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Ragionamento sui nostri antenati (1)

Il saggio  di Dario Borso, “COLPO BASSO. Cesare Cases vs. Arno Schmidt ” (qui) mette in discussione – e con salda documentazione – i limiti del giudizio  che un germanista di fama come Cesare Cases  diede di un importante scrittore tedesco del secondo dopoguerra, Arno Schmidt, considerato  invece da Ladislao Mittner, l’autore della monumentale «Storia della letteratura tedesca», «un ulisside della specie di Joyce». Non ho competenze specialistiche sulla materia affrontata da Borso.

E allora perché intervengo? Per  alcuni buoni motivi. Tranne Cases, seguito soltanto in occasione di qualche conferenza a Milano ma di cui ho letto vari libri e articoli, ho avuto modo di conoscere e incontrare nei loro ultimi anni di vita prima Fortini e poi Renato Solmi e Michele Ranchetti. Nel ‘68 seguii la polemica  cruciale tra Fortini e Fachinelli sui Quaderni Piacentini a proposito del «desiderio dissidente» e de «il dissenso e l’autorità»; e, successivamente, anche se seguii  più distrattamente e con distacco la polemica su «Minima Immoralia», divenuto  sempre più attento alla ricerca psicanalitica, ho letto vari libri di Elvio Fachinelli, di cui  tra l’altro mi parlava  con grande stima un altro dei pochi scrittori da me frequentati, Giancarlo Majorino.

Nella mia esperienza di lettore (e di militante politico), dunque, tutti questi autori hanno fatto per me parte di un’unica costellazione politico-culturale. Indubbiamente  di sinistra, area -cosa non trascurabile –  almeno fino alla fine degli anni Settanta ben distinta dalla destra. E questo malgrado le diversificazioni e le forti tensioni ideali e personali tra loro.  Leggere oggi queste  critiche contro Cases, un autore che – ripeto – ho sempre apprezzato, mi ha costretto a  farmi varie domande: cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?

Della  messa in discussione di Cases o di altri, che io considero tra i “nostri antenati” da studiare e riproporre, non mi scandalizzo. Seguo, infatti, con convinzione  la raccomandazione di Fortini. Che diceva all’incirca: prendete da quel che ho scritto ciò che vi  serve e il resto buttatelo pure.[1] Né  sono difensore d’ufficio di nessuno.  E perciò, siccome la polemica  di Borso contro Cases ha rinverdito nella mia memoria quella degli anni ’60-’70 tra neoavanguardia e intellettuali marxisti ( Pasolini, Fortini, Cases, Quaderni Piacentini, Sanguineti, Filippini, etc.)  e sotto sotto mi ha rimandato a quella vecchissima tra anarchici e comunisti,  quando ho letto i  suoi primi pezzi, ho drizzato le antenne. Disposto a prenderlo sul serio ma deciso anche a capire se quel che scrive mi convince o meno. Perché a scatola chiusa non prendo nulla. E gli ho, perciò, prima  fatto in privato alcune stringate e interlocutorie obiezioni[2]; e poi sono intervenuto pubblicamente e decisamente su Poliscrittture e su Poliscritture FB. Invitando a sentire meglio anche le altre campane. Perché schierato ciecamente con  Cases contro Borso? Suvvia. Solo perché nelle altre campane (Cases, Solmi, Sisto; e per quest’ultimo mi sono riferito esclusivamente al suo intervento su  germanistica.net qui) ci sono spunti interessanti che Borso, secondo me, ha trascurato o escluso non ritenendoli coerenti con il suo metodo critico.

Questa è la premessa della mia riflessione e mi fermo qui. Nelle  successive puntate esaminerò le prese di posizione di Cesare Cases nei confronti di Arno Schmidt riportate da Borso; quelle sulla pubblicazione di «Minima Immoralia» nell’edizione L’Erba Voglio (almeno nella parte che ho potuto consultare); e, dopo aver riportato stralci delle “varie campane”, trarrò le mie (provvisorie) conclusioni. [E. A.]

