Archivi tag: Ennio Abate

Mìneche

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Contadino 1978

di Ennio Abate

Di Mìneche ho già detto nel 2015 qui; e vorrei ricordare la bella analisi che Rita Simonitto, conoscitrice dei miti e con la sua sensibilità di psicanalista, vi dedicò. In quelle due poesie colse l’importanza della relazione tra il dialetto («madrelingua») e italiano («lingua seconda») e «un intendimento di dialogo tra possibili figure ‘materne’ e figure ‘paterne’, un tentativo di confronto tra questi personaggi che si muovono nell’interiorità del poeta», oltre alla «relazione conflittuale tra il poeta e la figura paterna e il vissuto di un tradimento che rende l’animo esacerbato». Nei commenti che seguirono, parlammo di riferimenti mitici (l’albero del fico sacro a Dioniso, gli agrumi sacri alle ninfe) e storici (l’8 settembre del 1943, il femminismo degli anni ‘70), ed emersero gli echi profondi del tema della figura paterna anche nelle riflessioni di quanti intervennero.

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Fortini, Pasolini e il realismo più reale del re (quello dei dominatori)

di Ennio Abate

Ieri, sulla mia bacheca Facebook, dove avevo pubblicato la copertina delle “Poesie inedite” di Franco Fortini con un richiamo al carteggio che ebbi con lui ( qui), ho avuto un lungo, intenso e polemico scambio di opinioni con Mary Blindflowers (che è stata di recente ospite qui su Poliscritture). Poiché la polemica riguarda il rapporto tra poesia e politica e rivela i “cattivi umori” che circolano nel languente dibattito culturale sui social quando si sfiorano questioni importanti ma oggi eluse, mi affretto a riprenderlo subito, anche se schematicamente, ripartendo da questi punti:

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E il desiderio disse: niente!

Riordinadiario / In margine ad un convegno su Elvio Fachinelli del 1998

di Ennio Abate

Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di
Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono in quel convegno, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi: ” Ma allora, come accade che, puntualmente, questa carica creativa dell’inconscio si congeli in quella che chiamò “la freccia ferma”, nei marmi rigidi delle istituzioni, della burocrazia, del gelido rigore ossessivo? “. E deve ammettere che ” la contrapposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte è un modo di descrivere – certo eloquentemente – il problema, non di risolverlo”. E allora? Confermo pienamente quanto scrivevo da isolato in quel lontano 1998: “Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo”. [E. A.]

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4 opere di Mary Blindflowers

La casa delle bambole, tecnica mista su tela, (The Doll’s Room, mixed media on canvas) 150 x 100 cm.

Appunti di Ennio Abate

1.

Parto dalle mie impressioni dirette. Cosa vedo al primo impatto in questi quattro quadri di Mary Blindflowers?

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Sulle misere gioie di un’educazione cattolica

di Ennio Abate

Questi disegni, prodotti per lo più tra 1976 e 1978 – anni della interruzione della mia militanza politica e del “ritorno del represso”(Orlando), che nel mio caso ho chiamato “gioie dell’educazione cattolica” – corrono paralleli alle mie poeterie e al mio narratorio. E perciò, suddivisi in cinque sezioni, li introduco per ora con alcuni brani dalle une e dell’altro. [E. A.]

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Materno e infantile 16 figure

1994 Madre e bimbo

di Ennio Abate

In questi disegni che vanno dal 1978 al 1994 il rapporto materno/infantile (o, se si vuole e più semplicemente, madre-figlio o donna-bimbo) è espresso in figure femminili in pose da arcigna megera (1978) o da imbambolata (1979) o da maschera perfida (1988) o da caricatura comica (1990). Hanno masse corporee avvolgenti (1990) o addirittura stritolanti (1989, Donna che stringe un bimbo; 1990, Strettamente amato). Le figure infantili, invece, appaiono ridotte quasi a pupazzi tristi e inebetiti (1978, 1979), impacciati o immobilizzati (1989, 1990). Che a volte hanno tratti incattiviti e maligni (1989 e 1990). Solo nella figura del 1989 (Bimbo che sfugge all’abbraccio) un bimbo con gesto risoluto (le mani alzate come a dividere) si separa dall’ombra avvolgente e informe che ancora lo sovrasta. E soltanto nella figura del 1994 il rapporto si stempera in fiaba quasi da miniatura medioevale colorata. Il corpo materno o donnesco è sempre incombente e opprimente su quello del bimbo. Niente, dunque, di sereno né edulcorato in queste immagini. Piuttosto un sentimento di pena che in molte infanzie è ben più presente di quanto ci siamo abituati a immaginare e si trascina anche quando diventiamo adulti e colti. [E. A.]

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Bestiario 37 figure

1978 Uccello che cura l’uovo

di Ennio Abate

Questi 36 disegni, che vanno dal 1976 al 1998, tutti di varie dimensioni ma qui ridotti a miniature regolari secondo i codici informatici che Word Press suggerisce per comporre una galleria d’immagini, hanno per tema i pochi animali che sono entrati nel mio immaginario (soprattutto infantile): cani, galline, uccelli (indeterminati). Tranne il volpino che ho disegnato a china nel 1976 mentre dormiva, le altre immagini sono spuntate (come sempre e come ho già scritto) da iniziali segni casuali. I titoli – ironici e psicologizzanti – alludono (ma per me) a stati d’animo anche personali del tutto irrilevanti però al momento in cui disegnavo. Le forme sono qui sempre chiuse. Ho usato l’inchiostro di china e i comuni pennarelli. [E. A.]

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Alberi e vegetali 15 figure

1977 Albero attraverso una finestra

di Ennio Abate

Il titolo complessivo di questi disegni del 1976-’78, “Alberi e vegetali”, ma anche quelli particolari sono approssimativi. So di indicare così soprattutto una mia intenzione di stabilire un legame tra segni grafici e “cose” (viste o pensate). Di alcuni disegni (ad es. “Albero attraverso la finestra”, “Siepi a Scanzano”, “Attrezzi ed erbe”, “Piante secche in un vaso”) potrei dire dove e in quali occasioni ebbi la spinta a farli. Evocano (ma solo per me) la finestra al terzo piano di una casa che ho abitato; il paesaggio piatto con rare siepi attorno a una casa colonica a Scanzano; il terrazzo della casa dei miei genitori a Salerno, dove, in vasi di terracotta o vecchie bagnarole fuori uso riempite di terriccio, crescevano piante di pomodoro o di basilico e persino un piccolo nespolo. Negli altri, le forme sono state inventate al momento e non saprei trovare riferimenti tra esse e cose, luoghi e tempi da me vissuti. Sono venute fuori soltanto dai gesti casuali o semiconsapevoli della mia mano, che guidava la penna in legno col “pennino Cavallotti” d’acciaio (dello stesso tipo di quelli usati da ragazzo alle elementari nel dopoguerra o più tardi per disegnare a china)? Oppure da uno schema elementare, inconscio che comunque guida i movimenti della mano quando disegno? (Non voglio neppure parlare di idea o di forma e non mi addentro in questi problemi che so complessi). Oppure da immagini viste in libri illustrati o quadri o riproduzioni di ogni tipo sedimentatesi nel tempo? Guardando a distanza di tempo questi disegni, noto soprattutto un loro carattere “primitivo” e quanto siano forti i contrasti tra le forme bianche, compatte, plastiche e chiuse, quelle tratteggiate e quelle compattamente nere. [E. A.]

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