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Riordinadiario su Michele Ranchetti (1)

 appunto 1 (1995-1997)

di Ennio Abate

Michele Ranchetti, dopo Franco Fortini, è stato per me un altro dei “padri impossibili”. (Poi ci sono stati anche i “fratelli impossibili”, di cui qualcosa ho detto e dirò altrove). Ma anche in questo rapporto con Michele – tardivo, saltuario, forse intiepiditosi dopo la prima fase del “riconoscimento” da parte sua con l’ Introduzione alla mia “Salernitudine” (Ripostes 2003) di un pezzo della mia ricerca poetica e troncato d’improvviso dalla sua morte nel 2008 – ho imparato che si può volere bene anche ai “padri impossibili” e continuare la propria strada. [E. A.] Continua la lettura di Riordinadiario su Michele Ranchetti (1)

Sfratellanza

frammento per Prof Samizdat

di Ennio Abate

Mi telefonano. Ictus. Ricovero in una clinica. Visite solo dai parenti. Da mesi non ti sentivo, o voce telefonica elusiva, corrosa d’amarezza, violenta a tratti. Mi richiamavi solo dopo qualche giorno dal mio solito «come va? fatti sentire» che lasciavo nella segreteria telefonica. Dicevi che saresti passato ancora in questo mio altro accampamento di tenaci indagini sul nulla degli sconfitti. Ma sapevo che non saresti più passato. Non era facile per te, mitizzatore feroce della mia e tua giovinezza, sopportarne la perdita e trovare buchi nelle nostre stanchezze scostanti.

Ah, il tuo desiderio folle! Ricordi quella sera? A a forza di discorsi volevi sottomettermi al tuo delirio eroico e protervo. Li respinsi, protervo io pure per l’occasione. Potevo solo assisterti. Come si fa con un malato che ti vuole inchiodato al suo letto. E per l’intera notte accettai di esserlo. Ti lamentasti, ti disperasti, scaricasti il tuo odio. Poi non ci vedemmo più per mesi. Né mi occupai più di te. controllando nella mia rubrica telefonica i nomi di amici e conoscenti, il tuo mancava. Avevi bussato forte alle porte del mio cuore, non a quelle della mente. E ti avevo aperto lo stesso. Mi lasciasti il tuo vuoto accanto al mio.

Dopo la luttuosa telefonata annunciatrice dell’ictus, i medici ti hanno trovato una brutta neoplasia. Mi informano che sei semicosciente. Vai avanti con antidolorifici. I tuoi stanno pensando di farti morire fuori dall’ospedale. Ma in quale casa? La tua ultima – mi avevi detto – era un buco, una tana.

E allora sono arrivato a rivederti. Ho preso il metró. Sono uscito in un quartiere mai visto prima. Mi sono fatto indicare da due passanti la direzione da seguire per arrivare alla clinica. Ho chiesto ancora conferma a un anziano dai capelli bianchi come i miei. L’ho rivisto di nuovo all’ingresso della clinica. Sono salito al quarto piano. Stanza 314. Porta socchiusa.

Sei disteso con lo schienale molto sollevato. Il tuo volto è più affilato e scavato di quanto ricordassi. Una figura di El Greco. Occhi vitrei, uno più spalancato dell’altro. Un braccio scheletrico col polso fasciato appoggiato dietro il cranio. Accanto al tuo letto una donna. Si alza dalla sedia e mi viene incontro. Alzando la voce, provo a dirti il mio nome. Poi quello di amici comuni di quei tempi diventati così improvvisamente lontanissimi. E di alcune città in cui ci eravamo incontrati. Non reagisci. In silenzio, dunque, accanto a te.

Inaspettatamente suona il mio cellulare. È nella tasca del cappotto che avevo appoggiato su una sedia. Afferro il cappotto e scappo innervosito fuori dalla stanza. È C, che vuole parlarmi. Lo blocco. Gli dico che sto in ospedale da un amico che sta male. Che lo richiamerò. Perché non gli dico che stai morendo?