Note

[1] «…‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!». (Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani,  Boringhieri, Torino, 2000)

[2] Ennio: «1. Cases era un borghese ma fu comunista (male, bene: ai posteri...); 2. Il suo comunismo non era (del tutto?) dogmatico perché corretto/temperato da un anarchismo, che secondo me prendeva qualcosa anche da Brecht (magari giovane); 3.Oggi si tende a parlare della psicologia degli autori e non della cornice (ideologica e storica) in cui operarono (e il giudizio ne risente...)».

 

Prof Samizdat (prova 2)

di Ennio Abate

Ah, se al Pacco Nord ci fosse stato anche l’Autonomo! Lui, sì, che non si lasciava intimorire da leggi e circolari. Sulle cose sindacali si destreggiava da dio. Ne sapeva le asperità i trucchi i trabocchetti. E dove non arrivava da solo, si consigliava con magistrati e avvocati amici suoi. Le prime volte prof Samizdat e l’Autnomo s’erano incontrati alle porte della Marelli di Sestosangiò. Volantinavano. Ciascuno per  la propria Compagnia: Aò l’uno, Ellecì l’altro, che prima ancora era stato uno dei fondatori della Cigieellescuola. Lo si era saputo dopo il suo arresto. E veniva da ridere. Perché  nei collegi rissosi di quei tempi il Flautista, che era il segretario picci-no della Cigiellescuola d’Istituto, ogni volta che l’Autonomo parlava, interveniva – palloso e pignolo – per denigrarlo e presentarlo come “il distruttore del sindacato”.
Prof Samizdat e lui avevano fatto un po’ amicizia. Anche allora non era facile capirsi. Ci provavano tutti di più però. E  – carne e ossa, saluti e battute –  spesso scendevano a patti e collaboravano. Di solito, però, stavano sempre a discutere e a litigare. Tra loro e con altri: “sinistri” e “destri”, sia studenti che insegnanti o ittippì. E sia nei corridoi che sui marciapiedi all’uscita della scuola. Continuando poi, instancabili e monotoni, all’ingresso di questa o quella fabbrichetta dell’hinterland. Dove facevano ‘sto famoso “lavoro operaio”. Distribuivano, cioè, sotto varie sigle i verbosi e male inchiostrati volantini dei loro minipartiti.  Tutti con  giri di parole pesate e ripesate e complicate per distinguersi  tra loro ma soprattutto dalla nazionalpopolare Picci-neria.  Che non li sopportava, li ostacolava in modi puliti e sporchi, li seppelliva sotto valanghe di altri volantini, manifesti, editoriali di giornalisti famosi. Tanto che, se all’inizio  qualcosa spostarono almeno nelle grandi fabbriche con quel loro “lavoro operaio”, presto i loro volantinaggi si ridussero a un complicato modo di mandare a se stessi segnali d’incoraggiamento e di sfida. Per durare, insomma. Eh, sì,  tranne  qualche decina di operai – le ricamatissime “avanguardie di fabbrica” –  che si fermavano a parlare  con loro, il flusso della folla ignota sospettosa e sfuggente – oh, sfinge impenetrabile della Classe Operaia! – come prima li scansava,  entrando  o uscendo dai cancelli di fabbrica in fretta.  Anche se prendeva tutti i volantini: di Ellecì-Aò-Pidup-Potop e della Picci-neria.

