriva. Intanto erano giunti sul posto del rogo gli aiuti chiamati da Gildo, ma nulla poterono fare per le povere vittime oramai incenerite. Silvestro e Bellone vissero dapprima uniti,eppoi come videro che ciò era pericoloso, si separarono. II bandito Bellone uscì dalla Selva Vetere e Silvestro viveva nascosto nella grotta. Dopo, in seguito a delle spiate, Bellone venne catturato e giudicato. Venne condannato a tre anni di reclusione. Anche Silvestro fu giudicato dalla stessa corte in contumacia venne condannato all’ergastolo. Da quel giorno di Silvestro non si ebbero più notizie; dopo si venne a sapere che aveva vissuto tre anni nella grotta nascosta colla puttana di Bellone. Silvestro scappò in Abruzzo, qua dove cambiò due volte nome, con falsi documenti si sposava ed ebbe due figli. 21 anni dal fatto, mentre Silvestro saltava da un tetto all’altro di una casa, cadde sulla strada dabbasso, rompendosi tutte e due le gambe, infine fu catturato e morì marcio dietro alla cancella.
Note
[1] Tahar Ben Jelloun, Le pareti della solitudine, Einaudi, Torino, 1990 e 1997, p.XVIII
[2] Redo Vitello o puledro durante il periodo di allattamento
Milano da bere e Milano dabbene
Riordinadiario (15 dicembre 2005)
di Ennio Abate
[Per chi avesse letto e non solo guardato Alias (supplemento de Il Manifesto) n. 48 del 10 dicembre 2005]
Le passioni di Milano: undici pagine con foto grandi, raffinate e inconsuete, sei articoli e due interviste (la prima allo storico dell’arte Giovanni Agosti; la seconda – fatta nel 2003 – al compianto Giovanni Raboni). Tema: il confronto tra ieri e oggi, tra «una certa Milano» di una volta e la «Milano da vomitare piuttosto che da bere» di oggi.
Stajano se la prende con il «traffico mortale», la fungaia delle «cappuccine» sui condomìni dei ricchi, la corruzione «che è sempre esistita», ma non nel «modo impudico e programmato» messo in luce dall’inchiesta di Mani pulite (1992).
De Mauro evoca i funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana (dicembre 1969) per dire che poi «Milano si sentì di colpo sola» e «si ripiegò in una sorta di smania autodistruttiva […] in un laboratorio di abiezione politica».
E via seguitando: tra il lamento e la nostalgia.
Domande: E’ mai davvero esistita, se non nell’immaginario, questa Milano «un tempo ironica, affettuosa, anche se frenetica» (Stajano)? La sentirono mai così le «care ombre» dell’eterogenea famiglia letteraria (Rebora, Gadda, Sereni, Fortini, Spinella, Oreste del Buono) evocata qui da De Mauro? Come giudicare il rimpianto di Raboni per la «Milano industriale della buona borghesia operosa» o la sua convinzione che Milano avesse «perso l’anima […] vendendola […] durante il boom economico»?
Obiezioni. Ai rispettabilissimi personaggi convocati da Alias per discutere della «capitale morale» d’Italia andrebbe ricordato:
1) l’accoglienza non proprio «affettuosa» data da Milano agli immigrati in genere dal Sud e da altre campagne negli anni Cinquanta-Sessanta (si rileggano “Milano, Corea” di Alasia e Montaldi!);
2) la durezza del capitalismo italiano (e non solo della «Milano industriale») che l’anima da vendere proprio non ce l’ha;
3) la contiguità tra Milano dabbene e Milano da bere, vera matrice della odierna «Milano da vomitare».
In conclusione una cosa è certa: quando i nuovi patarini [1] (gli operai e gli studenti che nel ’68-’69 lottarono per una Milano città futura, non futurista!) le due Milano – la colta e la volgare – freneticamente brigarono (ohibò, ciascuna per conto suo!) per bloccare, addomesticare e distruggere quelle istanze morali, culturali e politiche sorte così inaspettatamente.
Cari amici di Alias, il vomitevole sta tutto qua.
Nota
[1] PATARIA e PATARINI. – Dal nome del mercato degli stracci in Milano (pataria), il nome di patarini (id est pannosos, “straccioni”, spiega Bonizone da Sutri) fu per dileggio affibbiato dagli avversarî ai seguaci di un movimento (oggi anch’esso noto col nome di pataria) sorto verso la metà del sec. XI nella parte più umile del popolo milanese contro gli abusi ecclesiastici e l’oppressione dell’alto clero. (Continua qui
Esperimenti sulle mie “poeterie”
Tabea Nineo, Giovane giardiniere 1987
di Ennio Abate
Esperimento 1. Vocazione liceale (1961/82)
Le vacche del sabato sera/ han ruminato la filosofia/ dell’erba settimanale.// Professore/ e se fossi/ un buon poeta? [Variante: Professore/ non ho la ragazza!]/ Piscia nell’angolo assieme agli altri.// Che saggezza alla fine della settimana/ nella merda di vacca!
Esperimento 1.1.
Integrazione e rielaborazione dialettale in “Salernitudine”, Ripostes 2003
A reggine Elisabbette
E venette
pure a regine Elisabbette!
E cavalle
facettere: ih!ih!
E ciuccie
o scutuliarene
ppe salutà
a reggine madinglan!
Ma sabbete assera
e vacche s’erene magnate
a filosofie ra settemane.
Prufessò, prufessò
forse nu picch poete sò?
Figlie mie, si a ffilosofie
cresce mmiezze a merde e vacche
e a poesie e l’allegrie
se trovane mmocca ae ciuccie o e cavalle
je nunn’o saccje.
Cheste è na nuvità.
Addimmannalle
a rreggine Elisabbette!
Curre, primme ca parte!
La regina Elisabetta E arrivò [in città]| anche la regina Elisabetta!/ I cavalli| nitrirono.| Gli asini lo agitarono| per salutare| la regina made in England!/ Ma al sabato sera le mucche | avevano già ruminato| la filosofia dell’intera settimana. / Professore, professore| forse sono un po’ poeta? / Figliolo, se la filosofia | cresce in mezzo al concime di mucca | e la poesia e l’allegria si trovano in bocca ad asini o cavalli | io non lo so.| Questa è una novità. | Chiedilo | alla regina Elisabetta! / Corri, prima che parta!
[Nota 1975: Amara presa in giro della mia condizione di studente con desideri repressi]
[Nota dicembre 1983: Animalità contro poesia? No, contro ottusità e violenza del comando sociale. Fragilità del desiderio [che, per avere una conferma, si affida ancora ad autorità pur sapendola ostile]. ‘Piscia’ ha una connotazione offensiva [di repressione del desiderio]. L’equivalenza saggezza=merda di vacca vorrebbe essere gentilmente irriverente.
Esperimento 2. Liceo Torquato Tasso (1977)
Sala operatoria/ dove la mia adolescenza/ dubbiosa come lumaca/ se spuntare fuori o no/ in quel solleone idealista/ ossequiò le foglie di fico sulle pudende dei suoi amputatori.// E improvvidamente / trascinò con sé in sala professori/ un padre già sconfitto.// Chiedeva conto delle loro trimestrali decapitazioni / che ancor oggi raccatta/ nel tormento di una ribellione rinviata.
Esperimento 2. 1.
Incauto padre mio/ sconfitto contadino/ che ti trascinasti nell’atrio delle loro sale operatorie/ chiedendo conto delle trimestrali amputazioni/ sulla mia intelligenza adolescente!// Come lumaca in un guscio di timidezza/ esitavo a scoprire le foglie di fico/ che ponevano sulle pudende dei loro stessi eroi.//Spuntare fuori nel solleone della loro filosofia dello spirito?// Giammai!/ Ossequiarli/ e filar via.
Esperimento 2. 3.
Da “Unio” (2014) Torniamo a scuola. Anzi è Unio che torna al liceo frequentato da giovane. Accompagna suo padre nella sala dove, da studente, i professori ricevevano i genitori. E’ più solenne di allora. Quasi un teatro greco. E ci sono capannelli di persone attorno a qualche professore. Unio saluta con familiarità uno che conosce. Lui e suo padre sono però in ritardo. E il padre continua a camminare piano piano. Unio ogni poco si giraindietro e l’aspettao. Quello però avanza sempre più impacciato. E, quando raggiunge faticosamente Unio, mostra il volto di un paesano intimidito da un mondo che teme e non conosce. Ora è Unio che si impone di essere padre di suo padre. E quasi lo rimprovera. Come fosse un ragazzino. Avanzano insieme ancora per una decina di passi. Ma in un punto, dove Unio sa che ci vuole cautela nel muoversi, suo padre mette un piede dove non doveva. Sconsolato lo vede che tenta di ripulirsi alla meglio la scarpa sporca di merda. Ma cosa ci fa una merda nei corridoi di un liceo?
Esperimento 3. In dialogo tra vari tempi di E[nnio]
E 58 – Avevo scritto questi versi: «dentro la tana delle lucertole/ nei rigagnoli/ nei gusci di noci/ sotto le foglie/ in mezzo ai nidi abbandonati / un silenzio c’era / e luce e calore/ che neppure supponevo».
E 2017 – Era un ricordo delle tue esplorazioni in campagna?
E 58 – Sì, durante le vacanze, io, mio fratello Egidio e i due cugini coetanei – Guglielmo e Vincenzo – andavamo spesso in giro per la terra della loro nonna Francesca. In pieno pomeriggio. Non temevamo il caldo di luglio. Qui ho messo assieme le tracce di alcune sensazioni di allora. Mi colpiva il silenzio della campagna. Ne ero meravigliato.
E 2017 – Hai immaginato di seguire una lucertola in uno dei suoi nascondigli? Di scorrere come l’acqua, quando si toglieva il tappo dalla base della cisterna per farla andare lungo la traccia già scavata nel terreno?
E 58 – Non ti so più dire se immaginavo o se e cosa pensavo allora. Ricordo che una volta – ero solo – feci una gara per capire se ero più veloce io o l’acqua che usciva dalla cisterna. Che arrivò impetuosa e velocissima perché il terreno era in pendio.
E 2017 – Chiudersi in un guscio di noce come in una cassapanca. Stendersi sotto le foglie come fossero lenzuola. Accoccolarsi dentro un nido senza più le uova. Tuo cugino Guglielmo – il più piccolo – sapeva dove trovarle. E, avvistato il nido, s’arrampicava poi a piedi nudi sui rami dell’albero per prenderle. Nelle fiabe sono state esplorate certe metamorfosi: passaggi dall’umano al mondo animale o dalle dimensioni a noi abituali a quelle rimpicciolite. Mi viene in mente Alice o Gulliver.
E 58 – So che sono libri famosi, ma non sono mai stato veramente attratto da questo tipo d’immaginazione.
E 2017 – Eri troppo terrestre e realistico? Dimmi, però, perché più tardi hai tradotto quei tuoi versi in dialetto: Ma dint’e lacertele/ miezz’e nire abbandonate/ addo` a luce e o cavere /manch’e penzavem’e…
E 58 – Non posso rispondere io. Dovresti chiedere a E 90 o a E 92. Sono stati loro che, leggendomi nel loro tempo, hanno aggiunto quegli inserti in dialetto. Io allora scrivevo solo in italiano. Il dialetto lo usavo oralmente. E con chi mi parlava in dialetto.
Esperimento 4. Riordinadiario.
Riflessioni sulla composizione del «Reliquario di gioventù»
20 gennaio 2018 Avevo raccolto questi frammenti poetici giovanili (o “poeterie”, termine usato attorno al ’92, quando partecipai al premio Laura Nobile dell’Università di Siena) sotto il titolo di «Reliquario di gioventù». (Vedi in Samizdat Colognom n. 5). Poi ho avuto dei dubbi. ‘Reliquario’ rimanda al campo religioso. Non è che «Reliquario di gioventù» verrebbe a dire che sacralizzo la mia gioventù o queste tracce di quel periodo, quei ricordi? Insistendo a rielaborarli (a svilupparli, datarli, a rintracciare i luoghi o le occasioni a cui si riferiscono), mi sono accorto di entrare in un’esperienza tutta al presente: quella della scrittura, che di certo per me non ha regole sacre.
Ma perché ritorni spesso su questi scritti di tanti decenni fa? Che nodo irrisolto c’è? E pubblicarli oggi che senso ha (per te o per altri)? Cosa rivela questo desiderio di dire ancora di un passato a cui quasi nessuno più pensa? O li vuoi narrare a te stesso, che è l’unica cosa gratuita e possibile a un vecchio?
Da giovane, senza capirci nulla, qualcosa avevi letto di Montale. (E allora di Fortini manco conoscevi il nome…). Ora, se non avessi letto quei libri e subìto suggestioni da quei poeti letti nell’antologia di scuola o in quelle (escluse allora dal programma) del primo Novecento che ti avevano prestato all’ultimo anno di liceo, avresti mai scritto quei ricordi di Barunisse? Chi attorno a te ti suggeriva di scrivere? E perché scrivere proprio sui pochi ricordi dei primi cinque- dieci anni trascorsi in quel pezzo di campagna? C’entrava davvero quella prima lettura di Montale o di Govoni o di Palazzeschi? O di più la lettura di Pavese fatta attorno al 1958? Nel suo discorso che riguardava il mondo contadino ci stavi, anche se non capivi bene i suoi scritti sul mito. (E assaggiasti anche Lorca. Leggesti dei suoi gitani una sera. Eri solo nella stanza da pranzo con la luce accesa e poco prima di andartene da SA). E perché non scrivevi allora (fine anni Cinquanta, inizi dei Sessanta) della tua “vocazzione” tutta legata al vissuto, salernitano e parrocchiale, di città provinciale? E perché di Pavese in quell’anno leggesti quasi tutto? Non solo perché i suoi libri uscivano allora e ti era facile farteli prestare da un amico commesso di libreria. (Lui te li prestava di straforo, tu li leggevi e glieli riportavi intatti). No, Pavese toccava temi che in qualche modo erano un po’ nella tua esperienza fatta daragazo, sia pur brevemente, in campagna.
La poesia allora la cercavi lì. In quei suoi libri e in quel vissuto che ti aveva dato piacere o oscuro turbamento. Da lì la spinta a scrivere, a fissare in parole, in versi o quasi versi un’esperienza che era libresca, di sensazioni e di sentimento.
E poi eri attaccatissimo a quei luoghi. Pochi mesi prima di abbandonare SA, facevi ancora lunghe e stordite passeggiate a piedi. Fino a Fratte (al cimitero dov’era sepolto il tuo amico suicida M. B.). O, ogni tanto, in filovia dai tuoi parenti rimasti a Casalbarone o ad Antessano. E perché il Reliquario l’hai fatto leggere tardi, molto tardi, proprio a Michele Ranchetti? A farlo leggere prima a Fortini mai ci pensasti. O avresti esitato. Perché era più saldamente nella dimensione industriale e marxista. Più tardi hai scoperto che c’era persino qualche sintonia tra il tuo sentire e quello di Pasolini de «L’usignolo della Chiesa Cattolica».
Esperimento 4. 1. Nota dell’autore da vecchio
(inviata ad un editore per un’eventuale pubblicazione
in cartaceo del «Reliquario di gioventù»)
Delle poeterie, scritte tra il 1958 e il 1963 (dai 17 ai 22 anni) tra Salerno e Milano, ho scelto quelle che sembrano avere un valore non puramente privato. Le ho suddivise in 8 sezioni tematiche (Campagna, Religio, Madre, Esplorazioni, Ragazze, Morte, Spleen, Visioni) e aggiunto in Appendice tre poesie (Vicoleggio, La ragazza dei preti, Mio padre) già pubblicate in Salernitudine, perché hanno una stretta parentela con queste.
Ho riletto dubbioso tante volte nel corso degli ultimi decenni questi frammenti. Il loro senso e tessuto linguistico è convulso, allusivo, scarno e a volte monco. Vi ritrovo echi – datati – delle letture d’allora: i lirici greci, Pavese, Baudelaire e, nella sezione Visioni, Lorca. Tuttavia sempre ho resistito all’impulso di cestinarli. Non solo perché documentano – bello e brutto – il mio apprendistato poetico solitario e da autodidatta; e, come punte d’iceberg, mi hanno poi aiutato ad esplorare il sommerso, la vicenda complessiva da cui provengono – esito a dire: la storia – in un narratorio inedito a cui continuo a lavorare. Ma perché vi colgo tracce di una vicenda più collettiva: – un morente paganesimo contadino, percepito nella condizione afasica, sognante, stupefatta e fiduciosa dei primissimi anni d’infanzia; – il marchio ambiguo, retrivo e protettivo, di popolari e castigatissime gioie dell’educazione cattolica, come le ho chiamate poi con sarcasmo e distacco da adulto; – l’oscillazione, nella scoperta della metropoli (Milano), tra l’atteggiamento di un flaneur giovanilmente vorace e impacciato e quello dello straniero o del migrante predone.
Devo alla generosa attenzione di Michele Ranchetti, tardivamente incontrato e che nel 2003 lesse versi per decenni tenuti nel cassetto, un giudizio ben centrato: « ho letto le tue poesie più volte: l’immagine che mi è venuta in mente è quella di un grappolo d’uva nera su un tralcio abbandonato. Gli acini sono dolci, amari, secchi, verdi, maturi, rossi: il vino che ne risulterebbe sarebbe rosso scuro, forte, mezzo buono e mezzo no, amaro, e che va subito alla testa».
Sì, il tralcio abbandonato è il Sud. E il vino (le poeterie o le prime prove o le vanterie poetiche) ha i pregi e i limiti di una coltivazione bruscamente interrotta. Il titolo, Reliquario di gioventù, dice il legame che ho mantenuto con quelle prime emozioni e scoperte e vuole essere un riconoscimento al lavoro compiuto dal fragile apprendista che ero: della poesia e di quel «mestiere di vivere», di cui – primo tra le mie letture per passione – mi parlò in quei lontani anni Cesare Pavese.
Un commento su LPLC
COME CI SIAMO ALLONTANATI (ANCHE DA FORTINI)
di Ennio Abate
«E questo ci permette anche di vedere chiaramente cosa ci divide da lui. L’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo abita le nostre menti come una seconda natura. Lo abbiamo visto in questi anni di pandemia: al netto dei traumi subiti, far fronte alla catastrofe ha significato ristabilire quanto prima la possibilità che il futuro sia in continuità con il pre-catastrofe. […] Ciò significa che anche i vivi dovrebbero avere la capacità di porsi in attesa: ma questo può avvenire se vi è una visualizzazione del futuro, un’ipotesi da immaginare. Noi cosa attendiamo? (Bernardo De Luca, qui)
Eppure «l’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo» c’era anche ai tempi di Panzieri e Fortini. Come mai non abitava quelle menti «come una seconda natura» come abita oggi «le nostre menti»?
Suggerirei a LPLC2, visto che a settembre festeggia i suoi dieci anni, di passarsi la mano sulla ideologia postmoderna che è imperversata nel 99% degli articoli pubblicati. (E basti contare gli articoli dedicati in questi altri “dieci inverni” a Fortini).
P.s.
@ Bernardo De Luca
A questo link (qui) una mia lettura del 2004 quasi sullo stesso tema della sua lectio magistralis (per un eventuale confronto-dialogo) e qui sotto lo stralcio delle mie conclusioni di allora:
«Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro. Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi» (Rossanda). Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana. E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste. Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo. Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante. Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”. Direi che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico sarebbe una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna. Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale, classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.» Ennio Abate 6 settembre 2004
Fortini, la guerra, la pace
di Ennio Abate
Chi sta in alto dice: pace e guerra sono di essenza diversa. La loro pace e la loro guerra sono come il vento e la tempesta. La guerra cresce dalla loro pace come il figlio dalla madre. Ha in faccia i suoi lineamenti orridi. La loro guerra uccide quel che alla loro pace è sopravvissuto. (Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg)
La Seconda guerra mondiale e Foglio di via La guerra entrò nella vita di Fortini con il suo richiamo alle armi nel luglio 1941. Nei mesi seguenti egli riuscì ancora ad alternare servizio militare e studi universitari, ma lo sfascio dell’esercito italiano (8 settembre 1943) lo spinse a raggiungere con altri dispersi la Svizzera. Internato nel cantone di Zurigo con centinaia di fuggiaschi italiani ed europei, vi conobbe esponenti dell’immigrazione antifascista, lesse per la prima volta alcuni scritti di Lenin, aderì al Partito socialista e incontrò Ruth Leiser, che diventò la donna della sua vita. Partecipò anche alla repubblica partigiana formatasi in Valdossola, che però era già in fase di ripiegamento.
I versi di Foglio di via, scelti tra i moltissimi scritti degli anni ’40-‘44, sono il primo risultato poetico di Fortini giovane. Ricevettero poche recensioni (di Calvino e Ragionieri in particolare), ma scarsa attenzione da parte dei suoi amici letterati fiorentini.
Anni dopo, nella Prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via e in alcune interviste, Fortini sottolineò quale forte cesura la Seconda guerra mondiale aveva segnato nella sua esistenza, sebbene gli eventi più tragici del conflitto mondiale l’avessero soltanto sfiorato e giudicasse ora (un po’ mortificandosi, come nel suo stile) quella sua esperienza “assolutamente trascurabile” se paragonata alle sofferenze di tanti coetanei deportati in Germania, in Africa o in India.
Lo stacco fra il prima (adolescenza all’insegna dell’elegia, passione per l’arte e la letteratura, partecipazione sia pur diffidente e scalpitante ai Littoriali del regime fascista) e il dopo (servizio militare, sbando, internamento in Svizzera) fu netto e duro. I rapporti che stabilì, da isolato, con militanti politici antifascisti e formazioni partigiane non furono privi di esitazioni e il contatto con soldati e civili nelle caserme o per le vie delle città bombardate gli svelò l’insufficienza della sua cultura “piccolo borghese”. «Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke o Gide?», scriverà nella Prefazione del 1967; e in un’intervista aggiungerà poi: “È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.511).
Nella crisi, quel “qualcosa” affiorava a fatica dal populismo tipico dell’epoca. Era sì sufficiente a staccarlo definitivamente dall’ambiente letterario fiorentino in cui s’era formato e ad unirsi a Elio Vittorini, che stava per fondare Il Politecnico, ma tenui sono le tracce di una visione politica di classe del fascismo e della guerra. Essa maturerà negli anni successivi e, del resto, era quasi assente allora; e non solo fra i suoi coetanei intellettuali. Se rileggiamo, infatti, Agli italiani (8 febbraio 1944), una conferenza tenuta in Svizzera ai connazionali internati come lui in “quarantena” nel campo di Adliswill (cantone di Zurigo), notiamo che la denuncia dell’avventura fascista e la volontà di reagire si appellano soprattutto ai valori della patria distrutta.
Nella presentazione alla recente pubblicazione dei Saggi ed epigrammi di Fortini, Rossana Rossanda ha ricordato i tanti tratti culturali che il giovane Fortini aveva in comune con tutta la generazione degli anni Venti: “stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio per il fascismo, stesse incertezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca”. E Fortini, quasi a conferma, così aveva da parte sua rievocato quel clima culturale:
“L’antipatia nei confronti del regime fascista era strettamente collegata con gli atteggiamenti intellettuali ed estetici di un giovane che allora si interessava soprattutto di arte e di letteratura. Ma questa non era soltanto la mia posizione. Era quella di tanti giovani di estrazione piccolo borghese o borghese che nella Firenze di allora amoreggiavano con la cultura d’avanguardia e con la poesia, amavano il cinema populista francese [...] e trovavano il fascismo soprattutto maleducato e volgare, banale e culturalmente rozzo. [...] L’antifascismo nostro di allora era un antifascismo che potremmo oggi chiamare di destra, cioè un antifascismo che trovava ridicolo ed insopportabile il fascismo per i suoi atteggiamenti plebei”. (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p. 609)
La guerra gli si presenta, dunque, innanzitutto come viva esperienza del mondo dolente e confuso dei rifugiati conosciuti a Zurigo. Di questa realtà insospettata parla come di una “rivelazione”, sottolineando – e qui ha un peso coglie l’impronta fortemente letteraria della sua formazione – che quel periodo fu l’unico della sua vita in cui non avvertì più “nessuna differenza fra la parola stampata e quella detta”. Gli parve che una fluidità sorprendente si stabilisse fra la parola meditata nell’assenza fisica di interlocutori, propria della poesia e della letteratura, e la parola più immediata e corporea della comunicazione orale con gente in situazioni materiali durissime o sfuggite allo sterminio nazista allora quasi inimmaginabile, come quel gruppo di ebrei dell’Europa orientale che in una cantina recitava preghiere “intollerabili come urla di gente che fosse tormentata e battuta”.
Fra 1944 e ’45, sempre a Zurigo, lesse anche alcuni testi dalla Resistenza francese, ricevendone un ulteriore incoraggiamento a compiere scelte radicali, come affermò nell’intervista del 1993 a Jachia (Fortini, Leggere, scrivere).
