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“Minima (im)moralia”

Ragionamento sui nostri antenati (3)

a cura di Ennio Abate

Riprendo il mio ragionamento sui nostri antenati e  pubblico a mo’ di documentazione  gli aforismi di Minima (im)moralia presentati da Elvio Fachinelli nel n. 26 (giugno-luglio 1976) di L’ERBA VOGLIO. (Il PDF completo può essere scaricato qui). Avverto  che  dopo l’infelice conclusione del  confronto con Dario Borso su Cases, Schmidt, etc. non seguirò più il filo del discorso che avevo previsto e non risponderò ad alcun eventuale commento di db . [E. A.]

Minima (Im)moralia

Al termine della sua introduzione all’edizione italiana dei Minima Moralia di Adorno (Einaudi, 1954), Renato Solmi poneva una brevissima nota: «Questa traduzione non riproduce interamente il testo dei Minima Moralia. Sono stati tralasciati gli aforismi di contenuto specificamente tedesco, ricchi di allusioni che sarebbero rimaste incomprensibili al lettore italiano, o che avrebbero richiesto note lunghe e ingombranti». Venendo dopo uno scritto di sessanta pagine, queste righe sembravano alludere a qualche taglio marginale, anche se era difficile immaginare un Adorno a tal punto labirintato nella Selva Nera da riuscire irraggiungibile. Ora, che cosa è «specificamente tedesco» nella quarantina di aforismi «tralasciati», di cui presentiamo ai nostri lettori un primo campione (li pubblicheremo tutti in un volumetto. edizioni L’erba voglio, a settembre)? Il sesso (le donne)? La politica? La riflessione incauta? Come i lettori possono agevolmente constatare, questi aforismi sono doppiamente interessanti: in se stessi, nei loro nessi (recisi) col resto del grande libro di Adorno; e, soprattutto, come testi propriamente censurati, che nel loro emergere ora indicano con chiarezza ciò che ha prodotto la loro censura. Nel loro insieme, essi tracciano una mappa significativa di ciò che la cultura italiana di sinistra di quegli anni – ma solo di quegli anni? – ha temuto o addirittura non visto, e quindi escluso. Per ironia e necessità storica, ciò che appariva allora, secondo i casi, sbagliato, pericoloso, dannoso, «fuori luogo», risulta oggi di gran lungo più vitale del movimento che lo ha condannato (Elvio Fachinelli)

(27) On parle français. Chi legge pornografia in una lingua straniera, impara quanto intimamente s’intreccino sesso e linguaggio. Leggendo Sade nell’originale non si ha bisogno di alcun dictionnaire. Anche le espressioni, riferite all’indecente, più inconsuete – espressioni la cui conoscenza non è trasmessa da alcuna scuola, da alcuna casa patema, da alcuna esperienza letteraria – si comprendono, procedendo come sonnambuli, al modo in cui nell’infanzia le manifestazioni e le osservazioni più discoste del momento sessuale si riconnettono in un’esatta rappresentazione: come se le passioni prigioniere, chiamate per nome da quelle parole, facessero saltare sia il muro della propria repressione, sia quello delle parole cieche e violentemente, irresistibilmente urtassero nella cellula più intima del senso che loro somiglia.

(55) Posso osare (1) – Quando, nel Girotondo di Schnitzler, il poeta si avvicina teneramente alla dolce, frivola fanciulla, rappresentata come l’antitesi leggiadra della puritana, essa gli dice: «Via, non desideri suonare il piano?» Essa, come non può avere incertezze circa lo scopo dell’arrangement, neppure offre propriamente una resistenza. Il suo impulso va più a fondo dei divieti convenzionali o psicologici. Esso denuncia una frigidità arcaica, l’angoscia dell’animale femminile innanzi all’accoppiamento che non gli reca se non dolore. Il piacere è un’acquisizione tarda, non più antica certo della coscienza. Se si osserva il modo in cui, costrittivamente, sotto un sortilegio, gli animali s’incontrano, allora l’affermazione secondo cui «la voluttà è stata concessa al verme», si palesa essere un pezzo di menzogna idealistica, almeno per ciò che concerne le femmine, alle quali l’amore capita in assenza di libertà e che non altrimenti lo conoscono se non in quanto oggetti di violenza. Di ciò qualcosa è rimasto alle donne, principalmente a quelle della piccola borghesia, fin dentro l’epoca tardo-industriale. La memoria dell’ antico ferimento sopravvive ancora, mentre il dolore fisico e l’angoscia immediata sono tolti dalla civiltà. Nessun uomo il quale esorti una fanciulla povera ad andare con lui disconoscerà, in quanto non si renda del tutto ottuso, il momento leggiero del diritto nella sua riluttanza, unica prerogativa che la società patriarcale lascia alla donna, la quale, una volta persuasa, dopo il breve trionfo del no, subito deve pagare lo scotto. Essa sa di essere fin dai tempi più remoti, come colei che concede, l’ingannata. Ma se, per questo, essa è avara di sé, allora, si, è ingannata sul serio. Ciò è implicito nel consiglio alla novizia che Wedekind pone in bocca alla tenutaria d’un bordello: «In questo mondo non c’è che una via per essere felici, e cioè fare di tutto per rendere gli altri quanto più felici è possibile». Il piacere proprio ha come presupposto quel gettarsi via illimitato, di cui le donne, a causa della loro arcaica angoscia, sono tanto poco capaci quanto gli uomini nella loro boria. Non solo la possibilità oggettiva – anche la disposizione soggettiva alla felicità fa parte propriamente della libertà.

(1) Allusione ai versi pronunciati dal Faust di Goethe (nella «Parte prima», scena della Strada (I»: «Mein schiines Friiulein, dar! ich wagen, / Meinem Arm und Geleit Ihr Anzutragen ?»(N. d. T.).

(78) Al di là dei monti. (1) – Più compitamente di qualsiasi fiaba, Biancaneve esprime la mestizia. La sua immagine pura è la regina che guarda attraverso la finestra la neve e desidera una figlia secondo la vivente bellezza senza vita dei fiocchi, la nera afflizione del telaio della finestra, la puntura del dissanguamento; (2) e poi muore di parto. Di questo però neppure il lieto fine porta via nulla. Come l’esaudimento si chiama morte, la salvazione rimane apparenza. Infatti l’osservazione più profonda non crede che si sia ridestata colei che, simile ad una dormiente, giace nella bara di vetro. Non è forse il boccone di mela avvelenato (3), che per le scosse del viaggio le esce dalla gola, piuttosto che un mezzo di assassinio il residuo della vita perduta, della vita proscritta, dalla quale essa solo ora si salva davvero, ora che nessuna ingannevole messaggera l’adesca più? E come suona caduca la felicità: «Allora Biancaneve gli volle bene e andò con lui». Come è revocata dal malvagio trionfo sulla malvagità (4). Così, quando speriamo nella salvezza, una voce ci dice che la speranza è vana, eppure è essa, essa soltanto, la speranza impotente, che ci permette di trarre un respiro. Ogni contemplazione non può fare di più che ridisegnare pazientemente in figure ed approcci sempre nuovi l’ambivalenza della mestizia. La verità non è separabile dall’ossessione che dalle figure dell’apparenza emerga pure infine, senza apparenza, la salvezza.

(1) Lo specchio fatato dice alla Regina:
«Regina la più bella qui sei tu
ma al di là dei monti e piani
presso i sette nani
Biancaneve lo è molto di più»
[trad. da Grimm di C. Bovero]

(2)«Una volta nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva seduta accanto così bello su quel candore, eh ‘ella pensò: così, cucendo e alzando gli occhi per guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue. Il rosso era così bello su quel candore, ch’ella penso: “Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra!”». [id.]

(3) Il principe, pur credendo morta Biancaneve, chiede ai nani di poterla trasportare nel suo castello nella sua bara di vetro «per onorarla ed esaltarla come la cosa che gli era più cara al mondo». «Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa -quel pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola». [id.]

(4) «Ma alla festa [nuziale] invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. (… ) Dapprima non voleva assistere alle nozze, ma non trovò pace e dovette andare a vedere la giovane regina. Entrando, riconobbe Biancaneve e impietri dallo spavento e dall’orrore. Ma sulla brace eran già pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle, e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette calzare le scarpe roventi e danzare finché cadde a terra morta». [id.] (N. d. T.).

 (112) Et dona ferentes. In Germania i filistei paladini della libertà sono sempre stati particolarmente fieri della poesia sul Dio e la bajadera (1), con la sua fanfara finale secondo cui gli immortali elevano al cielo con braccia di fuoco i figli perduti. Non ci si può fidare di questa approvata magnanimità. Essa è propria fondamentalmente del giudizio borghese sull’amore mercenario, in quanto essa consegue l’effetto della comprensione e del perdono divini solo denigrando come perduta, con un brivido estatico, la bella tratta in salvo. L’atto di grazia è soggetto a cautele che lo rendono illusorio. Per meritarsi la redenzione – quasi una redenzione meritata fosse ancora tale -, alla fanciulla è concesso di partecipare alla «festa gioconda del talamo» «non per denaro o voluttà». E perché mai poi? L’amore puro che le viene attribuito non offende forse sgraziatamente l’incanto che i ritmi di danza di Goethe intrecciano intorno alla figura, incanto che certo non si lascia cancellare neppure dalle parole sulla sua profonda corruzione? Ma essa pure deve diventare, ad ogni costo, un’anima buona tale che solo una volta ha peccato. (2) Per venire ammessa nell’ambito chiuso dell’umanità, la cortigiana, che l’umanità si vanta di tollerare, deve anzi tutto cessare di essere tale. La divinità si compiace dei peccatori ravveduti. Tutta l’incursione fin là dove sono le ultime case è una sorta di slumming party metafisico, un allestimento della volgarità maschile per atteggiarsi in maniera doppiamente grandiosa, dapprima accrescendo smisuratamente la distanza tra lo spirito maschile e la natura femminile e poi, successivamente, sventolando come bene supremo- il potere assoluto di revocare la differenza da esso stesso creata. Il borghese ha bisogno della bajadera non soltanto per amore del piacere, che egli al tempo stesso le invidia, bensì per sentirsi davvero Dio. Quanto più egli s’avvicina al margine del suo ambito e dimentica la sua dignità, tanto più spudorato è il rituale della violenza. La notte ha il suo piacere, la puttana, però, viene bruciata. Il resto è l’idea.

(1) Der Gott und dìe Bajadere: così s’intitola la ballata di Goethe alla quale questo aforisma si riferisce.

 (2) Allusione ai versi 12065/12066 del Faust di Goethe dove è contenuta la lode di Gretchencome «,gutel Seele, / Die sich einmal nur vergessen».

