Anni ’70: passato che non passa. In questi giorni Walter Veltroni ha scritto sulla “violenza” di allora, partendo dal caso del giovane fascista Sergio Ramelli ferito a morte in un agguato tesogli da un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia (qui). La sua tesi (” I morti di quegli anni non devono oggi essere rivendicati, scagliati, usati per protrarre l’odio. Il conflitto, in una democrazia, è vitale. Anche il più duro. Senza conflitto non c’è libertà. Ma l’odio è una patologia. E quegli anni sono stati un’epidemia di questo male. Non ci sono state morti giuste e ingiuste.”) ha suscitato risposte aspre e indignate (qui quella di Christian Raimo) ma anche consensi (qui quello di Mauro Piras su Le parole e le cose 2). Con tanti gravi problemi che già ci assillano c’è ancora bisogno di rispolverare memorie e storie? Sì. E visto che loro (Veltroni, Corriere della sera, Le parole e le cose 2) suonano le loro trombe, mi pare necessario suonare almeno le nostre campane. Riporto in Poliscritture gli appunti che ho lasciato finora nello spazio commenti di LPLC2. [E. A.]
Cercare di fare chiarezza oggigiorno è una impresa ardua non solo per la sovra abbondanza di notizie (che dannosamente hanno scalzato il concetto di informazione) unitamente alla tempesta di fake news che ci sovrasta di continuo, ma anche perché in un sistema così disgregato come l’attuale è difficile proporre di pensare (che implica disporre di tempo e fiducia) al posto dell’agire (che implica velocità di soluzioni e paura di non farcela). Riteniamo però che il pensiero sia una dotazione dalla quale non possiamo deflettere pena l’attivarsi di un processo regressivo (in parte iniziato e di cui si vedono già gli effetti devastanti) che ci infantilizza e ci rende manipolabili [R. S.]
Lo
Scriba si ritrovò fra le mani un libro degli anni settanta. Roba
superata. Parlava di argomenti epici e penosi ad un tempo: di lotte
operaie. Nei giorni precedenti aveva letto alcuni saggi raffinati (di
Zanzotto, Barthes, ecc.). Come brillavano quei giri di frase. Con
quale acutezza si polemizzava contro un’intera tradizione, nota
all’autore a menadito. Quale clima di raccoglimento spirituale,
effimero, ma piacevolissimo, anche se si evocava la Morte. E lui,
leggendo, aveva partecipato – sia pur in solitudine e ignoto – al
Grande Discorso Letterario.
a Gigi Lanza
Rileggo oggi il tuo biglietto spinoziano
- humanas actiones non ridere non lugereneque detestari, sed intelligere (b.d’esp) -
che in ottima grafia d’architetto mi lasciasti
in un libro del millenovecentonovantanove.
Questo alla fine so: fummo fratelli amari.
Da medesime quiete tenebre
dalle adolescenze dolenti del dopoguerra
giungemmo in affanno ad altri amori
che ci dilaniarono e ci svelarono.
Sempre
tenemmo fermo lo sguardo sul nero mantello
di spaventevoli parole
che coprono le piaghe del mondo.
E sempre, pur feriti, lo scuotemmo.
(2011 - 2020)
Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua. Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla. La mattinata si affina nella stanza tranquilla. Un filo di musica rock, le matite, le carte. Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti, proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete, o dèi dell’autunno indulgenti dormenti, meste di frasche le tempie? Come maestosi quei vostri luminosi cumuli! Quante ansiose formiche nell’ombra!
Nella lettura tratta da You Tube di "Ai dèi della mattinata" l'attore al verso 3 legge 'fiumi' invece che 'fumi' e al verso 11 legge 'd'autunno' invece che 'dell'autunno'. [E. A.]
A
Il primo passo inizia con una mia elementare ma indispensabile parafrasi e con la raccolta di prime veloci impressioni ed osservazioni:
Di Mìneche ho già detto nel 2015 qui; e vorrei ricordare la bella analisi che Rita Simonitto, conoscitrice dei miti e con la sua sensibilità di psicanalista, vi dedicò. In quelle due poesie colse l’importanza della relazione tra il dialetto («madrelingua») e italiano («lingua seconda») e «un intendimento di dialogo tra possibili figure ‘materne’ e figure ‘paterne’, un tentativo di confronto tra questi personaggi che si muovono nell’interiorità del poeta», oltre alla «relazione conflittuale tra il poeta e la figura paterna e il vissuto di un tradimento che rende l’animo esacerbato». Nei commenti che seguirono, parlammo di riferimenti mitici (l’albero del fico sacro a Dioniso, gli agrumi sacri alle ninfe) e storici (l’8 settembre del 1943, il femminismo degli anni ‘70), ed emersero gli echi profondi del tema della figura paterna anche nelle riflessioni di quanti intervennero.
Ieri, sulla mia bacheca Facebook, dove avevo pubblicato la copertina delle “Poesie inedite” di Franco Fortini con un richiamo al carteggio che ebbi con lui ( qui), ho avuto un lungo, intenso e polemico scambio di opinioni con Mary Blindflowers (che è stata di recente ospite qui su Poliscritture). Poiché la polemica riguarda il rapporto tra poesia e politica e rivela i “cattivi umori” che circolano nel languente dibattito culturale sui social quando si sfiorano questioni importanti ma oggi eluse, mi affretto a riprenderlo subito, anche se schematicamente, ripartendo da questi punti:
Riordinadiario /In margine ad un convegno su Elvio Fachinelli del 1998
di Ennio Abate
Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono in quel convegno, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi: ” Ma allora, come accade che, puntualmente, questa carica creativa dell’inconscio si congeli in quella che chiamò “la freccia ferma”, nei marmi rigidi delle istituzioni, della burocrazia, del gelido rigore ossessivo? “. E deve ammettere che ” la contrapposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte è un modo di descrivere – certo eloquentemente – il problema, non di risolverlo”. E allora? Confermo pienamente quanto scrivevo da isolato in quel lontano 1998: “Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo”. [E. A.]