Berardinelli, in uno dei primi studi sistematici dell’opera fortiniana (Berardinelli, Fortini), ha visto in quegli anni un passaggio del giovane scrittore da un “antifascismo dell’anima” ad un “antifascismo politico”, che riguardò le scelte morali e politiche, ma anche lo stile della sua scrittura; ed in Foglio di via ne abbiamo la prima registrazione.
Nella raccolta, infatti, troviamo da una parte poesie dai toni duri e realistici e un linguaggio che mira all’oggettività e alla coralità e, dall’altra, la persistenza del clima assorto dell’educazione ermetica fiorentina.
Sul piano letterario il realismo delle scelte linguistiche e stilistiche, spia di una forte tensione verso l’impegno politico e storico, è tipico di quegli anni di guerra, alla cui durezza il giovane scrittore s’impone ora di non sfuggire più nemmeno in poesia, ma l’impronta della precedente educazione, classica ed etico-religiosa, s’interseca ora con i motivi resistenziali e non come elemento inerte; e si presenta – come ha visto acutamente Lenzini – sia come «momento ‘nichilistico’, di deiezione e angoscia» sia – dialetticamente – come attesa e speranza.
Fortini non passa, cioè, dalla precedente formazione al neorealismo che dominerà in vari modi dal ’45 fino agli inizi degli anni Cinquanta. Resta più isolato. E basti confrontare il populismo di tanta letteratura della Resistenza (Pratolini, Viganò, ecc.) con la ritrosia pensosa (non ostile) verso il “popolo”, evidente nel suo romanzo, Giovanni e le mani, pubblicato nel ’48.
Foglio di via e Giovanni e le mani passarono presto sotto silenzio. Non rientravano soprattutto nella retorica tutta «patriottica» della Resistenza, che, surrogando presto la sconfitta reale dei partigiani, la presentò come lotta di tutto un popolo contro un’invasione straniera, cancellandone gli aspetti più controversi di lotta di classe e di “guerra civile”, messi poi problematicamente in luce dallo storico Claudio Pavone. E il mutamento del clima politico negli anni Cinquanta portò in letteratura ad una svolta formalistica (la parabola di Vittorini e il successivo neoavanguardismo sono in proposito illuminanti), che svalutò la direzione di ricerca imboccata da Fortini, lontana dall’oleografia neorealistica e nazional-popolare eppure in contrasto con l’”americanizzazione” che poi ha trionfato in Italia e in Europa. Fortini dovrà proseguire sulla sua strada in un relativo isolamento e guardando altrove (verso Francia e Germania prima e poi verso la Cina).
L’esperienza della guerra e della Resistenza restano per lui fondamentali sul piano politico, etico ed estetico. Su di esse il suo marxismo si consolidò restando “critico” e il rapporto scoccato in quegli anni fra letteratura e storia non fu mai più sciolto. Lo testimoniano tutte le sue opere successive e la prontezza con cui reagì alle prime avvisaglie del “revisionismo storico”. Ancora nel 1993, in alcuni incontri organizzati all’università Statale di Milano, Fortini, relazionando su Letteratura e Resistenza, nel suggerire ai giovani le prove letterarie più alte di quegli anni, ricordò ancora con nostalgia l’attenzione dei letterati a quella sorta di “letteratura orale” che nasceva sui treni, allora tanto lenti da facilitare i racconti delle proprie vicissitudini da parte di ogni viaggiatore ad altri sconosciuti.
Primo intervallo: sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini Già in Foglio di via emerge una feconda contraddizione, che agirà in tutta la laboriosa carriera dello scrittore e che maturerà attraverso scelte politiche e di studio. Berardinelli ha parlato in proposito di “compresenza conflittuale di storia e trascendenza”. È una formula che mette in luce l’inquietudine mai placata della ricerca di Fortini fra le polarità della cultura occidentale cristiano-borghese (materialismo/idealismo, mondanità/religiosità).
Questa sua inquietudine è stata spesso ricondotta al facile luogo comune di un Fortini tormentato, oscuro, intollerante e ha legittimato riserve o giudizi contrastanti su di lui anche da parte di amici e studiosi importanti. Timpanaro, ad esempio, lo considerò solo “un religioso sia pure tormentato”(Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002) e mai un pensatore veramente materialista, mentre Ranchetti ha visto invece in lui “un’etica… non religiosa ma ricca di affetto struggente per le cose reali” (L’ultimo saluto, in Testimonianze 372 febbraio 1995).
La stessa Rossanda scorge nel suo “essere stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente” la probabile origine di un’intolleranza verso se stesso e gli altri più che la molla di un suo orientamento comunista radicale, fertile specie nel panorama della cultura italiana ed europea del secondo Novecento, prima irrigidite dalle contrapposizioni della Guerra fredda e poi acquietatesi nei compromessi della “coesistenza pacifica”.
Isolato da tanti suoi coetanei, più tranquillamente calatisi negli schemi atei, illuministi, marxisti e cattolici (o in soluzioni eclettiche), che la storia dal ’45 in poi ha istituzionalmente offerto, è stato lo stesso Fortini ad esasperare spesso un suo sentimento di esclusione in modi quasi disarmati, come quando in un’intervista per Il messaggero del 7 gennaio 1984, confidò a Renato Minore:
“Pochi giorni fa mi sono trovato di fronte due persone della mia stessa età, fiorentine: una è stata medaglia d’oro della Resistenza; l’altro un vero fascista, molto importante. Queste persone erano cambiate come cambiano tutti negli anni. E io mi sono trovato nello stesso stato d’animo che avevo tra il ’38 e il ’41. Ho avuto un attacco d’angoscia, ero uno che si sente ancora escluso...” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pag 344).
Ma, evitando sintesi e sublimazioni, Fortini ha avuto il merito di affermare verità lucide e radicali su questioni (le sue “questioni di frontiera”!) cruciali ma di solito ipocritamente stemperate dell’ebraismo, del protestantesimo, dell’antifascismo, della resistenza. E la sua verifica dei poteri è stata continua e rigorosa negli anni (non solo il titolo di un suo libro del 1965). Poche “trascendenze”, insomma, appaiono, come la sua, tanto calate nella materialità degli eventi storici e capaci di non appiattirla positivisticamente.
La formula della “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” se non resta un’astrazione, ma aiuta ad indagare le prese di posizione concrete, sempre chiarificatrici, di Fortini di fronte agli eventi quotidiani e storici e, nel nostro caso, di fronte alla guerra e alla pace, può, dunque, essere accettata. Fortini non ha mai smesso, infatti, di misurare il proprio sentire, la sua fede cristiana e la sua borghese “coscienza infelice” con il dramma storico e materiale, senza farne un alibi.
E perciò non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione” come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psiconalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico della biografia e dell’immaginario di Fortini dalla storia sociale e politica del Novecento.
Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.
Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.
Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.
Il vecchio Fortini, con la sua inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione socialista.
La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam Il tema della guerra ritorna incessantemente in numerose poesie scritte da Fortini negli anni successivi alla Liberazione, quelli “di pace”, del “boom economico” e della falsa “coesistenza pacifica”.
Provando a scegliere dall’indice di Una volta per sempre (ediz. 1978, che raccoglie le poesie di Fortini fino al 1973) solo i componimenti in cui il tema della guerra è più esplicitamente trattato, troviamo l’attenzione al nemico che muore nel pieno della liberazione di Parigi (Quel giovane tedesco, pag. 75), alle stragi (Sono morti ormai, pag. 126), alle “notizie divine della guerra” (Science fiction, pag. 139), alla confusione e all’ansia dell’8 settembre del ‘43 (Una sera di settembre), alla tragedia del corpo di spedizione italiano in Russia (Ai nostri caduti in Russia, pag 150).
Col tempo nelle poesie le tracce della guerra sembrano diradarsi (Dalla mia finestra pag. 215). Ma essa non è scomparsa, avviene lontano ed è comunque spiata dalla gabbia della routine quotidiana occidentale (Primo riassunto, pag. 226) o attraverso notizie filtrate da una sensibilità solitaria, che interiorizza senza false mediazioni partitiche lo scontro politico altrove ancora armato (4 novembre 1956, pag 230).
La guerra è sottofondo che persiste, ora in sordina ora minaccioso. Anche in un presente che concede al poeta la confidenza amorosa e nostalgica (1944-1947 pag. 241) o in qualche fugace immagine di gioia, non casualmente legata alla figura femminile (Alla stazione di Minsk, pag. 245). Per tornare ad essere rivissuta come incubo gelido e mortuario (La linea del fuoco, pag. 275), attraverso la lettura delle pagine di scrittori amati (Dopo una strage da Lu Hsun, pag 285) o in incontri quasi onirici con una sorta di alter ego fantasmatico (Ricordo di Borsieri, pag 310).
Negli anni Sessanta, dunque, la guerra è in Italia e in Europa un ricordo sempre più rimosso. Si è trasferita nei paesi del Terzo Mondo. Là solo è tragedia quotidiana. Qui è oggetto di controversie politiche o notizia da manipolare. Essa ridiventa però un punto di alto di contesa politica internazionale con l’aggressione americana al Vietnam.
Fortini, intervenendo ad una manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in Piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, prova a scalfire la rimozione collettiva. Il marxismo gli mostra che la vicenda del Vietnam è “una metafora dei conflitti di classe nazionali” e che un filo stringe quella guerra lontana alla pace opulenta e falsa dell’Occidente: una medesima violenza di classe si esercita in Vietnam nella forma della guerra e in Occidente nelle forme dello sfruttamento capitalistico del lavoro.
Con un breve comizio in dodici punti ribalta l’opinione, prevalente anche nella Sinistra, che i Vietnamiti fossero delle vittime e che la “coesistenza” inaugurata dal rapporto di Kruscev fosse davvero “pacifica”. Paradossalmente a trovarsi in una situazione migliore sono proprio i vietnamiti, che almeno lottano apertamente, rischiando la morte, contro l’aggressione americana, e non gli italiani che hanno accettato la servitù dagli Usa.
I punti sono trattati con un massimo di assertività; e più tardi, ritornando anche sugli aspetti formali del comizio, dirà che aveva voluto costruire l’intervento “in forma modulare con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi” (in forma ampia il ricordo del 1971 è trattato in Memorie per dopo domani, Quaderni di Barbablù Siena 1984).
Quel comizio è rievocato anche nei suoi risvolti politici in un’intervista a “La stampa” del 13 sett. 91:
“Una piazza di Firenze nell’aprile del ’67, dove si tiene una manifestazione per il Vietnam, con Lelio Basso e Giorgio La Pira tornati dall’Asia. C’era un’aria di melassa, con tutti gli interventi ufficiali. Ma era avvenuto il colpo di Stato dei colonnelli greci e a Berlino uno studente era stato ferito dalla polizia. I gruppi maoisti cominciarono a contestare. Io ho letto il mio testo, concepito come testo letterario, ma che ha avuto un effetto opposto. Voglio rileggerne qualche passo. “Sul Vietnam non ci si unisce. Sul Vietnam ci si divide”. “Tra Usa e Vietnam non è solo un film dell’orrore: è un conflitto fra due classi di uomini”. “Non basta dire americani a casa: perché gli Usa se ne vadano dall’Asia devono sapere di avere popoli nemici in Europa”. Claudio Petruccioli, su Rinascita parlò delle mie “locuzioni deliranti”. In perfetta continuità con la vera tradizione stalinista del Pci, che era l’opposizione a qualunque forma di sovversione marxista, o non, che non passasse per i corpi istituzionali”
Nell’intervista non sfugge alla domanda provocatoria del giornalista, che gli chiede se quel discorso lo riscriverebbe tale e quale dopo i massacri di Pol Pot in Cambogia. Fortini chiarisce che no, non riscriverebbe negli stessi termini quel discorso:
“Certo che no. Assolutamente oggi non lo riscriverei così. Tuttavia, attenzione, non per Pol Pot, per la Cambogia, per le altre cose tremende che sappiamo. Neppure perché è venuto meno il comunismo sovietico. Ma perché è caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo” ( Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.622).
Non dobbiamo ridurci, sembra dire implicitamente, a ragionieri dell’orrore, né a scegliere il regime in cui l’orrore è minore o meno appariscente (l’orrore americano al posto di quello vietnamita o sovietico o cinese?). Dobbiamo scegliere ipotesi politiche che mirano alla libertà e a conflitti più alti fra gli uomini contro ipotesi politiche che vogliono conservare privilegi antichi e moderni e abolire ogni conflitto. Questo è il senso della sua risposta, in aperto contrasto con l’”aritmetica dell’orrore” che purtroppo, sulla scia del revisionismo storico, si è imposta in questi nostri anni recenti (e di cui il “Libro nero del comunismo” è un esempio).
Secondo intervallo: il professore marxista e i “nipoti felici di verità tranquille” degli anni Sessanta Fortini cala spesso in poesia gli eventi storici da lui vissuti. In una poesia intitolata Vietnam, italiano e storia. 1966 (in L’ospite ingrato primo e secondo, pag. 126) il presente – che vede la resistenza del Vietnam, il poeta che la segue attraverso le immagini televisive, facendo l’insegnante e chiedendo “un filo di consenso alle orde/ dei nipoti felici di verità tranquille” – è raccordato al passato: “Ricorda il Trentacinque le rose del liceo/ il professor Ugolini che non aveva la tessera.”
Il professore Ugolini di questa poesia sembra un autoritratto per interposta persona o comunque un’immagine di fermezza morale paterna e solitaria. E può far riflettere un riscontro empirico, raccolto a distanza di tempo, all’indomani della morte dello scrittore. Esso chiarisce a sufficienza quanto fosse arduo recepire la sua pedagogia non neutra, da professore di lettere marxista, da parte di studenti degli anni Sessanta, che pur si risvegliarono nel ’68 dal loro torpore.
Trascrivo perciò alcuni brani della testimonianza-ricordo di un ex studente di Fortini, Franco Romanò. Essa combacia quasi perfettamente con la situazione delineata nella poesia Vietnam, italiano e storia. 1966 e ci dà, per così dire, il punto di vista dei «nipoti felici» di quegli anni:
“Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere. Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile: “Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.” Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative [....] Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava” (in Testimonianze per Franco Fortini, Cologno Monzese 1966)
La contraddizione nelle proprie radici: Fortini e la guerra dei Sei giorni (1967) Nel giugno 1967 le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai; e in Italia e in altri paesi occidentali l’opinione pubblica si schierò subito con Israele, accettando la versione che la guerra era stata una risposta ad un’aggressione araba.
Fortini scrisse in quell’occasione I cani del Sinai. Il titolo del libro derivava da un inesistente proverbio arabo: “Fare i cani del Sinai”, un’espressione che significa “correre in aiuto al vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”, “esibire nobili sentimenti”.
Si tratta di un saggio composto di note politiche a caldo sugli eventi di quell’anno in aperta polemica verso i simpatizzanti dello Stato d’Israele, e di un austero resoconto autobiografico sulle proprie ascendenze di ebreo italiano, nel quale si sofferma su vicende di parenti e sulla sua stessa storia familiare e personale (i rapporti con i valdesi, la sua conversione).
I cani del Sinai sottolinea che, con quella guerra contro gli arabi, “ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo”, fino ad allora pensabili come “realtà contigue”, non lo sono più. La guerra ancora una volta ha stravolto l’identità culturale del paese che la fa. Israele è diventata altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione. È ora complice e punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunintense. E, quando la guerra dei Sei giorni è diventata notizia, la sua manipolazione e la sua sterilizzazione a chiacchiera da salotto è talmente imponente che gli stessi amici ebrei di Fortini,socialisti e comunisti, si mostrano sconcertati, indulgenti verso Israele e restii a prendere atto del cambiamento avvenuto. Solo lui insiste, isolato e malvisto, a trovare intollerabili le accuse rivolte agli arabi con argomentazioni – scrive – che trent’anni prima erano state usate dai nazisti contro gli ebrei. E mostrerà anche in seguito amicizia e solidarietà attiva verso i palestinesi, come provano le sue accorate riflessioni di un viaggio in Israele del 1989, raccolte in Un luogo sacro di Extrema ratio.
In un’intervista di Gad Lerner del 1982 a Radio popolare (L’ospite ingrato, 2, 2003), che aveva come sfondo le stragi israeliane in Libano di quell’anno (Sabra e Chatila, operazione “Pace in Galilea”), ritornano, filtrati dalla memoria e dalla meditazione su tante altre sconfitte, i temi politici de I cani del Sinai: la critica all’opinione democratica e colta, schierata comunque con Israele (“si pensa che gli israeliani esagerano; ma in sostanza, nel profondo, si pensa che sia meglio, possibilmente, cancellare i palestinesi”), quella alla funzione de-realizzante della comunicazione massmediale (“l’occhio dei mass-media è un occhio incaricato di non far vedere, quello che fa vedere viene nello stesso tempo assorbito e annullato”), la presa d’atto che l’immensa tradizione culturale ebraica è ormai esaurita e che la storia e le vicende dello Stato di Israele nulla hanno più a che fare con essa.
Lerner vorrebbe vedere nel conflitto in Israele una “nuova grande ondata di irrazionalismo”. Ma Fortini gli ricorda che esistono due razionalità, una cosciente, una meno cosciente, “ma che non per questo è meno razionale, e cioè meno adeguata ai fini che si vogliono raggiungere”.
Per lui la classe dirigente israeliana strumentalizza le minoranze religiose estremiste, abbastanza esigue in Israele su una popolazione sostanzialmente laica e spesso atea. E respinge pure la tendenza, che in quegli anni di “crisi della ragione” si faceva strada da noi, ad abbandonare ogni lettura degli eventi storici basata sulla descrizione dello stato dei rapporti socio-economici; il che – aggiunge – “costituisce la riprova di una condizione di guerra: come quando nella guerra contro l’hitlerismo e il fascismo vi fu un momento in cui l’interpretazione canonica di tipo marxista venne omessa completamente […] per sottolineare la figura del cattivo, del non-uomo, del mostro”.
Terzo intervallo: la “regola del morto-vivo” in arte Anche se non si sofferma su una propria opera, ma sulla versione cinematografica del libro, il film Fortini/cani, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976, in cui lo scrittore legge brani del suo stesso libro, la Nota 1978 all’edizione in francese de I cani del Sinai torna utile per chiarire come Fortini passa dalla riflessione politico-autobiografica su un evento storico alla sua resa artistica (o più in generale alla poesia).
Siamo in tutt’altro clima rispetto a Foglio di via. Lì scelte linguistiche e stilistiche tendenti al realismo. Qui, invece, i fatti trattati nel libro del ’67, pur giudicati indispensabili (“in loro assenza non si fa nulla”) vengono allontanati e sono affrontati come fossero spoglie che hanno perduto ogni passione e immediatezza. La polemica politica ha ceduto il passo alla meditazione: “Fra qualche anno”, egli afferma, “nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra in Vietnam e il conflitto arabo-israeliano”.
Gli eventi storici vengono guardati “come beni perduti per sempre e non a noi destinati”. Ora interessano soprattutto “le lacune del reale” o “un reale senza fantasmi di consolazione”, senza lirismo e senza autobiografia. Perciò sottolinea: quando nel film parlo di “realtà”, la mia voce si fa stridula, è “soverchiata dall’assenza” di realtà.
Solo così le parole, dice, diventeranno “cibo di molti”. È una visione dell’arte (e non solo del cinema, spunto della riflessione in questo caso), che Fortini deriva “da alcuni pochi e assoluti maestri” e si fonda sulla “regola del morto-vivo, dello zombie”. Un’immagine dell’artista che pare quasi modellarsi sul Cristo dell’ultima cena, la cui figura ben si concilia con le regole che qui Fortini sostiene.
Fortini e la prima Guerra del Golfo Sulla Guerra del Golfo del ’90, “operazione di polizia internazionale avallata dall’ONU” subito dopo la caduta del Muro di Berlino dell’anno prima, Fortini scrisse su il manifesto vari articoli.
Lo scritto più elaborato è Otto motivi contro la guerra (9 settembre 1990, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003). È un bilancio epocale dell’atteggiamento tenuto dai marxisti contro la guerra. E viene scritto in una situazione politicamente disastrosa, non dissimile da quella creatasi alla vigilia della Prima guerra mondiale: la maggioranza della Sinistra italiana – portavoce più autorevole Bobbio – è per la “guerra giusta” contro l’Irak di Saddam. L’unica debole opposizione è morale e proviene soprattutto dagli ambienti cattolici.
Il disastro è riconosciuto. A questo punto della storia del Novecento, che ha visto sconfitte le guerriglie terzomondiste e il crollo della stessa Cina di Mao, Fortini ritiene davvero esaurite le risposte elaborate dalla tradizione socialista, che si aspettava il cambiamento dei rapporti di forza fra gli uomini dal lento evolvere dei meccanismi, e da quella comunista, per la quale la modificazione sarebbe avvenuta per via di coscienza ed organizzazione. E lo dice nei suoi consueti modi drastici e senza rinunciare a testimoniare anche l’impotenza della sua generazione:
“Quello che è crollato non è soltanto l’impresa comunista, l’Est, il muro: ciò che è crollato sono due secoli di cultura occidentale. Ciò che è stato demolito non è il comunismo, casomai è il comunismo come parte dell’eredità dell’illuminismo […] Al momento del “crollo” (partiti comunisti ufficiali, muro, Urss) e della “apocalisse”, ossia del discoprimento di ciò che avremmo dovuto vedere anche prima (guerra del Golfo, mutamento delle procedure internazionali) i ventenni andarono in cerca degli ultrasessanteni per farsi spiegare che cosa fosse successo. E abbastanza rapidamente, noi vecchi abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi, perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi occhi [...] Certo il marxismo di “Quaderni rossi” di trent’anni fa può aiutarci a capire il Giappone, la Corea, il Brasile, la ex Urss e gli stessi Usa, meglio dello pseudolaburismo [...] Ma in queste materie non basta capire [...] Bisogna avere tempo e forza di agire [...] C’è stata una frattura, un mutamento dei codici [...] e siamo entrati in una situazione mondiale di autodistruzione, dei corpi e degli spiriti, degli equilibri fisici e mentali che unifica il pianeta” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pp. 709-711).
Che fare, allora, contro questa guerra? I mutamenti indotti dalla superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti hanno svuotato l’indicazione leniniana: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile è possibile, sottolinea Fortini, “solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti”, ampiamente superato oggi. E, commentando il verso di una canzone anarchica (“La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori”), lo aggiorna: quella pace non è più esente da contraddizioni e conflitti fra gli stessi oppressi e “quella guerra non è necessariamente da combattersi con le armi”.
Non siamo però, come potrebbe sembrare, all’accettazione del pacifismo o della non-violenza. Da marxista, Fortini al pacifismo continua a rimproverare una disattenzione verso “gli effetti distruttivi del modo presente di produrre e consumare” e la svalutazione della “mediazione politica”.
Il pacifismo, scrive, “non mi persuadeva allora [si riferisce agli anni ‘50] né oggi” e ripubblica come se fosse ritornata attuale una sua lettera a Capitini di quarant’anni prima (1950), alla vigilia della guerra di Corea.
Fin troppo convinto forse che, se una grande confederazione sindacale fosse stata capace di proclamare lo sciopero generale contro la guerra americana, avrebbe avuto il consenso necessario, contrappone la scelta religiosa, morale o filosofica contro la guerra a quella pratico-politica, per lui indispensabile. Bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, scrive, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”.
Il bene, dunque, anche in questa situazione catastrofica per la sinistra, non sta nella non-violenza, nel rivendicare una impossibile assenza di conflitto, nel chiedere solo che tacciano le armi. E persino in alcuni passi, dove sembra avvicinarsi a quanti intendono la non-violenza come lotta e non arrendevolezza, ribadisce che la non-violenza può essere presa in considerazione soltanto se è un’arma contro la guerra, magari simbolica come l’Intifada.
L’accento è posto ripetutamente sul valore fecondo del conflitto e sul legame dialettico, anziché di netta separazione, tra conflitto e pace: “senza conflitto non si dà riposo o “pace””. I “facitori di pace” non sono quelli che negano o mistificano i conflitti, ma quelli che “spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti”. E non smette di ricordare, contro ogni facile illusione, che il conflitto è sempre un “male” per ottenere un “bene”, il cui raggiungimento però non è garantito.
La sua visione delle cose resta radicale anche in una situazione in cui non s’intravvede la via d’uscita politica da lui stesso auspicata. Fortini non distoglie la mente dalla tragicità dell’esistenza umana e ripete con altre parole verità scritte già in altra occasione, nel 1985, ben prima della guerra del Golfo del ’90:
“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin ‘che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi” ( Fortini, Non solo oggi, p.303)
L’assenza di conflitto non equivale, dunque, alla pace. La storia è conflitto. Compito politico non è sedare i conflitti, ma promuovere quei conflitti che facciano crescere gli uomini e trasformino il nemico prima in avversario e poi in collaboratore necessario e prezioso. E il nemico che va trasformato oggi è quello “che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci”. Questo nemico era nel ’90, più che in passato, rappresentato per lui dagli Stati Uniti (Egli, in altra occasione, li definì un “regime abietto…da quarant’anni nemico del genere umano”).