Nel corridoio c’è la signora di prima. Parla, parla. Dice: Terribile Milano. Che disumanità. Come si fa a viverci. Ti ha visto anche nel camerone della clinica dov’eri ricoverato prima che scoprissero il male incurabile. Non eri da solo come adesso, ma assieme ad altri malati. Dice che lei non aveva sopportato l’indifferenza degli infermieri. Guardavano la TV. Trascurando i malati. Dice pure che ora vive in campagna. Lei e un amico fanno gli artigiani. Ricavano dal legno oggetti per bambini. Continua. Dice che sei stato un uomo straordinario. Che è colpita dalla dignità con cui stai affrontando la morte. 

Rientro con lei nella stanza. Ti guardo. Ogni tanto ti agiti, sembri guardare dalla mia parte. M’illudo che tu abbia un momento di lucidità. Mi avvicino di più al tuo volto. Ti ripeto ancora il mio nome. Spalanchi gli occhi. Apri anche un po’ la bocca. Sembri stupefatto e impaurito. Poi abbassi le palpebre e volgi il viso dall’altra parte, appoggiandolo al cuscino.

Riordinadiario 1989 (2)

di Ennio Abate

quella torsione violenta
del bulbo oculare e dell’intera testa

come in una marionetta!

fu il padre-prete
a condurre il suo sguardo
all'occhio tremendo di Dio
nel triangolo della stampa appesa al muro
nella stanza 

così  fu interrotta la visione
del seno materno
e il bimbo diventò uno strabico spione
che guardava di soppiatto e di traverso
il corpo desiderato
e se lo fingeva altrove

lontano sull’orizzonte del mare
invadeva la finestra assolata

l'esperienza recisa l'inseguì
nelle scaglie di pesce morto
o - più tardi - sul foglio bianco


(16 ottobre 1989)

Riordinadiario 1989 (1)

di Ennio Abate

OCCHETTO: “SIAMO UNA FORZA SOCIALISTA”

e sei servito/
nell’isolamento/
assieme a vecchi elefanti moribondi/
notte nera/ buio nel cuore/
coi morti /
e non c’è più tempo d’imparare/
quello che sai/ ti resta
i giovani compagni/
presto saranno/
soltanto amici irriverenti/ e distanti/
nel discorso che scrivi e rileggi/
conteranno i vuoti/ i silenzi/
da cui ripartiranno loro/
per dove, non sai più/

(4 novembre 1985)

No alla Giornata della memoria calata dall’alto

di Ennio Abate

Sulla pagina FB di Sei di Cologno Monzese se… sotto questo post:

avevo lasciato il seguente commento:

Ennio Abate
Lo storico Claudio Vercelli a proposito di Giornate della Memoria imposte dall’alto:
"Ha riscontrato al riguardo lo storico e filosofo Enzo Traverso che l’ossessione commemorativa dei nostri giorni costituisce allora il prodotto del declino dell’esperienza trasmessa, in una società che ha perso i propri punti di riferimento, spesso accompagnata da una violenza insensata, senza altro oggetto che non sia il bersaglio occasionale del capro espiatorio, e da un sistema sociale che tende a cancellare le tradizioni (ovvero, il convincimento che il presupposto per dotarsi di un domani riposi nella consapevolezza del passato) così come frantuma le esistenze riconducendole a molecole di un sistema invece complesso, come tale al limite dell’incomprensibile per i più. Se ci si vuole risparmiare le pedanti e inette pedagogie dell’obbligo, allora forse bisognerebbe liberare il nostro bisogno di memoria (e di storie) dal vincolo della sua mera istituzionalizzazione. Poiché quest’ultima rischia invece di svuotarne i contenuti dall’interno. Il problema, in fondo, non è il pronunciarsi sulla maggiore o minore pertinenza di una ricorrenza civile ma sul modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare. Il resto, in fondo, rimane un campo aperto ad opportunità ed esperienze.
Dalla pagina FB di Claudio Vercelli del 27 gennaio 2022)

Ne è seguito questo scambio:

Cosimo Vincenzo Sansalone
 non si capisce perchè i richiami storici istituzionalizzati o meno debbano svuotare di significato le ricorrenze.E ancora meno si capisce cosa propone come alternativa Enzo Traverso alla “banale” ricorrenza.