Ora però l’Autonomo era un fantasma di memoria. L’avevano di botto rinchiuso nel carcere speciale di Cun.  E loro, per fortuna ancora fuori, sempre a scrivere volantini  e documenti. Tra l’altro non più sugli aumenti salariali uguali per tutti,  la selezione di classe che spezzava le gambe ai figli degli operai, ma sul pezzo della loro storia subito deperita e in via di incarceramento o di dispersione al vento. Scrivevano: voi dovete immaginarvi cosa sono queste carceri speciali! E pensavano: non volete saperlo, eh? No, quasi nessuno, neppure i loro simpatizzanti o quelli che non rifiutavano i loro volantini, volevano saperlo. Le carceri, speciali o meno, servivano. L’avevano detto sui giornali e alla TV. C’era un’emergenza. C’era la notte della Repubblica. E bisognava  spegnere per bene i cervelli. E le bocche pure.
Tuttavia, dal carcere pur speciale l’Autonomo era riuscito subito a far avere a prof Samizdat e ai «colleghi dell’ITIS» una sua lettera. Aspra, spigolosa, urtante. Come la sua mente. La premessa era la classica analisi desiderante di una decina d’anni prima. Alla francese. (Senti che mi scrive questo! Che la scuola  è un guscio svuotato dalla polpa viva del Movimento. Che la società è una prigione dalle sbarre invisibili controllata da sorveglianti punitori). Poi, a metà lettera, s’addolciva e mandava un saluto affettuoso a un collega del serale molto malato. Ma  a tanta delicatezza d’animo in uno, che per quasi tutti ormai era un terrorista – lo martellavano i giornali e la TV – chi ci credeva più? Prof Samizdat, pignolo ma stralunato, insisteva: vedete che è presunto! Presunto non terrorista accertato? Ma figuriamoci! Badate a queste sottigliezze giuridiche? In tempi  così rabbuiati? Suvvia, non possiamo permetterci il lusso di intelligenze  alla Beccaria.

La lettera, perciò, era girata con flemmatica circospezione tra i docenti democratici per un po’ di giorni. E letta, era stata letta. E pure riletta. E sottoposta al vaglio della vigilanza  della stessa Picci-neria d’Istituto. Non andava – chiarissimo – la sua  conclusione: un’artigliata dell’Autonomo contro i suoi  ex-studenti di quinta. Troppo vogliosi di diploma e di carriera, secondo lui. E mancava  un nobile für ewig alla Gramsci. Ma che si crede? Questo solo di nude cose sapeva parlare. E esprimeva una corporalità scomposta. Un linguaggio-corpo?  Eh, sì. Che male, ahi! Non toccatemi! State male anche voi, perdio! Pro/muovetevi!

Donchisciottino, angioletto di periferia con lo sguardo volto al passato sessantottino (il quadro di Klee, Benjamin, sapete, no?), ai colleghi democratici prof Samizdat ripropose, come un fesso, lo stampo etico in lui ormai indelebile: prepariamo una risposta collettiva. Ma i colleghi della Picci-neria,  che un po’ lo sopportavano, perché un po’ teneva a bada anche lui quel diavolo di Autonomo – ora che nei conciliaboli della Docenza Seria era circolato il titolo dell’infamia: «Terrorista è!» , «Di sicuro?», «Certo, lo capivi dai discorsi che faceva in  collegio» – non ne vollero sapere. Eh, sì, gli interventi dell’Autonomo  avevano  quel taglio tanto aggressivamente futurista. E non contro il chiaro di luna, ma contro la Picci-neria e il Compromesso Storto.  Dunque?  Ora te la sogni una risposta  “garantista”, mio caro prof Samizdat. Te la sogni la lettera firmata da  quindici o venti docenti democratici e garantisti. Noi restiamo coi piedi a terra e  svegli, ché siamo già dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, eh!

«Meglio che uno s’incarichi di scrivere poche cose, ufficiali, normali e poi chi vorrà firmerà» – aveva concluso in gloria il Flautista. E l’incontro, riservato a un ristrettissimo e silenzioso drappello democratico di pii e pie docenti in via di accartocciamento, che era stato convocato su uno spelacchiato giardinetto lontano da occhi indiscreti, per discutere su cosa non volevano fare, ebbe il risultato prevedibile e previsto.  Nessuno fiatò più. La faccenda dell’Autonomo per loro moriva lì. Voleva distruggerci? Tiè, lo distruggiamo  noi e lo Stato che siamo Noi!