(105) Solo un quarto d’ora. (1). – Notte insonne: se ne dà una definizione come di ore tormentose, tese senza la prospettiva d’una fine e dell’alba nello sforzo vano di dimenticare la vuota durata. Ma orrore, piuttosto, procurano le notti insonni nelle quali il tempo si contrae e scorre sterile fra le dita. Qualcuno spegne la luce nella speranza di lunghe ore di riposo, che gli possano recare conforto. Ma, mentre non sa acquetare i pensieri, il salutare patrimonio della notte gli si dissipa ed egli, prima che sia capace di non vedere più nulla negli occhi serrati, brucianti, sa che è troppo tardi, che presto il mattino lo desterà di schianto. In maniera simile, inarrestabili, inutili trascorrono forse i momenti estremi di chi è condannato a morte. Ma ciò che si rivela in tale contrarsi delle ore, è l’immagine speculare del tempo adempiuto. Se in questo il potere dell’esperienza ‘spezza il sortilegio della durata e raccoglie passato e futuro nel presente, così nella notte precipitosamente insonne la durata suscita insopportabile orrore. La vita umana diventa istante, non già togliendo la durata, bensì rovinando nel nulla, destandosi alla sua vanità al cospetto della cattiva infinità del tempo. Nel rumoroso ticchettio dell’orologio l’insonne percepisce la derisione degli anni-luce per il breve corso della propria esistenza. Le ore, che già sono trascorse come secondi, prima che il senso interiore le abbia afferrate e lo trascinano nella loro caduta, gli danno avviso di come, insieme ad ogni memoria, egli sia votato all’oblio nella notte cosmica. Gli uomini se ne accorgono oggi in maniera coatta. Nella condizione della compiuta impotenza, ciò che ancora gli è stato lasciato da vivere appare all’individuo come una breve dilazione innanzi al patibolo. Egli non si aspetta di vivere la propria vita fino in fondo. La prospettiva, presente a ciascuno, della morte e del martirio violenti, si prolunga nell’ angoscia perché i giorni sono contati, la lunghezza della propria vita dipende dalla statistica, perché l’invecchiare è diventato, per così dire, un vantaggio sleale, che va carpito con astuzia alla media statistica. Forse si è già dato fondo alla percentuale di vita messa revocabilmente a disposizione dalla società. Tale l’angoscia che il corpo registra nella fuga delle ore. Il tempo vola.

(1) Nur ein Vìertelsttìndchen: il titolo dell’aforisma allude al motto ricamato sui cuscini dei divani nel salotto borghese tedesco dell’ottocento. Tale motto è citato anche nella seguente osservazione del Zentralpark di Walter Benjamin: «Per il pensiero dell’eterno ritorno ha la sua importanza il fatto che la borghesia non osava più guardare in faccia il prossimo sviluppo dell’ordinamento produttivo da essa posto in opera. Il pensiero di Zaratustra dell’eterno ritorno e il motto della fodera dei cuscini: “Solo un quarto d’ora” sono complementi» (in: W.B., Gesammelte Schriften, I, 2, Frankfurt a. M. 1974, p. 677). (N.d.T.).

(108) La. principessa Lucertola. (1) – Proprio quelle donne accendono l’immaginazione, alle quali l’immaginazione manca. Di luce più viva splende l’aura di coloro che, del tutto estroverse, sono affatto sobrie. La loro attrattiva proviene dalla mancanza di coscienza_di sé, anzi dalla mancanza di un Sé in generale: è in relazione a ciò che Oscar WiIde ha trovato la definizione di «Sfinge senza enigma». Esse somigliano all’immagine convenuta: quanto più sono pura apparenza, non disturbata da alcun impulso proprio, tanto più sono simili ad archetipi – Preziosa, Peregrina, Albertine -, che appunto fanno supporre come mera apparenza ogni individuazione e che pure, per via di ciò che sono, debbono sempre nuovamente deludere. La loro vita viene afferrata come serie di illustrazioni oppure come una perpetua festa infantile ed una tale percezione fa torto alla loro povera esistenza empirica. Questo è il tema che Storm ha trattato nel suo profondo racconto per ragazzi: «Paolo il burattinaio».
Il fanciullo della Frisia s’innamora della bambina dei nomadi bavaresi. «Quando alla fine tornai indietro, vidi farmisi incontro un abituccio rosso; ed ecco, sì, era la piccola burattinaia; nonostante il suo vestitino sbiadito, essa mi parve cinta di uno splendore di fiaba. Mi feci coraggio e le parlai: «Vuoi fare una passeggiata, Lisetta?» Essa mi guardò diffidente con i suoi occhi neri. «Passeggiata?» ripeté strascicando la voce. «Una buona idea, davvero!» «E dove vorresti andare, poi?» – «Dal mercìaìo!» «Vuoi comprarti un vestitino nuovo?», le chiesi un po’ goffamente. Rise forte. «Ma va! Figurati! – No, solo degli stracci». «Stracci, Lisetta?» – «Sì, certo! Soltanto scampoli, per i costumi dei burattini; mica costano molto». La povertà induce Lisetta a scegliere ciò che è consunto – «stracci» -, benché preferisca altre cose. Senza capire, essa deve considerare con diffidenza eccentrico tutto ciò che non si giustifica praticamente. L’immaginazione offende la povertà. Infatti ciò che è consunto possiede incanto solo per l’osservatore. Eppure l’immaginazione ha bisogno della povertà, alla quale essa reca violenza: la felicità, cui essa si abbandona, è inscritta nei tratti del dolore. Così la Justine di Sade, che passa da una tortura all’ altra, viene definita notre intéressante héroine, e analogamente Mignon nel momento in cui viene battuta è chiamata l’interessante bambina. La principessa di sogno è nello stesso tempo la bambina maltrattata, e di ciò essa nulla sospetta. Tracce di questo esistono ancora nel rapporto dei popoli nordici con quelli meridionali: i puritani benestanti cercano invano nelle brunette dei paesi stranieri ciò che il corso del mondo, da loro dettato, toglie non solo a loro stessi, ma propriamente anche ai nomadi. Il sedentario invidia il nomadismo, la ricerca di freschi spazi erbosi, e il carrozzone verde è la casa sulle ruote, il cui viaggio segue il cammino degli astri. L’infantilità, confinata in un moto disordinato, relegata nella spinta momentanea, infelicemente errabonda, a continuare la vita, sostituisce il non sfigurato, l’adempimento, e però li esclude, simile nell’intimo all’autoconservazione dalla quale si illude di redimere. Tale è il circolo della nostalgia borghese per l’ingenuo. La mancanza dell’anima, grazia e strazio ad un tempo, in coloro ai quali, ai margini della cultura, il quotidiano vieta l’autodeterminazione, diviene fantasmagoria dell’anima per i ben piazzati, i quali dalla cultura hanno appreso a vergognarsi dell’anima. L’amore si perde in ciò che è privo d’anima come nella cifra dell’animato, poiché per esso i viventi sono scenario per la disperata brama del salvare, la quale solo in ciò che è perduto possiede il suo soggetto: all’amore l’anima si dischiude solo nella propria assenza. Così, umana è proprio l’espressione di quegli occhi i quali sono i più prossimi a quelli dell’animale, a quelli della creatura, lontano dalla riflessione dell’Io. Alla fine l’anima stessa non è che l’anelito dell’inanimato alla salvezza.

(1) La fiaba della Principessa Lucertola racconta la vicenda di una crudele e graziosa principessina che trascorre le sue giornate nel parco del castello paterno, divertendosi ad infliggere ogni sorta di tormenti ai piccoli animali che cadono in suo potere. Colta però da un sortilegio nell’atto di tagliare la coda ad una lucertola, essa è trasformata in lucertola a sua volta, ed è costretta a lunghe e dolorose peregrinazioni per il mondo, infine, seguendo il consiglio del saggio Re degli Gnomi, ritorna al suo paese d’origine e, dopo aver subito a sua volta il supplizio del taglio della coda, ritrova la forma primitiva. (N. d. T.)

(117) Il servo padrone. (0) – Solo attraverso una permanente regressione le classi subalterne divengono capaci delle prestazioni ottuse che la cultura del dominio esige da loro. Proprio il deforme in loro è un prodotto della forma sociale. La generazione di barbari da parte della cultura, però, è sempre stata da questa utilizzata per mantenere in vita la propria essenza barbarica. Il dominio delega la violenza fisica, sulla quale esso poggia, ai dominati. Questi, mentre viene procurata loro la soddisfazione di sfogare come giusto e sacrosanto per il collettivo i propri istinti piegati e distorti, apprendono a perpetrare ciò di cui i nobili abbisognano affinché possano concedersi di rimanere nobili. L’autoeducazione della cricca dominante, con tutto ciò che essa esige quanto a disciplina, soffocamento di ogni impulso immediato, scepsi cinica e cieco piacere del comando, non riuscirebbe, se gli oppressori, tramite oppressi assoldati, non preparassero a se stessi una parte dell’oppressione che essi preparano per gli altri. Per questo le differenze psicologiche tra le classi sono tanto minori di quelle oggettive, economiche. L’armonia dell’inconciliabile torna a profitto del persistere della cattiva totalità. La volgarità del comandante e l’arroganza del soldato semplice vanno d’accordo. Dai domestici e dalle governanti, i quali in obbedienza alla serietà della vita sottopongono ad angherie i bambini di buona famiglia, passando attraverso gli insegnanti del Westerwald che li disavvezzano dall’uso dei termini di origine straniera non meno che dal piacere per qualsiasi lingua, attraverso i funzionari e gli impiegati che li mettono in fila, attraverso i caporali che li calpestano, una linea retta conduce agli aiutanti dei boia della Gestapo e ai burocrati delle camere a gas. Alla delega della violenza agli inferiori corrispondono fin da principio gli impulsi dei superiori. Colui che trova ripugnante la buona educazione dei genitori, fugge in cucina e si riscalda alle espressioni forti, volgari, della cuoca, espressioni le quali rendono segretamente il principio della buona educazione parentale. Le persone fini sono attirate da quelle grossolane, la cui rozzezza promette loro illusoriamente ciò di cui le priva la propria cultura. Essi non sanno che il grossolano, che sembra loro anarchica natura, non è se non il riflesso della costrizione alla quale sono riluttanti. Tra la solidarietà di classe dei superiori e la loro comunella con i deputati della classe subalterna fa da mediatore il loro giustificato sentimento di colpa nei confronti dei poveri. Ma chi ha appreso ad adattarsi ai disadattati, colui al quale il: «Qui si fa così- è penetrato fin nell’intimo, questi è alla fine egli stesso divenuto tale. L’osservazione di Bettelheim sull’identificazione delle vittime con i carnefici dei lager nazisti contiene il giudizio sulle elevate serre della cultura, sulla inglese Public School, sulla germanica accademia dei cadetti. L’assurdità si perpetua attraverso se stessa: il dominio si trasmette e si continua attraverso i dominati.

