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Pasternàk, il treno… la donna…. la natura… la creazione poetica…

di Antonio Sagredo

Erenburg ha scritto nel ’22:

“In Pasternàk c’è l’entusiasmo dello stupore, l’accumulamento dei nuovi sentimenti, la forza della primordialità: in una parola il mondo dopo il diluvio, oppure dopo una settimana passata in una trincea a difendersi dai proiettili. Per rendere questa novità di percezioni Pasternàk non si interessa soltanto dell’invenzione delle parole, ma della disposizione delle parole. La magia di Pasternàk è nella sua sintassi. Una sua poesia si chiama Gli Urali per la prima volta, tutti i suoi libri possono essere chiamati: il mondo per la prima volta; essi sono in realtà un mastodontico segno esclamativo, una oooh!, che è molto più bella e convincente di tutti i ditirambi”.

. (Il’ja Erenburg, Uomini, anni, vita, op. cit., 1963, vol. II, p.55)

Attacco quasi da tregenda la prima strofa, ma che poi quasi come una valanga furibonda della natura che tutto coinvolge si espande travolgendo in un subbuglio senza fine montagne alberi ghiaccio e uomini minacciosi (le orde asiatiche che disturbano il sonno dei russi da secoli!)… la natura è sconvolta… il poeta quasi si trovasse al centro di questo caos  assiste ai primi albori mattutini: sono delle grida queste prime luci, come quelle di una donna che partorisce, per questo c’è uno sconvolgimento degli elementi… e mentre le montagne intorno si scontrano tra di loro, ecco che il treno macchia questi albori coi fumi carboniosi e tutto avviluppa di nerastro, allo stesso modo il mostro Gorynyč, sputando fuoco,  annerisce i boschi  macchiandoli di caligine… La prima strofa è stupefacente e lascia senza respiro il lettore. Forme e contenuti coincidono nello svolgersi dei vari eventi, e sono attoniti, quasi involontari protagonisti dell’evento: il parto dei primissimi bagliori di luce: il parto di Leuca! È un occhio cinematografico quello del poeta che già ben conosciamo. Dalla prima strofa: tutto viene visto da lontano, poi man mano si riducono le distanze, ed ecco : la cittadella, i massicci, gli sbuffi della locomotiva (pare che l’occhio del poeta segue la locomotiva sui binari), e ai lati paiono i boschi dare l’assalto al treno, sono incombenti, da soffocare. È un’alba liquida-catramosa che si spande ovunque e si versa, come avesse ingerito forti dosi d’oppio, o che  si danno da uno spacciatore (qui: Gorynyc, drago a tre teste che sputa fuoco, proprio come la locomotiva) a un compagno di strada. Questa droga eccita e risveglia: gli occhi sono spalancati e vedono minacciose le orde asiatiche (antichissimo mito, pauroso, tutto slavo!) che travolgono ogni cosa… e solo i pini, come monarchi e guerrieri si ergono come baluardi contro queste invasioni, e sono prìncipi villosi (le ramificazioni), vestiti di nero per la fuliggine, e che man mano il sole s’alza sull’orizzonte si colorano d’arancione per i bagliori di un sole rossastro. Sembra che si sia scampati a un incubo notturno. //// E qui, in questi versi-quadri del poeta, mi sembra di ravvisare i dipinti quasi scultorei, sfaccettati, dei quadri del pittore Nikolaj Rerich (1874-1947)… delle montagne e delle foreste russe intrise fino allo spasimo delle fiabe e dei personaggi della mitologia russa che dentro vivono, e che rivissero nei vari spettacoli dei Balletti russi di Djaghilev, dei quali fu uno dei pittori e scenografi.