Prof Samizdat rimase col cerino acceso della lettera in mano. Lo spense e pensò a  come rispondere lui, da solo. Che gli dico adesso a  questo pezzo di me/noi, compagno  o mezz’amico, finito in prigione, al fantasma che mi scrive, chiede, interpella, incalza? E più di prima, di quando, cioè, eravamo un po’ amici e un po’ avversari politici, un po’ in competizione e un po’ alleati nelle faccende di scuola o nei capannelli davanti alle fabbriche.  Prima che cominciassero gli spari e il sangue scorresse, non era detto che dovesse rispondere per forza all’Autonomo e alle sue provocazioni. Ma adesso si sentiva in dovere di rispondere.  Toh, adesso? Come! Proprio tu, che finora non hai avuto niente a che fare né coi lottarmatisti né coi fiancheggiatori né coi picci-ni e la loro fregola di farsi Stato? Ma indossala anche tu ‘sta casacca del sincero democratico, avanza nella carriera, fatti accogliere nella Docenza Seria, curati la famiglia, i figli,  le cene con gli amici, procurarti  un’amante. Perché ritrovarti solo come  quando  arrivasti a Mi dal Sud? Potrai contare sì e no sull’appoggio di Nuccia e Gigilà. Il resto – tutti, compagni e colleghi –  è stato lesto a distrarsi in mille cosucce ariose e per loro l’Autonomo  è fantasma assoluto, scomparso dalla vista e dai pensieri, fine!

L’Autonomo l’avevano arrestato per «reati associativi». Da un giorno all’altro. Dopo la prima lettera a prof Samizdat, dove chiedeva di indirizzare la risposta ad uno fuori dal carcere, che gliel’avrebbe poi fatta avere, gliene scrisse altre. Era stato sequestrato dieci giorni in una caserma di T. Poi aveva passato 15 giorni d’isolamento nelle celle “giù” del carcere di S. E quindi “in comune”. E si doveva dare coraggio da solo. Tenace lo era. Il suo mondo non se lo faceva cancellare. Anche se sconfitto? Questo lo pensavano gli altri, non lui. Lui  contro i giudici che l’interrogavano aveva continuato a portare con foga non le sue piccole ragioni ma quelle del Gran Movimento, che continuava e che, secondo lui, i giudici  – a tentoni ma con metodo – tentavano di  incasellare nei loro ordinati schemi secolari.

Il carcere, scriveva l’Autonomo, non è la fine del mondo. Anche se tra i “politici” aveva trovato una situazione avvelenata. Delazioni e pentimenti. Qualcuno fidato però ancora c’era. Diceva. Ma lui, che era abituato a girare per Milano, a conoscere da vicino le fabbriche dove, nell’ultimo decennio, erano fermentate lotte o quasi lotte o presunte lotte, ora, come quasi tutti, aveva solo le informazioni che passavano giornali, radio e TV. Aveva perso ogni aggancio con quelli che prima frequentava. Di colpo, zac! Prof Samizdat – diceva – era il primo a cui scriveva.

Prof Samizdat ripose la lettera  nella busta, la poggiò sul suo tavolo  e andò a cercare altre notizie sull’Autonomo in carcere. Andò  dalla ex-moglie, l’unica che aveva avuto dai giudici il permesso di vederlo. Le  fece domande banali: come sta? come e cosa scrivergli? Lei gli raccontò qualcosa delle due sue prime visite. A prof Samizdat pareva impaurita reticente circospetta sospettosa. Ed era lenta nel parlare. Forse per altri  pensieri che doveva nascondere dietro le prime parole pronunciate a  voce bassa. Come se riferisse fatti delicati di  malati gravi o di pazzi o di moribondi. Eppure erano soli in casa. Una bella casa. Vicino a un grande parco. Borghese per prof Samizdat.  Sì, di quelle che lui mai aveva abitato o mai avrebbe potuto abitare. Prof Samidat niente sapeva della relazione troncata e ora ripresa tra l’Autonomo e lei. Di come s’erano conosciuti, sposati e poi separati. Di mezzo era nato  un figlio. E ‘sto figlio ora era uno dei tanti  adolescenti allo sbando. Quella donna aveva ricevuto colpi e delusioni. E non solo dall’Autonomo. Si capiva. E però, ora che lui era finito in carcere, se ne occupava. Di malavoglia. Anche questo si capiva.