(O) In italiano nel testo. (N. d. T.). T. W.Adorno \ (Trad. di Gianni Carchia)

Al volo. Afghanistan (1-6)

Scrap-book da Facebook

a cura di Ennio Abate

1. Damiano Aliprandi

Hanno fatto la guerra, sconfitto apparentemente i talebani, ma senza ragionare a lungo termine. Per essere pragmatici, la sola soluzione per l’Afghanistan era di lavorare con le tribù e i leader provinciali per creare una reazione ai talebani. Invece hanno creato un esercito nazionale del tutto innaturale, talmente innaturale che è evaporato all’istante appena i talebani hanno fatto “Buh”! E ora gli occidentali scappano , per gli Usa non vale più la pena rimanere lì. Trionfa il cinismo. Ma essere cinici davanti a queste donne, penso a quelle giovani che sono nate in questo ventennio, ci vuole davvero uno stomaco forte.

(Damiano Aliprandi, commento a
Lanfranco Caminitihttps://www.facebook.com/lanfranco…/posts/3143256582576179)

2. Roberto Buffagni

E’ andata male – che sia andata male lo prova il fatto che non vi sono né vi saranno basi americane in Afghanistan – per le ragioni che Andrea [Zhock] riassume e probabilmente anche per quelle che spingono invece te a dire che “gli americani non hanno perso”, ossia perché evidentemente il “complesso militare industriale” americano non ha testa, non ha un centro direttivo strategico coerente come lo ebbe l’Impero britannico, ma agisce in modo acefalo secondo imperativi endogeni, cristallizzazioni di interessi e spinte istituzionali che i centri direttivi strategici imperiali non riescono a influenzare e guidare in modo sufficiente. Perché le cose stiano così non lo so. Forse perché il ceto dirigente USA non si raccoglie più intorno a una egemonia WASP e anglofila, molto coesa, come un tempo. Fatto sta che le cose stanno così, e che quindi gli americani hanno perso ( = se non raggiungi l’obiettivo strategico della guerra hai perso). Sono settant’anni che gli USA non vincono una guerra.

(da https://www.facebook.com/roberto.buffagni.35…)

3. Stefano Azzarà

Più realista del re e incapace di apprendere, la Sinistra Imperiale italiana – indifferente alla tragedia di un popolo ritenuto incapace di intendere e di volere – invoca gli Stati Uniti affinché proseguano l’occupazione e la spoliazione dell’Afghanistan, in nome della democrazia liberale occidentale e richiamandosi oscenamente a Gino Strada.
Anche alcuni di coloro che 20 anni fa si erano opposti alla guerra sembrano ormai completamente vinti e conquistati dall’ideologia dirittumanista.

4. Ennio Abate

* La bomba cade
la bomba cade l’afghano
muore
il mercante d’armi brinda il papa prega
il terrorista si prepara il pacifista manifesta
il poeta scrive versi ispirati
alla bomba che cade
all’afghano che muore
al mercante d’armi che brinda
al papa che prega
al terrorista che si prepara
al pacifista che manifesta
contro la bomba che cade
sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc.
che muore
che non brinda che non manifesta che non scrive versi
che lontano, lontano
riceve solo la bomba della nostra intelligenza.
Dicembre 2007

P.s. 2021
Ahi noi, neppure più “il pacifista manifesta”…
5. Brunello Mantelli
L’analogia Kabul 2021 – Saigon 1975 mette l’accento su chi si ritira (gli USA), mentre l’analogia Kabul 2021 – Phnom Penh 1975 mette l’accento su chi entra (Khmer Rossi 1975, Taliban 2021). IN entrambi i casi, ed al di là dei lessici usati dagli uni e dagli altri, si tratta di eserciti formati da contadini che si rovesciano sulle città, sottomendole e puntando a distruggerle in quanto simbolo della negatività, di ciò che si contrappone a valori altri di cui essi si fanno portatori.
Che poi un paese come l’Afghanistan, ancorché arretrato, possa sopravvivere senza città centro di commercio, senza borghesia del bazar, senza – in particolare – donne inserite in pieno nel tessuto sociale e produttivo (ancorché oppresse, diseguali, costrette a conciarsi come spaventapasseri) è ovviamente opinabile.
Di donne istruite ed attivamente inserite non può fare a meno l’Iran (sebbene governato da una clerocrazia maschile e maschilista), non possono fare a meno gli Emirati del golfo (quantunque governati da emiri degni di un’operetta viennese del XIX secolo), ne può per ora (!) fare a meno la sola Arabia Saudita, che compra la subalternità delle donne saudite con i privilegi che può loro garantire grazie e al petrolio, e allo sfruttamento di una massa di iloti senza diritti fatti venire dagli altri più poveri paesi musulmani.(DA https://www.facebook.com/brunello…/posts/4791260787568841)

6. Gianfranco La Grassa

Credo che non stiano accadendo al momento cose terribili in Afghanistan. Vedremo se i talebani manterranno o meno quanto detto. Ma ciò non dipende affatto da un loro novello spirito “aperto”, ma da quello che non sappiamo circa i motivi del ritiro americano, di qualche accordo che sicuramente c’è stato ben al di là di quello ufficiale di pura facciata (e quindi non mantenuto con la piena consapevolezza dei dirigenti USA), ecc. ecc. Staremo a vedere. Gli USA hanno dovuto comunque accettare di farci una qualche figuraccia.

(DA https://www.facebook.com/gianfran…/posts/10220214549944012)

Da “Riordinadiario 1981”

 

di Ennio Abate

18 marzo 1981

Letture che non mi soddisfano. Dovrei delimitare il campo a quello che posso fare con loro [Attilio Mangano e DP]. No al vecchio rapporto di ascolto paziente delle loro beghe interne. Non essere satellite. Sviluppare ‘Samizdat Colognom’ o qualche iniziativa con insegnanti delle superiori.

Aprile 1981

Lettura di Per Marx di Althusser. Nota finale alla lettura:  Lettura decisiva: – per “tornare” a Marx; – per sottoporre a critica le posizioni di Negri; – per confrontare marxismo e correnti critiche del marxismo.

Lettura  di filosofia della storia di Alfredo Morosetti in F. Papi La filosofia contemporanea, Zanichelli 1981. Il saggio  mi aiuta a superare incertezze e diffidenze rispetto agli ultimi sviluppi della storiografia (Annalès, ecc.). Punti in evidenza: 1) non esiste la Storia, ma le storie (260); – le filosofie della storia sono… reperti archeologici (243); – il sapere dello storico è quello del senso comune (249) ; il “quantitativo” è l’elemento di riferimento della storiografia più aggiornata ( 250)

10 giugno 1981

Attilio  fa l’entrismo in DP: ma con una rivista si può vincere un congresso di partito? E l’entrismo lo vai a fare in un partitino? Il suo   tertium datur non mi convince. Meglio una marginalità cosciente: la mia dal 1976 in fondo. L’”anima” dell’ex ’68 non si quieta in un impegno professionale né partitico. Non mi muovo da solo. Vedi G., B., Circolo vizioso, S., etc. Fino a che punto  seguirli nella loro crisi? Rimangono appendici.  Gironzolare attorno a DP o rientrarvi sarebbe arretramento. Ma non mi convince neppure l’ex Autonomia.

Novembre 1981

Tre giovani detenuti in attesa di giudizio  – Paparo, Valentino e Pironi – a San Vittore hanno iniziato da mesi uno sciopero della fame. Il 3 nov. 1981 ho mandato un telegramma al Giudice istruttore Forno del  tribunale di Milano: «Sollecitiamo libertà provvisoria per gravi motivi di salute di Ciro Paparo Gianni Valentino Roberto Pironi», firmando «Famiglia Abate».
Ho messo anche un cartello nell’atrio del Molinari. Indifferenza. Non ho più nessuno con cui parlare di questa vicenda. La seguo come posso e conservo stralci da il manifesto e da Rinascita. Ne ha parlato Luigi Pintor (manif 24 nov. 1981) quando lo sciopero della fame dei tre  durava  ormai da oltre 50 giorni. Pintor ricorda che i giudici sono divisi tra loro, ma che tutti non ritengono i tre «pericolosi» e che le perizie  testimoniano  della loro «malattia». Dice pure che la solidarietà  verso di loro  è umana più che politica. Il 28 novembre sempre sul manifesto leggo che Stefano Rodotà, «giurista e deputato della sinistra indipendente», ha proposto una nuova legge sulla libertà provvisoria, per riaffermare una «umana interpretazione» della legge contro «una logica legislativa che ha deliberatamente e assurdamente ristretto le possibilità di libertà  provvisoria». (Siamo nel clima della “falsa guerra civile»…). Accanto all’articolo  sull’iniziativa di Rodotà, c’è un’intervista a Ferruccio Giancanelli. Per anni ha diretto l’ospedale di Colorno a Parma ed è uno degli psichiatri che hanno collaborato con Basaglia per «aprire i manicomi». Commenta la richiesta del ministro della giustizia Darida di applicare il Tso «per gravi malattie di mente, per pazienti in stato acuto di malattia» ai tre detenuti in sciopero della fame. E ipotizza come  potrebbe comportarsi un medico per attuare un provvedimento del genere: «Dovrà alimentarli. Tenterà di farlo con flebo punture e tutto l’armamentario  solito. Dovrà fare i conti indubbiamente con le loro resistenze. Quindi userà la forza: somministrerà calmanti, li legherà. Ma questo non servirà a salvarli. Nella migliore delle ipotesi riuscirà a non farli morire. Non a rimettere veramente in moto le funzioni generali dell’organismo. Diventa, alla fine, un gioco di forza, tra chi vuole tenerli vivi e chi ha scelto la morte. Un gioco dall’avvenire assolutamente incerto».

Pintor il 29 novembre  ha scritto ancora un articolo intitolato «Ministri e topi». Si scaglia contro «i giudici, i legislatori, i politici che in questi giorni si sono rimbalzate le responsabilità e si sono nascosti dietro capziose interpretazioni» indicandoli come «l’altra faccia del terrorismo, il segno della sua penetrazione nelle pieghe e nella logica delle istituzioni».

L’11 dicembre, Stefano Levi dalle pagine di Lotta Continua sottolinea anche lui questa concordia discordans tra  Stato e «armati»: «’O infame o prigioniero politico’ dicono gliarmati; ‘o pentito o terrorista’ dicono la legislazione e il magistrato. Su una cosa gli armati e lo  Stato continuano da anni a essere d’accordo: se non sono dei nostri, sono dei vostri. O con lo Stato o con Le BR: cosa vecchia e tuttavia sempre rinnovata. E l’hanno confermata con la tenaglia con cui hanno stretto, da lati opposti eppur concordi, il movimento per la qualità della vita a San Vittore: gli armati con l’assassinio dell’agente di custodia Rucci, attacco dichiarato al “riformismo” del nuovo movimento nelle carcerario; il ministro [Darida] e l’apparato carcerario attraverso il massacro del 23 settembre e la deportazione dei protagonisti di  quel movimento».