Ennio Abate
Non si capisce? Ma basta guardare i fatti. A te sembra che le annuali ricorrenze del 25 aprile abbiano prodotto una crescita politica e un maggior rispetto della Costituzione antifascista? E allora come ti spieghi Acca Larenzia di qualche giorno fa, Casa Pound, etc.? O che le Giornate della memoria abbiano diminuito l’antisemitismo (palese o mascherato)?
Cosa propone Claudio Vercelli (non Enzo Traverso che egli cita all’inizio del suo scritto) mi pare chiaro: non contesta la “ricorrenza civile” ma il “modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare”. Per me in soldoni dice che la Giornata della Memoria non può essere un precetto imposto dall’alto, il racconto spesso retorico di una tragedia che viene usata come esorcismo per convalidare la “democrazia”: quella stessa che fa e sostiene le guerre. Ora in Ucraina. O tace e appoggia il massacro a Gaza in risposta al “pogrom di Hamas”da parte dello Stato di Israele, che lo giustifica in buona parte anche in nome dello sterminio subito dagli ebrei durante il nazismo.

P.s.
Dietro la Giornata della Memoria c’è un problema enorme che viene banalizzato a rito propagandistico. E’ questo che non va. Per dartene un’idea ti riporto qui lo stralcio di un altro scritto (del 2015) di Stefano Levi Della Torre, che tra l’altro parteciperà a Cologno all’incontro del 19 gennaio all’Auditorium di Via Petrarca proprio sul conflitto a Gaza:
«Ora, il dibattito sull’ “unicità” ha via via acquisito un forte connotato politico. La tesi dell’ “unicità” esclusiva della Shoà è diventata prerogativa della destra nazionalista israeliana ed ebraica: in quanto proclama l’unicità esclusiva degli ebrei come vittime dell’estremo, è piegata a giustificare ogni azione dei governi di Israele come “legittima difesa” preventiva, come diritto di prevaricare, in nome della sicurezza, i diritti del popolo palestinese e il diritto internazionale, che pure si è andato formando ispirandosi in gran parte a principi desunti dall’esperienza della Shoà. In nome di questa interpretazione esclusiva dell’“unicità”, ogni ostilità palestinese verso l’occupazione israeliana viene equiparata alla minaccia estrema nazista. E con ciò si vuol tacitare ogni critica politica e morale alla colonizzazione israeliana dei territori occupati, e al sistematico contrasto a ogni occasione di trattativa e di compromesso di pace. Di contro, coloro che considerano la memoria della Shoà come permanente allarme sulle atrocità di massa contro ogni gruppo umano da chiunque messe in atto, rifiutano questo sfregio strumentale della memoria esclusiva della Shoà: memoria inclusiva contro memoria esclusiva, universalismo e diritti umani contro la degenerazione nazionalistica della memoria».