La sua critica coinvolge ora anche le posizioni di sinistra che considerano azione politica valida solo quella che si svolga nella metropoli, al “massimo livello di sviluppo produttivo”; e quindi dove la “realtà tecnologica del capitale internazionale che si esprime essenzialmente nella forma che noi chiamiamo americana” si è già affermata.
Queste posizioni, secondo Fortini, accolgono senza andare per il sottile il “progresso tecnologico con tutte le sue conseguenze anche quelle che si possono prevedere aberranti o pericolosissime”, perché condividono con il nemico una morale “da signori”, basata sull’accettazione della “virile durezza della realtà” e, come i signori, disprezzano quanti nel mondo “non tengono il passo”, rimangono indietro, sono schiacciati dalla macchina” (vivono nella morale “del servo”).
Egli fa i nomi di Tronti, Asor Rosa, Negri e Cacciari e collega questa tendenza al trotzkismo. Contro di essa scrive un articolo fortemente polemico (Filoamericani di sinistra: colonizzati e contenti, il manifesto 3 mag. ‘91) respingendo l’illusione di una “superiorità della cultura e della tradizione occidentale”, dannosa e facilmente, come possiamo vedere, preludio a soluzioni belliche.
Altri interessanti spunti sono sparsi in due recensioni: una a Türke, Nel sottoscala del diritto, la violenza della ragion di stato (il manifesto 21. giu. ‘91), la cui meditazione sulla violenza affrontava la “verità insostenibile del fondamento violento di ogni ordinamento civile”, compreso quello democratico; ed una ad un libro di sociologia delle comunicazioni (Rossella Savarese, Guerre intelligenti) dove veniva denunciata la complicità inconfessata fra i consumatori e i produttori di informazioni e l’apoteosi del processo di de-realizzazione, che nella guerra del Golfo del ‘90 aveva raggiunto una “limpidezza iperrealista o postmoderna”.
Ma ci sono anche altri interventi chiarificatori. In particolare ne La guerra in Europa (1993), pubblicato postumo in Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003, Fortini riassume e sembra condividere una serie di tesi in circolazione a partire dalla guerra del Golfo: fine delle guerre fra stati sostituite da operazioni di polizia, nascita di un “Impero unico e onnipotente”, svuotamento degli organismi internazionali divenuti agenti dell’unica potenza statunitense, rischi di distruzione fisica ed economica di una “parte anche grande del genere umano”, gestione dei mezzi d’informazione in modo da persuadere “una buona parte del mondo che una guerra del Golfo non c’era mai stata”. Ed arriva ad affermare “la fine tendenziale della nozione di imperialismo” e la costruzione di un potere distruttivo e coercitivo che “non si era mai dato nella storia del genere umano”.
Quarto intervallo: l’”ironia lacrimante” delle Sette canzonette del Golfo Anche in occasione della prima guerra del Golfo, la riflessione di Fortini sugli avvenimenti è passata in poesia. Ne sono nate Sette canzonette del Golfo, una sezione di Composita solvantur, ultima raccolta edita dal poeta in vita, nel 1994, anno della sua morte. Ne vorrei parlare confrontandole con la sua prima raccolta, Foglio di via, per cogliere il contrasto fra gli inizi e la conclusione della sua produzione poetica.
Si nota subito che gli elementi elegiaci di Foglio di via, come abbiamo visto, erano immersi in un contesto tragico ma carico di speranze collettive e fraterne, mentre quelli delle Sette canzonette del Golfo trovano intorno una situazione di solitudine e di sgomento e Fortini deve affidare all’ironia la sua non rassegnazione e la sua più solitaria speranza.
Ne Il poeta di nome Fortini, Lenzini ha messo in vista tale contrasto. Una “situazione d’attesa”, la tendenza alla “coralità”, la presenza esemplare dell’immagine femminile – si tratta di una donna proletaria (A un’operaia milanese), una sorta di “angelo–nunzio della prossima liberazione”, accostabile anche al fanciullesco ladro di ciliegie di Brecht e alla quale viene attribuita una funzione catartica e salvifica – caratterizzano Foglio di via: “un’umanità nuova” sembra annunciarsi. Temperie storica e prospettiva “trascendente” si compenetrano. Brecht e Noventa, due degli autori di riferimento di Fortini, si danno la mano. Tutta al singolare invece, calata in un privato di solitudine carico di sarcasmo, è la vena poetica delle Sette canzonette del Golfo. Assente ogni figura femminile, qui si ironizza amaramente sulla pace del vecchietto, una pace tra l’altro non conquistata, ma concessa dagli dei e che può allietare solo chi si contenta di poco.
Questa falsa pace, contro la quale il Fortini “terzomondista” mosse tante volte le sue critiche, si consuma mentre “lontano lontano si fanno la guerra» e il «sangue degli altri si sparge per terra”. Ma ora questa lontananza sembra insuperabile dagli apatici occidentali: allarmati, essi si succhiano il dito che si sono punti durante qualche faccenduola casalinga, concedendo un pensierino alla guerra che li coinvolge quanto una storia a fumetti.
Una sproporzione abissale si è imposta fra fatti quotidiani e fatti storici. La “derealizzazione” è compiuta. Quel filo rosso che legava negli anni Sessanta la lotta del Vietnam alla possibile lotta di classe in Occidente si è spezzato. Fra socialismo e barbarie sembra abbia vinto proprio quest’ultima.
E la poesia? Essa non soltanto ha perso la benefica figura proletaria dell’operaia di Foglio di via, rimpiazzata dalle immagini scostanti di adolescenti ben nutriti e gaudenti di Aprile torna (“Godono pepsi cola ignude gole”), ma anche il ritmo percussivo e corale della prima raccolta. Quello qui dominante sembra farsi “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini).
Come può un poeta ormai isolato, che vive in Occidente, indirettamente complice e beneficiario della “vittoria democratica” armata conquistata in Irak, piangere i morti arabi fatti da Usa e alleati occidentali, se nel suo paese contro le “guerre umanitarie” è venuta meno un’opposizione politica e la maggioranza dei suoi concittadini è favorevole alla “guerra giusta”? La sua poesia ormai non serve neppure come guanciale per i morti (“Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?”).
Vale la pena di notare, per contrasto, che di fronte alla prima guerra del Golfo uno scrittore arabo, sia pur molto “occidentalizzato”, come Ben Jalloun riconosceva ancora un alto valore civile alla poesia. Nel presentare un suo poemetto proprio su quella guerra del ‘90, Dalle ceneri, egli scrisse infatti: “La poesia s’intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine”. Per Ben Jalloun la poesia, prendendo la parola “per gli insepolti, gli scorticati, gli impiccati, quelli gettati nelle fosse comuni”, ancora serve.
Il confronto non suoni irriverente verso Fortini: egli fissa lucidamente come si è ridotto nella gabbia del privato l’uomo occidentale post-comunista in questo fine secolo, qui, da noi. Una poesia epica o una poesia “civile” non ha senso dove l’epos e la civiltà vengono meno. E forse, dai tempi bui che stiamo vivendo, possiamo solo guardare altrove, come il giovane Fortini guardava a “una folla di sconosciuti fratelli maggiori” nell’Europa sconvolta dal nazismo.
Le Canzonette del Golfo sono pienamente integrate nei componimenti di Composita solvantur? O svelano sotto la loro ”ironia lacrimante” (l’espressione è di Fortini stesso) elementi più amari e pessimistici rispetto agli Otto motivi contro la guerra visti sopra o, in generale, rispetto alla visione marxista della storia?
L’ultimo Fortini suscita ancora una volta giudizi contrastanti. Luperini, ad esempio, ha visto nelle Canzonette del Golfo o, più in generale, nella posizione di Fortini su questa guerra un abbandono del suo ottimismo storico sociale e un suo finale accostamento a motivi ricorrenti e addirittura portanti del discorso di Sebastiano Timpanaro (Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002).
Per Lenzini invece, proprio nel momento più tragico, Fortini è ancora capace di “ricerca e slancio utopico”, perché il suo pensiero dialettico sa che all’aumento della negatività e dell’oppressione corrisponde sempre lo sviluppo di “altro”.
Edoarda Masi ha ricordato che Fortini (come Lu Xun) ha sempre ironizzato sulla poesia, anche se per lui era in realtà la cosa più importante; e ritiene che le Canzonette non siano affatto in contraddizione con il suo “proteggete le nostre verità”.
E Composita solvantur, anche secondo il parere di Rossanda, è una piccola summa del pensiero fortiniano: “è come se avesse voluto tenere assieme una parte delle avanguardie del passato, il meglio del ’68 e il soldato sovietico che, sotto l’avanzata tedesca, grida ai compagni: non possiamo arretrare” (Rossanda, Ospite ingrato 1, pag 169)
Anche per me le Canzonette del Golfo non sembrano una caduta dell’ultimo Fortini e stanno sullo stesso piano di Composita solvantur . Eppure mi pare che resti il problema d’intendere meglio l’accento in qualche modo diverso non solo delle Canzonette ma di Composita solvantur rispetto alla precedente produzione. La poesia, anche in questo caso, aggiunge o toglie qualcosa alla prosa.
Non posso che riecheggiare dubbi e impressioni non solo miei e indagare con cautela. Si tratta solo di finzione poetica che, quasi temendo di essersi lasciato troppo andare, Fortini in un’appendice autocritica (Considero errore) metta sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” delle Canzonette?
E se davvero la poesia è stata per Fortini la cosa più importante, come trascurare la sua tenacia per tanti anni a «mostrare a dito i limiti della poesia» o dichiarazioni come questa:«Non posso sapere quanto l’esitazione fra i due fantasmi del sé – quello che si rappresenta nell’atto poetico e quello che si figurava in un modo di essere piuttosto che in quello dello scrivere – abbia leso uno dei due o tutti e due» (Memorie per dopo domani, pp. 27-28) ?
A me pare che la coincidenza fra la malattia che portò alla morte lo scrittore e l’esaurimento della prospettiva comunista in cui aveva lavorato per tutta la sua vita gli imposero quasi contemporaneamente un alt. Composita solvantur mi pare che registri quest’ultima cesura individuale e collettiva assieme: il futuro per la prima volta nella vita di Fortini era da affidare completamente e soltanto ad altri. I progetti che aveva composto per una vita erano minacciati. Non una “svolta”, dunque, non un ripiegamento sul materialismo timpanariano e tantomeno un abbandono nichilistico. Ma neppure più la presenza di un’inalterata “ricerca e slancio utopico” o l’idea della trasfigurazione o della rinascita.
L’inquietudine fortiniana si arrestava. La morte imminente e personale, sentita più che pensata, mi pare preponderante in tutta la raccolta. Essa disfa le cose composte (dal poeta, dagli uomini in lotta nel tempo storico) e questo scioglimento delle cose personali e collettive va accettato (sopportato). Ma da qui anche l’allarme, la raccomandazione data dal moribondo in punto di morte ai vivi. La sua opera personale è compiuta. Il nuovo ordine sociale è più che mai a venire. Possibile ancora? Impossibile? Non so pronunciarmi. L’appello “proteggete le nostre verità” consegna ai vivi quello che è da salvare, quello che ha contato per l’individuo e per la storia degli uomini con cui ha vissuto, compresa la verità del comunismo. Ma solo, ancora più drammaticamente, come possibilità.
Concludendo: nella “guerra permanente” a dieci anni dalla morte di Fortini Nel percorso che abbiamo compiuto abbiamo visto la costanza del ripudio fortiniano della guerra (inconciliabile con l’idea di rivoluzione socialista) e la varietà di toni che esso ha assunto nel tempo: speranzoso e corale nel 1946; assertivo e tendente all’estremo (dire estremista sarebbe una concessione imperdonabile agli avversari di allora e di oggi di Fortini) nel 1967 di fronte all’aggressione americana al Vietnam o a quella israeliana contro gli arabi; allarmato e sempre più amaro nel ’90 davanti alla Guerra del Golfo.
Si delinea così nelle sue opere quasi una parabola che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’attuale precipizio della “guerra permanente” con in mezzo il picco alto di speranze degli anni Sessanta (Cina,’68-’69).
Dieci anni dopo la morte di Fortini, la nostra rilettura dei suoi testi viene a coincidere con l’acutizzarsi della tragedia di un Medio Oriente sempre più divorato dalle bombe. Gli Usa continuano pervicacemente ad imporre il loro monopolio militare e la guerra “è tornata al centro di uno scenario mondiale che non ha precedenti nella modernità” (Rossanda). Persino i giornalisti più filoamericani avvertono: l’incubo della terza guerra mondiale “è già in corso” (Pirani). E sempre più drammatica è diventata l’assenza di un’opposizione non puramente simbolica alla guerra, mentre il dibattito politico si è arenato proprio su quelle posizioni pacifiste, combattute dall’ultimo Fortini. Per lo più, infatti, viene teorizzato il “grande rifiuto della politica”: la politica è “figlia della guerra» ha sostenuto la filosofa Cavarero; è “un fallimentare rimedio al disordine del male” aggiunge Revelli.
Ora chi rileggesse il recente dibattito di LIBERAZIONE, La politica della non-violenza, dovrà ammettere onestamente che alla domanda posta da Ingrao alla sua apertura (“Come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?”), le risposte, pur risalenti al ‘90 desumibili dalle posizioni di Fortini, specie dagli Otto motivi contro la guerra sono ancora oggi più lucide e meno elusive di quelle dei tanti intervenuti. (Anche se, personalmente, non mi sento di tacere dei dubbi: ad esempio, cosa intendere in concreto per “una violenza con altri mezzi e senz’armi” o una “non-violenza eversiva”? In cosa essa si distingue dalla non-violenza attiva, di cui parla almeno una parte dei pacifisti? E ancora: d’accordo sull’”uscire dalla morale verso la politica”, ma oggi in concreto dove e come fare politica? Edoarda Masi, intervenendo su il manifesto, ha negato che la via da imboccare sia quella della politica in senso tradizionale. Bene. Ma il contributo di pensiero innovativo da lei auspicato da quali soggetti prevedibilmente potrebbe venire?)
Come mai, allora, tanto silenzio e disinteresse verso questi testi fortiniani e verso posizioni odierne (penso a Rossanda, alla Masi, a Tronti stesso) accostabili a quelle degli Otto motivi contro la guerra ?
Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro. Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi» (Rossanda).
Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.
E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.
Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.
Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante. Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.
Direi che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico sarebbe una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.
Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale, classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.
Ennio Abate 6 settembre 2004
Su l’«Io» (senza il noi) di Massimo Parizzi
di Ennio Abate
«Io sono “io” (esisto) solo se posso dire noi» (Jean-Luc Nancy) «ciò che diviene sempre più visibile è l’avvenuta dissoluzione di quel We. L’esplosione, dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo, quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e lottare». È quella dissoluzione e le sue conseguenze la verità difficile da accettare, poiché alla fine del We mondiale ha poi corrisposto, a cascata nel tempo, la decomposizione di tutti i piccoli noi che attorno a quello erano fioriti». (We Are Winning di Marcello Tarì, qui)
Lettore Allora, dopo tutti questi appunti, ti sei deciso a scriverla la recensione su «Io»?
Samizdat Sì, ma è venuta troppo lunga, preferisco parlarne con te.
Lettore Attacca pure.
Samizdat Parto da un sunto del libro.[1] Un bambino abita in una casa popolare, s’innamora di una bambina, Roberta, che abita di fronte a lui; e desidera salire con lei sulla «spianata» che si trova sul tetto di un garage, ma lei rifiuta. Della vita di famiglia veniamo a sapere che: padre e madre si amano poco o niente e danno al figlio un’educazione cattolica; intorno agli undici dodici anni il bimbo si fa l’idea che la madre soffre e suo padre è cattivo e si sente in colpa per questo; ha una sorella, con la quale divide la camera, gioca e impara a leggere e a scrivere; va in vacanza dai parenti di sua madre, che è nata a Brindisi; un giorno con la chiave che il padre ha dimenticato apre un cassetto, di solito chiuso, e scopre «i ricordi di suo padre del fascismo» (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò», ecc.). Il ragazzo, diventato giovane, abbandona la “casa del grande garage” e va a vivere da solo in una casa di ringhiera. Ha una fidanzata. Ha degli amici: Adriano, di vent’anni più grande, che ha avuto il padre torturato dai tedeschi; Johnny, che ama le novità, a cui piace vivere in città e la gira con una radiolina transistor all’orecchio; un pittore astrattista, Milo, e sua moglie, che dopo la morte di Milo, si uccide. Al liceo s’avvicina all’associazione cattolica Gioventù Studentesca; vota con scarso entusiasmo l’occupazione della scuola; distribuisce volantini e partecipa ad assemblee e manifestazioni, s’innamora di una compagna di Lotta Continua. Lavora come intervistatore e traduttore. Vive con Bianca, con altri amici e il «padre buono» di Bianca. Fa dei viaggi da turista in Vietnam, Messico e Laos. Partecipa alla carovana per la pace a Sarajevo. In breve, il libro narra di come è diventato adulto un bambino nato in Italia nel 1950, vissuto tra Milano, Reggio Emilia e Brindisi. E frantuma questa vicenda in 14 capitoli.
Lettore Come? Frantuma?
Samizdat Sì, Parizzi ha scelto una forma, che richiama le scritture sperimentali degli anni ’60-’70 del Novecento. Non narra i fatti in modo cronologico e lineare, non «segue il calendario», ma procede per salti temporali e spaziali, a zapping.[2] È una frantumazione ordinata, ben pensata, solo in apparenza neoavanguardista. È facile, infatti, cogliere il senso dei singoli frammenti e dell’insieme. L’autore non vuole scandalizzare o sfidare il lettore, ma spiazzarlo appena un poco e sedurlo affabilmente.
Lettore Ti è parso che la forma non aiuti a capire meglio la storia, il contenuto?
Samizdat La vedo un po’ in contrasto con la vicenda stessa. La formazione di questo «lui» è quasi banale: innamoramento fanciullesco; vita familiare e parentale chiusa in sé, da ceto medio e senza scossoni; rottura non traumatica con il padre fascista; ribellione al mondo cattolico che non lo porta a posizioni “estremistiche”. L’umanità intravista nei viaggi, da turista, è e resta opaca e lontana. C’è ben poco di romanzesco e molto autobiografismo appena velato. C’è un saggismo che accenna a problemi enormi ma non risponde. Le domande “metanarrative” sono troppo secche e le risposte elusive[3] o rimandate. Sono perplesso. Parizzi avvicina la mano a molti fuochi, ma non si scotta mai. Forse ci gioca con grande abilità e leggerezza postmoderna.
Lettore Mah, concedo che la vicenda del protagonista sia normale e somiglia a quella di tanti suoi coetanei o quasi. Ma questo a me pare un vantaggio: così sono tanti quelli che possono seguire i ricordi e i pensieri, sinceri o appena velati, che Parizzi ha disseminato in più di 200 pagine. E confrontarli coi propri. I suoi destinatari sono quelli come me, gente cresciuta in ambienti cattolici tradizionali, conservatori e forse reazionari e che si è formata nella scuola di massa democratica. Non sono certo gli “estremisti”, i nostalgici del ’68 o gli incontentabili come te. Scherzo, eh!
Samizdat Scherza pure, ma considera il titolo. Lo trovo sfacciatamente seduttivo nella sua adesione al narcisismo dei mass media e dei social. È come se dicesse: non ho nessuna esitazione a parlare di io. Basta con i noi (cattolici, socialisti, comunisti, anarchici, patriottici, sovranisti, ecc.). E basta pure con la psicanalisi che, da Freud a Lacan, ha spaccato il capello in quattro sulla crisi dell’io. Io il mio io me lo tengo ben stretto.
Lettore Parizzi, a differenza di te, si è riposizionato da tempo sul presente. Ti ricordi la sua rivista? Si chiamava «Qui. Appunti dal presente». Non si può rimanere a rovistare il passato o le «buone rovine» fino ai nostri ultimi anni di vita, orsù! Lui il suo passato l’ha digerito. Ed è falso che si sia appiattito sulle mode o sul vocio di massa. Anzi, io ho interpretato il titolo come un segnale di sincerità, modestia e onestà. Piuttosto, è come se avesse detto: vi parlo di quello che ho vissuto, pensato e immaginato; e solo di quello; e a modo mio. E poi scrivere il romanzo di formazione di un ragazzo “normale” in tempi di spettacolarizzare e di esaltazione a tutti i costi dei bordeline, non guasta.
Samizdat Vedi che con questo io così in primo piano – in fondo un io “liberale” perché il presupposto del libro è che «tutti sono io»[4] soltanto o soprattutto io – Parizzi sottovaluta non solo il noi d’allora, della nostra giovinezza, ma il problema del noi di oggi. Che manca e si sentono le pesanti conseguenze.
Lettore Un io “liberale” quello di Parizzi? Esagerato! Tendi sempre a politicizzare troppo e tutto. A me pare bello anche se non originale che il protagonista sia un io bambino stupefatto, incantato, curioso di fronte al mondo, attento alle sensazioni. Non vedi come intuisce e soffre dei drammi familiari e parentali? In mezzo a quella piccola borghesia o ceto medio urbanizzato di una Italia avviata al boom economico matura e si autonomizza dagli adulti. E lo fa con quieta dissimulazione, senza scenate. Allo stesso modo attraversa i turbamenti sessuali dell’adolescenza. Infine a me piace davvero – particolare storico e più che generazionale oggi non trascurabile – una grande passione per la lettura, che in quegli anni era quasi l’unico sfogo concesso a bambini solitari.
Samizdat Anche a me questa parte di «Io» ha fatto simpatia. Ho pensato al fanciullino, a Peter Pan, al puer aeternus.
Lettore Ma no! In «Io» non c’è mai abbandono alla pura immaginazione o al fiabesco o alle oscurità misteriche. Parizzi procede per supposizioni ben meditate. Sui ricordi non ci ricama, li riporta con oggettività e realismo. Ed usa un linguaggio preciso, colloquiale, sciolto, secco, vicino al parlato e senza ideologismi. E le sue sono sempre annotazioni sintetiche. È lontanissimo dalle descrizioni sociologiche strabordanti della «Scuola cattolica» di Edoardo Albinati o dagli amarcord sentimentalistici.
Samizdat Ma che tipo di maturazione ha questo io bambino? A me pare che passi dall’educazione cattolica ad un generico progressismo utopistico. E a dirla tutta, da ex di quegli anni, tra Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo. C’è un pregiudizio in «Io» (mai esplicitato o teorizzato, anzi direi occultato proprio dalla mimesi seducente del parlato): che un bambino sia più naturale e autentico dei “grandi”. In fondo Parizzi si rifà a Rousseau e a Schiller. Da lì trae l’ideale etico ed estetico di rapporti umani dignitosi per sé e per tutti; dell’amicizia; di un fare sì, ma mai ben definito, che dovrebbe migliorare le condizioni di vita dell’intera umanità che abita la terra. Belle parole. Questo ideale etico-estetico e magari oggi anche ecologico è senza base politica e sociale, senza noi (mi ripeto). Nel frattempo i conflitti, le guerre crescono.
Lettore Sempre dove il dente ti duole torni, eh! Ogni sentimento o pensiero per te, se non si traduce in politica, è vano. E poi dici di non essere inchiodato a quel passato, quando vi illudevate che il noi politico dovesse essere “al posto di comando”!
Samizdat – Stiamo al libro. A un certo punto in «Io» si dice che «al mondo c’è da proteggere i bambini».[5] L’autore e il narratore, però, non si chiedono mai chi li può proteggere e se sia possibile proteggerli, se permangono e si acutizzano guerre e conflitti sociali. Come fanno i bambini a crescere bene in una macelleria mondiale del genere? Mi accusi di nostalgia della nostra giovinezza, ma si può anche restare ancorati al desiderio infantile dell’ «io non voglio diventare grande» e farne un principio.[6]
Lettore quando Parizzi narra del bambino irakeno che, alla caduta di Saddam, si ritrova in «un gruppo di uomini che, tutti insieme, uscivano dalla piazza gridando» e corre e li raggiunge e si toglie una scarpa e inizia a «picchiare in testa Saddam», costruisce una immagine potente che spinge all’utopia.
Samizdat Quanti equivoci contiene quell’immagine! Estratta dalla storia tremenda della dissoluzione dell’Irak, è pura estetica, spettacolo. Tranquillizza la buona coscienza degli europei. I bambini non fanno la storia e anzi ne sono di continuo le vittime. La storia la fanno gli adulti; e in modi sempre terribili e a volte orrendi. E quella è una statua, non Saddam! E l’hanno buttata giù proprio i “grandi” (i “Grandi della terra”) imbastendo una guerra sanguinosa e turpe nelle sue false motivazioni.
Lettore Ma Parizzi non sostiene che il bambino, picchiando il pezzo di statua con la scarpa, partecipa alla storia dei grandi. E, comunque, siamo un po’ noi quel bambino e l’immagine fa riflettere, scalda i nostri cuori.
