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Il professor Franco Fortini (2)

di Ennio Abate

Tra le testimonianze interessanti  di “Allora comincerò…” ci sono quelle – di Franco Romanò, che già conoscevo, di Paolo Lacchini o di Paolo Massari – che, oltre a riportare i ricordi personali, fanno capire il ripensamento nel tempo da parte degli autori del loro incontro con Fortini. Altre sembrano genericamente elogiative: è il caso di “Un ricordo” di Angelo Branduardi. Mentre vanno lette con attenzione quelle di Broccaioli, Caporali, D’Angelo,  Piombini, Schliksup (e,  ancora, di Romanò). In esse si nota un certo distanziamento o persino una ostilità più o meno dichiarata verso Fortini. Pur ripetendo vecchi cliché, a volte contengono elementi di verità di solito taciuti o poco indagati da quanti studiano la biografia e l’opera di Fortini. E, perciò, se esaminate e approfondite criticamente e non trattate come pettegolezzi, potrebbero contribuire a delineare un’immagine di Fortini  non monumentalizzata, non accademicamente  imbalsamata o scostante ma viva, magari anche più  contraddittoria ma più vicina a noi che oggi viviamo bruttissimi tempi di crisi.

Vorrei qui, In particolare, accennare almeno a due problemi che mi ha posto la lettura della testimonianza di Ezia Pozzini, la studentessa che ricevette una “famosa” Lettera di Fortini del 20 maggio 1969 oggi ripubblicata in “Allora comincerò…” e l’interpretazione della medesima che ne ha dato Donatello Santarone nella postfazione al libretto.

Ho trovato sconcertante e inspiegabile che Ezia Pozzini, pur accennando ai suoi “molti ripensamenti” su quella Lettera, abbia deciso di non commentarla. O che si sia trincerata dietro una eccessiva modestia (“non è importante quello che posso dire io di Fortini insegnante. E’ importante “la lettera””, 51) e appellata all’immaginazione dei lettori ( “Lascio a ognuno immaginare che cosa abbia rappresentato per me ricevere quella lettera”).
Non conosco Ezia Pozzini né il suo percorso di vita e sono pronto a correggere le impressioni che sto per scrivere, ma, se provo io ad immaginare cosa abbia rappresentato per lei quella Lettera, credo di non sbagliare troppo affermando che non ebbe su di lei un effetto positivo. Temo, anzi, che dovette essere una mazzata, da cui ancora non si è ripresa. Per cui ipotizzo imbarazzi o reticenze  di lunga data.

Nella interpretazione  della Lettera data da Donatello Santarone nella postfazione, invece, vedo una mitizzazione del Fortini insegnante ed educatore. Santarone considera la Lettera “un esempio eloquente della concezione educativa di Fortini” (119). Sarà, ma a me pare di vedere un passo falso di Fortini, una forzatura e una prova della “insensibilità psicologica” a cui ogni forma di militanza – anche quella “necessaria” – ci costringe. [i]
Rileggendola, trovo che vi prevalga una difesa dottrinaria del rapporto gerarchico fra insegnante e studente e che Fortini enfatizzi troppo la funzione di guida dell’insegnante, mortificando o sottovalutando quella dello studente (in questo caso, della studentessa Ezia Pozzini). Mi pare anche che non colse il valore politico della domanda che lei gli pose in quel tema. (Domanda che di lì a poco divenne collettiva e fu  sviluppata in modi potenti anche se discutibili dal femminismo allora in gestazione). Dubito, dunque, dell’attualità e bontà di quella concezione educativa di Fortini. [ii]  E ritengo che non riuscì a trovare la mediazione necessaria tra teoria  educativa e caso educativo concreto che allora si trovò di fronte. [iii]

(continua)

Note

[i] 
E' quasi d’obbligo, trattandosi di Fortini, richiamarsi al Brecht di “A coloro che verranno”: “Eppure lo sappiamo:/ anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso./ Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/ noi non si poté essere gentili."

[ii] 
Ecco schematicamente  le obiezioni che farei a Fortini se fosse vivo e potessi discutere davanti a lui di quella Lettera:

1. Fortini spostava su un piano politico e storico, e quasi senza mediazione, il problema “esistenziale” posto nella sua immediatezza dalla studentessa. E rimandava la soluzione a un futuro indefinito. Non le offriva, al momento, che  una predica e la censura di quel bisogno. Sulla scia - si potrebbe dire - del Freud de il “Disagio della civiltà”.

2.  In base a una somiglianza se non dubbia da precisare, assimilava quasi del tutto il rapporto “fra insegnante e scolaro” ad altri tipi di rapporti della nostra società capitalistica: quello “in una squadra di lavoro, in un esercito, in un gruppo politico”.
 
3. Dava valore esclusivamente all’”oggettività” (anch’essa, se non dubbia, molto problematica da fissare: in generale, ma di sicuro in un rapporto educativo): “Il terreno della comprensione e dell’affetto fra insegnante e scolaro è quello dell’oggettività”. (Dubito che comprensione e affetto, come Fortini sosteneva, “se nascono, nascono a causa dell’oggetto, in sua occasione. Non in sé..”. Non sempre accade questo). 