Alla fine, uscendo dal palazzone, prof Samizdat si ritrovò pensieri più ingarbugliati di quando c’era entrato. Quella donna metteva, sì, da parte  il brutto della sua storia mal digerita con l’Autonomo, si costringeva ad aiutare l’ex marito, ma non si fidava di lui. Temeva di essere strumentalizzata? E forse covava pure pensieri di vendetta. Una generosità contorta e combattuta. Neppure di prof Samizdat si fidava. Anche se ebbe l’impressione che se lo studiava per capire se poteva servirsene. E per un attimo prof Samizdat  ebbe il pensiero che lui pure  non si fidava né dell’Autonomo né, ora che l’aveva vista, della sua ex moglie. E che pure lui forse temeva di essere strumentalizzato da entrambi. Che casino la vita. Queste mezze e amare conclusioni  che prof Samizdat ricavò dalla visita le mise com’erano – fredde –  accanto a quelle gelide e sotto sotto disperate della lettera di lui. Non era bella la situazione.

E vabbè, assistilo tu il tuo Autonomo in carcere. Immaginati  quel che ti riesce, ma a noi la vita ci chiama e, per favore,  lasciaci vivere.  Ti freghi da solo. Resti impigliato nel sogno di una generazione che non era neppure la tua e da quel’incubo non uscirai più. L’Autonomo  dal carcere delirerà –  è pezzo di mondo diverso dal fuori il carcere! – e tu a stargli dietro delirerai con lui. Inseguirai i suoi pensieri. Che  ora saranno  ancora  più spigolosi e urtanti.  E starete in due a a confrontarvi i vostri pezzi di storia che  manco  combaciano.  Che c’entra  uno con l’impronta di Aò con lui che ha l’impronta di Ellecì? E la vostra pagina di storia  Picci-neria e Dicci-neria e Mondo  Sovrastante  non l’hanno mai neppure guardata. No, non hanno voltato pagina, l’hanno strappata! T’intestardisci a rileggerla, a rimuginarla? Ma non c’è più.

Scrutare meglio gli indizi che  la sua mente carcerata m’invia. Guaderò correnti impetuose. Muovermi nella fanghiglia politica di questi anni.  Pensare a saltellare sui sassi più matematici,  più solidi e incensurabili. Spero che non cedano all’impatto del mio  piede. Non lasciarsi fregare dal giudice che leggerà la nostra corrispondenza. Non sono  poche le insidie e le temo. Certo che rileggerò.

Un ragazzo del secolo scorso


di Ennio Abate

Stamattina appena letto questa perla saccente del giovane critico Matteo Marchesini:”Come correttivo all’inserto del “manifesto” su Mario Tronti, consiglio il ritratto veridico e spietato che ne ha fatto Alfonso Berardinelli in “Stili dell’estremismo”” ho lasciato su POLISCRITTURE 3  FB  questa nota: Continua la lettura di Un ragazzo del secolo scorso

A Vocazzione (prova 1)

Narratorio (versione 2021)

di Ennio Abate

DAL CAPITOLO I: BRACIERE, FREDDO, LETTURA, PREGHIERE, PAURE

Madre e figli si scaldarono durante le sere invernali attorno a quel braciere. L’aveva usato a Casebbarone  nonna Fortuna e prima di lei altre ignote nonne. Ora asciugava un po’ l’umido della stanza, che restava freddissima.  Ogni tanto Nunuccie o Eggidie mettevano sulla brace scorze di mandarino per sentire, mentre bruciavano e facevano fumo,  l’odore acre che gli piaceva. Si scaldavano loro tre. Il cielo – gli squarci di cielo nelle finestre – era scuro.  I ragazzi avevano geloni violacei sulle orecchie e la pelle sul dorso delle mani gli si screpolava. Nannìne, per combatterlo quel maledetto freddo, lavorava coi ferri gomitoli di lana grezza e giallastra per dare ai figli  maglie pesanti. Per tenergli il petto al caldo, anche se pungevano sulla pelle quando i ragazzi le indossavano. Continua la lettura di A Vocazzione (prova 1)