Samizdat Ma non ci aiuta a ragionare. Non so cosa pensasse il bambino reale, ma è certo che confondeva realtà e immaginazione. Or un travisamento del genere in lui posso sopportarlo. Ma perché l’autore o il narratore non riprende né commenta né interpreta la scena da adulto e ci fa sapere cosa ne pensa lui? Forse lui pure si è lasciato attrarre dal lato estetico dell’episodio trasmesso alla TV. E poi – lo si capisce da altri brani saggistici di «Io» – legge i fatti soltanto sul piano morale. E ricorre alle categorie pre-machiavelliche di innocenza e di male.
Lettore Ma è un romanzo. Non vedi il sottotitolo di «Io»?
Samizdat Lo è? Fino a che punto? Io riconosco che Parizzi, pur lavorando su frammenti eterogenei nel tempo e nello spazio, non ha rinunciato alla ricerca di una visione unitaria. Da romanzo, appunto. E trovo i vari brani collegati tra loro. Mi chiedo, però, perché così brevi le domande e spesso così elusive le telegrafiche risposte della parte “metanarrativa”, che dovrebbero funzionare da commento.
Lettore Io, invece, ho trovate molto belle anche queste parti. Specie dal punto di vista della forma. Mi paiono antifone o intervalli riflessivi ironici e spiazzanti. O quasi ipnotici refrain. O contrappunti a quanto appena detto dal narratore. O domande incalzanti da intervistatore. E in questo inseguirsi e riallacciarsi e ripetersi delle interrogazioni, oltre alla volontà di tener desta l’attenzione del lettore, ci trovo proprio la ricerca di ricomposizione dei frammenti e di una continuità tra tempi e spazi diversi. Da romanzo, dunque. Nella stessa direzione vanno anche le analogie che Parizzi suggerisce in modi sempre allusivi. Ad esempio, tra una casa povera di Napoli e una casa di legno su palafitte in Thailandia. O tra il pittore Adriano e un anonimo pittore vietnamita. O tra l’elemosina negata al bambino a un semaforo di Milano e la vendita contrattata delle noccioline a Hué in Vietnam.
Samizdat Prevale troppo la quotidianità della vita familiare e parentale. Spesso la più delicata o persino edulcorata. Il quotidiano rappacifica e incoraggia però la frantumazione di un discorso; e vela i punti drammatici dell’esistenza, le falle, a volte le tragedie.
Lettore E dalli con la frantumazione! Eppure hai detto tu stesso che è controllata. Nessun flusso disordinato di coscienza o incoscienza, cavolo! Ti ricordi il punto in cui Parizzi parla di un sarto bresciano, che ama e sa fare bene il suo lavoro, perché lo conosce bene? Ecco, secondo me questo sarto raffigura emblematicamente la sua scrittura. Che ha un’artigianalità ammirevole e non si lascia turbare dalla concorrenza della odierna e invadente comunicazione massificata, ma con sapienza, anche monocorde, cuce insieme e bene per tutte le 200 pagine i vari brani-pezzi di stoffa.
Samizdat C’è ancora un’altra cosa che non mi ha convinto: la storia più vasta entra soltanto nelle poche tracce depositatesi nella vita dei familiari o nella memoria, per forza di cose confusa e mitizzante, del protagonista-bimbo. Capisco che è nel mito che il bambino vive i primi conflitti tra i suoi desideri (emblematico il salire sulla spianata) e la realtà (Roberta che si rifiuta di seguirlo). Ma quando Parizzi deve passare dal noi ristretto e concreto – familiare o parentale o strettamente amicale – al noi dei più, degli “estranei” o a un noi più astratto e universale (diciamo pure: con ambigue pretese di universalità), esita e si arresta. Proprio nel punto, dunque, in cui il narratore dovrebbe calarsi nel romanzo. E cioè dar conto dei conflitti maggiori del noi storico collettivo, al quale per un po’ la sua generazione attorno al ’68 pur partecipò. Ti pare poco non rendere conto di quel tentativo di re-immaginare addirittura una “rivoluzione”, una rottura coi noi preesistenti e soffocanti?
Lettore Mi vuoi dire che, quando si scrive un romanzo, l’autore è obbligato a occuparsi di universale o di storia “vasta”? E chi lo dice?
Samizdat Nessun obbligo. Noto, però, che in «Io» quel noi del ’68 è rappresentato in maniera sfocata. Cosa dicono, infatti, quei noi che fummo? Cose vaghe, che l’io/lui narrante (e in fondo l’autore, Parizzi) non capisce e poi neppure più ha tentato di capire. Prima avevamo un bambino, poi abbiamo avuto un giovane. Entrambi non si sono resi conto di cosa succedeva o vivevano. D’accordo. Chi può dire di avere il faro della coscienza a disposizione in ogni periodo della sua esistenza? Nessuno. Ora nel ’68 noi vediamo questo «lui» che distribuisce volantini, anche se «non ha molta voglia»; fa con altri studenti ripetizioni private ai figli degli operai; ha la spinta a fondare una rivista che richiederebbe un lavoro in gruppo; è attratto da una ragazza di Lotta Continua che gli piace. Poi va in vacanza e tutto sembra svanire nel nulla. Ancora d’accordo. Ma nella scrittura, a distanza di tanto tempo, cosa dobbiamo pretendere dallo scrittore, non più bambino né più giovane?
Lettore E che vorresti? Un bel poema alla Majakóvskij che esalti il coraggio dei militanti rivoluzionari di professione? Svegliati! Tanta gente ha vissuto quegli anni con leggerezza, divertendosi. Erano pochi i seriosi o i fanatici.
Samizdat Ma vuoi capire che in «Io» non c’è una interrogazione sulle dottrine politiche o sulle ideologie che appassionarono o avvelenarono la mente di migliaia di operai, impiegati, studenti? E che il narratore guardava (per me scandalosamente!) a Proudhon non a Marx.? E che della politica marxista riecheggia slogan stereotipati? E che resta bloccato alle soglie del ’68, alle primissime manifestazioni, evitando di accennare al seguito, quasi a gustare, in coerenza con la sua visione roussoviana, l’alba “innocente” di quella storia?
Lettore- Dai, fra poco loaccuserai di rimozione o di tradimento piccolo borghese!
Samizdat – No, questo no.[11] Sono fesserie. E non pretendo neppure che arrivasse a parlare delle tragedie degli anni Settanta fino all’assassinio di Moro. Ma mi delude in «Io» l’insistenza sull’infanzia. Mi pare una scelta fondamentale, ma difensiva ed elusiva. Ordina tutta la narrazione, selezionando gli episodi in modo che alla fine tanto spazio viene dato al familiare e parentale e meno al pubblico-politico. Questo è il messaggio di fondo del libro per me.
Lettore Non condivido la tua opinione. E alla tua età dovresti aver chiaro anche tu cosa resta delle vostre biografie; e cosa di esse debba o possa farsi libro o romanzo. Parizzi con «Io» ha dato la sua risposta. Per lui resta un io che si sente in relazione con altri io, ipotizzati come a sé simili (o quasi).
Samizdat Sì, ma è una relazione in forma emotiva o nella «forma oceanica», di cui parlarono Freud e Rolland agli inizi del Novecento.
Lettore Per me invece dice una grossa verità: «i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero lo sentono vero, magari, ma non proprio reale come quello che possono vedere, udire, toccare.[…]. Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo».[12] Ma, tanto per capirci fino in fondo, a te di quella storia cosa resta?
Samizdat Resta un io-noi sconfitto, forse dilaniato da fantasmi (gli spettri di Marx?). Questo io-noi sa che la polis non c’è (o non c’è mai stata) e che in questa epoca un altro noi non è definibile. Né la possibilità di una sua costruzione è dimostrabile. Resta però che un altro noi è comunque necessario.
Lettore E cosa ha di tanto diverso il tuo io-noi dall’io di Parizzi? In entrambi i casi il noi di allora non c’è più e non lo puoi resuscitare!
Samizdat In «Io» c’è una rinuncia per sempre a ogni possibile noi, perché il noi è sostituito da tanti io, che non faranno mai più un noi. Vanno in altra direzione.
Lettore E sarebbe una prospettiva così grave?
Samizdat Sì. Questi io non sono pieni, maturi, adulti. Restano degli io-bambini, troppo bambini. Pochi giorni fa leggevo un’intervista a Nancy, morto di recente. Concordo con lui: un io si realizza solo in relazione al noi. Dev’essere un io-noi. Deve riconoscersi in una relazione reale e conflittuale con altri noi (o, forse, con altri io-noi) avversari o nemici. Solo così potrà partecipare responsabilmente ai conflitti della storia. Se questo noi oggi manca, è mancante anche l’io. (E la vecchia psicanalisi fa ancora bene a ricordarci che tutti questi io non sono più “padroni in casa propria”, cioè pieni, maturi, adulti).
Lettore Quella di Parizzi sarà una visione “liberale”, ma nel suo empirismo è più realistica della tua. E poi non è neppure così sicuro che Parizzi abbia rinunciato a pensare e a costruire un altro noi. Il finale di «Io» resta indefinito e aperto: «che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?».[13] Lo sai forse tu?
Samizdat No. Senza campi e colline e mari di fronte, ma davanti a questi palazzoni di periferia, non so dire o mostrare cosa ci sarà. Ma, dopo il composita solvatur che la nostra generazione ha vissuto, tengo fermo all’esigenza del noi: «contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica».[14]
Lettore- Ah, sì? Hai scommesso su un altro noi? Fa’ pure, ma a me sembri fuori epoca. Basta vedere cosa accade del noi nel tuo gruppo di Poliscritture! Buona fortuna, comunque.
[1] SUNTO VELOCE DEI CAPITOLI 1. Casa popolare. Piedi che camminano, corrono, saltellano. Gambe che scalano il Pizzo Nero. Malghe, temporale. Rachele e Edoardo scendono prima che piova. Pioggia, nuvole. A tavola con Rachele. Claude e Claire si lasciano. Gambe che pedalano a Reggio Emilia. Sui pattini. Gambe di ragazze. La terra calpestata da miliardi di piedi di donne e uomini. Ancora Claude e Claire. Parla la ragazza Roberta e dice io. Fidanzatina. Tu sei io? Ci saliresti sul tetto del garage (17). Il cielo (17, poi ripreso a pag. 182-183). Roberta va nel palazzo dei ricchi. Il bambino che si vuol far vedere. Il fiocco azzurro per il figlio che nasce, Leandro. 2. Appartamenti di famiglie della piccola borghesia. La “casa” povera di un vecchio in qualche vicolo di Napoli. Casa su palafitte in Thailandia. Quello accasciato e magro che in Messico abita una casa senza porta. Cosa si fa in una casa. Johnny e la sua casa di single. Lui vive da solo in una casa di ringhiera. La casa dei ricchi col marmo. La casa del grande garage (dei genitori). Nella casa fotografato coi suoi al momento della cresima. La mendicante che vorrebbe ballare. Gli amici del padre e il paese (a Samboseto di Parma). Mona, attivista egiziana, in piazza Tahrir al Cairo. Ricordi del padre e del suo amico Adamo: da bambini facevano la cacca nei campi. Freddezza dei rapporti tra sua madre e suo padre. [Verità e menzogna]. L’amico che lo ospita a Napoli lo porta a dormire in una casa di Bagnoli con una parete dipinta e un motto:”Quando l’uomo sarà un amico per l’uomo?”. 3. La casa di Zita l’attrice. Adriano. Ada. Bianca con Leandro, il bambino, nel quartiere che sta cambiando (sedi di multinazionali, moda, digitale). Ada, una sua ex fidanzata. Adriano è un amico di vent’anni più di lui, un narratore, un chiacchierone, e ha avuto il padre torturato dai tedeschi. [Un pittore a Hanoi]. Riflessioni sulla pietà e la crudeltà delle cose. Sul passato. Sulla leggerezza. Sulla malinconia. Camminare fino a stancarsi. In bicicletta per Crema. Con la carta stradale del Touring. [Che cosa ci sarà… (pag, 44) ripreso poi in altre pagine]. Johnny che gira per la città con la radiolina a transistor. Uno che studia nell’appartamento vicino. Johnny gira per la città ed è entusiasta delle novità e del presente (46) e non vuole “litigare” con il presente. Amare tutto anche la pubblicità. Tornando in bici da Crema è colto da un acquazzone. “Che cos’è il passato, Non lo so”. 4. La sera da bambino con padre e madre e la preghiera serale. [Riflessione su innocenza e male]. Da bambino s’allaccia le scarpe al mattino e s’incanta. [Riflessioni sull’animo che non sa di storia e di politica a partire da una scena dei miliziani di Hamas che demoliscono un muro e ancora “s’incanta”]. Gioca con la sorella a fare il commerciante. [Riflessione sul contenuto di classe dei nomi: signora, donna di servizio]. Notizie su sua sorella Federica. Separazione dei maschi dalle femmine. [Thailandia: il turista americano e la giovane thai]. Essere accolto nel gruppo dei maschi. Notizie sul fratello che si è sposato in chiesa. [Coppie che ballano, anche il vecchio balla]. Il trenino dei ballerini. [Lo scirocco]. La camera che divide con la sorella. Impara a scrivere. Impara a leggere. [il bambino che al semaforo chiede l’elemosina. Sconcerto. Rifiuto di fargli l’elemosina]. [A Hue il bambino che vende noccioline e abbassa il prezzo] [Riflessioni sui “rapporti umani”: essere guardato in faccia]. Quando si allontanerà dai genitori, parenti, dalla “casa del grande garage”, è per andare in strada e guardare il balcone di Roberta. Che vuol vedere senza essere visto. Immagine di lui che gattona. La prima casa di ringhiera in cui va ad abitare da solo. Vicini di casa: Nino e Cecilia da Livorno. Annotazioni su lui che esce di casa, traffico ingorgato, e lui si mette ad osservare passanti e donne ed è attirato da quella donna che incontra tutti i giovedì. Chi sono gli altri? Uomini, donne bambini. 5. Parla di un Natale di quando lui era neonato e elenca i parenti. Lui che esplora il vano di una cristalliera con gli specchi dove sono conservate bottiglie di liquore. Il mobile con il cassetto chiuso conserva i ricordi del padre fascista (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò, un libro di fotografie) (63). L’anno in cui era nato lui nascono altri amici suoi. Leandro, il bambino che ride. Ricordo del padre preoccupato e di sua madre che guarda il marito infastidita. [In viaggio per Finale ligure. Recita di Tanto gentile e tanto onesta pare]. Cena di famiglia da bambino: “Ma la focaccia col pomodoro”. Il padre in pensione e la medaglia della banca. Il padre gli ricorda che i comunisti hanno fatto morire il nonno. [Tradire.. ormai si è incamminato sulla strada del tradimento … stacco dal padre]. In pensione a Collio in montagna. Domande sul comportamento degli adulti. [Lavoro di intervistatore. Intervista a una donna]. Una casalinga (sua madre) gli prepara il sugo di pomodoro e la merenda del pomeriggio prima di guardare alla TV Rin Tin Tin. A undici- dodici anni si fa l’idea che la madre soffre e il padre è cattivo. E lui si sente in colpa. Suoi coetanei quattordicenni ispirati dai film di James Bond fondano un’associazione: “Dall’Italia con amore”. Riunione. Un giornalista della radio registra. E lo riaccompagna a casa. Suo padre l’aggredisce, lanciandogli addosso la cesta di vimini coi giornali. Le paure della madre, quelle del padre. Taglio del soffitto di compensato di un mobile per rubare al padre le sigarette. Al liceo l’associazione cattolica Gioventù Studentesca. Il padre buono di Bianca, Giuse, che si è trasferito nello stesso palazzo dove abitano lui e Bianca. Giuse racconta del suo viaggio in Senegal e dei bambini denutriti. Sottoscrivono a loro favore. Il padrino di cresima, Adamo, buono a differenza di suo padre. E altri padri buoni di cui vorrebbe essere figlio. La prima volta che può acquistare dei mobili. Il fratello che ha fatto un viaggio in Bielorussia gli porta delle matriosche. Bambini di Cernobyl ospitati per qualche mese: “si dovrebbe far qualcosa al mondo, per renderlo più bello” (73). Nella casa dove vive da solo ascolta il giradischi e la Quinta di Beethoven. Un usignolo. [Laos. Canto dei galli]. Il Giuse, il padre buono, ora malato, dal medico. Ancora il ricordo del Natale da neonato: sorriso amorevole della madre, storto del padre. Si sente invaso da questa “sarabanda” di parenti. Altro che Natale: desiderio di evadere: di essere “irraggiungibile, sulla spianata del grande garage” (77). Perché quando taglia lo scomparto chiuso che “è venuto a simboleggiare per lui la paura di suo padre e di sua madre” sfida la paura (77). Lavavetri sulla circumvallazione a Milano, che risale la fila delle auto e dice con risentimento qualcosa. Assemblea al liceo per votare l’occupazione della scuola. Scarso entusiasmo. 6. A Brindisi in casa dei parenti.[la domanda «Che cosa ci sarà dopo quei campi 79.., 100, 181, 195]. Nella chiesa prima di andare a messa. Il professore comunista sfoglia il libretto di preghiere che gli ha sequestrato. Roberta non lo caga. Desiderio di salire con Roberta sulla spianata. Il nonno di Brindisi: “quando si mangia si combatte con la morte”. L’elenco degli io da pag.86 a pag. 92: e la conclusione: «Ma allora, tutti sono io? Sembra proprio di sì». Samboseto, funerali del nonno. Esita poi si mette nel gruppo dei maschi, orgoglioso di esservi ammesso. Litigi in famiglia, non dire ad “estranei”. La divisione dei ruoli: uomini al lavoro e donne casalinghe. [Altra intervista a un consulente di banca]. Messaggi di Roberta dal balcone. 7. Buttarsi nel lavoro. Il sarto bresciano. Una contadina nella Bassa. Un giovane in tuta. Il nonno squadrista di Busseto che scappa dai partigiani(101). Ricordi sfuocati. [La memoria è il cassetto dei morti]. Discorso con amici sui nazisti terribili. «Di quelle cose non sente la realtà sino in fondo. Sono accadute prima della sua nascita, e spesso, specialmente per i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero non lo sentono davvero… Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo» (103) Il Vietnam dopo la guerra]. Sradicamento dal paese, sorriso storto in città del padre. [L’uomo che guarda di sbieco]. [Al mondo c’è da raddrizzare i sorrisi]. Anche la panettiera ha il sorriso storto. La tabaccaia col sorriso. Considerazioni ed esempi sulla spontaneità. Suo nonno ha ucciso? Il padre e il consuocero ricordano la caduta delle bombe durante la guerra. [Hue Vietnam] Quelli che non hanno fatto niente di male. 8. I miliardi che vivono nel mondo. Per l’unica volta (110). Accenni agli abitanti di varie città nel mondo. Ancora sui tanti che camminano sui marciapiedi. Ancora Roberta dal balcone. Immagina Roberta in cucina che apre il rubinetto o a tavola coi genitori.[Discorsi tra amici su Narciso]. Gli piace fissare il balcone di Roberta più che incontrarla. Il sarto e i suoi problemi col padrone. Roberta non ha risposto al suo invito a salire sulla spianata. Sale sul Duomo. «Che cosa c’è in alto…» (117, 129, 152, 182). Le ragazzine thailandesi gli regalano una cavalletta di bambù. Al freddo e il libro di Peguy che girava in Gioventù Studentesca. Alfredo è l’incaricato di Gioventù Studentesca che fa da guida spirituale ai giessini di una scuola. Nella casa di Alfredo ci sono tanti libri. Su Roberta e il suo bicchier d’acqua. 9. Suo padre a capotavola. Racconta un episodio: doveva andare al lavoro e al bar la cameriera non gli portava il cappuccino. Visita ai genitori e freddezza. Competizione tra padre e madre sulla scelta del liceo per il figlio. [Adilah marocchino e il dolore di perdere un lavoro che piace]. Scende dalla scala a chiocciola del Duomo. L’invecchiamento dei genitori. La madre morente (126). La madre morta. Difficoltà di dialogo col padre, ora vedovo: crede che sua moglie morta sia ancora ricoverata in ospedale. Morte del padre. Mirco e il doposcuola all’oratorio. Una processione. Uno studente svogliato. Da grande pensa di fare l’insegnante. Ancora a scuola: l’associazione studentesca. Uno scaricatore di porto: una vita da cani. Il sarto parla e vorrebbe cucire un abito per questo scaricatore (133). Parla un becchino. [Un incendio di isbe e Mitja che parla dei poveri]. Turisti su un pullman in Vietnam: gli zaini strappati a lui e a Bianca per costringerli ad andare in un certo albergo. Rifiuto. 10. Giornata di neve. Ricordo della madre in cucina. Da piccolo sotto il tavolo dove i grandi non vanno mai. Un capriolo sulla stradina. Tanti mondi e in Messico un vecchio calzolaio, ipotesi sulla sua vita da povero. Ragazze che dicono io. Da Cesare il professore di arabo. La ragazza dell’Arci Bellezza. Bambini che giocano alla campana. [Traghetto ad Haiphong]. Viaggio sul fiume in Laos. Il ragazzo decide di voler fare il traduttore. Al convegno nazionale del movimento studentesco a Ca Foscari. Nell’università occupata lui è col pigiamone azzurro. Il pittore astrattista Milo. Che cosa c’è da fare al mondo? Piantare giardini (148). Roberta, segretaria in una ditta di export-import. Lucrezia l’ecologista contro lo spreco dell’acqua. Il volantino dopo che «Allende è morto» scritto per i contadini e gli operai del PCI di Calice. Roberta ha trovato la “soddisfazione” nel lavoro (152). Piera la moglie del pittore Milo si uccide (152). 11. Brindisi la città di sua madre ai tempi della guerra. Cenni alla storia di sua madre ragazza e delle sue sorelle. La nonna che fa le orecchiette. La passeggiata nel corso di Brindisi: maschi da una parte e femmine dall’altra. Imitazione del cugino. Timidezza. I ragazzi insinuano che sia “ricchione”. Ruggero un suo amico che frequenta la biblioteca e scrive di filosofia. Specchiolla, paesino di BrIndisi [Spiaggia del Vietnam] [La casa degli zii a Specchiolla]. Ascolto della musica senza pensieri. Lui, Bianca e il bambino Leandro. A Brindisi in giro nella periferia dove abitano braccianti e muratori. 12. Studenti inquieti nella scuola. “Milano Studenti”, giornale dei GS. L’amico di San Vito dei Normanni che frequenta l’università Cattolica ed entra in urto col padre. La società è indietro rispetto all’uomo (168). La rivoluzione. [Thailandia: una donna anziana e una giovane cariche di cataste di legna sulle spalle e i turisti]. A distribuire volantini davanti ad un ITIS di Milano. Partecipa ad assemblea in piazza Leonardo. L’operaio di Lotta Continua della Pirelli Bicocca. Vorrebbe fermarsi nella chiesa di un prete giesse, ma poi prosegue e va alla manifestazione. Corteo: braccia e piedi. Liceo Parini di Milano e attacco dei poliziotti. Manifestazione bella seguita in bici. Un poliziotto dall’aria spaventata vicino alla Statale. Uno armato di pistola. Lui si butta dietro un’auto. I discorsi che si fanno: reificazione, immaginazione al potere, vogliamo tutto. Il dovere di volantinare alla Brion Vega. Non ha voglia di entrare a fare le ripetizioni ai figli degli operai (174). Cosa vuol fare? Una rivista. Miriam la compagna di Lotta Continua che gli piace. Fine delle lezioni ai figli degli operai. Vacanze. 13. Zia Rosaria che l’accompagna a scuola in prima elementare. [Prima lezione d’italiano agli immigrati a Baggio]. Su una ringhiera davanti alla scuola elementare da ragazzo. Il carretto del venditore di castagne. Le strisce pedonali: era obbligatorio passarci. L’edificio massiccio della scuola elementare. Cosa ci sarà dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto? Descrizione di una folla: volti ossuti, etc. (181) [Hanoi]. Una festa ed esitazione a baciare una ragazza. Cosa c’è in alto e da lì cosa si vede: il bambino irakeno che picchia la scarpa sulla testa della statua di Saddam abbattuta e trascinata per strada. Parla il bambino. I mitra degli americani e il gioco da ragazzi di mitragliare [Huè, Vietnam: il figlio di un vietnamita che ha combattuto gli americani]. Ancora il bimbo irakeno che racconta. Un amico d’infanzia figlio di un amico del padre. Timido lui e sfacciato l’altro. A confronto. Con l’amico sul terrazzo gioca a fare il processo di Perry Mason. Il padre mai andato in villeggiatura. Perché lascia la moglie e i figli in vacanze? La carovana per la pace a Sarajevo. Il pullman coi partecipanti e gli olandesi che scambiano un funerale per una festa di matrimonio. Volevo vedere la guerra. Guido Puletti ucciso mentre consegnava aiuti ai profughi. 14. Reggio Emilia scuola media. La lavagna verde. Spia con il binocolo e viene rimproverato. “Non voglio diventare grande” dice Leandro. La foto della madre di lui in bici. In bici con gli amici e il vecchio che sbraita perché un figlio o nipote è stato investito da una bicicletta ed è morto. I vecchi di Reggio Emilia col garofano rosso. Con le maestre a teatro a vedere «Canto di Natale» di Dickens. Maria Rosa malata di cancro dove i suoi vanno a mangiare a Natale. Greta che sciava ha un cancro ed è andata da lui e Bianca in vacanza al mare. Vito, il siciliano venuto dalle Madonie e che da ragazzo è stato morso da un’asina, cura capre e galline. [Il silenzio della montagna]. Una folla che si è riunita e gente incerta se andare e non andare “là oltre i campi, oltre la collina” (203). Una signora che spinge un passeggino e ancora un bimbo che dorme e succhia il ciuccio.