SE UN GIORNO I NIPOTI  SI CHIEDERANNO: MA CHE DICEVANO I NOSTRI NONNI SUL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE…

A cura di Ennio Abate

Fortini, Cases, Valabrega? Vercelli, Bidussa, Traverso? Halevi, Levi Della Torre,   Moscato, Halper?…Macché!
Tocca polemizzare volando basso, così…

Continua la lettura di SE UN GIORNO I NIPOTI  SI CHIEDERANNO: MA CHE DICEVANO I NOSTRI NONNI SUL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE…

Cominciando dalle vittime

Appunti su “Storia del conflitto israelo-palestinese” di Claudio Vercelli (1)

Ho appena finito di leggere questo libro e ci tornerò su a più riprese, perché tratta in modo chiaro e puntuale una questione che, come un tarlo, è da tempo presente nelle mie letture sulla storia del Novecento. (Cfr., ad esempio, qui, qui o qui). In questo primo appunto propongo una nota, apparentemente secondaria, del suo ultimo capitolo, che considero un punto ineludibile da cui partire per  riflettere su qualsiasi conflitto sociale e politico: Continua la lettura di Cominciando dalle vittime

Corpi, figure, acquisti

di Cristiana Fischer

Il corpo vivo, con i sensi, il movimento, le emozioni, entra in rapporto con gli altri umani e con il mondo naturale, rapporti di scambio e di trasformazione. In grande parte il rapporto con il mondo avviene attraverso le immagini, con situazioni anche lontane nello spazio e nel tempo.
Consideriamo  foto di Paul Strand, La portalettere [sopra].  Si può immaginare un rapporto amoroso tra le due figure: una madre e la figlia. La donna adulta sfida con sguardo duro l’obiettivo (e forse il mondo), la grande mano destra poggia sul fianco, con il braccio sinistro protegge la figlia scontrosa.[1] Le due donne non sono in posa e la forza espressiva delle due figure fa quasi balzare fuori i due corpi dall’immagine. Continua la lettura di Corpi, figure, acquisti

Conflitto israelo-palestinese. Rileggersi

di Ennio Abate

Stralcio da “Su una mia critica a Israele mediante slogan”, 2014 (qui)

Domanda: «Quale idea di una soluzione del conflitto tra Israele e arabi palestinesi (perché ce l’avrai pure una tua idea di soluzione) devo aspettarmi da quello slogan?».