(mia nota 175, p.55)

Aggiunge Ripellino:

   C’è sempre una freschezza mattinale dello sguardo. È la posa dell’uomo appena sveglio che ancora si strofina le palpebre. Non è come una certa poesia sovietica, ad esempio Sluckij:” Mi alzerò al mattino, alacre e fresco”.
   Qui c’è invece questo sonnambulismo del risveglio, risveglio che è la primordialità e la riscoperta di tutto ciò che è innocente e vero. Questa enormità fumosa, questa colata di umido, queste nubi di caligine e poi questo fuoco improvviso e la discesa della tribù di asiatici, sembra un film di Pudovkin e il movimento viene dato con semplice balenio e per questo coronamento, questa specie di balletto uralico nel gusto dei balletti di Djaghilev e della fiaba russa. (AMR – p. 55)

  Ma noi sappiamo che il treno per il poeta ha anche significato di fuga dalla vita domestica che spesso era costellata da liti, scontri verbali, come succede  in qualsiasi famiglia; e allora dalla poetessa Anna Achmatova sappiamo secondo quanto riferì alla Elaine Feistein che “quando lui (Pasternàk) litigava con la moglie prendeva talvolta il treno per Leningrado e dormiva da lei (Achmatova) sul pavimento”. In  E. Feinstein, Anna di tutte le Russie, op.cit., 2006, p. 296.
  Era l’eterno chiacchiericcio, il pettegolezzo, le dicerie malevoli che il poeta non riusciva a sopportare e che a causa loro molti poeti russi  hanno pagato con la vita questa pressione davvero terribile e che questo suo divincolarsi di continuo ha un parallelo con l’andamento irregolare dei treni: gli scarti, lo sferragliare, il cambiare binari, gli urti, ecc. (mia nota 215, p. 85)… nonostante tutto Pasternàk resta per tutta la sua vita grandemente generoso verso la donna (la donna-treno, aggiungo!)

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La morte di un poeta

Non ci credevano - che fossero fandonie,
ma lo apprendevano da due,
da tre, da tutti. Si allineavano nella riga
del suo tempo fermatosi di botto                                 
le case di mogli, di impiegati e di mercanti,
i cortili, gli alberi e su essi
i corvi, nel fumo di un sole rovente
gridavano eccitati contro le cornacchie
perché le sciocche, d’ora in avanti
non si impicciassero nel peccato.
C’era sui volti un umido spostamento,
come fra pieghe di una rete strappata.

Era un giorno, un innocuo giorno, più innocuo
di una decina di precedenti giorni tuoi.
Si affollavano, allineandosi nell’anticamera,
come se lo sparo li avesse allineati.
Come se avesse, schiacciandoli, schizzati da una chiavica
Lucci e scàrdove una deflagrazione
Di petardi riposti fra i biodi.
Come un sospiro di strati micidiali.
 
Tu dormivi, spianato il letto sulla maldicenza,
dormivi e, cessato ogni palpito, eri placido, -
bello, ventiduenne,
come aveva predetto il tuo tetrattico.
 
Tu dormivi, stringendo al cuscino la guancia,
dormivi - a piene gambe, a pieni malleoli,
inserendoti ancora una volta di colpo
nella schiera delle leggende giovani.
Tu ti inseristi in esse più sensibilmente,
perché le avevi raggiunte d’un balzo.
Il tuo sparo fu simile ad un Etna
in un pianoro di codardi e di codarde.
 
 
1930
(trad. di AMR)

  Il tetrattico è il poema La nuvola in calzoni di Majakovskij. Perché lo definì tetrattico? Così scrive nei suoi Ricordi Lilja Brik: “Majakovskij chiese a Òsip Brik  se esistesse un nome per le icone composte non di tre parti, i trittici, ma di quattro. Òsip gli rispose che ne ignorava l’esistenza, ma che nel caso potevano essere definite tetrattici”. In  Lilja e le altre”, op.cit., cap. “Lilja – Ricordi”, p. 94.  –

  Questa poesia fu scritta qualche tempo dopo la morte di Majakovskij (tutto da rivedere se fu davvero un suicidio!) ed è un attacco tremendo e estremo contro le malelingue del borghesuccio piccolo uomo sovietico. E fu il il borghesuccio piccolo uomo del tempo degli zar a causare la morte di Puskin. In “Quattro modi di morire” consiglio di ascoltare questa poesia…  l’ineguagliabile interpretazione di Carmelo Bene… questa  voce unica” davvero mette i brividi.