Anche  i giovani della FGCI  hanno diffuso un volantino dove chiedono «la decisione, a tempi rapidi, della data dei processi per i tre detenuti in nome della lotta che in questi anni abbiamo combattuto in prima fila contro il terrorismo» e chiedevano pure che venissero fatte «tutte le scelte necessarie, non esclusa, la libertà provvisoria».

Per reagire all’indifferenza con cui a scuola hanno accolto il mio cartello,  ne scrivo un altro e lo metto  accanto alla porta della sala professori.  Nel prepararlo ho in mente Swift e « La modesta proposta» per eliminare la povertà cucinando e mangiando i bambini poveri:

 «Cari Paparo, Pironi e Valentino,
vi preghiamo di concludere velocemente il vostro sciopero della fame. Insomma, non mangiare per più di 65 giorni! Noi siamo dei bravi studenti del Molinari e la vostra insistenza ci dà fastidio. Abbiamo cose ben più importanti di cui occuparci in questo periodo. E meno male che la nostra scuola è piena di persone perbene e indaffarate (in consigli di classe o d’istituto) e che nessun insegnante ha avuto la faccia tosta di parlarci del vostro sciopero della fame. È comparso soltanto uno striminzito cartello nell’atrio che è stato accolto da tutti con la giusta indifferenza a cui ci educano i nostri insegnanti. Noi siamo orgogliosi di leggere solo giornali sportivi e parlare di figa e di moda. E saremo la futura classe dirigente liberata dai condizionamenti del passato. Democrazia? Diritti dei detenuti? Costituzione? Non ce ne frega.  In attesa della vostra morte, ci andiamo a sbafare un bel cappuccino  con briosche e vi porgiamo distinti saluti». La maggioranza silenziosa del Molinari»

Nota 2021

Reagì al mio cartello con un suo una studentessa indignata, una certa Anna. Non dispongo  più del suo ma soltanto della mia replica:

LETTERA  AD UNA STUDENTESSA

«Cara Anna,
sono soddisfatto per il tuo indignato cartello. Era quello che mi aspettavo (o desideravo). So che molti hanno trovato pesante e di cattivo gusto la mia provocazione. E altri, più superficiali, mi avranno dato del fascista. Ma meglio lo sdegno e le critiche che il silenzio e l’indifferenza. Ora non voglio tranquillizzarmi o tranquillizzarvi troppo presto. Il mio cartello, infatti, non era uno “scherzo”. E neppure la caricatura di un modo di pensare diffuso. Se l’ho firmato «La maggioranza silenziosa» è perché sono convinto che le idee che vi ho riportato sono oggi sempre più popolari nel nostro Paese e, di conseguenza, anche al Molinari. 
Del resto è stata proprio la maggioranza degli italiani che silenziosamente nelle urne elettorali ha bocciato in occasione degli ultimi Referendum (maggio 1981) la proposta di abolizione dell’ergastolo.
C’è un “cancro” che ci rode. I suoi sintomi sono la paura, l’indifferenza, il cinismo. E fanno sentire i loro effetti  non solo sulla complessa questione giuridica dei detenuti politici incarcerati per sospetto terrorismo ma di fronte ai  tanti casi di giovani che muoiono per consumo di eroina, di operai licenziati o dei terremotati  della Campania abbandonati a se stessi.

Col mio cartello, mi  sono proposto di far capire che nella nostra società stanno prevalendo comportamenti reazionari. E ho pensato di usare il linguaggio tipico dei reazionari esponendolo in tutta la sua oscenità e il suo cinismo. Certo, il mio cartello – come si dice – “può essere controproducente”. Ma è l'unico modo che ho di denunciare lo scandalo di un Paese democratico che, di fronte alla notizia di questo sciopero della fame fa passare due mesi e poi dichiara di voler seguire per bocca del suo Ministro di Giustizia l’esempio della signora Thatcher che ha fatto morire [8 maggio 1981] in carcere Bobby Sand, il militante dell’Ira nordirlandese, che anche lui ha rifiutato il cibo per 66 giorni in segno di protesta contro le sue condizioni detentive.»

10 dicembre 81

 Visita a Carlo Oliva. Per discutere di  carcere. Intenzione di  studiare alcuni temi: garantismo classico, vita carceraria, diritti umani, significato del carcere e delle pene. [Pensavo-pensavamo ad un’antologia di testi? E ad alcuni colloqui per orientarmi. Con Moroni, Sergio Spazzali, Rambaldi, Molinari, Fortini]

11 dicembre 81

Sul documento di Stefano Levi [presentato forse al “Circolo Vizioso”?]. Responsabilità degli intellettuali che  avevano informazioni ma non le hanno fatte circolare e magari si sono autocensurati. Luoghi comuni della sinistra “intelligente”. ( L’influenza del taglio  da Circolo vizioso è fastidiosamente presente nella mia testa…).

Innestare nel vivo del corpo sociale ( nel nostro caso la scuola) il dibattito sul tema del carcere e della repressione finora confinato in circoli intellettuali. Mia ipotesi: la tendenza autoritaria è penetrata nello stesso pensiero dei difensori delle libertà civili.

14 dicembre 1981

Visita a Fortini. Necessità di raccogliere  dati dal carcere. Valutazione degli spazi politici offerti anche solo strumentalmente dai partiti. Necessità di avere la forza politica per muoversi, Non basta autoconfermarsi.  Il potere militare paralizza quello politico. Sprecato muoversi solo in una scuola (al Molinari). Puntare sugli studenti. Rivolgersi agli insegnanti di filosofia  dei licei classici e scientifici. O a quelli di diritto (negli istituti tecnici). Sua diffidenza verso la comunicazione “per provocazione”. Puntare alla persuasione. Limite della iniziativa tenutasi  al cinema Cristallo [?] con Levi [Stefano?] ed altri. Era per lui senza forza politica.

Dicembre 81

Un po’ d’illuminismo lombardo ( e meridionale), signori!/ per seguire il dibattito sul sistema carcerario/ per incontrarci con magistrati, politici, familiari di detenuti/ per indagare dal punto di vista “umano”, psicologico, politico ,legale/ per non ridurre i detenuti a “mostri”/ per sensibilizzare l’opinione pubblica (mostra, audiovisivo, film). [Comitato contro la repressione palazzina Liberty?]

 “Riflessioni sulla repressione. Appunti ( dic 1981 – feb 82)

Lettura. Introduzione  di Ricci e Salerno a “Il carcere in Italia” del 1971. Non mi dice molto. Mi paiono  due ricercatori di formazione illuministica che oscillano fra rivoluzione e riformismo e se la cavano ribadendo la loro fiducia nella conoscenza.

Lettura. “Il sovversivo” di Corrado Stajano del 1975.  Ha condotto un’indagine puntuale sulla breve vita di Franco Serantini. Viene fuori la sua infanzia povera vissuta in una famiglia che l’aveva adottato. Stajano  parla della vita negli orfanatrofi e nell’istituto di rieducazione di Pisa, del passato fascista della città, del ’68 pisano e della  politicizzazione del ragazzo povero, della sua militanza anarchica (aveva abbandonato Lotta Continua), del comizio fascista e delle violenze della polizia. E  ha raccolto le testimonianze degli ultimi compagni che lo videro vivo. Poi descrive la sua agonia in carcere e il funerale. Accenna anche alla crisi di un commissario di   polizia  che «non riusciva a spiegarsi perché Serantini non  fosse scappato» (125).

Non mi piace di Stajano la sua voglia di nobilitare la figura di Serantini inserendolo  nello sfondo democratico-resistenziale.  E poi ha un atteggiamento paternalistico e  da esterno. Sottolinea  fin troppo la vita culturale medio borghese di Pisa e senza mai ipotizzare che ci fosse un’estraneità o una subordinazione (non buona) del giovane a quella cultura. Perché, infatti, aveva abbandonato Lotta Continua?

Lettura. Un articolo di Alberto Ferrigolo sul  manifesto del 7 febbraio 1982. I fermati  per sospetto fiancheggiamento delle BR vengono interrogati con una benda sugli occhi «così da ridurre il senso dell’orientamento» e  tenuti in stanze semivuote alla presenza di psicologi. Con questi sistemi e «senza violenze, l’effetto voluto si raggiunge in breve tempo».

Gente di Colognom

Prenarratorio  1982

di Ennio Abate

1.

La vecchia e i bambini

Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.

I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .

Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.

2.

La madre e la bambina

La bambina in cortile.  Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.

3.

I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.

4.

In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.

5.

Il capogruppo consiliare del PCI

Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo.  Eppure  rimaneva una tensione  sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi  anni  il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto  i compagni del  prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva  invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono  dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati  fasciati stretti  anche loro:  i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle  due loro esistenze,  dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce  irritante, insopportabile. E  quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era   caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa,  la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi  da cui si erano lasciati  sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima –  avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente  divisi e contrapposti.

 6

Una casalinga

La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto  – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto  rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della  pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.

Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte  e macchie di sporco. Bambole, libretti  illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno  mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi  per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.

7.

 L’autoscuola

Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era  fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi  piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei.  Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento  e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito   posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e  rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora  lo minacciava.

8.

 Un vecchio

Entrò nel bar per comprare  una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava,  assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura  deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso  proprio in quel bar.  Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò,  elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che  amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.

9.

Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni  seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale.  Quando se ne andarono, quelli che  l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito.  Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza.  La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni  e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che  era stata  battona.

10.

Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia  biblioteca. Guarda fisso  la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non  so  se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando  – lui studente al biennio –  feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O  mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?

Da “Riordinadiario 1982”

Tabea Nineo, Prova 15 feb. 2015

di Ennio Abate

Gen 1982

Appunti su Francesco Orlando (da quale lettura? Forse articolo de L’indice dei libri?) Freud rischia di leggere i testi letterari come se fossero i suoi pazienti. Tiene conto del legame tra testo e biografia, ma trascura il destinatario. Trascura cioè la differenza sostanziale tra il linguaggio dell’inconscio e  quello della letteratura. Quest’ultimo ha sempre un destinatario. Più interessanti sono i suoi scritti sul motto di spirito. Qui Freud è attento proprio al linguaggio. Dopo Freud l’attenzione maggiore al linguaggio dell’inconscio la troviamo in Lacan, sostenitore della tesi che l’inconscio è strutturato proprio come un linguaggio (di cui privilegia i significanti) e come questo ha una sua (precisa) retorica (c’è un legame tra il linguaggio dell’inconscio e la antica retorica delle figure, ripensate in epoca contemporanea da Genette; per cui più è alto il tasso di figuralità di un testo e più forte è il suo legame con l’inconscio). Orlando dà anche una visione originale della funzione della forma in letteratura. La vede come uno strumento per aggirare la censura. E di conseguenza analizza la letteratura come il luogo in cui  si ha un ritorno del represso (individuale e sociale), che, proprio grazie alla sublimazione tipica della forma letteraria, viene reso fruibile ai lettori.