Prof Samizdat (prova 1)


Tabea Nineo, Caduta, bassorilievo in creta, 1980

Narratorio. Versione  2020.

di Ennio Abate

Non erano  inferme  le albe del 1978. Somigliavano a quelle  di sempre. Ma  giovani sentinelle appostate su piramidi rilucenti freddarono un sogno. Vento, molto vento. Poi cervici divelte  da corpi ancora frementi, sì. Muschi d’organi squarciati, sì. Torcigli di visceri raccolti in stracci sporchi. E però in Occidente altri vissero  miti e tranquilli. Sull’oscuro pavimento degli anni restò,  color carbone, soltanto uno sgorbio. Per assenza di grida, tutti finsero  che il sogno non era stato di umani percossi da altri umanissimi. Che si fosse trattato  soltanto  di bestie  macellate in quell’autunno, dicevano. 

Mente che indaghi, quel tempo  grumoso è lo stesso che i freezer  televisivi ogni giorno surgelano.

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Rileggendo “Una lettera a Nietzsche” di Franco Fortini

di Ennio Abate

Sono passati ben 37 anni da quando lessi «Una lettera a Nietzsche», la sezione di dieci testi che apre «Insistenze» (Garzanti 1985)[1] e l’acuta analisi che Elena Grammann ne ha fatto su Poliscritture (qui) mi ha spinto a riprendere in mano questo libro. Continua la lettura di Rileggendo “Una lettera a Nietzsche” di Franco Fortini

Poliscritture 3: sei rubriche

Presento le prime  sei rubriche di Poliscritture 3, il cui cambio di passo  è stato delineato qui.  [E. A.]

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Cambio di passo

PER POLISCRITTURE 3

Il numero zero di POLISCRITTURE uscì nell’aprile del 2005. L’editoriale (qui) chiariva il progetto della rivista riassumibile in tre punti : – «pubblicare una varietà di  scritture (di politica, filosofia, letteratura, poesia, arte, scienze e storia) comunque tese a ripensare una cultura (antica e nuova) della polis»; – mantenere un legame – dialettico e critico, non esteriore o forzato –  tra  politica e cultura, malgrado la consapevolezza che esse vanno separandosi e frantumandosi; –  sintonizzarsi sul trapasso d’epoca che stiamo tuttora vivendo.

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Una serata con Majorino

di Donato Salzarulo

La scuola, che ho diretto per un quarto di secolo, programmava annualmente tre “Incontri con la poesia” e invitava i poeti a parlare della loro attività, partendo, magari, dal loro ultimo libro pubblicato. Nella serata del 14 Ottobre 2008, l’invitato era Giancarlo Majorino. L’ultimo suo libro da cominciare a conoscere, assaggiando, per l’occasione, qualche pagina era «Viaggio nella presenza del tempo» (Oscar Mondadori, 2008, pagg. 424, euro 13). L’incontro venne introdotto dal sottoscritto: un po’ nei panni del dirigente scolastico che fa gli onori di casa, un po’ in quelli del lettore di poesia che frequentava (e frequenta) da tempo, anche se con una certa discontinuità e con attrazione intensa ma altalenante, l’opera omnia del poeta milanese. Di seguito, la mia introduzione alla serata e gli appunti sulla conversazione che ne seguì, stimolata anche dalle domande che Ennio Abate gli rivolse. [D. S.]  Continua la lettura di Una serata con Majorino