   Se dunque “  Pasternàk ha l’intuizione del movimento, i suoi versi sono bellissimi per la loro  trazione…. ma  le loro righe si curvano e non si possono distendere, come verghe d’acciaio. Cozzano l’una contro l’altra come vagoni di un treno che freni all’improvviso. A parte l’implicazione ferroviaria, è proprio così: i versi sono urtanti, l’uno contro l’altro. E, appunto, per questo continuo rimando e scampanellare da stazione che essi hanno, che sono “gremiti come vagoni di traslochi”. (AMR -( p. 85)

Nella poesia che inizia coi versi Mia sorella la vita anche oggi nella piena\ s’è frantumata in pioggia primaverile contro tutti,… (e che dà il titolo alla raccolta) benissimo scandisce Ripellino i tempi e i modi di questa lirica, che Pasternàk forse per renderla più quotidianamente valida affinché poi fosse egualmente compresa da tutti (nulla togliendo alle caratteristiche stilistiche tipiche della sua stessa poesia) specie dall’acqua stessa che umanizza come al suo solito -, dal chiacchiericcio filisteo e ottuso del popolino, dalla natura stessa e dai sensi umani che interagiscono; e dallo stesso treno che in Pasternàk è tutto lo spazio e il tempo mescolati per essere indissolubili… e infine dopo che tutto è presente è anche pronto ad essere accettato e identificato con l’immensa dimensione che circonda;  gli sportelli dei vagoni sparsi nella steppa significano che le vite private e quotidiane si liberano – fuggono dai vagoni in corsa verso lo spazio che viene incontro velocemente –  dal proprio intimo esistere sciogliendosi, e dunque rigenerandosi in uno spazio che non ha confini per una nuova vita… e ancora una volta è la donna ad essere la scintilla, perché anche lei è sorella della vita, come lo è il poeta che la canta!

(mia nota 270, p. 109).

 Questa poesia fu rifatta diverse volte proprio per centrare ancora meglio quei motivi che erano essenziali al poeta per poter progredire; lo slavista individua cinque motivi centrali :
1 – la vita è eguale all’ acquazzone e piena primaverile; è irrequieta e tempestosa, come l’acqua di    primavera.
2 – i borghesi hanno ciondoli e sono burberi, non capiscono le ragioni della poesia e della vita.
3 – solito tentativo di cogliere tutti gli odori e i suoni del mondo, con le narici aperte, le orecchie tese, pur passando attonito attraverso il mondo, è sempre pronto a coglierne i suoni e i colori.
4 – il treno, motivo centrale: passa, inserendosi nell’universo.
5 – il palcoscenico si allarga, alla fine, sulla vastità cosmica.

(AMR – p.109)

    E a questo punto   doverosa è una distinzione fra due grandi poeti, cioè del loro rapporto col mondo femminile, che se con Pasternàk si realizza la tangibilità dell’eterno femminino,  invece in Blok svanisce dopo una iniziale acclamazione; finirà  questi per deriderlo nei suoi lavori teatrali: Balagančik,1906,  (Il baraccone) e Neznakomka 1907,  (La Sconociuta). (mia nota 315, p. 148)

Questa donna,  che è sempre nel gusto di Pasternàk di spiritualizzare, di elevare la figura femminile che viene, come la vita stessa a prendere la vita del poeta e a soffiarne via la polvere.

(AMR – p.315)

   La donna per Pasternàk è sorgente di rigenerazione continua nonostante delle gravi crisi che dovette subire e che misero a dura prova la sua capacità creativa, infatti già nel 1925 Pasternàk dovette affrontare una crisi, ma di natura diversa, e cioè di una sorta di rinuncia alla poesia e alla prosa lirica, e di questo suo stato ne è prova una lettera (del 16 agosto 1925) che inviò a Mandel’štam; scrive: ”Ho cominciato a scribacchiare qualcosa.[…] Si tratta del ritorno al vecchio binario poetico di un treno che era deragliato e che per sei anni è restato in fondo a una scarpata. Tali sono per me Sestra, Ljuvers e qualcosa dei Temi.[…]Dai primi di gennaio scrivo a pezzi e bocconi, svogliatamente. È incredibilmente difficile. Tutto è arrugginito, frantumato, distrutto, su tutto si sono depositati strati sovrapposti di insensibilità, di ottusità, di abitudinarietà. Che schifo. Ma il lavoro è lontano dalla faccia del giorno, esattamente come succedeva a suo tempo coi nostri primi abbozzi e coi lavori più riusciti. Si ricorda? E proprio in ciò sta il suo fascino. Esso porta alla memoria il dimenticato, rafforza le riserve di energie che sembrano come rivivere”, in Poesia e vita, Lucarini, Roma 1990, p.17.