Lettura. Fortini, Un’obbedienza (S. Marco dei Giustiniani 1980)

Lettura. Eco, Le forme del contenuto (Bompiani 71) Sostanza del contenuto: insieme dei concetti esprimibili sulla realtà (asse semantico, campo semantico). Non vanno confusi con la realtà.  Il contenuto è ciò che è possibile dire sulla realtà.

Un’idea per carnevale. Annunciare per una certa ora in un determinato luogo di una città un evento sorpresa

Riaccostando Proust La prefazione di Macchia. Intensa e tutta psicologica. Mi accorgo delle conoscenze di medicina, di psicologia, di estetica che aveva Proust. Vengo a sapere del suo metodico lavoro preparatorio (letture, stesura di schemi). Quando lo lessi da giovane a SA neppure lo sospettavo. Vedevo la fonte della sua scrittura quasi interamente in esperienze mondane privilegiate, che mi rendevano distante la sua figura e la sua stessa opera. Contaminazione di saggio e romanzo. (Come vorrei fare per Narratorio ?).

Feb 1982

Letteratura e psicanalisi (conferenza tenuta al[ITIS] Molinari?) Analisi strutturalista di Rosso malpelo.  Novella psicologica (vissuti, poca azione, uso raro del perfetto). Questo è il personaggio più intellettuale e autobiografico di Verga. Tempi e spazi indeterminati. Preoccupazione metastorica, esistenziale. Tempo reale, tempo narrativo: dell’evaso si racconta in breve quanto accaduto in lunghi anni (condensazione). Altri episodi (morte del padre) vengono dilatati. Sistema dei personaggi. Tutti hanno rapporti con Malpelo ma non tra loro. La struttura è incentrata sul protagonista. Gruppo oppressori e gruppo oppressi. Stratificazione sociale presentata come “naturale”.

La società come ossessione attraente. La politica come complicazione. A patto di mantenere saldo il pensiero conoscitivo.

Lettura. Patrizia Cavalli

 Parola quieta stanza/ Giovinezza è passata/ Indecifrata?

Mar 82

Sentenza strage di BS (Piazza della Loggia). Tutti assolti i fascisti imputati ( e condannati in prima istanza).

Case. Esistono in Italia 4 milioni di case non occupate (seconde case, ecc).

Scuola, Molinari. Alla prima ora passa una circolare. Alla seconda tutti gli studenti del biennio «accompagnati dagli insegnanti» sono ammassati in aula magna a sentire un prof universitario di Pavia che tiene una conferenza sull’unità europea. È sopportato. Due studenti gli fannol a domandina. Poi via.

Tazebao: Misfatti pedagogico-politici.  Carnevale. Un po’ di uova marce, un po’ di farina  o borotalco. Un’incursione di un gruppo di studenti del vicino 7° ITIS. È bastato per chiudere il Molinari per una settimana. Alcuni parlano di “vacanza”. Anche quella di Caporetto era una semplice “ritirata”.

 In due classi del biennio (1-2H) due insegnanti devono assentarsi per ben 15 giorni. Non viene nominato nessun supplente. Un esempio di “risparmio energetico” del Ministero della P.I.

Falso movimento di Wim Wenders  Personaggi senza storia. Immersi nei loro ‘io’(maschili). Angosciati dalla morte (l’industriale), dal passato (il vecchio nazista), dalla vanità (il poeta fannullone). Si comunicano tra loro soltanto dei sogni. E quando la realtà li sorprende (il suicidio dell’industriale) fuggono. Solo la donna e la fanciulla hanno volti e desideri  positivi (negati dagli altri). Troppo sturm und drang?

«Voglio morire!».

R  Fa dal spalla a uno psicologo per il caso di una ragazza (pare anoressia). Lodi. «Sei sprecata a fare l’impiegata». Eh, sì, i proletari sono sempre sprecati.

Di Bella  Parliamo di questi “tempi di piombo”. Conferma.

Mi propongo di andare a trovare in 4ta una mia vecchi alunna balbuziente.

Su Agostino di Moravia. Anche per Fornari il testo letterario è sempre un prodotto di un desiderio inconscio, che il lettore ritrova. Avrebbe una funzione conoscitiva, a volte superiore a quella possibile nel rapporto analitico. Per Fornari le classi sociali sarebbero qualcosa di immaginario e la lotta di classe è la lotta che ciascuno condurrebbe col suo essere pregenitale. L’opera letteraria sarebbe tutta simbolica e senza referenti reali.

Assemblea degli studenti. Implorano quasi guida e autorità. Hanno   fame di leader.  Gli butto giù come birilli gli interlocutori a cui intendono “chiedere aiuto”. Cerco di insistere sulla loro capacità di far da soli.

Siamo esiliati nelle nuove generazioni.

K. Pomian alla Casa della Cultura Dopo decenni di “storia immobile” si sta sviluppando un ritorno alla storia del “vissuto”.

Bellone. Conferenza organizzata da Scientia Polemica con quanti parlano di «crisi della ragione» (Gargani?). Risibile la risposta di Geymonat all’insegnante che chiedeva se i programmi ministeriali li fanno i filosofi o gli scienziati: «Gli scienziati oggi pensano poco a queste cose»

 Lavoro di inchiesta con Roberto B. e Paola C. e una delegata sindacale della Rorer di Monza Ci riferisce della sorpresa dei membri del CDF [Consiglio di fabbrica] di fronte ai risultati del questionario: gli operai s’identificano con gli obiettivi produttivistici dell’azienda. Ma allora gli operai sono rivoluzionari o reazionari? Il ruolo dei capi. La rivalità tra i lavoratori. Dobbiamo aprirci e saper ascoltare cose diverse da quelle che pensavamo in passato. Non c’è solo l’antagonismo.

Per Paola e Roberto  le “cose diverse” a cui aprirsi mi  paiono a senso unico. Sono quelle per me “riformiste”. Nel gruppo di ricerca non mi pare che ci sia una comunicazione problematica e paritaria. Le loro domande dai toni aggressivi mi  mettono nel ruolo di uno studentello, di uno “che non si capisce che cosa vuol dire”. False scuse finali («Ti sei incazzato?).

Telefonata di W Lo psicanalista che aveva in analisi la sua ragazza gliel’ha “fregata”. Adesso la ragazza è combattuta tra i due.  Mi chiede se può denunciarlo. Gli chiedo: Cosa ti proponi di ottenere con la denuncia?

Sez. sindacale del Molinari.  5 persone. S. e M. giocano a far risorgere dalle ceneri il sindacato. M. spocchioso nei miei confronti: «Invece di vedere tazebao firmati  Samizdat, tanto poi la bidella panciona mi dice: è il solito prof (matto)».  Di S. ho poco da fidarmi. Sa che la sezione sindacale è intrallazzata con il preside. È lui stesso isolato, ma fa il politico opportunista («Bisogna vedere le cose in generale»).

Dramma. Cresce il mio impegno nello studio. Diminuisce il campo della comunicabilità di ciò che studio.

La mia tendenza a star solo è profonda. È una scelta. Non posso accusare gli altri di emarginarmi. Anche se da parte loro ci può essere vera miopia. Sono convinto della necessità di  assumere posizioni “eretiche”.

Giugno 1982

Il nevrotico è assediato dalla realtà, lo psicotico ne è esiliato (da Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)

Mia tendenza a fare quasi confusione tra psicanalisi e femminismo. O tra psicanalisi e “psicanalismo” (pregiudizi corroborati da una cattiva o scarsa comprensione della psicanalisi). Tendo ancora ad attribuire più valore ad un politico, a uno storico, a un sociologo che a uno psicanalista.

Libreria CELES di Cologno, etc. Come accorgersi della decomposizione di uno stronzo che avevamo prodotto una volta. Purtroppo.

Lettura di Schnitzler. Doppio sogno. Crisi di una coppia. Racconto senza sbavature e più mosso e complesso di Fuga nelle tenebre. Capita a proposito!

Voce Eros Enc. Einaudi. Deleuze e Guattari. La pulsione di morte è rivoluzionaria quanto quella di vita, perché è «capacità di distruggere e cambiare le istituzioni» (669). Dubbi. Kristeva: Valorizzazione delle avanguardie artistiche: Artaud, Kafka, Joyce. Valorizzazione dell’infrazione linguistica (672). Penso ai testi di PDG.

Settembre

24.9.1982

[Insegnando storia al biennio] Cresce il mio interesse per la storia. È alimentato dal mio lavoro d’insegnante e dalla lettura dei manuali in uso, ma anche disturbato o bloccato dalla disattenzione e dall’indifferenza degli studenti. Finisco per leggermi e studiare il manuale per conto mio. Ma quello che ho trovato adottato (autori Di Tondo e Guadagni) è un pesante carico di nozionie senza un filo di racconto  ben individuabile.

Ho fatto un confronto con il manuale di Mario Vegetti. L’argomento della preistoria è svolto da Vegetti in 15 pagine, che comprendono anche 4 letture e 7 pagine  illustrate.  La linea del manuale è chiara: no alla storia «archivio del potere» o «favola del progresso»,; no al mito dell’«obbiettività»; necessità di una «teoria» della storia antica che ne evidenzi la diversità dall’oggi; rifiuto del mito della classicità, intesa come momento di perfezione; lettura delle società antiche alla luce dei «modi di produzione e dei rapporti sociali» (Marx). Il materiale storico proposto è ridotto e semplificato; e la narrazione dei fatti è preceduta (e quindi subordinata) alla «descrizione dei quadri sociali» permanenti per secoli.

Quello di Di Tondo e Guadagni dedica allo stesso tema  ben 46 pagine, con 26 letture (distinte in documenti e problemi) e ha 24 pagine di illustrazioni. Dà molto spazio al racconto e dichiara una volontà di aggiornamento scientifico. Ha un’esposizione per problemi e pretende d’introdurre lo studente al lavoro storiografico. Mi pare inutilizzabile dallo studente e poco adatto anche alle esigenze di aggiornamento dell’insegnante.

Non me la sento di trascurare le reazioni negative dei ragazzi né di predicare loro l’«oggettiva importanza» di studiare la storia.  Posso solo incoraggiarli a una lettura attenta di  alcuni capitoli e fargli approfondire qualche argomento con un’interrogazione maieutica. Posso anche  usare qualche loro domanda per coltivare la loro curiosità. Nulla di più.