[2] Abati in una recensione su “il manifesto”: ««L’opera si dispiega su tre piani, distinti anche graficamente. Il corpo centrale è costituito dalla narrazione in terza persona di frammenti di un «lui»; accanto ad esso frequenti fuori-campo in corsivo, in prima persona, che la nota d’autore dice «tratti per la maggior parte da miei diari e scritti, in molti casi pubblicati in Qui»; sopra di essi insistono brevissimi inserti di una riga, talvolta allineati a destra, sovente ripetuti a distanza, in funzione esplicitamente metanarrativa.» (qui)
[3] Pag. 47: «Che cos’è il passato? Non lo so.»
[4] Pag. 92.
[5] Pag. 183.
[6] Pag. 188 ripreso a pag. 194.
[7] Pag. 174.
[8] Pag. 174.
[9] Pag. 175.
[10] Pag. 175.
[11] Anche se trovo sintomatico che l’unico cenno a Fortini, che di quei “destini generali” sessantotteschi resta un simbolo, anche a Parizzi ben noto, in «Io» compaia solo per un episodio davvero minimo: «Ma lui, anche se lavora al computer tutto il giorno, il cellulare ce l’ha, e anche la smart tv eccetera, si annoia. Di più, si irrita. E, dopo averlo ascoltato un po’, finisce col rispondergli con la domanda che un poeta, un intellettuale che una volta andava ogni tanto a trovare, aveva scritto a matita sul margine di una rivista degli anni Sessanta che gli aveva prestato, accanto a un articolo che parlava entusiasta di autostrade e utilitarie: “In che senso un albero sarebbe più vecchio di una macchina?” (pag. 46).
[12] Pag. 103.
[13] Pag. 192.
[14] Mi aveva colpito la riflessione del filosofo francese Simondon, che non conoscevo e mi è arrivata attraverso la mediazione dell’articolo di Paolo Virno apparso in «Derive Approdi» ( pag. 54, n.21, primavera 2002). Da lì ho preso questo stralcio. Chiarisce ciò che a me pare mancare in «Io» di Parizzi, ma anche a me che ancora tento di una rivista-noi malgrado “la polis che non c’e’”.
Questo saluto così e questo segno: siediti!
Ricordando Ruth Leiser
di Ennio Abate e Franca Gianoli Grandinetti
Questa intervista del 2003 era sul primo sito di Poliscritture, purtroppo non più accessibile, la ripropongo [E. A.]
Vado a trovare un’amica, Franca Gianoli Grandinetti, per parlare con lei di Ruth Leiser morta il 14 marzo 2003. Non posso dire di aver conosciuto Ruth. L’ho vista e ho scambiato con lei qualche parola poche volte: una prima, intorno al 1988, mentre ero a colloquio con Franco Fortini, suo marito, nella loro casa di Via Legnano 28 a Milano; altre in riunioni del Centro studi a lui intitolato e a Fiesole, dove arrivò con dei quadri di Fortini (era in preparazione la mostra dei suoi disegni e dipinti che si tenne poi a Siena nel novembre 2001). Franca invece so che l’ha frequentata per anni e le è stata vicina fino agli ultimi giorni a casa e più brevemente in ospedale.
L’occasione di questo nostro colloquio su Ruth è rituale: vogliamo dedicarle un ricordo su INOLTRE. Senza pretese, amichevole, possibilmente non banale e chiuso ai pettegolezzi; e magari cercando anche di evitare lo stereotipo della “moglie del grande scrittore”. Non ci sono troppi rischi in questa direzione. Penso, infatti, alla tenace riservatezza con cui Ruth ha curato, enza strafare, a memoria del marito, mettendo a disposizione del Centro Studi a Siena e della rivista L’ospite ingrato documenti, inediti, informazioni preziose; e, per contrasto, all’eclisse subita dall’immagine di Fortini dopo la sua morte.
Non parlare della «moglie di Franco Fortini». Ma ha senso? Per lungo tempo il mondodi lei ha coinciso con quello del marito: ideologicamente, politicamente e moralmente. Ed è stata innanzitutto sua moglie, anche se non soltanto “ moglie”, ma traduttrice, madre, terapeuta, compagna. È il lavoro di terapeuta che ha fatto nascere l’amicizia fra Franca e Ruth; e quando comincia a parlare di lei, Franca sottolinea subito proprio la sua discrezione di moglie “classica” e contemporaneamente autonoma[1]. Autonomia di moglie, non di single, dunque:
Ho conosciuto Ruth molto tempo dopo aver conosciuto Franco. Lui lo incontravo dal 1946 all’ Avanti!. Era appena tornato dalla Svizzera. C’erano riunioni con Nenni. Allora anch’io ero socialista. Ruth avrei potuto incontrarla già a quei tempi, in quest’ambito politico. Invece non capitò. Lei esercitava – seppi dopo – un lavoro che aveva a che fare con la ginnastica e il training autogeno. Fu solo intorno alla metà degli anni Settanta, quando persi mio padre, che entrai in contatto con lei. Ero molto giù e una comune amica mi disse: «Perché non vai da Ruth Leiser, ti troverai bene». Ho telefonato. Mi ha risposto Franco. Ogni tanto ci sentivamo. Tempo prima era stato anche gentile con me, quando in un momento difficile io avevo perso il lavoro e cercavo un aiuto. Ma allora anche per lui era dura. Era appena venuto via dall’Olivetti. «Sarà l’occasione che ci vediamo» gli dissi al telefono «perché ho sentito che tua moglie fa queste cose meravigliose…».
Quindi vado per la prima volta da questa signora, che si presenta bellissima[2] (era bella ancora adesso che erano gli ultimi momenti) e molto gentile. Abbiamo fatto subito amicizia. Sai, sono quei rapporti che vanno subito bene. Mi ha detto: diamoci del tu e così via…
Le sedute di training erano individuali. Ci sono alcuni movimenti di carattere ginnico che ti conducono a un rilassamento. La persona che gestisce ti fa sdraiare, ti dice alcune cose, ti spinge ad immaginare. So che ci sono persone che si addormentano anche. A me non è mai successo. Poi, quando finiva la lezione (chiamiamola così…), Ruth m’invitava sempre a prendere il the in cucina. Era il the verde e ho imparato a prenderlo da lei. Prima conoscevo solo il volgarissimo the, che si comprava tutti in quegli anni. Ricordo anche che in casa c’era la figlia che studiava violino e dopo un paio di volte me l’ha presentata. Io ho purtroppo una voce alta. Ho fatto l’insegnante di lingue e, per farmi sentire bene dagli studenti, mi sono abituata a tenere alto il tono di voce. E la figlia ad un certo momento dice: «Ah, quella tua amica dalla voce squillante…». La parola «squillante» mi fece rimanere un po’così, la vedevo in negativo.
So in partenza che un’amicizia fra donne è un continente che non sveleranno mai. Quanto mi dirà Franca su Ruth e sulla loro amicizia sarà una piccola parte di un vissuto che suppongo più complesso e ricco di sfumature. Ci saranno aspetti più delicati e fuggevoli che non affioreranno neppure nel nostro colloquio. La memoria si bloccherà automaticamente. (Già la voce della Franca s’abbassa, quando spunta nelle sue parole la figuradi Livia, la figlia adottiva di Ruth e Franco). Non importa. Non si deve saper tutto delle persone a cui vogliamo bene o che semplicemente stimiamo. Immediatamente nella rievocazione di Franca emerge questo rapporto individuale di aiuto psicologico e corporeo. Franca era angosciata dalla morte recente di suo padre. Ruth l’accoglie, si fa carico della sua ansia, le fa posto nel suo mondo: la stanza dove svolgeva il suo lavoro di terapeuta, ma anche la cucina che è luogo per eccellenza femminile. L’affascina con la sua bellezza, con la semplicità e franchezza dei modi («diamoci del tu»). Le fa intravedere anche un altro stile di vita, abitudini di un altro paese, la Svizzera, una realtà ancora a parte rispetto all’Italia, meno massificata. Il the verde, sottolinea Franca, era allora poco diffuso, ma la stessa terapia del training autogeno era rara in Italia. Hanno poi conversato (per quanti anni!). In quest’amicizia tra donne si tessono parole. Di tanto in tanto s’inserisce Fortini stesso, il marito, il poeta, lo scrittore. Il tono cambia (dalla musica da camera alla sinfonia?):
E dopo un po’, se c’era a Milano, arrivava Franco. Allora la conversazione si faceva generale. Alcune volte era un vero piacere. Ad esempio, una volta lui tradusse il Lycidas di Milton. Lo tradusse magnificamente e volle che glielo leggessi in inglese, perché voleva risentire dal vivo i suoni, il ritmo dei versi. E quello è stato un momento per me quasi magico. Perché dopo averlo letto a scuola in inglese e riapprezzato all’università, sentire una traduzione fatta così bene mi ha dato davvero una grande gioia intellettuale… Questo succedeva quando Franco era a Milano, perché spesso per il suo incarico era a Siena, all’università.
Ma torniamo a Ruth. Dove aveva imparato il training?
In Svizzera e mi aveva anche detto da chi, una persona molto valida. Adesso non ricordo il nome. Allora, a Milano, non era ancora una terapia di moda. Erano poche persone a conoscerla. Era come per l’agopuntura. I primi tempi a esercitare la professione erano in quattro in tutta Milano, ed erano italiani. Poi c’è stata l’immigrazione anche di terapeuti cinesi. Con Ruth l’amicizia è diventata subito una cosa bellissima.
Col tempo l’amicizia dei primi tempi si è trasformata in confidenza. In certi momenti Ruth, la terapeuta, per il difficile rapporto con Livia, la figlia, ha a sua volta avuto bisogno dell’ascolto di Franca, che era stata fino a quel momento la sua paziente. Questo groppo durerà anni e si complicherà. Franca giustamente non vuole parlarne per non tradire la fiducia di Ruth e di Franco. Io pure penso sia giusto rimandare la questione a qualche serio biografo di Fortini e non concedere nulla al revisionismo storiografico imperante, che riduce gli approfondimenti a piccoli scandali paraletterari. Mi faccio perciò dire di cos’era fatta la loro amicizia. Era fatta di «piccole cose», di riti quotidiani o stagionali, di scambi di cortesie e di aiuti:
Lei veniva qui da noi, ci si trovava spesso e ci invitava a cena anche a casa sua. In vacanza no. Una volta sola io sono andata su, a quella villa che loro avevano sopra Bocca di Magra e per una ragione concretissima. Io ed Eugenio [marito di Franca] tornavamo dalle nostre vacanze in Calabria. La loro auto aveva avuto un piccolo incidente, era rimasta ferma sulla strada e lei doveva andarla a recuperare. Allora l’ho accompagnata. E poi abbiamo dormito lì e ci hanno portato a mangiare in certi posti dove si stava davvero bene. Siamo andati anche a vedere Monte Marcello.
A Milano invece la frequentazione è stata più intensa e ha riguardato sempre quelle che io chiamo «piccole cose». Ad esempio il cucinare. Sì, lei si era adeguata alla cucina italiana. Immaginati, con un toscano poi! Ho in mente come faceva la salsa. La faceva durante le vacanze, lì al paese e poi la portava qua, a Milano. Era un’abitudine tipicamente mediterranea e lei l’aveva adottata.
Poi, quando Franco andava a Siena, si portava dietro 4-5 di queste salse. Sai che stare in albergo a Siena era ed è carissimo. Lui andava in un posto un po’ fuori della città, un posto molto bello, dove dormiva pagando un prezzo decente. Però si doveva cucinare, almeno a sera. Magari a mezzogiorno se ne andava alla mensa universitaria.
In casa poi Ruth teneva moltissimo all’ordine. In questo era proprio svizzera. Anche ultimamente le cose dovevano essere a loro posto. Avevo ammirato queste sue bellissime pentole in cucina; e c’erano anche dei pentolini che negli ultimi tempi dovevo prendere per cucinarle alle sette di sera, quando cenava. E sono stata anche sgridata da lei, perché una volta non avevo messo le pentole nel posto giusto. E poi ci teneva ai fiori. Aveva una fioriera di ciclamini sul davanzale. L’aveva coperta con fogli di plastica e ogni volta dovevo controllare se c’era l’acqua. Ci teneva moltissimo. Non l’avresti detto. Mi ha stupito, anche se so che ogni persona, pure un uomo, può amare i fiori, goderseli e avere il piacere di curarli.
Ruth per me era una donna completa e attenta a certi riti minimi. Noi, ad esempio, quando andiamo in Calabria, troviamo un sacco di alloro. Però lei ci doveva portare l’alloro dalla Liguria. Non ce lo portavamo da giù, perché pensavamo che si potesse offendere. Ci teneva moltissimo a donarci il suo alloro della Liguria. E noi le davamo in cambio l’origano. Lei l’aspettava, perché diceva che era più profumato di quello che nasceva lì in Liguria. Sentire Ruth che raccontava di tutte le personalità che incontravano Franco era interessante. Ma, in generale, parlare con lei era un arricchimento continuo. Diceva sempre delle cose che servivano. Moltissime sono state le letture che ho fatto spinta dai suoi suggerimenti. Ad esempio il libro abbastanza recente di John Cooley, Una guerra empia, sulla guerra in Afghanistan. E t’accorgevi di quanto gli altri la stimavano, perché ad un bel momento si scopriva cos’era Ruth, chi era veramente…
L’ambiente di vita di Ruth e Franco non è stato molto comune. Circolavano attorno a loro personaggi diventati importanti per la politica e la cultura dell’Italia del secondo Novecento. Franca ne parla tradendo il fascino che questi racconti di Ruth le procuravano. Ma la singolarità di Ruth non pare appannata o deformata dall’ambiente borghese e intellettuale in cui si muovevano i Fortini. «Ad un bel momento si scopriva cos’era la Ruth.. chi era veramente», dice Franca. Chi era Ruth veramente? Cosa la distingueva dal marito, dall’ambiente delle amicizie o delle conoscenze che la fama di lui le faceva roteare attorno? Franca si muove per approssimazioni:
Non so. Su il manifesto hanno ricordato Ruth con due articoli. Mi pare che quello del palestinese Ali Rashid, che l’ha definita «nemica implacabile della disonestà intellettuale», l’ha capita a fondo. La famiglia da cui veniva era severa e so che era stata educata molto rigidamente e sapeva controllare le emozioni. A proposito dell’educazione, mi viene in mente un piccolo episodio recente. Quando negli ultimi tempi, noi amiche si andava a casa a darle una mano, io le dicevo: «Ruth, perché non mangi mai il pesce? Ti farebbe bene. Non è possibile che tu mangi solo verdura o quella bistecchina, quella roba lì…». E lei: «No, in casa mia non si mangiava il pesce, perché a mio padre non piaceva». Ma dico: «Come, a Bienne (lei era nativa di Bienne), una città bellissima che ha anche un lago vicino così pulito!». «No» mi ripeté «siccome a mio padre non piaceva, il pesce non entrava in casa e io non mi sono mai abituata a mangiarne».
Era una donna che «sapeva controllare le emozioni». Ecco il primo elemento di un possibile ritratto di Ruth, penso. È un dato che sembra avvicinarla alla personalità marito. Ma quello di un uomo è lo stesso tipo di controllo che sa esercitare una donna? Quello di lei lo immagino più pacato. Fortini ha invece spesso dichiarato quanta fatica gli costasse controllarsi, e come fosse per lui un obbiettivo che gli sfuggiva, quasi un ideale. Un bel contrasto fra mondo protestante e mondo latino-cattolico? Mi piace pensare a Ruth come una donna dell’Europa del nord, educata in famiglia ad uno stile di vita severo, patriarcale, d’altri tempi. Ma forse si tratta di fantasmi derivati da letture storiche. Ruth era una donna moderna e intraprendente, aveva potuto studiare e studiare lingue:
Gli studi lei li aveva fatti al liceo di Zurigo. Non so se poi avesse completato un corso universitario vero e proprio. All’inizio la sua attività professionale era quella di traduttrice. Conosceva benissimo anche il russo. Conosceva cinque lingue, chiaro: tedesco, italiano e francese, perché si era formata in Svizzera. E poi: inglese e russo. In Svizzera non faceva la traduttrice. È venuta via abbastanza presto. Era del 1923. S’è sposata giovanissima e nel 45’-‘46 era già in Italia. In uno dei suoi scritti Franco ha sottolineato che Ruth aveva voluto seguirlo anche nell’Italia distrutta dalla guerra. Aveva cominciato a lavorare come traduttrice in Italia con delle persone che avevano una specie di agenzia. E negli ultimi tempi ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere questa simpaticissima signora, il cui marito fa questi lavori. Ruth mi disse: «Io ho lavorato molto con Mariesa ai tempi…».
Era una donna laboriosa e discreta, che alimentava la ricerca del marito ma non competeva con lui sul campo letterario che egli s’era scelto né viveva dei riflessi della sua notorietà:
Il lavoro di traduttore di Franco deve moltissimo a Ruth. Penso che parecchia roba sia stata fatta proprio da lei. Poi Franco rivedeva, rimaneggiava, rendeva poetica la parola. Ma il grosso del lavoro, quello che si dice «di base», lo faceva Ruth. Forse l’italiano all’inizio era la lingua che meno conosceva, ma la sua esperienza delle altre è stata preziosa per Franco. Poi lei ha imparato anche l’italiano alla perfezione. In uno di questi ultimi giorni mi fece leggere una sua lettera. Le dico: «Ruth, ti sei impossessata così bene dell’italiano e ci vedo l’impronta di Franco». E lei ha ammesso: «Sì, hai ragione…». Una come lei sapeva assorbire. Sono tutte piccole cose, queste. Ma ti dicono com’era Ruth.
Era pronta a ricevere e a dare con naturalezza. E senza essere “appendice”, né “specchio”: non viveva di riflesso della fama del marito. Certo è stata sempre accanto a lui e nella sua ombra, perché non voleva mettersi in mostra. In una certa circostanza che preferisco non precisare mi disse: «Io non voglio fare come quella lì, che quando è diventata vedova, si è ostentata da tutte le parti». Lei è sempre stata di una discrezione persino troppo castigata. Non so, adesso che è morta, come si dice, nisi bonum.. Però lei era proprio così: te lo può confermare chiunque l’abbia conosciuta. Franco veniva invitato spesso anche all’estero. Ricordo un loro viaggio in Canada, dove Franco andò a tenere una serie di conferenze. Ruth l’ha seguito, ma perché amava viaggiare. Aveva fatto tantissimi viaggi anche da sola. Per esempio in Cina: erano andati prima insieme, lei e Franco, ma poi lei ci ritornò da sola, perché voleva vedere certe cose che le interessavano. Quindi, quando lo seguiva all’estero, contava la componente della sua innata curiosità per il mondo e per gli altri e non il fatto di presentarsi come la moglie di…
Era una donna innamorata e legata al marito:
Una volta mi disse: «Mi sarei fatta ammazzare per lui…». Per dire che tipo di sentimento forte aveva questa donna controllata, ecc. E sono stati per tutta la vita molto legati. Ricordo un episodio di poco prima che Franco morisse, quando era ricoverato in ospedale a Casorate. Lei, Ruth, si era rotta un piede andando a trovarlo al Fatenebenefratelli, qui a Milano, dov’era stato all’inizio della malattia. Quindi non poteva camminare. Io ed Eugenio abbiamo voluto fargli una sorpresa e abbiamo portato in auto Ruth con il piede ingessato a Casorate. Quando siamo arrivati, Franco dice: «Mi avete fatto il più grande regalo che mi si poteva fare: mi avete portato Ruth». C’era questo grande affetto fra loro. Del lavoro di Franco mi parlava solo occasionalmente. Dalle sue parole veniva fuori soprattutto la stima che aveva per lui, politicamente parlando. Come lui non ce n’erano tanti. Era consapevole della sua onestà intellettuale, della sua dirittura politica, del suo rischiare. Perché effettivamente Franco non aveva un carattere facile, lo sappiamo, e “bisticciava” sempre intellettualmente con parecchie persone.
Era una donna coraggiosa che non temeva di affrontare il dolore e la morte:
Era severa con se stessa prima che con gli altri. Io la trovavo eccezionale: riusciva a mantenere delle coerenze che con gli anni non sono facili da portare avanti. Per questo, man mano che la conoscevo di più, dicevo: «Ma Ruth sei straordinaria…Ma come hai fatto…». Per esempio, ha voluto operarsi di cataratta a ottobre. Così è venuta a casa nostra. Noi abbiamo un oculista nel palazzo. Si è fatta visitare e lui però le ha detto che c’erano poche speranze. Aveva la cornea rovinata, non so se per processi naturali o dalla chemio che aveva fatto e ancora faceva. Comunque, lei ha voluto lo stesso fare l’operazione. Certo, si sa che oggi giorno quest’operazione non è una cosa difficile. Ma io mi chiedevo come facesse ad avere quella decisione, visto tutto quello che aveva addosso. Perché, oltre alla faccenda tumorale, c’era la storia di quella maledetta cervicale. Aveva in tutte le cose un grande rigore, un rigore morale. E non perché fosse credente, no: era solo nata protestante, quella era la religione in cui l’avevano educata. Tuttavia, ultimamente mi disse una volta: «Sai che io non piango mai. Questa volta ho pianto…». È stato quando forse ha capito che non c’era più niente da fare. Parliamo ancora di gennaio.
Ed era attenta agli altri, quasi una forma elementare di comunismo:
I rapporti coi suoi fratelli li ha sempre conservati. Ma aveva soprattutto un grande legame con una sorella e con una nipote. Quest’ultima purtroppo morì giovanissima. Mancò per asma. Era andata a vivere col marito sul Juras, in una zona agricola sovvenzionata dal governo svizzero. Vivevano lontani dai centri abitati. Lei ha avuto una crisi notturna d’asma e non hanno fatto in tempo a portarla in ospedale.
Degli amici e nemici di Franco? Ti dirò che Ruth non era una persona pettegola. Era soprattutto molto rispettosa: prima di lanciarsi in un giudizio su qualcuno ci pensava. In politica tutti sanno quello che lei ha fatto per Emergency: l’asilo per i palestinesi, ad esempio. L’ultimo giorno che si è sentita male ed è stata portata all’ospedale, ero a casa sua in Via Legnano e c’era questa signora venuta da Genova, che credo fosse una delle donne in nero. Io ero preoccupata, perché me la teneva a parlare tanto tempo. Non volevo che parlasse troppo, che si affaticasse. Invece Ruth non ha voluto smettere e poi mi disse: «No, era una cosa molto importante…».
Anche quando ormai era già malata, ha fatto un lavoro enorme per salvare tutti i materiali di Franco. Ha imparato persino a usare il computer per recuperare ogni cosa. Il primissimo materiale era stato dato a Maria Corti, a Pavia. Poi tutto il resto fu dato a Siena [al Centro studi Franco Fortini]. Ricordo un pomeriggio che ero lì con lei, in una delle ultime giornate. Ho ricevuto questa telefonata da Siena. Lei aveva detto: «Mi raccomando, perché è la nostra vita. Mi raccomando molto, perché io posso peggiorare da un momento all’altro. Venite presto». Lei ha messo a posto tutto: per il Centro studi, per la figlia, per la nipote, per Emergency, per l’asilo dei palestinesi. Ha sistemato ogni cosa.
Non credo di poterti dire altro. Per me è stata una cosa bella, un’amicizia sentita. E un’amicizia che non escludeva la politica: parlavamo sempre di politica. «Io sono comunista» diceva. Fa un po’ impressione sentirlo dire oggi e da una svizzera. Mi pare che da queste cose emerga una donnina proprio straordinaria.
Niente le è stato risparmiato. Avevo cominciato a dirti degli occhi. I medici la ricoverano per una notte dopo l’operazione. Per prudenza, perché si teme l’infezione. E lei ha preso l’infezione. Era indebolita nelle difese organiche dalla chemio. Negli ultimi tempi, quando sapeva del tumore (a parte che lei voleva morire già da questa estate), le abbiamo telefonato sia a Trieste, dov’era stata in un primo tempo, che in provincia di Belluno da un’amica. Già allora faceva discorsi di morte. Poi a settembre: «Io sto male, non ce la faccio più, desidero solo morire».
Negli ultimi anni, dopo la morte di Franco, aveva ottenuto l’aiuto di una signora marocchina. E poi c’era la moglie del portinaio di Via Legnano, che andava a stirarle i panni o a lavarle i vetri. Mi aveva fatto promettere (non solo a me, a tutte): «Non fatemi andare in ospedale», ma è stato impossibile. Non voleva. Diceva: «Vedi, questa casa è piena di sole. Io qui cammino…». Io invece me la ricordavo buia la casa, ma poi mi sono ricreduta: è davvero piena di luce.