(mia nota 132, p. 32)

   Ma Il’jà Erenburg nelle sue Memorie scrive che Pasternàk era “uno dei maggiori lirici del nostro tempo”.* [e così fu celebrato da Bucharin al  I° Congresso degli scrittori sovietici del 1934; pure la Achmatova (che per 13 anni non aveva scritto nulla)– riferisce alla Lidija Čukovskaja nel gennaio del 1954 – che disse severa al poeta: ”Calmati, amico mio, anche se negli ultimi dieci anni non hai scritto più niente rimani uno dei più grandi poeti europei del ventesimo secolo”, in E. Feinstein, Anna di tutte le RussieLa vita di Anna Achmatova, La Tartaruga edizioni, 2006, p. 297

(mia nota 10, p. 5)

Finisco con questa mia nota 70, p. 42:

   Nel poema La nuvola in calzoni di Majakovskij la nuvola, altrove vezzeggiata dal poeta, qui assume la figura di uno strumento di tortura. Dalla nuvola cade la pioggia perché ha (co)stretto il cielo; dal poeta cadono lacrime: è l’autoflagellazione, il masochismo di un giovanissimo uomo, è quell’Io che non sa dove sbattere la propria esistenza. Come dunque sono diverse e distinte le visioni della Natura che hanno

   Majakovskij e Pasternàk: il primo sulla Natura disse poco, non aveva nulla che potesse importargli se non asservita all’uomo per produrre; per Pasternàk la Natura assurge a fondamento della sua esistenza. (vedi a proposito la nota 12, p.10: “il ferro da stiro…”). Ma una interessante suggestione avvicina Majakovskij a Cechov a proposito dell’elettricità e del vapore. Nel 1892 esce di Cechov il  racconto satirico “La sala numero sei” che è contro la filosofia di Tolstoj, di cui da troppi anni s’era fatto influenzare. In una lettera all’amico Suvorin scrive:” La morale tolstojana ha cessato di toccarmi fino sin fondo all’anima. Ciò per il fatto che il sangue che cola nelle mie vene è sangue di mužik… Quanto alla filosofia tolstojana, ne sono stato soggiogato per quasi 17 anni! Ma ora c’è qualcosa in me che protesta: la ragione e il senso di giustizia mi dicono che nell’elettricità e nel vapore vi è più amore del prossimo che nella castità e nel rifiuto di mangiare carne.”(in “La steppa. Cechov, Garzanti 1966, p.12).  Mentre Pasternàk venererà sempre Tolstoj fino a fare dello  Živago una sorta di personaggio tolstojano del/nel secolo XX°, Cechov ha il coraggio di staccarsene; ma Pasternàk verso al fine della sua vita rimpiangerà amaramente di non aver  letto Cechov in gioventù.

    Se Majakovskij ha la consapevolezza di cantare il ferro e il vapore senza limiti, Cechov ha l’intuizione o il presagio che nella tecnica risiede il futuro e la modernità. Certo il treno a vapore viene pure cantato da Pasternàk, ma con aneliti romantici. Esenin invece  disprezza del treno l’implicita presenza del demoniaco, cioè di una forza nemica e negativa, ma questo non gli impedisce certo di usarlo.

Il felino finale

contessa per racconto mannacio

di Giorgio Mannacio

Un franc, un franc s’il vous plait. Il petulante saltimbanco ci offrì, in cambio, un allegro cartoncino listato a lutto. Con enfasi tutta francese prometteva brividi ed emozioni . A pagamento , si intende. Una cifra modestissima per uno spettacolo come Azhote di Renè de Obaldia. Continua la lettura di Il felino finale