26.9. 1982

[Ancora sul mio insegnamento della storia] Ho molte incertezze. Non so decidermi  a far studiare la storia antica a ragazzi che non ne vogliono sapere né a scegliere tra un’impostazione e l’altra. Dietro la mia difficoltà c’è anche la mia crisi di intellettuale che finora si è interessato soprattutto a un periodo limitato della storia: quella contemporanea, quella della nascita e crescita del movimento operaio. Avevo fatto la tesi sui «Quaderni rossi», tema collegato all’impegno politico degli anni Settanta. E nei primi anni d’insegnamento ho continuato a privilegiare la storia contemporanea. Partivo dalla rivoluzione industriale e arrivavo a questioni attuali. La crisi della militanza politica mi ha portato ad accettare il «programma» e a fare storia antica e medievale da sempre trascurate. E così mi sono trovato di fronte anche alle lacune sia dei miei studi liceali sia di quelli universitari compiuti da lavoratore-studente. All’università gli esami di latino e storia antica li ho fatti in fretta e male. Quello di Storia medievale dovetti ripeterlo. La resistenza dei ragazzi a studiare storia  è  solo un aspetto del problema. L’altro è la presenza di vuoti nella mia preparazione.

Ragionamento sui nostri antenati (2)

Borso vs Cases 1954

di Ennio Abate

Con in mente le domande[1] che mi sono posto nel primo «Ragionamento sui nostri antenati» (qui) sono andato a rileggermi «Un giovane contro il Leviatano, recensione di Cesare Cases a due romanzi brevi di Arno Schmidt, Leviathan [Leviatano, 1949] e Die Umsiedler [I profughi, 1953]» uscita sul numero di ottobre 1954 de “Lo Spettatore Italiano” e ripubblicata nel sito germanistica.net nel 2013 (qui).

Ho selezionato – le sottolineature sono mie – questi brani:

1. «Arno Schmidt ci mostra che l’esistenza di un enfant terrible, animato da sentimenti eversivi contro ogni autorità e contro le forme tradizionali, eppure (incredibile a dirsi) sincero, è ancora possibile. Di questo atteggiamento egli ci dà una nuova, notevole variante che merita la nostra attenzione proprio per la sua unicità».

2. «lo sfoggio di cultura non riesce sgradevole».

3. «si finisce per preferire coloro che, come Joyce o questo Arno Schmidt, ti offrono implicitamente la loro biografia culturale, cioè la genesi della decomposizione, spesso assai più interessante della decomposizione stessa e in ogni modo presupposto indispensabile a comprenderla».

4. «Però qui [in Schmidt] la cultura ha anche una funzione positiva, che non aveva nemmeno in Joyce: non è soltanto un’eco, ma una promessa. Nella distruzione totale dei valori, in un mondo leviatanico, i libri sono un punto di riferimento, un appiglio. Poiché il nichilismo dello Schmidt non è per nulla compiaciuto e soddisfatto».

5. «Certo nei suoi lineamenti esteriori (il ripudio di ogni autorità) esso ricorda da vicino, per esempio, gli espressionisti tedeschi; e quando si sostiene la malvagia natura leviatanica del mondo con una disordinata, ma imponente girandola di immagini astronomiche, matematiche, fisico-chimiche, dietro di esse è facile intravedere il gran maestro dei poeti scienziati della decomposizione: Gottfried Benn. Ma anche qui si rivela come il mezzo migliore per trovare la propria personalità sia quello di affrontare risolutamente le letture fatte alla luce delle proprie esperienze, senza scansare né le une né le altre per cadere nell’imitazione o nell’immediatezza. Ora l’esperienza fondamentale dello Schmidt è il nazismo, per cui egli prova un orrore profondo e genuino, rarissimo, ahimè, tra i tedeschi d’oggidì»

 6. «c’è nel suo anarchismo qualche cosa di profondo e di indistruttibile: il momento dell’indignazione giovanile, della piena del cuore ferito».

 7. Diverso discorso è da fare per il primo racconto, Die Umsiedler (Gli emigranti). Si tratta di due profughi dalla Slesia, un uomo e una vedova di guerra, che traversano il Rheinland e poi trovano una residenza stabile nel paese di lei, dove conversano interminabilmente di amore ed altre cose. Qui l’anarchismo si fissa in modo accademico. «Niente più guerra, niente più miseria! Il mio voto se lo piglia il partito che è contro il riarmo e per la limitazione delle nascite!». «Dunque nessuno?» «Dunque nessuno». Puro malthusianesimo espressionista. Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati: ci sembra più umanista quell’altro. È ancora tanto abile da introdurre nuovi felici varianti dei vecchi spunti, per esempio del motivo antireligioso. […] Fa piacere vedere che l’anarchico irriducibile non cade in certe trappole cristiano-occidentali, ma la sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: «Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)». Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche.

Questi passaggi della recensione di Cases a me – non germanista ma lettore attento – sembrano confermare  che non si possa parlare di «stroncatura», valutazione di Michele Sisto, con il quale ho trovato vari punti di concordanza (qui); e neppure di «una recensione perfidamente diffamatoria» (Borso). 

Ci sono poi i passi che Borso ha  trascritto nel suo saggio, puntualizzando o  commentando con  sue veloci battute in contrappunto a Cases. La  sue puntualizzazioni[2] si basano sicuramente su notizie più precise sullo scrittore. Borso se l’è procurate più facilmente rispetto a Cases, che ai suoi tempi, essendo  al primo approccio con questo autore, si muoveva con una scusabile (credo) approssimazione. Da cui deriva l’errore sull’età di Schmidt, per cui ne parlò e l’apprezzò in un primo momento come se fosse un giovane.

Sulle considerazioni[3] in cui Cases fa trapelare sarcasmo o incomprensione riconducibili o alla sua condizione e mentalità borghese[4] o alla sua ideologia marxista, il discorso è più complicato. Ci vorrebbero almeno accenni al contesto storico (e, dunque al nazismo, alla Guerra Fredda, alla Russia stalinista). Mi pare  insufficiente richiamare di tutto ciò solo un dato, come fa Borso (il «silenzio assoluto di Cases sui 10 milioni di profughi tedeschi sospinti verso il Reno dove oltre la metà delle cases senza esse [sic]  era stata abbattuta dai bombardamenti alleati», alludendo implicitamente ad una colpevole complicità del Cases  stalinista, senza i necessari approfondimenti).[5]

C’è un altro problema a cui ho già accennato. A uno studioso come Cases , da molti considerato tuttora un intellettuale europeo e un militante politico della sinistra marxista più critica a, possono essere mosse molte critiche. E anche quelle di Borso – l’ho detto dall’inizio di questa polmica –  sono legittime. Ma  il richiamo ai dati empirici (« solo dati e tutti dati») o alla massima di Dal Pra («prima la topica, dopo la critica») non dovrebbe essere assolutizzato rigidamente. Non ci si può fermare ai dati, come se i dati  parlassero e cantassero da soli e per tutti i lettori con una loro perfetta evidenza. Anche se dicessero che Cases era stalinista, c’è da capire che tipo di stalinista fu. Pur essendo stalinista e iscritto a lungo al PCI anche dopo il ’56 ungherese, a me non pare che Cases, come del resto il suo maestro Lukàcs, lo sia stato al 100%, come un Togliatti o un Alicata. Certo non ebbe l’indipendenza del Fortini dei «Dieci inverni» e lo vedrei più vicino alla Rossanda responsabile dopo il 1948 della Casa della Cultura di Milano. E perciò mi sento di ripetere quanto detto in un commento: ce ne fossero stati nel PCI stalinisti del genere di Cases che ebbe il coraggio e l’apertura per pubblicare, sia pur con tutto il travaglio e i compromessi che Borso evidenza ma enfatizza, il libro di uno scrittore anarchico tedesco come Schmidt. Sarebbe antistorico pretendere che Cases in quegli anni sputasse su Stalin.

Un amico esterno a Poliscritture 3 mi ha scritto: «l’approccio di Borso è legittimo, e vale ciò che vale. E’ il lettore consapevole che darà all’intervento il suo giusto peso. Chiaro: se si pensa che sia il modo migliore (o unico!) di fare critica militante o anche polemica “civile”, si sbaglia. E si finisce davvero in una specie di moralismo ingenuo e perverso alla grillina. Però non capisco perché dar l’impressione di attaccare chi scrive certe cose…se sono vere, che male c’è? Quanto alle valutazioni/opinioni che se ne traggono, chi scrive se ne prende intera la responsabilità. E’ il suo modo di mostrare ci che lacrime grondi e di che sangue l’industria culturale nazionale, anche ai più alti livelli. E allora? Io leggendo Borso so qualcosa di più circa Cases & co. Un grammo, un niente. Ma preferisco averlo saputo. Va da sé che guadagno anche nella conoscenza di Borso, e di chi ha un approccio come il suo. Insomma: non mi scandalizzerei più di tanto. E preferisco comunque interventi (certo discutibili, e che infatti vengono discussi) come questi di Borso alle “lenzuolate” celebrative».

Concordo. Per me un critico può anche porsi il compito di sgretolare l’immagine di un intellettuale influente o ritenuto un’autorità nel suo campo o, come si dice, regolare i conti con lui. E anche senza tenere conto del “contesto” o dando peso ad episodi specifici e documentati, ma io posso chiedermi anche dove va a parare la sua ricerca. E tener presentei rischi che essa confluisca e rafforzi una cultura di destra, com’è già accaduto con la Nietzsche-Renaissance alla fine degli anni Settanta, piuttosto che aprire ad un nuovo tipo di critica, che per ora appare confuso o indecifrabile. E, infine, dire che trovo inaccettabile che Borso mi attacchi gratuitamente, attribuendomi cose mai dette[6], malgrado abbia sempre mantenuto nei suoi confronti un atteggiamento  di apertura ragionevole.

Note

[1] «cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?»

[2] 1.Cases: «Leviathan è il resoconto di un viaggio in treno, sembra da Berlino poco prima della caduta, verso una destinazione ignota».

1.1. Borso: «In realtà da Lauban a Görlitz, cittadine della Slesia (ora Polonia) dove Schmidt, figlio di una casalinga e di una guardia notturna, abitò negli anni Trenta, prima di farsi cinque anni di guerra e uno di prigionia».

2.  Cases: «Nel treno ci sono varie persone tra cui, oltre al narratore, una ragazza cui lo legano imprecisi rapporti amorosi».

2.1. Borso: «In realtà suo grande amore delle 4 superiori, e un vecchio col quale fa “lunghi discorsi filosofici” dove la “cultura è usata in buona parte in funzione formalistica, estetizzante, per dare delle belle liste sonanti di nomi”».

3. Cases: I due «conversano interminabilmente di amore ed altre cose».

3.1.Borso: «Il romanzo è di 50 pp., occupate per 1/10 dalle loro conversazioni (Schmidt in proposito affermò: “Io ci metto il dado, i lettori l’acqua”».

[3] Cases:«Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati».

 Borso: «Così comodamente da patire freddo e fame, giusto come Arno e la moglie, che si nutrivano di erbe selvatiche)».

Cases: «La sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: ‘Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)’».

Borso: «Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche’”. 80 voll. trasportati a mano dalla Slesia, abbandonando tutti gli altri. L’Ahimè è inqualificabile i. e. abietto.  Quanto al cittadino del mondo, de quo fabula narratur?».