L’ultimo giorno che la vidi era sotto morfina, però capiva. Aveva su la maschera e mi ha fatto così, un cenno con la mano e con gli occhi. Mi ha invitato a sedermi. Le ultime parole che ha detto: «Acqua di mele». Voleva l’acqua di mele da bere; e invece gliel’hanno proibita. Non so perché, non doveva bere. Dopo il disturbo (occlusione intestinale e anche renale) forse non doveva bere. E allora ci dicono che dovevamo bagnarle le labbra. Sono stata lì un po’ a farle questo. Poi è venuta altra gente. Me ne sono andata che dormiva. Ecco, questo saluto così e questo segno: siediti! Sempre gentile, pronta a pensare all’altra persona.
Possiamo chiudere. Franca ripensa alle immagini ancora nitide di Ruth moribonda. Io, salutandola, penso a questa piccola comunità di sole donne, quasi tutte anziane, che hanno saputo stare accanto a Ruth accompagnandola fino al punto estremo. Solo le donne sono capaci di essere così attente alla materialità dei corpi che si ammalano e si disfano?
aprile 2003
[1] Anche Edoarda Masi ha rivendicato «la sua formazione di donna libera e spregiudicata: lontanissima dal provincialismo di tante donne italiane di sfera colta e magari femminista, vera cittadina del mondo, capace di parlare e scrivere cinque lingue, ha saputo coltivare pura una propria sfera indipendente di rapporti e di conoscenze e ha inventato un proprio lavoro di terapeuta, oltre quello di traduttrice in collaborazione col marito» (il manifesto, 15 marzo 2003).
[2] «Una volta su insistenza della figlia Livia, parecchio tempo fa, Ruth mi fece vedere una foto di quando era giovane. Era di profilo, veramente bellissima. Sembrava un’attrice. Era molto giovane, avrà avuto un 24-25 anni, immagino. Capelli biondi, questo nasino…».
Riordinadiario 6-14 settembre 2021
di Ennio Abate
6 settembre 2021
Cercando Gilbert Simondon
Il monumentale lavoro di Simondon può essere letto come un tentativo di sovvertimento radicale del concetto di individuo, inteso come elemento di base del cosiddetto principio di individuazione. Questo principio è stato infatti principalmente declinato, lungo il corso della storia del pensiero occidentale, in due maniere, al contempo opposte e consonanti. Da un lato, infatti, esiste la tradizione sostanzialista (o atomista) – che, risalendo fino a Democrito e Leucippo, prosegue carsicamente il proprio corso fino alle soglie della fisica moderna, passando per la monade leibiniziana; dall’altro lato, invece, troviamo la tradizione che potremmo definire ilomorfica, di provenienza aristotelica, che si pone a fondamento di ogni filosofia dualista. In quest’ultima tradizione di pensiero, infatti, l’individuo rappresenta una sorta di complemento o, per meglio dire, una sorta di compromesso tra forma e materia.
Simondon ha tentato di aggirare entrambi questi approcci, provando a sovrapporre al concetto di forma il concetto d’informazione, non inteso meramente come messaggio differenziale in un sistema comunicativo, bensì letteralmente come in-formante, cioè come ciò che si forma, si produce e si rigenera deformandosi. Il concetto d’informazione ha permesso così al filosofo francese di penetrare nei meandri delle più diverse branche del sapere, muovendosi trasversalmente dal “mondo” fisico e biologico a quello psichico. Essendo alla ricerca del principio d’individuazione (che, come vedremo, è tutto fuorché un principio), Simondon ha cercato di indagarlo in tutta la sua complessità, affrontandolo simultaneamente da un punto di vista fisico, biologico e psichico.
A questo scopo Simondon ha elaborato una nozione d’individuo radicalmente in contrasto con quella delle due “scuole” atomista e ilomorfica, le quali – pur trovandosi apparentemente agli antipodi – non hanno mai cessato di declinare in maniere differenti l’idea che l’individuo (sia esso atomo o complesso materia-forma) sia il principio fondamentale – ovvero il termine radicale e ultimo, condizione e scopo finale – della relazione globale di cui esso partecipa. Mentre, per Simondon, l’individuo non è che una fase dell’individuazione, cioè momento di un processo di trasformazione che attraversa diversi stadi e differenti cariche di “potenziali”. Questi ultimi – concetti mutuati da alcuni tardi riferimenti del suo “maestro” Merleau-Ponty (a cui è dedicata l’opera) – vengono concepiti da Simondon come elementi preindividuali.
Per Simondon l’errore principale delle filosofie sostanzialiste e/o dualiste è stato infatti, da sempre, quello di considerare l’individuo come un principio, come un quid da cui si può partire per comprendere la realtà. Ma questa è per Simondon un’idea statica del mondo, che concepisce la realtà come un gigantesco paradosso di Zenone, in cui gli stati sono separati nel tempo e non comunicanti. Simondon si fa beffe del principio di equilibrio stabile e, appoggiandosi alle scoperte della fisica quantistica e della termodinamica, elabora una teoria in cui ogni stato che possieda ancora dell’energia residua – e che non sia quindi morto – si trova in un equilibrio detto metastabile, perché comunque carico di potenziali.
Una concezione così radicale e innovativa non poteva non includere anche una diversa concezione dell’essere, e sarà proprio in questo ambito che Simondon effettuerà un vero e proprio ribaltamento. Scrive:
L’essere non possiede un’unità d’identità, come nel caso dello stato stabile, nel quale non si possono verificare trasformazioni; al contrario, l’essere possiede un’unità trasduttiva: in altre parole, esso può sfasarsi in rapporto a se stesso e può straripare da una parte e dall’altra del centro. Ciò che si concepisce nei termini di relazione o dualità dei principi, consiste, in verità, nel dispiegamento dell’essere, che si configura, a sua volta, come più che unità e più che identità. Il divenire costituisce una dimensione dell’essere e non può essere concepito come ciò che gli accade sulla base di una successione cui sarebbe soggetto in quanto essere originariamente dato e sostanziale
L’operazione d’individuazione, dunque, “produce” l’essere individuale – non ne è la logica emanazione. L’individuo è una “fase” di quell’essere la cui dimensione è il divenire e il cui stato è in tensione metastabile, perché carico di potenziali. L’informazione è il mezzo attraverso cui le fasi si producono all’esterno e all’interno dell’individuo in base al suo essere fisico, biologico o psichico. Mentre la trasduzione è il processo attraverso cui l’essere si dispiega nelle sue dimensioni. Si tratta qui, per Simondon, di elaborare la possibilità teorica di un processo che sia allo stesso tempo al di là della logica e al di là della dialettica: un movimento analogico, né deduttivo, né induttivo.
(da Gilbert Simondon, il filosofo dell’avvenire? di Cristiano Carchidi 12 Dicembre 2016 http://www.chartasporca.it/gilbert-simondon-il-filosofo-dellavvenire/
13 settembre 2021
Memoria: Proust/Fortini
Oggi come oggi non c’è quasi quarta di copertina, articolo di webzine, pronunciamento intellettuale di piccolo o medio cabotaggio che non contenga la parola ‘memoria’. Segno che il fenomeno ha perso rilevanza.
Si può stare abbastanza sicuri che se qualcuno parla di memoria, nelle due o tre righe seguenti salterà fuori Proust. A un più attento esame, si scoprirà che il qualcuno o non ha mai letto Proust, o, se l’ha letto, se lo è dimenticato.
In Proust l’unica memoria che conta, la memoria involontaria, non ha quasi nulla a che fare con la memoria quale la si intende generalmente. A propriamente parlare, non è nemmeno un fatto di memoria ma di sensazione. È il ripresentarsi, in due momenti distinti del tempo (che chiameremo A e B), di una stessa sensazione (la sensazione deve essere abbastanza rara per non confondersi nella routine dell’abitudine, essere ad esempio una sensazione dell’olfatto o del tatto) che l’io percepisce come identica, cioè indistinguibile, nei due momenti; che è di fatto indistinguibile; per cui l’io percipiente non ha, a partire dalla sensazione, alcun appiglio per sapere in quale dei due momenti del tempo si trova, il che significa letteralmente che il tempo trascorso fra A e B è abolito, che l’io percipiente si trova fuori dallo scorrere del tempo, e che dunque tutto ciò che il tempo, nel suo scorrere, ha precipitato nell’oblio è di nuovo presente e fruibile. Seguono numerosi e importantissimi corollari. È chiaro che qui il senso di ‘memoria’ è un senso molto particolare. A rigore, non posso nemmeno dire che sono io che mi ricordo.
Il passaggio funambolico che i cultori della memoria non tentano neanche, ma danno per acquisito, è quello da “la memoria” a “Le Mie Memorie”, cioè da una facoltà che rimane per moltissimi versi oscura, alla parte interessante in cui porca miseria posso parlare di me e delle mie succosissime esperienze, ne posso fare un bel racconto, cioè precisamente quello che Proust aborriva e alla cui fattibilità in determinatissime circostanze tutte da esaminare è arrivato dopo un percorso lungo e travagliato.
Dopo aver assicurato, ai pilastri della memoria involontaria e a un paio di altre cosine su cui ora non ci soffermiamo, la struttura della sua cattedrale (gotica), Proust può applicarsi alle “parti di riempimento”, cioè ai muri non portanti fra un pilastro e l’altro. Quando la gente parla di Proust e di memoria, normalmente è di questo che parla: del “riempimento”, che è importantissimo, certo, e in un certo senso il midollo da succhiare della Recherche, ma che cos’è? L’idea è che il narratore racconti la sua vita (a quello gli serve, no, la scoperta della memoria involontaria) articolata grosso modo in sette parti che corrispondono ai sette volumi della Recherche. Nel corso della vita il narratore ha inoltre incrociato un gran numero di “personaggi” che, com’è ovvio, ora popolano il romanzo. Ma è proprio così? Se il narratore raccontasse la sua vita il lettore avrebbe fondati motivi di lamentarsi: un racconto sconclusionato, pieno di buchi e in certi punti apparentemente contraddittorio, cronologia non lineare e anche all’interno dello stesso “nucleo” narrativo assai incerta: se in una pagina il narratore appare come un bambinetto di otto o nove anni, ecco che alla pagina seguente gliene daresti quindici. Biografia per nuclei tematici allora? Se si vuole; ma anche lì il narratore è tutto fuorché sempre in primo piano, spesso e volentieri cede la ribalta ad altri, è ridotto al ruolo di osservatore, di narratore della storia altrui, storia che eventualmente si è svolta prima della sua nascita, per cui non si può nemmeno parlare di memoria. Certo, la famosa madeleine è il “clic” che mette in moto tutto ciò che si trova fra il momento in cui il dolcetto tocca il palato del narratore, nel primo volume, e la fine del romanzo. Ma è la storia di una vita? O non è piuttosto, fra un pilastro e l’altro, l’analisi ironica, profonda, geniale e puntuale, secondo il modello dei classici francesi del XVII secolo (les moralistes, che non sarebbe da tradurre ‘i moralisti’, ma ‘gli psicologi’), della psicologia umana nei vari personaggi e nel narratore stesso? Non è il tema il funzionamento della coscienza e dunque anche della memoria? Un romanzo che tematizza se stesso; così in ogni caso lo intende il narratore. E l’articolazione che collega la teoria della memoria (pilastro) ai portati dell’analisi psicologica (riempimento) è ben salda, e comporta lo sbriciolamento di quello che generalmente si intende per “io”. Cioè il contrario dell’intenzione dei memorialisti, che è ricostituire, arrivare a una verità identitaria.
Proust però, alla fine, è uno scrittore per letterati e decadenti. La salvezza che propone è esoterica: per pochi eletti. Non è democratica. Anzi no, è troppo democratica. In un articolo del 1982 (vedi nota in basso), come dice egli stesso enunciando in modo assertivo senza dimostrare, Fortini compie in non più di otto righe il rimarcabile tour de force di passare da quella che egli chiama la “formulazione elitaria” di Proust alla sorprendente affermazione che “il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi di emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo» [si intende il ricordo consapevole e volontario].” Se lo dice lui. È il processo, dice, che altrove ha chiamato “surrealismo di massa” e che consiste appunto nell’ipertrofica e generale proliferazione dell’”universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno)“. Ora, Fortini può giocare coi termini come gli pare – e a me sembra che almeno della memoria involontaria si sia fatto un’idea tutta sua -, ma memoria involontaria e surrealtà, se pure hanno dei legami, da precisare, col piacere, certamente nell’intenzione dei loro scopritori non sono “sogno”, anzi esattamente il contrario: sono l’unica realtà veramente vera, e se non marciano al suono del piffero marxista, non mi pare però corretto stravolgerle per arruolarle a forza. Ma per Fortini il punto non è né Proust né tantomeno i surrealisti. Quello che gli interessa è rivalutare il “ricordo”: la memoria discorsiva e facilmente trasmissibile di un passato collettivo, senza tante fisime di opere d’arte o stati psichici strani, e non importa se, non essendo ancorato nella verità della memoria involontaria o della surrealtà, il discorso collettivo è sempre tendenzialmente retorico, quindi falso, manipolabile, manipolato, necessariamente parziale, alla fine inutilizzabile. Questo non conta. L’importante è che abbia una “sua definitività narrativa“, che “già in sé [contenga] giudizio e scelta” – che sia cioè arbitrario, rispecchi una cocciutaggine, e che la sua definitività sia sufficientemente definitiva per passarlo di mano in mano nei secoli.
(da SULLA MEMORIA di Elena Grammann, https://dallamiatazzadite.com/2021/09/08/sulla-memoria/)
13 settembre 2021
Ma noi discutiamo di…
Non so se nel frastuono che tutto copre delle polemiche su Green Pass e vaccini ci sia un’astuzia del potere, o se, semplicemente è l’effetto di una banale dinamica autorafforzante del mercato delle ‘notizie’ (il tema ‘vende’), unito alla lotta partitica feroce in corso sottotraccia, entro l’artificiale perimetro governativo (per cui si provoca la Lega, per danneggiarne il leader rispetto ai competitori esterni -Meloni- ed interni -Giorgietti-, e, d’altra parte se ne subiscono i veti, da cui la politica vorrei-ma-non-posso del GP), ma l’effetto oggettivo è quello di una nuvola nerastra e polverosa di polemiche vacue e urlate che nascondono completamente le tantissime cose serie, importanti, persino epocali che stanno accadendo (entro e soprattutto fuori del paese).
La dinamica dei prezzi e della sconnessione delle supply chain mondiali mostra l’avvio di un passaggio tra il modo di produzione neoliberista mondializzato e qualcosa di diverso (quanto, come e quando, nonché dove lo potremo misurare in qualche anno); la ritirata anglosassone prelude ad una avanzata del ‘mondo multipolare’ (che ha molto a che fare con il punto precedente); il lavoro potrebbe cambiare, tornando ad una qualche forma di potere e, al contempo trascinando modifiche della forma territoriale; la risposta politica a queste tensioni di trasformazione potrebbe prendere la forma di un attivismo statalista di nuovo conio. Nessuna di queste cose è già formata, sono tutti piani di conflitto intrecciati e possono andare in direzioni diverse.
Ma noi discutiamo di ciò che ci viene messo davanti agli occhi. Se uno insiste a sottoporre un tema ciò che bisognerebbe chiedersi non è se è giusto o sbagliato, ma quale altro nasconde. Ovvero, di cosa non si deve parlare.
( da Alessandro Visalli https://www.facebook.com/alessandro.visalli.9/posts/10219403875584090)
14 settembre 2021
Fernando Savater su malattia mentale
Savater sollecita l’attenzione di chi intende venire a capo della sofferenza comunicativa sopra il contesto in cui chi soffre è preso e si muove. Non tuttavia allo scopo di addebitare al contesto la responsabilità della sofferenza, perché alla determinazione del contesto di vita di chi soffre partecipa il soggetto stesso, qualora commetta l’errore di regolare le forme comunicative a modalità che egli trasferisce da alcune infelici forme comunicative in cui si era ritrovato in precedenza. I difetti di comunicazione – scrive Savater – possono essere messi in conto sia al «contesto in cui il soggetto si muove, sia ai […] principi applicati dal soggetto stesso»; dipendono, cioè, tanto «dall’incomprensione ostile dei destinatari del messaggio»,quanto«dalla perdita di autonomia che la sua accettazione positiva comporterebbe per il soggetto».[6]
A volte sono le forme comunicative presenti che non danno modo alcuno agli interlocutori di riconoscersi in una veste umana. A volte, non è tanto la relazione presente ad imbalsamare la comunicazione, ad afferrare in una morsa alienante il soggetto: in qualche caso è la parte che giuocano gli altri attori della comunicazione, quando il volto dell’incomprensione è necessario all’interlocutore per mantenere ruoli di potere e di prestigio; altre volte è lo stesso soggetto a porre la relazione comunicativa in una impasse: o perché giuoca il ruolo di partecipante passivo, secondo esperienze comunicative precedenti, o perché se ne sta chiuso in un mondo proprio, in cui rintanarsi, diffidente, se non chiaramente ostile, verso ogni interlocutore; oppure perché assume atteggiamenti camaleontici, disposizioni adattive ed imitative che evitano qualunque tensione tra gli interlocutori, assumendo condotte che, annullando il giuoco delle parti, vanificano la comunicazione.
In sintesi, Savater sostiene che il disagio e la sofferenza psichica possono esser accostati analogicamente alla malattia, perché accadono quando “cadono malate” le forme comunicative alle quali determinati individui affidano la funzione di riflessione della propria identità e di messa a punto della propria soggettività. Cioè, la comunicazione può essere definita, oltre che difettosa, come quasi sempre è, anche “malata” quando il difetto riguarda la possibilità concessa ai suoi interlocutori di rimanervi presenti nel ruolo di soggetti, i quali patiscono l’eventuale dislocazione dal piano delle affermazioni e dei riconoscimenti della propria soggettività.
(da Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni (prima parte) – di Piernicola Marasco https://www.altraparolarivista.it/2021/09/12/riflessioni-di-savater-sopra-la-nozione-di-malattia-mentale-e-le-relative-sue-concezioni-di-piernicola-marasco/ )
- L’immagine di copertina è ripresa dalla rivista “altraparola”
Pace e guerra dopo l’11 settembre 2001
RIORDINADIARIO 2001. Appunti per un editoriale di inoltre 4 (nov. 2001)
Questi convulsi, eccessivi e provvisori appunti, estratti dagli articoli che lessi nel settembre di quell’anno su “il manifesto”, li scrissi per orientarmi di fronte ad un evento che ammutoliva. E in vista di una discussione che speravo si potesse svolgere nella redazione della rivista “Inoltre” (qui), di cui allora ero “coordinatore per il Nord. Non se ne fece nulla a causa di dissapori e tensioni interne tra i redattori. Li usai poi in parte per una conferenza in un Centro cultural di Santa Fiora (Grosseto) invitato nel novembre 2001 dall’amico Velio Abati. Pur datati, contengono spunti per riflettere a ventanni di distanza e sfuggire alla retorica dell’anniversario che oggi viene imposta al mondo intero. [E. A.]
la bomba cade l'afghano muore il mercante d'armi brinda il papa prega il terrorista si prepara il pacifista manifesta il poeta scrive versi ispirati alla bomba che cade all'afghano che muore al mercante d'armi che brinda al papa che prega al terrorista che si prepara al pacifista che manifesta contro la bomba che cade sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc. che muore che non brinda che non manifesta che non scrive versi che lontano, lontano riceve solo la bomba della nostra intelligenza Ennio Abate 15 ottobre 2001
Premessa. Sorpresa, sconcerto, afasia, preoccupazione
(Prima la guerra del Golfo, poi quella in Kosovo, ora Afghanistan e poi? Siamo alla terza guerra mondiale?). Senso di impotenza…come se il mondo fosse precipitato in un mostruoso videogame, in uno stadio infantile, presimbolico, pre-linguistico. Che è lo stato paranoide per definizione. Perciò dobbiamo parlare a tutti i costi. Per non restare affascinati e paralizzati dall’icona totale, dell’immagine spettacolare delle Torri incendiate e della Guerra globale. (Carlo Galli, manifesto 27 sett. 2001)
Anche “parlare a tutti i costi”, per ripetere «pace, pace» a chi continua a bombardare, a tenerci all’oscuro dalle vere ragioni del conflitto (Cos’è, prego, la “lotta al terrorismo”? perché non si è fatta prima e in paesi dove i morti sono stati anche di più di quelli a New York? Perché fate improvvisamente la guerra a quelli che fino all’altro ieri erano vostri alleati: Saddam , bin Laden?), può essere solo sfogo impotente.
Dichiariamo la nostra debolezza. Non gonfiamo vanamente il petto. Non illudiamoci di poter trattenere i potenti che hanno deciso ancora di scontrarsi. Non agitiamoci a vuoto, soprattutto. Cerchiamo di capire, prima di parlare. Sottoponiamo ad un filtro critico quello che vediamo e leggiamo. Prepariamo bene il terreno per azioni politiche veramente efficaci chissà quando contro la guerra.
(Questo è quanto ho cercato di fare in questi giorni. Qui ve ne do un resoconto, per quel che mi è possibile ragionato.)
- L’EVENTO: EMOZIONE, PROPAGANDA, PRIMI RAGIONAMENTI: Apocalisse o la solita guerra o un nuovo tipo di guerra?
Un filosofo della politica – Carlo Galli, studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale , 27 sett – ci ha ricordatoche tutte le tensioni della modernità sono esplose e devono essere date per «finite» dopo l’11 settembre. E sono tante: fine della fabbrica e trionfo della rete virtuale; fine del rapporto centro periferia e nuove gerarchie tra locale e globale; fine della lotta di classe tradizionale e esplosione di conflitti etnici e culturali; fine del comando della politica sull’economia; fine dello stato-nazione ma anche del diritto internazionale (sia nella versione jus publicum europeum sia di quella bipolare della Guerra Fredda); fine del Nemico visibile e individuabile, statuale, e inutilità della coppia amico/nemico. E ha dichiarato: «solo la teologia ci può aiutare a vedere e a capire»; e ha invitato anche lui a «rileggere i capitoli 17 [Il castigo di Babilonia] e 18 [La caduta di Babilonia] dell’Apocalisse», perché ci manca – egli dice – un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui.
E a molti, infatti, è venuta in mente l’Apocalisse. Hanno parlato di scenario apocalittico (Dio si sarebbe servito di un mezzo violento per far giustizia, per punire la tracotanza degli Usa). Bush e Bin Laden vengono presentati come due eroi apocalittici della modernità che si rimandano a vicenda le maschere del Bene e del Male (5 ott Lea Melandri). Questa immagine biblica, ridotta a «retorica» copre i conflitti reali. E anche se, scuotendosi e ragionando si ammette che non è stata apocalisse» (Rossanda, 22 sett.), – del resto siamo ancora vivi, per il momento – si insiste: l’«apocalisse» c’entra, perché sarebbero rientrati in gioco i sentimenti elementari di amore e odio e si cita Freud: «quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro».
Altri – un’antropologa come Clara Gallini (25 sett.) – hanno insistito sullo smarrimento della ragione e fatto rilevare una sensazione di dejà vu: l’attacco alle Torri gemelle sembra avvenuto come «da copione». La cinematografia (proprio quella americana) da tempo ha addestrato l’occhio di milioni di spettatori a scene di attacco ai valori occidentali (la famiglia, la nazione). Riemersione dell’inconscio, dunque. L’arcano XVI dei tarocchi: una torre decapitata dal fulmine, il Re e l’Architetto che precipitano, il volto di dio che appare tra le nuvole (sostituibile nel caso con quello demonizzato di Bin Laden) non combacia forse perfettamente con quanto accaduto?
Di questa riemersione brutale dell’inconscio (politico occidentale) si possono trovare altri mille esempi sui giornali, alla radio alla Tv; in questi giorni e altri ne appariranno nei prossimi. È un problema che vale la pena di approfondire.
La psicanalisi e l’antropologia non contano barzellette e sono strumenti che fin dall’inizio del Novecento hanno dato l’allarme: attenti alla Ragione assoluta! Non credete all’Universalismo occidentale!
Ma la riemersione dell’inconscio è cosa diversa dall’immersione compiaciuta nell’inconscio. Quando poi il fenomeno viene ridotto a pura propaganda degli Usa e al vilipendio del mondo che subisce i danni della mondializzazione, dobbiamo stare in guardia. Basta leggere (se ci riuscite…) l’articolo repellente di Oriana Fallaci. (….)
Accanto a queste posizioni che accentuano gli aspetti di catastrofe del mondo contemporaneo, ce ne sono altre che tenacemente non rinunciano ai ragionamenti storico-politici, malgrado lo scombussolamento delle categorie storiche e politiche.
Appartengono sia a quanti provengono dal di fuori del mondo occidentale sia a chi ci è cresciuto dentro. Proseguono lo sforzo critico tipico della cultura nata dall’illuminismo.