Risposta: Questa domanda è difficile e quasi me ne ritraggo. Quando una situazione di conflitto è da tempo tragica e senza vie d’uscita come quella in Palestina, le soluzioni ragionevoli – “per noi”  o sulla carta – sono respinte dai contendenti e manca un ‘noi’ riconoscibile e autorevole – fosse pure l’Onu! -, io m’impongo di vedere le cose in maniera politicamente elementare; e cioè di ragionare – solo in apparenza “cambiando discorso” o “allungando il brodo” – sullo Stato, sugli Stati. Sarò schematico o rozzo, ma continuo a diffidare  e non riuscirò mai ad identificarmi in pieno con uno Stato, neppure con quello italiano di cui sono cittadino. E non tanto perché tra le sue prerogative ci sono quelle di condannare, uccidere, incarcerare, fare guerra, ma perché convinto che le eserciti non contro i prepotenti ma soprattutto sui meno potenti. Non ho mai creduto alla sua imparzialità, alla sua obbiettività. È per questo che mi sono ritrovato con convinzione nell’analisi marxista dello Stato e ho accolto l’ipotesi comunista di un superamento dello Stato. Ed è per questo che sono ostile allo Stato di Israele che esercita un predominio spietato soprattutto contro i palestinesi; e pure agli altri Stati, che lo spalleggiano o ne tollerano le continue, “necessarie” prepotenze. Data l’esistenza di Stati – macchine predisposte alla difesa dei prepotenti (o dei dominanti, delle élites, delle lobby) -, in politica non sono mai riuscito ad accettare il pacifismo. Lo considero un atteggiamento ambivalente. Da una parte induce a comportamenti realistici: quando lo strapotere è estremo, fingersi pacifici è una via quasi obbligatoria. D’altra parte, se il pacifismo diventa ideologia, “visione del mondo”, fede nel valore astratto della Pace, spinge di solito alla rinuncia – motivata spesso da fattori religiosi o anche laico-umanistici -; o alla rassegnazione nei confronti dei prepotenti, all’accettazione di conviverci assieme (lasciandoli prepotenti!); oppure al godimento spicciolo di vantaggi a volte non trascurabili. Non per questo mi sono mai sentito di sbeffeggiare il pacifismo attivo. (Nell’aprile del 2011, commentando l’uccisione di Vittorio Arrigoni, ribadii che «contro l’orrore della guerra e contro le miserie locali è necessario costruire ed usare tutti gli strumenti di volta in volta necessari per contrastarla: in situazione di estrema debolezza solo la parola, la testimonianza da profeti disarmati (come faceva a Gaza Arrigoni); in situazioni di sperabile maggior forza con tutti gli strumenti di cui si riuscisse a disporre.». Questa convinzione – che pacifismo e “lottarmatismo” siano strumenti da usare a seconda le circostanze, più favorevoli o più sfavorevoli (li usano entrambi i prepotenti, perché non dovrebbero  usarli i meno potenti?)- la devo al marxismo. Questo se si vuole realizzare un Progetto che miri a mutare i rapporti sociali di dominio (di prepotenza e violenza legalizzate) tra una parte degli uomini (le élites economiche, politiche, militari, culturali) e i restanti. Fino agli anni Novanta del Novecento mi pareva che tale Progetto potesse essere ancora il comunismo. Oggi non mi sento di indicare più con questo nome il Progetto. Che comunque mi pare da perseguire. Guardandomi attorno o guardando alla Palestina, non posso dire che questo Progetto sia  rappresentato per me da Hamas. E tuttavia devo riconoscere oggi ad Hamas che, opponendosi allo Stato d’Israele, tiene aperta in qualche modo una prospettiva diversa da quella dell’occidentalismo mondializzato a egemonia statunitense.  In modo giusto o sbagliato? Sbagliato “per me”. Perché lo fa ricorrendo alla religione, che per chi pensa laicamente è una regressione rispetto alla prospettiva  illuminista e poi marxista o paramarxista. Ed è chiaro che Hamas è la negazione del marxismo o dell’opposizione laica allo Stato d’Israele. Certo, ho tanti dubbi che andrebbero meglio indagati.  Dovrei – visto il liquefarsi di un pensiero marxista – apprezzare l’ideologia religiosa islamica solo perché oggi è l’unica che incoraggia ad opporsi nei fatti – pacificamente e/o con le armi –  allo Stato d’Israele (e ai suoi alleati)? Come non vedere che al fanatismo religioso del Likud si oppone altro fanatismo religioso? Posso non badare a che cosa verrebbe da una eventuale (ma improbabile) vittoria di Hamas su Israele? Non ricordo forse gli equivoci in cui incappò Foucault invaghitosi della rivoluzione iraniana di Khomeyni? Posso non tener conto della razionalità della geopolitica, che, come detto, in alcune sue correnti considera semmai la Russia di Putin la più importante antagonista degli ancora strapotenti e ultraviolenti USA e quindi ritiene che è da lì che potrebbero “riaprirsi i giochi” e forse delinearsi i tratti di un “altro” Progetto?

Ammetto (ma senza sconforto) di brancolare nel buio. Anche se non si potesse più arrivare, come abbiamo sognato da giovani, al superamento totale dei contrasti dell’individuo e delle società, al “Mondo nuovo”, alla “Società senza classi”; e non si potesse eliminare del tutto la prepotenza, tagliarle le unghie, limitarla mi pare ancora un buon Progetto. E di fronte al dilemma tragico della storia umana, intuito e ben formulato da Manzoni in quel suo «non resta che far torto o patirlo», ho sempre scelto, per quel poco che mi è stato possibile, di tentare di far torto ai dominatori, che lo fanno sistematicamente ai dominati, ai più deboli di loro, a chi osa ribellarsi. Questi, per ora, i miei dubbi e il mio contributo a chiarire quelle che anche tu ancora chiami le «verità da proteggere per il futuro».