Cases: «La stessa decadenza è nello stile, sempre abile, ma questa volta freddamente abile. C’è un richiamo ancestrale nel fatto che i due si stabiliscono a Bingen, patria di Stefan George (evocato anche dai caratteri «Sparta»)».

Borso: «Bingen è una delle tante fermate del treno che li porta a GauBickelheim, dove s’installano scomodissimamente. Lo Spartan ritorna qui come tedesco-ancestrale i. e. reazionario; in effetti i caratteri senza grazie coniati da George negli anni Dieci vennero ripresi alla fine dei Venti da Paul Renner, tipografo del Bauhaus che inventò il Futura, di cui lo Spartan è un’evoluzione (con buona pace dell’antiamericanismo)».

Cases: «Preferiamo continuare a credere che lo Schmidt abbia incarnato, almeno per un momento, la ribellione della genuina ‘gioventù del mondo’ contro la barbarie nazista”, sperando “si accorga che ci vuole un minimo di organizzazione anche per combattere il Leviatano. A meno che non si ritiri nell’egoistico menefreghismo malthusiano degli Umsiedler, il quale, come è ormai ampiamente dimostrato, è una delle più salde colonne su cui le tirannie leviataniche instaurano il loro sanguinoso terrore”».

Borso: «Organizzazione comunista, s’intende, come quella italiana cui Cases rimase iscritto fino a tutto il 1958, digerendo i fatti d’Ungheria del 1956 (carrista quindi) ed anzi soggiornando in DDR nel 1957».

[4] Accennati nella breve nota biografica: nato a Milano il 24 marzo 1920 a due passi dalla centralissima casa Manzoni, di agiata famiglia ebrea, liceo Parini fino alla promulgazione nell’autunno 1938 delle leggi razziali, per proseguire gli studi emigra in Svizzera sostenendosi con la retta passatagli fino all’autunno 1943 dai genitori, poi fino al rientro in Italia nell’autunno 1945 da un parente; nel 1946 si laurea in filosofia alla Statale di Milano, nel 1951 si iscrive al PCI, nel 1954 insegna alle superiori a Pisa, entra in casa editrice Einaudi come referente per la letteratura tedesca e scrive appunto la recensione, che qui epitomo intercalandovi in corpo minore puntualizzazioni tratte da Leviatano, Mimesis 2013, e I profughi, Quodlibet 2016 (entrambi a mia cura).

[5] Ho cercato del materiale e sono riuscito a fare solo una prima lettura di questo saggio di Michele Sisto, (PDF) Gli intellettuali italiani e la Germania socialista. Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases | Michele Sisto – Academia.edu) che fa parte di un volume di cui si danno notizie qui: (Riflessioni sulla DDR | germanistica.net). Da approfondire mi pare anche la lettura di questa intervista a Cases  della fine degli anni Novanta: http://www.germanistica.net/2013/06/10/intervista-a-cesare-cases/

[6] «ora, a te va bene un’edizione che riporta solo la metà dei pareri: tu ami la censura, e pure il tuo censore, il dott. Superio. e questo ti affumica il cervello, perché pur di salvare Cases ti fa addirittura piacere scopare sotto il tavolo metà giudizi di lettura»(db 27 Luglio 2021 alle 21:20 )

Ragionamento sui nostri antenati (1)

Il saggio  di Dario Borso, “COLPO BASSO. Cesare Cases vs. Arno Schmidt ” (qui) mette in discussione – e con salda documentazione – i limiti del giudizio  che un germanista di fama come Cesare Cases  diede di un importante scrittore tedesco del secondo dopoguerra, Arno Schmidt, considerato  invece da Ladislao Mittner, l’autore della monumentale «Storia della letteratura tedesca», «un ulisside della specie di Joyce». Non ho competenze specialistiche sulla materia affrontata da Borso.

E allora perché intervengo? Per  alcuni buoni motivi. Tranne Cases, seguito soltanto in occasione di qualche conferenza a Milano ma di cui ho letto vari libri e articoli, ho avuto modo di conoscere e incontrare nei loro ultimi anni di vita prima Fortini e poi Renato Solmi e Michele Ranchetti. Nel ‘68 seguii la polemica  cruciale tra Fortini e Fachinelli sui Quaderni Piacentini a proposito del «desiderio dissidente» e de «il dissenso e l’autorità»; e, successivamente, anche se seguii  più distrattamente e con distacco la polemica su «Minima Immoralia», divenuto  sempre più attento alla ricerca psicanalitica, ho letto vari libri di Elvio Fachinelli, di cui  tra l’altro mi parlava  con grande stima un altro dei pochi scrittori da me frequentati, Giancarlo Majorino.

Nella mia esperienza di lettore (e di militante politico), dunque, tutti questi autori hanno fatto per me parte di un’unica costellazione politico-culturale. Indubbiamente  di sinistra, area -cosa non trascurabile –  almeno fino alla fine degli anni Settanta ben distinta dalla destra. E questo malgrado le diversificazioni e le forti tensioni ideali e personali tra loro.  Leggere oggi queste  critiche contro Cases, un autore che – ripeto – ho sempre apprezzato, mi ha costretto a  farmi varie domande: cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?

Della  messa in discussione di Cases o di altri, che io considero tra i “nostri antenati” da studiare e riproporre, non mi scandalizzo. Seguo, infatti, con convinzione  la raccomandazione di Fortini. Che diceva all’incirca: prendete da quel che ho scritto ciò che vi  serve e il resto buttatelo pure.[1] Né  sono difensore d’ufficio di nessuno.  E perciò, siccome la polemica  di Borso contro Cases ha rinverdito nella mia memoria quella degli anni ’60-’70 tra neoavanguardia e intellettuali marxisti ( Pasolini, Fortini, Cases, Quaderni Piacentini, Sanguineti, Filippini, etc.)  e sotto sotto mi ha rimandato a quella vecchissima tra anarchici e comunisti,  quando ho letto i  suoi primi pezzi, ho drizzato le antenne. Disposto a prenderlo sul serio ma deciso anche a capire se quel che scrive mi convince o meno. Perché a scatola chiusa non prendo nulla. E gli ho, perciò, prima  fatto in privato alcune stringate e interlocutorie obiezioni[2]; e poi sono intervenuto pubblicamente e decisamente su Poliscrittture e su Poliscritture FB. Invitando a sentire meglio anche le altre campane. Perché schierato ciecamente con  Cases contro Borso? Suvvia. Solo perché nelle altre campane (Cases, Solmi, Sisto; e per quest’ultimo mi sono riferito esclusivamente al suo intervento su  germanistica.net qui) ci sono spunti interessanti che Borso, secondo me, ha trascurato o escluso non ritenendoli coerenti con il suo metodo critico.

Questa è la premessa della mia riflessione e mi fermo qui. Nelle  successive puntate esaminerò le prese di posizione di Cesare Cases nei confronti di Arno Schmidt riportate da Borso; quelle sulla pubblicazione di «Minima Immoralia» nell’edizione L’Erba Voglio (almeno nella parte che ho potuto consultare); e, dopo aver riportato stralci delle “varie campane”, trarrò le mie (provvisorie) conclusioni. [E. A.]

Note

[1] «…‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!». (Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani,  Boringhieri, Torino, 2000)

[2] Ennio: «1. Cases era un borghese ma fu comunista (male, bene: ai posteri...); 2. Il suo comunismo non era (del tutto?) dogmatico perché corretto/temperato da un anarchismo, che secondo me prendeva qualcosa anche da Brecht (magari giovane); 3.Oggi si tende a parlare della psicologia degli autori e non della cornice (ideologica e storica) in cui operarono (e il giudizio ne risente...)».

 

Prof Samizdat (prova 2)

di Ennio Abate

Ah, se al Pacco Nord ci fosse stato anche l’Autonomo! Lui, sì, che non si lasciava intimorire da leggi e circolari. Sulle cose sindacali si destreggiava da dio. Ne sapeva le asperità i trucchi i trabocchetti. E dove non arrivava da solo, si consigliava con magistrati e avvocati amici suoi. Le prime volte prof Samizdat e l’Autnomo s’erano incontrati alle porte della Marelli di Sestosangiò. Volantinavano. Ciascuno per  la propria Compagnia: Aò l’uno, Ellecì l’altro, che prima ancora era stato uno dei fondatori della Cigieellescuola. Lo si era saputo dopo il suo arresto. E veniva da ridere. Perché  nei collegi rissosi di quei tempi il Flautista, che era il segretario picci-no della Cigiellescuola d’Istituto, ogni volta che l’Autonomo parlava, interveniva – palloso e pignolo – per denigrarlo e presentarlo come “il distruttore del sindacato”.
Prof Samizdat e lui avevano fatto un po’ amicizia. Anche allora non era facile capirsi. Ci provavano tutti di più però. E  – carne e ossa, saluti e battute –  spesso scendevano a patti e collaboravano. Di solito, però, stavano sempre a discutere e a litigare. Tra loro e con altri: “sinistri” e “destri”, sia studenti che insegnanti o ittippì. E sia nei corridoi che sui marciapiedi all’uscita della scuola. Continuando poi, instancabili e monotoni, all’ingresso di questa o quella fabbrichetta dell’hinterland. Dove facevano ‘sto famoso “lavoro operaio”. Distribuivano, cioè, sotto varie sigle i verbosi e male inchiostrati volantini dei loro minipartiti.  Tutti con  giri di parole pesate e ripesate e complicate per distinguersi  tra loro ma soprattutto dalla nazionalpopolare Picci-neria.  Che non li sopportava, li ostacolava in modi puliti e sporchi, li seppelliva sotto valanghe di altri volantini, manifesti, editoriali di giornalisti famosi. Tanto che, se all’inizio  qualcosa spostarono almeno nelle grandi fabbriche con quel loro “lavoro operaio”, presto i loro volantinaggi si ridussero a un complicato modo di mandare a se stessi segnali d’incoraggiamento e di sfida. Per durare, insomma. Eh, sì,  tranne  qualche decina di operai – le ricamatissime “avanguardie di fabbrica” –  che si fermavano a parlare  con loro, il flusso della folla ignota sospettosa e sfuggente – oh, sfinge impenetrabile della Classe Operaia! – come prima li scansava,  entrando  o uscendo dai cancelli di fabbrica in fretta.  Anche se prendeva tutti i volantini: di Ellecì-Aò-Pidup-Potop e della Picci-neria.