4. Accantonava il possibile senso politico (per brevità diciamo pure utopistico) della richiesta di Ezia Pozzini. La vedeva come richiesta “privata” da subordinare all’oggettività. (O al “noi” della scuola o della politica). In quel 1969 un tale atteggiamento poteva essere giustificato. Forti erano ancora le attese di mutamento. Per cui ottimisticamente poteva  pensare - come scrive nella Lettera -  che “la parola “vita”, i pronomi “tuo” o “suo” e la nozione di “bene” stessero cambiando e fosse in costruzione la “fraternità del gruppo” che avrebbe riassorbiti quei “motivi privati”.

5. Non mi pare, però, che la richiesta della studentessa provenisse interamente “dall’anima” (come insiste a dire anche Santarone). Da quel che riporta Fortini all'inzio della Lettera, Ezia Pozzini chiedeva che almeno a scuola si creassero le condizioni per capirsi( “se non si riesce a capirsi a scuola..”, 53). Era, cioè, per un capirsi - intendo io - più ampio, più gerneroso di quello a cui l'Istituzione obbligava (ed obbliga). E questa fu una delle istanze più vigorose del movimento degli studenti di allora, che  soltanto gli autoritari per vocazione classista (e non certo Fortini) si rifiutavano di riconoscere. Quindi, a me pare che reclamasse un’attenzione “quasi” già politica al “privato” (come faranno – ripeto - di lì a poco le femministe).

6. Fortini parlava da scrittore politico di lunga esperienza a una giovane e a dei ragazzi che probabilmente di politica non sapevano nulla o ben poco o non volevano saperne. E ipotizzo che Ezia Pozzini non poteva incuriosirsene o entusiasmarsene perché era aggrovigliata in oscuri ma per lei reali e impellenti desideri o paure. E tentava di chiarirsi i primi e di sfuggire alle seconde con l’aiuto di altri, sfruttando  anche l’occasione che gli venne offerta dal tema.(Non so se si trattasse di un tema-inchiesta che Fortini proponeva in classe per capire meglio le esigenze dei suoi studenti). 

7. La visione realistica di alcune affermazioni di Fortini (“un insegnante non è un padre, anche se lo somiglia; non è un innamorato, anche se dovrebbe averne il fervore e […] soprattutto non è un direttore di coscienza”, 53) è indubbia.  Con grande convinzione e bruschezza egli richiamava, però, soltanto i dati “oggettivi”; e accettava di ridurre o limitare l’espansione dei “sentimenti” esclusivamente a quelli “che debbono sorgere […] dall’oggetto, ossia da quel che si vuol sapere o imparare, non “dall’anima”” (55). Si dirà: giusto, inevitabile. Ma quando o se un insegnante, un educatore, si trova di fronte ad un’anima di studente o studentessa forte e "selvaggia"? E se l’"oggetto" non corrisponde affatto alla condizione ideale a cui Fortini faceva riferimento (“è necessario che quanto s’impari c’importi”; “ se lo scambio della comprensione e dell’affetto è avvenuto, fra insegnante e studenti, al livello giusto (quello dell'opera comune e della reciproca responsabilità) non c’è più bisogno di un particolare interessamento o segno di affetto, perché si partecipa di un affetto e di un bene socializzati” (55)? 

8. Di Fortini si può capire  fino ad un certo punto la passione politico-pedagogica e quella implicita accettazione obtorto collo della “violenza” - mascherata o addolcita - insita in ogni rapporto educativo. Non deve sfuggire, però, che l’accettazione realistica del “disagio della civiltà” induce troppo spesso ad una mera sopportazione o adeguamento all’esistente (e, cioè, alla violenza più organizzata e prepotente degli altri). Specie quando un progetto politico più valido, nel quale “si partecipa di un affetto e di un bene socializzati” (55), non riesce a sorgere  e si può avere soltanto la semplice e spesso sterile o distruttiva espressione anarchica del desiderio.

9. La Lettera è - a me pare - a senso unico. Il flusso comunicativo dall’insegnante (Fortini) alla studentessa (Pozzini) pare strabordante. E dopo la prima frase di lei, che Fortini cita all’inizio della sua Lettera,  il flusso comunicativo di lei dov’è? Cosa disse o scrisse Ezia Pozzini dopo quella Lettera? Parlò ancora con Fortini o non parlò più di quelle sue “cose” e si assoggettò ai suoi richiami all”oggettività”? 

10. Come valuterebbe oggi Fortini  la  decisione di Ezia Pozzini di non parlare – ancora adesso, a cinquantanni di distanza! - e di dare ancora la parola solo alla sua Lettera, e dunque a lui, al professore? Si tratta di un buon risultato pedagogico? O di un segno di sottomissione? 

11. Non capisco come Fortini, che pur nel 1967 era stato così pronto a scrivere una “Difesa del cretino” (Cfr. Quaderni Piacentini, Anno VI - n. 29, gennaio 1967), non s’accorgesse che in questo caso, invece di aiutare Pozzini a chiarirsi almeno un po’ (per quel che era possibile!) i suoi irrisolti ma veri “problemi esistenziali”, li annegava o seppelliva con un rimando astratto a un futuro, che a lui – adulto e militante – poteva apparire chiaro e certo, ma che a lei probabilmente restò indeterminato. 

[iii] Caso che, però, non conosco nei dettagli. Quali erano, ad esempio, le condizioni di vita a cui si richiamava allora Ezia Pozzini? Perché non si sentiva voluta bene? (E solo dagli insegnanti?).