È il caso di Umberto Eco […], di Sandro Portelli, di Rossana Rossanda. Con sfumature diverse sostengono quantomeno l’esigenza di distinguere, confrontare, tener conto dei fatti storici e della varietà delle culture, difendendo l’ibridismo, il relativismo culturale, messo brutalmente in discussione dall’attentato dell’11 settembre e dalle successive reazioni di guerra promosse dagli Usa.
In queste posizioni c’è uno sforzo di “razionalizzazione”, un saggio sforzo di spremere fino alle ultime gocce il limone della Ragione e non buttarlo via, dandolo per marcio. (A me queste posizioni sembrano necessarie, anche se non sufficienti…)
Vorrei citare ora le obiezioni coincidenti che fanno Nedim Gürsel, scrittore turco (20 sett) : nessuno ha avuto l’idea di dire «siamo tutti algerini» quando le vittime del Fis si contavano a migliaia. Perché dirci «siamo tutti americani » ora?
E Rossana Rossanda:
Perché non abbiamo parlato di apocalisse di fronte ai 150mila sgozzati in Algeria, ai 6-700mila uccisi dagli Hutu, dei 300mila ammazzati in Irak durante l’operazione Tempesta nel deserto, al mezzo milione di bambini che vi muoiono per l’embargo, ai 35mila morti in Turchia, ai 70mila in India in questo stesso 2001? E i fondamentalismi non li ritroviamo anche nell’ebraismo e nel cristianesimo?«Sharon non è gli ebrei, Pio XII non è i cattolici, Bush non è gli americani. (22 sett Rossanda)
Tutto lo sforzo della Rossanda tende al ridimensionamento razionale degli sfoghi «torbidi» su cui i governi occidentali vanno costruendo la loro risposta di guerra:
l’11 settembre non è stata una guerra, non è stata l’apocalisse, non è stato l’assalto dell’Islam alla cristianità [tesi di Huntington], non è stato un attacco alla democrazia (al mercato), non è stata una vendetta dei poveri («Non è dei poveri né per i poveri la dirigenza della Jihad»).
La vera domanda: perché ora? Fino a dieci anni fa la Jihad non era così forte e finora agiva solo all’interno dell’Islam (caso dell’Algeria) senza turbare gli occidentali. Si è pensato di allevare il terrorismo e di servirsene. (22 sett. Rossanda).
Dicendovi quali sono i commentatori che dicoo per me cose valide e quali quelli da respingere (emblema per tutti: la Fallaci), vi ho dichiarato esplicitamente che sono contro la guerra promossa dagli Usa e a cui l’Italia ha aderito. Ma cosa significa essere contro la guerra oggi?
Rispetto, ma non mi basta il rifiuto emotivo e immediato della guerra.
Ci vuole un rifiuto ragionato, che deve nascere dalla conoscenza della realtà d’oggi, dal recupero di certe precise memorie del passato, dalla riflessione sui problemi (economici, politici, culturali, morali) aperti e irrisolti e non dalla loro semplificazione unilaterale e di comodo.
Non bisogna affrettarsi a rifiutare la guerra a parole. Spesso ci ritroviamo a sostenerla, senza neppure accorgercene: per il semplice fatto di vivere qui, in Occidente. O per il semplice fatto di avere acquisito mentalità e stili di vita forgiati di fatto dall’americanizzazione dell’Italia cominciata almeno dal 1945. Altre volte ci siamo ritrovati ad opporci ma nei modi rituali e praticamente inefficaci del passato. (Ricordiamo che le manifestazioni contro la guerra in Kosovo accompagnarono la guerra, non la fermarono).
E allora consideriamo alcuni dei problemi posti da questo ritorno della guerra:
- sulla novità dell’evento dell’11 sett.
Chomsky (20 sett) ha sostenuto che rispetto all’evento caduta del muro di Berlino quello dell’11 sett contiene una novità assoluta. Per il suo obiettivo. È la prima volta dal 1812 (guerra angloamericana sul confine canadese) che il territorio nazionale degli Usa viene attaccato. Egli ha respinto il paragone con Pearl Harbour (7 dic. 1941): lì furono attaccate solo le basi militari statunitensi di stanza in due colonie. Per lui, siamo di fronte a qualcosa di «radicalmente nuovo».
Altri riconoscono che la novità in assoluto svelata dall’11 sett. è la vulnerabilità degli Usa (Parlato 16 sett), ma una cesura epocale la vedono nella caduta del muro di Berlino (1989), che con il crollo poi dell’Urss ha fatto precipitare l’equilibrio bipolare Usa- Urss e ha dato luogo all’attuale fase di disordine mondiale, di cui non si vede sbocco certo (Impero? Guerra mondiale? Guerra globale interminabile?).
Accentuare o meno la novità dell’evento non è senza conseguenze.
Affermare – come fa lo storico Chesneaux (23 sett.) e alla maniera di Benjamin – che l’11 settembre è un momento singolare, un vortice che ha messo a nudo non solo la vulnerabilità degli Usa ma di tutta la società sviluppata (il cuore della mondializzazione capitalistica), per cui tutte le grandi metropoli sono minacciate dal terrorismo di distruzione di massa, anch’esso nuovo e quindi non riconducibile a quello di inizio ‘900, che colpiva al massimo un arciduca o un presidente, può voler dire che la conoscenza della storia passata ci aiuta poco; e che dobbiamo, invece, far fronte ad una situazione in gran parte ignota.
L’eccezionalità dell’evento non significa però affermare automaticamente che il nuovo terrorismo transazionale sia davvero il pericolo principale. Può voler dire che la mondializzazione in corso non è padroneggiata neppure dagli Stati Uniti, che pur sono la potenza militare egemone; e che il terrorismo – come dicono molti – è in pianta stabile all’interno stesso del mondo globalizzato. E, se un evento eccezionale richiede una reazione eccezionale, non è detto che la giusta reazione eccezionale sia la guerra.
Una «vera guerra al terrorismo», come fatto eccezionale, visto che molti terrorismi non hanno avuto nessuna risposta (Algeria, etc) o non hanno avuto una risposta di guerra (contro Saddam si parlò di «operazione di polizia internazionale») dovrebbe assumere forme diverse da quelle tutto sommato “tradizionali” dell’intervento in Afghanistan.
David Held Mary Kaldor (28 sett) è convinto, ad esempio, che la guerra vecchio stile fra gli stati sia diventata anacronistica e che la vittoria militare sia molto difficile se non impossibile. Il rischio, dunque, è di reagire all’11 sett. come se fossimo di fronte a una «guerra vecchia», concentrando l’azione su alcuni stati (Afghanistan, Pakistan). Con il risultato di scatenare una «nuova guerra» tra Islam e Occidente, che non sarebbe però più tra stati ma si svolgerebbe all’interno di ogni comunità e sia in Occidente che in Medio Oriente.
Richard Falk (23 sett ), un teorico della democrazia internazionale sostiene che quella a cui si andrà incontro sarà «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media: «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», perché avviene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.
Troppe cose, dunque, rendono sospetto questo gridare «al lupo! al lupo!» dei governi occidentali, che hanno parlato immediatamente di guerra e p rima evocato e poi negato la loro volontà di andare ad uno «scontro di civiltà» (Huntington).
Vediamole.
- Cause.
Almeno dal 1989 si è parlato con entusiasmo di «fine del comunismo», di «fine della storia» (Fukuyama). Nel frattempo è andata avanti una mondializzazione finanziaria e tecnologica che ha rappresentato il feticcio a cui tutto sacrificare (stato sociale dei paesi avanzati, diritti umani in decine di paesi: dalla Cina alla Turchia, all’Algeria, alla Palestina, ecc.).
Adesso siamo al baklash (Chesneaux, 23 sett.), al rinculo, all’arresto del progresso (economico, tecnologico). Abbiamo voluto il «laissez faire» economico assoluto e ci svegliamo con la rete di Bin Laden che realizza l’impensabile (Chesneaux).
Chossudovsky, economista canadse, autore di «La mondializzazione della povertà» (19 e 20 sett) ha – come molto altri – fatto rilevare che Bin Laden e la Jihad islamica sono stati sostenuti da Usa e Arabia Saudita per combattere contro i sovietici, invasori dell’Afghanistan, allora (1979) in mano al regime comunista di Brabak Kamal. E l’hanno fatto non in modo aperto, ma usando l’Intelligence militare pakistana (Isi), che ha un apparato di 150mila uomini, attraverso la CIA. Ed ha anche denunciato che tutta la storia del traffico di droga nell’Asia centrale è collegata a queste operazioni coperte della Cia: nei primi due anni di guerra fra afghani e sovietici «la zona di confine Pakistan-Afghanistan divenne il principale produttore di eroina al mondo, fornendo il 60% della domanda Usa. Con la conseguenza che in Pakistan, la popolazione tossicodipendente passò da quasi zero nel 1979 a 1.200.000 persone nel 1985. La Cia controllava questo traffico di eroina. La Dea (Drug Enforcemente Agency) a Islamabad evitò di pretendere grosse confische di droga o arresti «perché la politica sui narcotici Usa in Afghanistan [era] subordinata alla guerra contro l’influenza sovietica».
Chossudovsky ha anche scritto: «Sostenuto dall’intelligence militare pakistana (Isi), che a sua volta è controllata dalla Cia, lo stato islamico talebano è stato largamente funzionale agli interessi geopolitici americani. Il traffico del Goden Crescent [la zona di produzione e smercio dell’oppio] è stato anch’esso usato per finanziare ed equipaggiare l’esercito musulmano bosniaco (a partire dai primi anni ’90) e l’esercito di liberazione del Kosovo (Kla). Esistono prove che negli ultimi mesi i mercenari mujahideen stanno combattendo nei ranghi dei terroristi Kla-Nla in Macedonia. Questo spiega perché Washington ha chiuso gli occhi sul regno del terrore imposto dai Taleban, inclusi i plateali attacchi ai diritti delle donne, la chiusura delle scuole per le bambine, i licenziamenti femminili dagli impieghi pubblici e l’imposizione delle leggi punitive della Sharia».
E ancora: «Dall’epoca della guerra fredda, Washington ha appoggiato consapevolmente Bin Laden, inserendolo nello stesso tempo nella lista dei «most wanted» dell’FBI come principale terrorista del mondo. (L’FBI, infatti, combatte una guerra interna contro il terrorismo per alcuni aspetti indipendentemente dalla Cia che, ha, dalla guerra in Afghanistan in poi sostenuto il terrorismo internazionale attraverso le sue operazioni segrete). Per una crudele ironia, mentre la jihad islamica viene criticata per gli attacchi terroristici sul World Trade Center e il Pentagono, queste stesse organizzazioni islamiche costituiscono uno strumento chiave delle operazioni americane militari e di intelligence nei Balcani e nelL’ex Urss (cfr. Cecenia)».
Mumia Abu-Jamal (25 sett ), poeta scrittore detenuto negli Usa, ha citato le dichiarazioni di un diplomatico americano: «Non si possono immettere miliardi di dollari in una jihad anticomunista, coinvolgere il mondo intero e poi ignorarne le conseguenze. Ma noi lo abbiamo fatto. I nostri obiettivi non erano la pace e lo sviluppo del’Afghanistan. Il nostro scopo era uccidere i comunisti e buttare fuori i russi» (un diplomatico Usa, sul Los Angeles Times 4.09.96)
Anche Johan Galtung (11 ott.), sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 del Peace Research Institute Oslo (PRIO), mette l’accento sulla situazione che ha dato esca alla scelta della vendetta. Il sentimento di vendetta (l’odio di cui sono fatti oggetto gli americani e non solo loro) è maturato «per l’uso statunitense del potere economico contro stati e popoli poveri, del potere militare contro gente indifesa e del potere politico verso i senza potere». E ricorda «i 230 interventi militari statunitensi all’estero, il quasi sterminio dei nativi americani, lo schiavismo, la responsabilità della Cia per i 6 milioni di persone uccise tra il ’47 e l”87 (secondo fonti dei dissidenti della Cia) e i 100.000 che muoiono ogni giorno all’estremo inferiore di un sistema economico identificato da molti con il potere economico, militare e politico degli Usa».
L’Occidente impone un’enorme ingiustizia al resto del mondo in politica e in economia. Secondo l‘ultimo Pnud ( Programma di sviluppo delle Nazioni Unite) il patrimonio di 15 uomini più ricchi del mondo è pari al pil dell’Africa subsahariana (700-800 milioni di persone) (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo).
Qualcuno potrebbe giudicare fastidioso questo “rimestare” nel passato della più grande potenza mondiale. Ma la storia, che i potenti danno per «finita» non fa che riportare continuamente alla luce i massacri su cui si edificano le civiltà.
Da dove viene, dunque, il “terrorismo”?
L’attacco alle Twin towers e al Pentagono – scrive Burgio (27 sett) – non nasce in un vuoto pneumatico, ma in un preciso contesto economico e politico. C’è stata e c’è sordità delle grandi potenze nei confronti delle richieste economiche dei paesi poveri e delle istanze politiche delle popolazioni oppresse. Pochi sanno che metà del bilancio militare Usa basterebbe a eliminare la fame nel mondo. E il tragico fallimento dei sistemi di intelligence non permette di escludere un’atroce ipotesi: quella di una «strategia intestina, di una complicità con i commandos terroristi da parte di apparati deviati interni agli Usa o ad altri paesi occidentali. [Ecelon, preparazione durata mesi del piano, sottovalutazione di informative, rapidità successiva nell’individuare presunti complici, conoscenza dei codici cifrati del luogo in cui si trovava il presidente].
Burgio – a differenza di molti altri che presentano la risposta di guerra di una potenza mondiale come risposta emotiva o giusta punizione per un massacro subito ingiustamente e senza alcun motivo (come fa Lucia Annunziata a Radio 3) – ricorda che la guerra come rilancio di un’economia in recessione [un keynesismo militare» secondo Raskin] è un volano per il sistema militare-industriale Usa. [Lo ha scritto anche l’economista Graziani sul manifesto del 19 sett].
Obiettando poi a quanti insistono sulla novità eccezionale dell’evento e vogliono iscrivere la risposta Usa all’interno di una logica imperiale[1] invece che imperialista – la prima più capace di egemonia e consenso, la seconda costruita sull’esclusivo uso della forza – sottolinea gli elementi di continuità col passato della risposta americana: l’operazione di Bush junior non è una nuova guerra ma la prosecuzione coerente della guerra del Golfo di Bush padre: «il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra in Kosovo – scrive Graziani – creerebbe una cintura completa, una nuova frontiera fra occidente e oriente», un nuovo bipolarismo, una sorta di «autodifesa preventiva» contro la Cina, che nel 2017 si prevede divenga potenza militare ed economica pari agli Usa.
Sulla sua stessa linea troviamo:
– Carla Ravaioli (25 sett), la quale fa presente che le guerre hanno risolto tutte le depressioni, tutte le crisi economiche del secolo scorso: a partire dai due conflitti mondiali, continuando con la Corea, il Vietnam, il Golfo e le mille guerriglie locali. Nel processo di accumulazione del capitalismo, fondato su una logica di crescita senza aggettivi, la produzione di armi s’inserisce bene anzi benissimo in certe circostanze.
– Dinucci e Di Francesco (27 sett.), che hanno sottolineato come il centro della strategia militare degli Usa si stia spostando verso l’Asia. L’attentato di N. Y. ha solo accelerato questa prospettiva, che era già pronta. [addestramento piloti a lunghi percorsi di 50 ore dalle basi del Missori all’Asia]. La Nato prosegue la sua espansione verso l’Est contro la «nuova minaccia dall’est»: ieri Milosevic, ora bin Laden]. E che la posizione strategica del’area Afghanistan-Pakistan: vicina alle due potenze emergenti dell’India e della Cina, prossima al territorio dove si prevede la «guerra degli oleodotti» [ orridoi che portano il petrolio ai paesi consumatori].
È troppo facile liquidare questi dati come ragionamenti “economicisti”. Dopotutto le scelte politiche che contano le fanno oggi proprio élites che guidano l’economia mondiale. E la guerra non è stata mai esclusa dai calcoli dei potenti.
Non dissimili le considerazioni dello storico Hobsbawm (28 sett):
– evitare la retorica e la propaganda americana;
– finora la conseguenze più importante degli attentati americani hanno riguardato l’economia mondiale, con l’affondamento delle piazze finanziarie;
– «viviamo in un mondo globalizzato.. la circolazione di persone da un oceano all’altro è il fondamento dell’esistenza del mondo d’oggi.. bisogna viverci sforzandosi di controllare gli aspetti insopportabili del fenomeno. Il terrorismo, le mafie, il mercato delle droghe sono «figli» della globalizzazione»;
– Il capitalismo trascina il mondo verso un’implosione o un’esplosione e pone enormi problemi tra cui la crescita del fanatismo e dell’irrazionalismo. Ma il rischio di una guerra mondiale «mi sembra impossibile salvo, forse un giorno, tra Stati Uniti e Cina»;
– c‘è una sola potenza egemonica e rispunta la questione dell’imperialismo o piuttosto del colonialismo: ci sono paesi occupati la cui politica interna è nelle mani di eserciti stranieri;
– gli Usa non sono in grado di dominare un mondo «complicato, in permanente trasformazione come il nostro». I governanti degli Usa sono troppo trionfalisti. Si sono creduti onnipotenti. I governanti inglesi nel XIX sec., quanto l’impero britannico esercitò la sua egemonia, erano più realisti: non pretendevano di controllare tutto. Dovrebbero ripensare ciò che possono fare, riconoscere i loro limiti;
– il primo problema è nelle strutture dell’economia e nella dialettica tra l’ economia e i governi; il secondo problema sta nella «sconfitta delle antiche ideologie di mobilitazione dei popoli fondate sulle grandi rivoluzioni (americana, francese, russa). Tutta la tradizione razionalista è coinvolta e «lascia uno spazio enorme ad altre forze»;
– preoccuparsi dell’India (salita vertiginosa dell’economia e delle capacità intellettuali), della Cina (il gigante economico di questo secolo), delle «regioni tragiche» (Africa subsahariana e ex Urss (qui la crisi dell’agricoltura supera quella dei tempi della collettivizzazione), delle «regioni incerte» come l’Europa (l’antico progetto europeo è in un vicolo cieco).
- Sugli effetti (politici, culturali, economici) prevedibili dell’evento
Senz’altro sono disastrosi sia per chi volesse “la pace e basta”, sia per chi vuole una pace qualificata da più giustizia sociale e l’incoraggiamento dei processi di liberazione.
L’evento rallenterà la protesta mondiale contro la globalizzazione: le atrocità terroristiche sono un regalo a chi è favorevole alla loro repressione (20 sett Chomsky)
Assisteremo a un grande rilancio delle vendite del libro di Huntington sullo scontro delle civiltà (16 sett Parlato) e quindi ad un inquinamento propagandistico che distrarrà le menti dalla realtà dei problemi. (Chi parla più dei fatti di Genova? E chi parla delle decine di migliaia di licenziamenti che stanno investendo tutti i settori economici dopo l’11 sett.?)
Nel disastro, alcuni sperano, ma sono quasi immediatamente contraddetti dai fatti:
Ciotti (22 sett) si aspettava «un soprassalto di lucidità nei governi e nella coscienza collettiva, nella società civile globale, per interrompere finalmente la spirale dell’odio e del terrorismo.. sottraendosi al copione già scritto della rappresaglia […].
La crisi dell’11 sett potrebbe portare ad un ridimensionamento dell’ultraliberismo e ad un intervento dello stato? (Molti fanno l’esempio del risparmio sul costo del lavoro: subappalto dei controlli dei varchi negli aeroporti che ha aperto le porte alle infiltrazioni terroristiche (16 sett Parlato))
Oppure auspicano che i pacifisti più convinti dovrebbe trovarsi proprio nella comunità degli affari. Non si fondano sulla certezza delle aspettative in economia? (16 sett Parlato)
Possiamo restare appesi a queste dichiarazioni di speranza sull’America, mentre il grosso del paese e tutta la sua dirigenza politica e culturale (tranne alcune mosche bianche: Sontag, ecc.) hanno imboccato la via del fondamentalismo proprio come dall’altra parte della galleria l’ha imboccata bin Laden?
Riporto le riflessioni di Saskia Sassen (18 settembre):
- i leaders statunitensi attuali non vogliono comprendere altri linguaggio che quello della guerra, si trincerano dietro il muro di prosperità e non esitano – quando intervengono all’esterno – a puntare innanzitutto sul controllo militare di un paese anche se esso non fa che aumentare la povertà della popolazione;
- il tono dominante nei mass media è quello di chi vuole la guerra, non di chi chiede peace, not war;
- ostilità contro il “nemico interno”: comunità musulmane e migranti in genere – razzismo rinfocolato – sicurezza: si discute per ridare agli agenti della Cia la possibilità di eliminare fisicamente leaders e esponenti politici stranieri “nemici degli Usa”.
Mi sento più vicino a chi non crede nella capacità autoriformatrice del capitalismo e del mondo occidentale.
«Ci sarà più Stato» è affermazione ambigua – dice Latouche – Non è che ci sarà più Stato sociale. L’aiuto va alle imprese in difficoltà non ai «20-30 milioni di persone che negli Usa vivono sotto la soglia di povertà». Ci sarà la rinuncia al dogmatismo ideologico ma «in nome della difesa degli interessi interni degli Stati Uniti». Siamo arrivati all’ultraliberismo. Per gli Usa «la liberalizzazione va bene per gli altri… loro sono il paese più protezionista» (Cfr. negoziati Gatt e Wto) (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo)
Né sembra che la paura del terrorismo possa avere qualche benefico effetto, risvegliando i governi e spingendoli almeno ad un maggior controllo fiscale. Scetticismo sull’intenzione di «controllare i paradisi fiscali». È’ difficile distinguere fra un dollaro pulito e uno sporco. I paradisi fiscali servono ai terroristi ma servono anche alle multinazionali (3 ott. Latouche)
AMERICANIZZAZIONE: SIAMO TUTTI AMERICANI=SIAMO TUTTI ITALIANI O ANTIAMERICANI O FILOAMERICANI O IBRIDI?
Portelli, America e luoghi comuni (manif 20 ott 2001)
Lo sforzo di Portelli è quello di distinguere. «L’America è una realtà composita, complicata, pullulante» – ha scritto – e «la vicinanza culturale, i rapporti, i contatti con gli Stati Uniti che in misura diversa tutti noi intratteniamo sono una delle ragioni per cui la strage dell’11 settembre ci ha così ferito». Una sua studentessa gli ha confessato che«è la prima volta che un pezzo della sua memoria viene cancellato da un atto di violenza».
Pugliese 28 sett.
- la parte più bella dell’America è che è un paese che non si è mai vergognato di definirsi paese d’immigrazione;
- con la globalizzazione l’America è potenza militare unica, ha conquistato tutto. Tutto domina e tutto contiene in sé: i terroristi possono comprarsi un bel corso per pilota solo in America e il mestiere di terrorista l’hanno imparato dagli americani e forse in America.
Cartosio (20 sett) appare scisso, dilaniato fra amore e repulsione:
- non possiamo scagliare invettive contro gli Usa come hanno fatto la Sontag [ non è un attacco alla civiltà, all’umanità, alla libertà, al mondo libero ma un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo] e Bellow [ gli Usa sono un enorme paese dei balocchi e gli americani bambini viziati che si illudono di giocare per sempre] [ma sono invettive o verità?]
- siamo comunque più vicini alla storia degli Usa (li conosciamo, li frequentiamo, li amiamo), che ai paesi islamici o asiatici (nel nostro rapporto con questi mondi non c’è ancora nulla di intimo).
[profondità dell’americanizzazione] [ma non è una colpevole ignoranza conoscere i luoghi degli Usa e non conoscere l’Iraq o la Palestina? Non ci dice che ci siamo spostati verso i ricchi e ci siamo allontanati dai poveri? E il giudizio politico critico verso i bombardamenti Usa, se «non smette di essere intriso dell’effetto, e quindi del risentimento», sarebbe viziato? Dobbiamo venire a sapere dopo – quando Clinton chiede scusa al Guatemala per i 200mila morti del golpe del 1954 – che la politica estera americana è omicida? Nei confrotni degli Usa siamo come i comunisti del PCI rispetto ai gulag di Stalin?
Più distaccato Ceserani (20 sett):
- reazioni della gente: tendenza puritana a chiudersi nella famiglia, a concentrarsi sul proprio lavoro e sulla propria missione al mondo [come invitano a fare Mengaldo e Ranchetti?];
- Bush retorica rozza da sceriffo di frontiera;
- paese ricco di capacità tecniche e intraprendenza economica, ma privo di intellettuali capaci di analisi (effetto del postmodernismo): uniche eccezioni Chomsky e la Sontag; vuoto pauroso: nessun giornale che possa assomigliare al” manifesto” o anche solo a “El pais” o al “The Guardian”; debolissime le università, poste sotto assedio da tempo dalle corporations (già “americanizzate” insomma, cioè precocemente professionalizzanti e basta);
- si potrebbero leggere i fatti alla luce dell’immaginario sulla cospirazione (congiura di corte, società segrete d’inizio Ottocento, reti comunicative complesse e autoreferenziali postmoderne ( es. romanzi di Philip Roth e Pendolo di Foucault di Eco)
Davvero critico Latouche (3 ott):
la solidarietà immediatamente scattata fra tutti i paesi ricchi che hanno fatto blocco con gli Usa (Chirac: siamo tutti americani), è la prova che l’occidentalizzazione esiste.