Ora però l’Autonomo era un fantasma di memoria. L’avevano di botto rinchiuso nel carcere speciale di Cun.  E loro, per fortuna ancora fuori, sempre a scrivere volantini  e documenti. Tra l’altro non più sugli aumenti salariali uguali per tutti,  la selezione di classe che spezzava le gambe ai figli degli operai, ma sul pezzo della loro storia subito deperita e in via di incarceramento o di dispersione al vento. Scrivevano: voi dovete immaginarvi cosa sono queste carceri speciali! E pensavano: non volete saperlo, eh? No, quasi nessuno, neppure i loro simpatizzanti o quelli che non rifiutavano i loro volantini, volevano saperlo. Le carceri, speciali o meno, servivano. L’avevano detto sui giornali e alla TV. C’era un’emergenza. C’era la notte della Repubblica. E bisognava  spegnere per bene i cervelli. E le bocche pure.
Tuttavia, dal carcere pur speciale l’Autonomo era riuscito subito a far avere a prof Samizdat e ai «colleghi dell’ITIS» una sua lettera. Aspra, spigolosa, urtante. Come la sua mente. La premessa era la classica analisi desiderante di una decina d’anni prima. Alla francese. (Senti che mi scrive questo! Che la scuola  è un guscio svuotato dalla polpa viva del Movimento. Che la società è una prigione dalle sbarre invisibili controllata da sorveglianti punitori). Poi, a metà lettera, s’addolciva e mandava un saluto affettuoso a un collega del serale molto malato. Ma  a tanta delicatezza d’animo in uno, che per quasi tutti ormai era un terrorista – lo martellavano i giornali e la TV – chi ci credeva più? Prof Samizdat, pignolo ma stralunato, insisteva: vedete che è presunto! Presunto non terrorista accertato? Ma figuriamoci! Badate a queste sottigliezze giuridiche? In tempi  così rabbuiati? Suvvia, non possiamo permetterci il lusso di intelligenze  alla Beccaria.

La lettera, perciò, era girata con flemmatica circospezione tra i docenti democratici per un po’ di giorni. E letta, era stata letta. E pure riletta. E sottoposta al vaglio della vigilanza  della stessa Picci-neria d’Istituto. Non andava – chiarissimo – la sua  conclusione: un’artigliata dell’Autonomo contro i suoi  ex-studenti di quinta. Troppo vogliosi di diploma e di carriera, secondo lui. E mancava  un nobile für ewig alla Gramsci. Ma che si crede? Questo solo di nude cose sapeva parlare. E esprimeva una corporalità scomposta. Un linguaggio-corpo?  Eh, sì. Che male, ahi! Non toccatemi! State male anche voi, perdio! Pro/muovetevi!

Donchisciottino, angioletto di periferia con lo sguardo volto al passato sessantottino (il quadro di Klee, Benjamin, sapete, no?), ai colleghi democratici prof Samizdat ripropose, come un fesso, lo stampo etico in lui ormai indelebile: prepariamo una risposta collettiva. Ma i colleghi della Picci-neria,  che un po’ lo sopportavano, perché un po’ teneva a bada anche lui quel diavolo di Autonomo – ora che nei conciliaboli della Docenza Seria era circolato il titolo dell’infamia: «Terrorista è!» , «Di sicuro?», «Certo, lo capivi dai discorsi che faceva in  collegio» – non ne vollero sapere. Eh, sì, gli interventi dell’Autonomo  avevano  quel taglio tanto aggressivamente futurista. E non contro il chiaro di luna, ma contro la Picci-neria e il Compromesso Storto.  Dunque?  Ora te la sogni una risposta  “garantista”, mio caro prof Samizdat. Te la sogni la lettera firmata da  quindici o venti docenti democratici e garantisti. Noi restiamo coi piedi a terra e  svegli, ché siamo già dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, eh!

«Meglio che uno s’incarichi di scrivere poche cose, ufficiali, normali e poi chi vorrà firmerà» – aveva concluso in gloria il Flautista. E l’incontro, riservato a un ristrettissimo e silenzioso drappello democratico di pii e pie docenti in via di accartocciamento, che era stato convocato su uno spelacchiato giardinetto lontano da occhi indiscreti, per discutere su cosa non volevano fare, ebbe il risultato prevedibile e previsto.  Nessuno fiatò più. La faccenda dell’Autonomo per loro moriva lì. Voleva distruggerci? Tiè, lo distruggiamo  noi e lo Stato che siamo Noi!

Prof Samizdat rimase col cerino acceso della lettera in mano. Lo spense e pensò a  come rispondere lui, da solo. Che gli dico adesso a  questo pezzo di me/noi, compagno  o mezz’amico, finito in prigione, al fantasma che mi scrive, chiede, interpella, incalza? E più di prima, di quando, cioè, eravamo un po’ amici e un po’ avversari politici, un po’ in competizione e un po’ alleati nelle faccende di scuola o nei capannelli davanti alle fabbriche.  Prima che cominciassero gli spari e il sangue scorresse, non era detto che dovesse rispondere per forza all’Autonomo e alle sue provocazioni. Ma adesso si sentiva in dovere di rispondere.  Toh, adesso? Come! Proprio tu, che finora non hai avuto niente a che fare né coi lottarmatisti né coi fiancheggiatori né coi picci-ni e la loro fregola di farsi Stato? Ma indossala anche tu ‘sta casacca del sincero democratico, avanza nella carriera, fatti accogliere nella Docenza Seria, curati la famiglia, i figli,  le cene con gli amici, procurarti  un’amante. Perché ritrovarti solo come  quando  arrivasti a Mi dal Sud? Potrai contare sì e no sull’appoggio di Nuccia e Gigilà. Il resto – tutti, compagni e colleghi –  è stato lesto a distrarsi in mille cosucce ariose e per loro l’Autonomo  è fantasma assoluto, scomparso dalla vista e dai pensieri, fine!

L’Autonomo l’avevano arrestato per «reati associativi». Da un giorno all’altro. Dopo la prima lettera a prof Samizdat, dove chiedeva di indirizzare la risposta ad uno fuori dal carcere, che gliel’avrebbe poi fatta avere, gliene scrisse altre. Era stato sequestrato dieci giorni in una caserma di T. Poi aveva passato 15 giorni d’isolamento nelle celle “giù” del carcere di S. E quindi “in comune”. E si doveva dare coraggio da solo. Tenace lo era. Il suo mondo non se lo faceva cancellare. Anche se sconfitto? Questo lo pensavano gli altri, non lui. Lui  contro i giudici che l’interrogavano aveva continuato a portare con foga non le sue piccole ragioni ma quelle del Gran Movimento, che continuava e che, secondo lui, i giudici  – a tentoni ma con metodo – tentavano di  incasellare nei loro ordinati schemi secolari.

Il carcere, scriveva l’Autonomo, non è la fine del mondo. Anche se tra i “politici” aveva trovato una situazione avvelenata. Delazioni e pentimenti. Qualcuno fidato però ancora c’era. Diceva. Ma lui, che era abituato a girare per Milano, a conoscere da vicino le fabbriche dove, nell’ultimo decennio, erano fermentate lotte o quasi lotte o presunte lotte, ora, come quasi tutti, aveva solo le informazioni che passavano giornali, radio e TV. Aveva perso ogni aggancio con quelli che prima frequentava. Di colpo, zac! Prof Samizdat – diceva – era il primo a cui scriveva.

Prof Samizdat ripose la lettera  nella busta, la poggiò sul suo tavolo  e andò a cercare altre notizie sull’Autonomo in carcere. Andò  dalla ex-moglie, l’unica che aveva avuto dai giudici il permesso di vederlo. Le  fece domande banali: come sta? come e cosa scrivergli? Lei gli raccontò qualcosa delle due sue prime visite. A prof Samizdat pareva impaurita reticente circospetta sospettosa. Ed era lenta nel parlare. Forse per altri  pensieri che doveva nascondere dietro le prime parole pronunciate a  voce bassa. Come se riferisse fatti delicati di  malati gravi o di pazzi o di moribondi. Eppure erano soli in casa. Una bella casa. Vicino a un grande parco. Borghese per prof Samizdat.  Sì, di quelle che lui mai aveva abitato o mai avrebbe potuto abitare. Prof Samidat niente sapeva della relazione troncata e ora ripresa tra l’Autonomo e lei. Di come s’erano conosciuti, sposati e poi separati. Di mezzo era nato  un figlio. E ‘sto figlio ora era uno dei tanti  adolescenti allo sbando. Quella donna aveva ricevuto colpi e delusioni. E non solo dall’Autonomo. Si capiva. E però, ora che lui era finito in carcere, se ne occupava. Di malavoglia. Anche questo si capiva.

Alla fine, uscendo dal palazzone, prof Samizdat si ritrovò pensieri più ingarbugliati di quando c’era entrato. Quella donna metteva, sì, da parte  il brutto della sua storia mal digerita con l’Autonomo, si costringeva ad aiutare l’ex marito, ma non si fidava di lui. Temeva di essere strumentalizzata? E forse covava pure pensieri di vendetta. Una generosità contorta e combattuta. Neppure di prof Samizdat si fidava. Anche se ebbe l’impressione che se lo studiava per capire se poteva servirsene. E per un attimo prof Samizdat  ebbe il pensiero che lui pure  non si fidava né dell’Autonomo né, ora che l’aveva vista, della sua ex moglie. E che pure lui forse temeva di essere strumentalizzato da entrambi. Che casino la vita. Queste mezze e amare conclusioni  che prof Samizdat ricavò dalla visita le mise com’erano – fredde –  accanto a quelle gelide e sotto sotto disperate della lettera di lui. Non era bella la situazione.

E vabbè, assistilo tu il tuo Autonomo in carcere. Immaginati  quel che ti riesce, ma a noi la vita ci chiama e, per favore,  lasciaci vivere.  Ti freghi da solo. Resti impigliato nel sogno di una generazione che non era neppure la tua e da quel’incubo non uscirai più. L’Autonomo  dal carcere delirerà –  è pezzo di mondo diverso dal fuori il carcere! – e tu a stargli dietro delirerai con lui. Inseguirai i suoi pensieri. Che  ora saranno  ancora  più spigolosi e urtanti.  E starete in due a a confrontarvi i vostri pezzi di storia che  manco  combaciano.  Che c’entra  uno con l’impronta di Aò con lui che ha l’impronta di Ellecì? E la vostra pagina di storia  Picci-neria e Dicci-neria e Mondo  Sovrastante  non l’hanno mai neppure guardata. No, non hanno voltato pagina, l’hanno strappata! T’intestardisci a rileggerla, a rimuginarla? Ma non c’è più.

Scrutare meglio gli indizi che  la sua mente carcerata m’invia. Guaderò correnti impetuose. Muovermi nella fanghiglia politica di questi anni.  Pensare a saltellare sui sassi più matematici,  più solidi e incensurabili. Spero che non cedano all’impatto del mio  piede. Non lasciarsi fregare dal giudice che leggerà la nostra corrispondenza. Non sono  poche le insidie e le temo. Certo che rileggerò.

Un ragazzo del secolo scorso


di Ennio Abate

Stamattina appena letto questa perla saccente del giovane critico Matteo Marchesini:”Come correttivo all’inserto del “manifesto” su Mario Tronti, consiglio il ritratto veridico e spietato che ne ha fatto Alfonso Berardinelli in “Stili dell’estremismo”” ho lasciato su POLISCRITTURE 3  FB  questa nota: Continua la lettura di Un ragazzo del secolo scorso