L’Europa, non colpita, poteva distinguersi, ma non l’ha fatto:
– cecità americana: l’americano medio ignora il resto del mondo [Cartosio in parte…]. come possono mettersi dal punto di vista degli altri?
«Non siamo tutti americani [slogan lanciato su Corriere della sera e Le monde] – io almeno non lo sono» .
Siamo deboli ma possiamo dire che Bush è pazzo pericoloso, non colpirà la Jihad ma molta gente senza colpa e spingerà gli Stati Uniti a vivere assediando il mondo e ad esserne assediati.( 22 sett Rossanda)
Tonello (22 sett):
- cosa significa essere americani è problema irrisolto: cfr Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, Marsilio 1992
- Hofstadter: l’incertezza ha un motivo profondo: l’America è un’ideologia, un progetto non un luogo fisico con dei confini;
- Gleason: per essere o per diventare americano non era richiesto nessun retroterra etnico, religioso, linguistico o nazionale; l’immigrato doveva solo impegnarsi in una ideologia politica centrata sugli astratti ideali della libertà, uguaglianza e repubblicanesimo;
- Visione autoritaria della cittadinanza: Love it, or leave it = amate l’America o andatevene [ gli indiani d’America eliminati appunto in quanto «non americani», segregazione razziale, internamento di giapponesi e italiani durante la seconda guerra mondiale]
- il maccartismo torna alla ribalta con il pretesto del terrorismo [etichetta appiccicata a discrezione del Dipartimento di Stato] (presentato come barbarico, privo di ragioni, irrazionale e inspiegabile [!], mentre è chiaro che si propone di punire gli Usa per il loro appoggio a Israele e ai regimi arabi «empi» come l’Arabia saudita.
- I media dicono che si odia l’America perché ricca, tollerante e moderna. Molti invece la odiano per quel che fa in appoggio a regimi corrotti come quello saudita, per il sostegno d’armi a Israele, per il suo disinteresse verso chi vive nei campi profughi;
- Fukuyama su Le monde intitolava il suo articolo l’etat uni: l’America è una sola, non più pluralista, contraddittoria, ferocemente attaccata alle libertà individuali
L’esigenza di tirarci fuori dall’americanizzazione, che danneggia gli stessi americani, è stata sottolineata da Busi 18 sett:
- Quanto è amico Bush che ha respinto il trattato antipolluzione di Kyoto? Quant’è amica Israele che ha abbandonato la conferenza di Durban contro il razzismo?
- Antiamericanisti sono gli americani stessi: cita Philiph Roth, La macchina umana, dove un reduce del Vietnam viene disprezzato dai suoi stessi concittadini, che non gli perdonano di essere tornato a casa, testimonianza vivente di un orrore che essi non vogliono guardare;
- L’attentato alle Twin Towers è impensabile senza una rete di traditori in giacca e cravatta, bianchi e neri come noi, non afghani, non palestinesi, non irakeni, non coreani, non vietnamiti; una rete di connivenze che non può essere tutta e sola emanazione di Kabul e di qualche riconoscibile imam; e l’America deve interrogarsi innanzitutto sul numero di cittadini americani antiamericani;
- Non si combatte un fondamentalismo alieno con un altro fondamentalismo;
- L’inferno diceva Sartre sono gli altri, cioè le loro ragioni contrarie alle nostre;
- Anche il cattolicesimo ha avuto il suo fondamentalismo e il suo bin Laden si chiamava Torquemada.
- Il fondamentalismo islamico ha un alibi in mezzo secolo di guerre americane in Medio-oriente
FONDAMENTALISMO, TERRORISMO: fondamentalisti sono solo gli “altri”? I fondamentalisti arabi RAPPRESENTANO o NON RAPPRESENTANO I POVERI, GLI ESCLUSI? E i fondamentalisti nostrani? [pensa a Taguielff sul razzismo…]
Gilles Kepel (autore di Jihad ascesa e declino) (2 ott):
- Jihad significa sforzo per essere un buon musulmano (equivale al laico-borghese streben?) fino alla guerra santa contro gli empi;
- 1. In Afghanistan la corrente salafista-jihadista nata nell’ ’80 è stata finanziata da Arabia saudita e Cia; 2. I movimenti religiosi islamici diluiscono e mascherano le conflittualità sociali e non sono affatto omogenei («i musulmani non sono una massa di poveracci a piedi nudi; importante il peso delle classi medie: commercianti e massa di studenti; i kamikaze provengono da classi medie, hanno studiato e appartengono a buone famiglie [ dati tratti dai siti internet con le biografie dei “martiri della jihad”); 3. La jihad solo in particolari contesti assume la forma di guerra santa, «provvedimento a doppio taglio che può rivoltarsi contro chi la proclama perché sospende gli obblighi che regolano la società»; 4. fortissimo per i movimenti islamisti è il «senso di appartenenza alla modernità tecnologica» («speciale vocazione mediatica», «dimestichezza con le nuove tecnologie», molti vengono fuori dalle facoltà di scienze applicate (ingegneria, medicina, informatica); gruppi finanziari che usano bin Laden e sono da lui usati, database di bin Laden fin dall’88 coi dati di tutti gli jihadisti e volontari passati per i campi di addestramento); 5. I talebani si sono formati alla “scuola deobandita”, una filiazione poco nota dell’Islam e vogliono edificare una sorta di controsocietà religiosa senza stato;
- Declino dei movimenti islamici fondamentalisti ( tesi di Kepel): l’ideale religioso è in contrasto con un progetto politico moderno. Tentativo Usa di evitare la saldatura fra talebani e masse musulmane divenute fortemente ostili agli USA per la loro politica mediorientale.
Sull’ambiguità del fondamentalismo:
- fondamentalisti sono gli Usa (a livello di cultura popolare); e nel mondo islamico, a parte i talebani, lo è l’Arabia Saudita, stato-cliente degli Usa dalle sue origini: Negli anni 80 gli estremisti fondamentalisti islamici erano i favoriti degli Usa, perché erano i migliori killer che si potessero trovare. (Chomsky 2o sett);
- terrorismo e guerra. Sinonimi: il terrorismo è una variante, una manifestazione della guerra (Bascetta 16 sett);
- Parafrasando Clausewitz: il terrorismo è la continuazione della guerra con altri mezzi… (Parlato16 settembre);
- Bidussa (28 sett): Contro Panebianco (Corriere della sera 26 settembre) che esprime «uno stato d’animo» presente anche in molti settori della sinistra, non basta l’ironia, la considerazione semiseria o la citazione giusta: accettare il relativismo culturale equivale a svendere la propria identità e non possederne una [aggiungi Galli Della Loggia: la crisi del patriottismo non va cercata nel fascismo ma nella crisi dopo l’8 settembre e quindi nell’antifascismo, (Dal Lago 29 sett)];
- Richiama Veca (un liberale “intelligente”) che afferma «Noi siamo fatti di cose in prestito» e Ernst Gellner (Ragione e religione, Il Saggiatore che sostiene la stretta parentela fra fondamentalismo e relativismo;
- Il fondamentalismo non è la rivincita della tradizione contro la modernità ( come parrebbe bin Laden) ma l’adesione a una forma IDEALIZZATA di civiltà. L’autoreferenzialità (narcisistica) sostiene la mentalità fondamentalista ma anche quella relativista, nominalmente disponibile e aperta al confronto: l’esempio di Robinson Crusoe, che si crede cittadino del mondo, esterofilo, attratto dall’esotico e dall'”altro”, ma la cui massima aspirazione è «invecchiare a casa propria» [cfr Umberto Eco…) Per lui l’incontro con l’altro è solo un «corpo a corpo da cui si esce o sconfitti o vincenti». La posta in gioco è l’inclusione dell’altro o l’esclusione. Non è prevista nessuna metamorfosi o trasformazione dell’identità. Una figura mista, in questa dinamica, non ha senso;
- Chesneaux (23 sett):
Ci sono migliaia di siti internet integralisti, una prova dell’irresponsabile feticismo della mondializzazione finanziaria e tecnologica considerata come base principale della liberazione umana. L’avvenire radioso tutto tecnica e soldi, come dopo la caduta dell’Urss, la fine della storia di Fukuyama. Si è voluto il «laissez- faire economico assoluto e ci svegliamo con la rete di bin Laden che realizza l’impensabile»;
- Huntington non ha ragione: non siamo allo scontro di civiltà. L’Islam non è unito e neppure l’occidente è unito;
- Siamo allo scontro fra ricchi e poveri?
Islam=povertà? «L’Islam è in effetti la forma più organizzata, elaborata e dinamica del mondo della miseria. Vorrebbe rappresentare una contropartita alla mondializzazione tecnologica e finanziaria, ma non credo si possa sostenere che l’islam sia il rappresentante principale di questo mondo della miseria» È ambiguo [ ma non lo era anche il comunismo, le dirigenze leniniste erano forse operaie?]
- C’è un Islam che non accetta di rispettare la società civile, di fare della religione un fatto privato, ha mire totalizzanti. È un problema.
[perché solo gli Usa possono essere terroristi o manovrare terroristi [George Monbiot (7 nov): Se bisogna eliminare al-Queda come terrorista, perché non eliminare la Scuola delle Americhe, che dal 1946, a Fort Benning in Georgia, ha “laureato” terroristi, torturatori e dittatori latinoamericani?] e altri no? È giustificata la loro pretesa di potere imperiale? Il loro monopolio della forza? ottenuto come? Cosa ha di così diverso dalla guerra il terrorismo? I terroristi di oggi non rischiano di diventare gli statisti di domani?
Bascetta (16 sett):
– la riscoperta del patriottismo non è una benedizione ma è devastante;
- antiamericanismo e filoamericanismo: ottuse semplificazioni fondamentaliste;
- liberismo dogma simile a quello coranico: Scuola di Chicago=scuola coranica;
- movimento antiglobal l’unico antidoto efficace (?). non ha bisogno di essere né americano, né antiamericano;
Saskia Sassen, autrice di «Global City» (18 sett.):
- non ogni povero è potenziale terrorista; ma la scelta terrorista è parte dello scenario attuale fatto di miseria-povertà – interdipendneza economica;
- Accelerazione verso un potere unico mondiale che fa svanire l’equilibrio conflittuale tra Usa e Europa;
- Y. concentrato di competenze ineguagliabile; la distruzione delle Twin Towers farà abbassare i prezzi dei terreni e degli immobili, possibile una free zone per spregiudicate operazioni immobiliari.E adesso? Pace si dice, guerra si fa
sui risvolti filosofici (di filosofia politica) dell’evento
Tutto è simile e tutto è diverso dall’inizio della modernità, leggermente diverso, ma quanto basta perché sia completamente diverso.
Quelli erano tempi di teologia politica: bisognava creare un ordine a partire da un bisogno di secolarizzazione, facendo «come se Dio non ci fosse». Oggi è il contrario, tutti sembrano agire «come se Dio ci fosse», mentre la sovranità politica [la politica] decade irreversibilmente. .. (Carlo Galli, manifesto 27 sett. 2001)
Salamon: nessuna forma d’immaginazione supera negli uomini quella del male = è più facile e meno faticoso fare il male piuttosto che il bene (16 sett Parlato)
[Vedi anche Sofsky, Sulla violenza e Revelli, Oltre il Novecento]
Siamo al grande ritorno delle religioni: non più oppio ma cocaina dei popoli (16 sett Parlato)
Anche i latini dicevano che era giusto morire per la patria e per chi ci crede la religione è più importante della patria (16 sett Parlato) [ Vedi anche Saramago]
Viviamo in un mondo dove il rischio è ormai generalizzato:«All’uomo contemporaneo, e la cosa non è stata mai così forte nella storia come ora, può succedere o in ogni momento qualcosa di totalmente imprevisto. Abbiamo insomma tutto da perdere. E questo fa la forza del sud, dei deboli: loro non hanno nulla da perdere». (3 ott Latouche).
Johan Galtung, Il pacifismo tra i Cruise e la Jihad, (manif. 11 ott.):
Invita a non sottostimare il grado di solidarietà nel «resto del mondo» e la solidarietà della «classe superiore mondiale», ben evidente in questi giorni [Latouche anche]
Riconosce che «la catena della violenza e della vendetta è un fatto umano» [Sofsky]..
La prospettiva è quella pacifista: «l’uso della violenza contro la violenza è controproducente (Gandhi).
Si deve fare affidamento «sulle popolazioni e sulla società civile» non sui governi dell’Occidente o su quelli del Sud: «sono troppo legati agli Stati uniti e troppo timorosi di incorrere nell’ira americana».
Concordanza sull’analisi. Scetticismo sulle potenzialità della cosiddetta società civile. A me pare che l’attore pacifista nelle nostre società arrivi sempre troppo tardi e neppure riesca più a frenare dinamiche di conflitto che da tempo sono state predisposte per lo scontro. [Grande attenzione alle posizioni, che sarebbe ingeneroso chiamare “economiciste” di Burgio, Ravaioli, Dinucci]
Del resto il pacifismo – è bene ricordarlo – convive in una scomoda posizione coi governi di guerra qui in Occidente e all’ombra del cosiddetto “terrorismo” nei paesi arabi.
Può far poco. L’immagine del vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro.
L’esempio dell’impotenza dei pacifisti in Israele.
Per noi l’esser dentro la situazione materiale e culturale dell’Occidente -quindi non in una posizione di impossibile equidistanza – spinge i pacifisti nel ruolo di consiglieri ragionevoli di governi che hanno dalla loro la ragione della forza.
(Cosa devono fare i militanti pacifisti? «Riportare sulle loro agende questi problemi: la povertà e la fame nei paesi poveri; il disprezzo e l’ignoranza dell’Occidente verso le culture e le religioni non cristiane come fonte di odio; una memoria storica dei conflitti, dalle crociate alla conquista dell’America alla distruzione dell’Africa allo schiavismo, alla guerra dell’Oppio, alla conquista britannica dell’Afghanistan, ecc.»( Galtung).
Ma questi sono consigli a governi “nostri” che non li ascoltano.
Cosa sarebbero in grado di consigliare ai popoli oppressi e rassegnati o a quanti in quei popoli sono tentati di «ricorrere alla violenza»?
Di fronte alla distanza fra noi e gli oppressi, la lingua si secca…
C’è da aspettare che la guerra produca la stanchezza dei combattenti [Sergio Bologna ai tempi del Kosovo]. Allora i pacifisti potranno dire «L’avevamo detto…».
Profeti disarmati…
Shafique Keshavjee, Oltre la tragedia americana, (manif 14 ott):
Mette in risalto l’intrico di interessi economici e politici fra Stati Uniti, Arabia Saudita e Europa e cioè le «alleanze economiche e strategiche perverse che legano americani, sauditi, europei e… terroristi» [L’Europa sul piano dei bisogni dipende dai sauditi e dai paesi del Golfo per il suo approvvigionamento in energia e dalla loro partecipazione nella vita delle imprese e delle banche con centinaia di miliardi di petrodollari; il governo saudita ha bisogno della sicurezza americana e dei suoi dollari…]
E conclude: «La rivelazione è che siamo solidali non solo con le vittime americane, ma anche con un sistema di cui profittiamo ampiamente e che ha causato il loro dramma».
In questo noi siamo per forza compresi anche noi: pacifisti o esodanti.
Il problema è come scioglierci dall’abbraccio soffocante dell’Occidente, dei nostri governi, delle nostre comunità impaurite o gregarie.
Imporre combattivamente la pace anche a costo della violenza contro chi con la violenza ci impone la guerra? Una volta questo era chiaro. Sentite queste parole di Fortini:
“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo, e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin[2] “che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi”.
Questa è la situazione tragica dell’esistenza umana: essere uomini significa questo. Chi non vuole vedere, chi vuole consolarsi credendo che il pane che mangia non è sottratto a chi muore di fame, in questo caso lo faccia pure. Nessuna violenza è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile; credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradizione cristiana.[…] La nostra morale non è quella di Renzo Tramaglino, nota? è quella di chi ha nelle orecchie le urla degli innocenti torturati nei processi degli untori. Dunque noi non deprechiamo i tumulti, deprechiamo i tumulti inutili; ci sono forme di disobbedienza all’ingiustizia che noi dobbiamo imparare ad usare e praticare non perché si sia, o almeno non perché io sia un non-violento per principio metafisico o religioso, ma proprio perché non vogliamo subire la violenza che è pronta a colpirci.”
( Franco Fortini, Violenza e non violenza, in Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991, pp.303-)
Si dovrà formare un movimento o un partito contro la guerra, capace di smuovere corpi e menti per imporre un progetto razionale?( Progetto che esiste o no?) [ Cfr. De Carolis]
De Carolis (26 sett):
- L’unica ragione che giustificherebbe un intervento sarebbe un progetto plausibile di nuovo ordine globale. Ma esiste? Esiste sul piano economico, informativo e scientifico. È il presupposto sia del terrorismo che della reazione internazionale. È fondato sul privilegio di una élite ridottissima e sull’esclusione della grande maggioranza del pianeta.
- Le due alternative per le potenze egemoni: avviare una riforma che rimuova storture e diseguaglianze del sistema e legittimare la lotta contro il terrorismo in base a questa riforma (« e si direbbe che questa strada sia stata scartata in partenza»; «blindare la soglia fra inclusi ed esclusi, estendere all’intero pianeta il modello segregazionista del vecchio Sudafrica», accantonando ogni problema di legittimazione e manipolando la comunicazione pubblica.
- Solo in un prossimo futuro, i movimenti ora criminalizzabili, potranno far sentire la loro voce a patto di passare dalla protesta al progetto costruttivo.
Da sempre ci sono posizioni ragionevoli, ma inascoltate…
Un esempio? Ferrajoli, Una sfera pubblica globale, manif. 14 ottobre:
Parla di un triplice vuoto di politica e di diritto pubblico internazionale:
- «Contro la minaccia di un terrorismo fanatico e ramificato, non servono armi nucleari né scudi stellari né alleanze militari di parte come la Nato, bensì quella forza di polizia internazionale che è prevista dal capo VII, ancora inattuato, della Carta dell’Onu»;
- «La seconda carenza è più specificamente politica. dobbiamo domandarci quanto abbia contribuito allo sviluppo del fanatismo e del terrorismo una politica dell’Occidente informata unicamente a interessi economici e geopolitici: dalla mancata soluzione della questione palestinese.. fino all’invadente presenza americana nell’area e agli ambigui rapporti intrattenuti con lo stesso fondamentalismo islamico, dapprima allevato e utilizzato in funzione antisovietica e poi rivoltatosi contro i suoi vecchi protettori»;
- «La terza e più importante lacuna è l’assenza totale di garanzie contro i giganteschi squilibri e le tremende ingiustizie provocate da una globalizzazione senza regole. Benché non ci sia un nesso diretto tra queste ingiustizie e il terrorismo, dobbiamo ammettere che i focolai dell’odio e della violenza traggono sicuro alimento dal contrasto sempre più vistoso e visibile tra la ricchezza spensierata dell’Occidente e le condizioni disumane di miliardi di esseri umani. Dobbiamo pur chiederci se sia realistica l’aspirazione alla pace e alla sicurezza in un mondo in cui ottocento milioni di persone, cioè un sesto della popolazione, possiede l’83%, cioè i cinque sesti del reddito mondiale».
23 sett Richard Falk ( teorico della democrazia internazionale):
- la guerra che avanza è «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media. «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», che viene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.
- Bisogna fare qualcosa ma non c’è niente da fare. Dobbiamo presumere che la rete terroristica abbia previsto la rappresaglia già prima dell’attacco, e abbia preso ogni misura possibile per «scomparire» dal pianeta» [mia discussione con Renato Solmi]
- I nostri leader avranno la capacità di astenersi dall’uso della forza contro innocenti?
- La sola sicurezza realizzabile è la «sicurezza umana». «Tuttavia la notizia non ha raggiunto Washington e le altre capitali del mondo… Mentre il sole tramonta su un mondo senza stati, il sole del militarismo appare pronto a bruciare più splendente che mai!»
È pessimismo? O realismo?
I potenti non hanno le nostre paure (ne hanno altre), non hanno le nostre incertezze… Hanno logiche che ci sovrastano e prevedono anche la nostra distruzione. Anch’essi sono “pazzi razionali”… organizzano le loro emozioni secondo una logica razionale strumentale contrapposta a quella che le organizza per la vita [biopolitica…]. Non siamo gli unici depositari della ragione. La ragione occidentale è scissa… La ragione del potere prevede la distruzione anche della gente comune, dei “civili”, si contrappone alla ragione della gente comune.
27 settembre Carlo Galli (studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale):
- questa non è una guerra mondiale ma «globale» e non ne conosciamo il funzionamento: è tendenzialmente interminabile [lettera a Solmi];
- ci manca un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui. [Anche queste considerazioni mostrano la debolezza in cui si viene a trovare chi vuol lottare per la pace…]
- La trappola è che la coppia amico/nemico venga riempita su base identitaria e diventi scontro Occidente/Islam. La coazione identitaria va combattuta.
- L’attentato alle Twin Towers ha ucciso la «buona» globalizzazione [quel precario ma fantastico laboratorio di cosmopolitismo che è Manhattan] ma anche la «cattiva»: che bastino gli interessi del capitale e del mercato a dar ordine al mondo [lettera a Solmi]
Santomassimo (27 sett):
- Con l’operazione «libertà duratura» gli Usa chiedono una cambiale in bianco al mondo intero.
- Lo «scontro di civiltà» (Huntington) è in atto da secoli. Scelta: non identificare «civilizzazione» con occidentalizzazione» (Berlusconi) ma relativismo culturale: «Siamo occidentali – cos’altro dovremmo essere? – ma il nostro Occidente non è il West. È quello di Kant e di Voltaire, non quello di John Wayne» [la posizione che Marramao trovava debole e a cui contrapponeva un universalismo delle differenze o pluriversalismo]
Marramao (21 sett):
- Il nemico assoluto non esiste, esiste un sistema di cause ed effetti, strategie e responsabilità, poteri e scelte soggettive. bin Laden è solo uno dei poli di una rete, di un network terroristico. Non si sa chi sia il soggetto di tutto ciò.
- Novità del conflitto: non siamo più nella convenzione del conflitto fra stati-nazione ( si può pensare agli atti di pirateria, alle dinamiche della colonizzazione)
- La Jihad è solo l’involucro, il referente simbolico del terrorismo, che ha invece origini (Voltaire: L’occidente ha introdotto in altre civiltà del mondo forme di conflitto che quelle civiltà non conoscevano»). Ha ragione Chomsky: le armi che l’Occidente ha puntato contro il mondo gli si sono rivolte contro. Le tecniche usate sono quelle della razionalità calcolante: il corpo umano diventa componente tecnologica di una bomba intelligente [la mia poesia.. colpiti dalla nostra intelligenza…]. Si ha una sintesi fra cyborg (tecnologia avanzata) e mistica del corpo della Umma (quando si tratta di compiere una missione non si è più proprietari del proprio corpo che appartiene al corpo mistico della Umma. Il paradigma utilitaristico della scelta razionale coincide con il sacrificio di sé. Non è più utilitarismo).
- Il nemico nel mondo globale non è più politico, ma morale; ecco la differenza da Schmitt.
- Intelligence, Cia, Fbi hanno troppe e non poche informazioni, ma non hanno la chiave per interpretarle. C’è un abbassamento del livello culturale del personale politico, diplomatico. Non ne capiscono la struttura motivazionale.
- Declino degli stati sovrani, bisogno di governare la globalizzazione. Necessità di una visione universalistica al posto del multiculturalismo che accetta le differenze come ghetti contigui. Non basta riverniciare l’universalismo illuministico-kantiano. Bisogna cercare un nuovo universalismo in altre culture: un multiversalismo, una politica universalistica delle differenze, che contrasti tanto la politica antiuniversalistica delle differenze, quanto quella universalistica della identità.
- Il cuore di tenebre di bin Laden appartiene a noi occidentali. La ferocia dell’Islam è nata come reazione alle crociate.
- Il colpo al movimento antiglobal è stato micidiale: ha perso pregnanza simbolica: di fronte al crollo delle Twin Towers che peso può avere sull’immaginario un bancomat rotto o un Mac donald’s assaltato ? [ mia lettera a Solmi)
Note
[1] I discorsi sull’Impero [Negri] risultano mitologici. Lo scenario è nuovamente mutato. Invece del mitico Impero, si avrà una nuova inquietante sfida Occidente- Oriente. Su posizioni simili è anche Rossanda… L’unificazione capitalistica non fa degli Usa un impero. Non ne hanno le capacità di assimilazione e di mediazione. «Considero che gli Stati uniti stiano facendo ancora una politica imperialista che ferisce altre popolazioni e si rivolterà contro loro stessi: sono antimperilista» [critica a Negri] 22 sett Rossanda
[2] Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ic (1870- 1924), uomo politico e pensatore russo, guida della Rivoluzione del 1917 contro il regime degli zar.