(Donato Salzarulo, Il gatto di Fortini, La farfalla salata, 2024)
di Ezio Partesana
Continua la lettura di L’etica del professore
(Donato Salzarulo, Il gatto di Fortini, La farfalla salata, 2024)
di Ezio Partesana
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di Ezio Partesana
Il contenuto politico della scrittura non coincide con il contenuto materiale anche se, quando accade, il problema è risolto; il dubbio resta per quei testi che parlano d’altro, dal timbro lirico o personale. Se ogni forma è un contenuto storico sedimentato, tuttavia non si può rispondere alla domanda di ordine sociale, se un componimento sia o meno “politico”, limitandosi alla ricostruzione interne delle sue ereditate forme; scrivere sonetti nell’età contemporanea, per esempio, è certo una scelta di opposizione e distanza dal poetare di tutti e chiunque, ma si possono scrivere quartine e terzine anche dicendo sciocchezze reazionarie. L’opposizione tra sentimento privato dell’esistenza e impegno civile è appunto una opposizione e in quanto tale non genera nulla; si prende partito, uno tra i disponibili, e se ne rivendicano le ragioni come in sogno di fronte a un giudizio universale. L’astrazione del recente discutere sul tema nasce da questo: dall’ipotesi che ogni individuo sia libero di scrivere, e leggere, quello che vuole, l’illusione cioè che la lingua sia una forma inerte e pura della quale ci si può servire (o a lei ubbidire, a seconda) affinché questa o quella cosa vengano dette. Si dimentica volentieri, insomma, che la trama e le parole, il ritmo e il nome, sono prodotti collettivi di una struttura sociale che nasconde le contraddizioni anche con il linguaggio, e i suoi derivati prodotti. Non si può dire tutto, in fine, non solo perché le condizioni di chi ascolta sono controllate dal lavoro, dall’educazione, dall’etnia, e via dicendo, ma anche perché la scrittura (o il disegno, o la musica) è soggetta alla stessa ideologia entro la quale vivono gli uomini. Però si può sedurre e mentire, vale a dire escogitare una lingua che, in obbligato e apparente ossequio allo stato di cose, lasci però l’amaro in bocca del “non dovrebbe essere così”; una poesia (nel senso più ampio possibile del termine) che avveleni i pozzi del dominio scherzando con le pozzanghere. La mia modesta risposta alla domanda su quale sia una scrittura politica è dunque questa: chi dice la verità in un mondo di menzogna è sempre rivoluzionario.
di Ezio Partesana
Il nominalismo in politica è una forma della propaganda, ma deve presentarsi come realismo estremo per avere successo. Libero è chi serve.
Se le parole sono convenzioni arbitrarie anche il loro referente concettuale lo diventa e il giudizio più solido oscilla nel suo possibile opposto, perché il meccanismo attraverso il quale avanza la propaganda non è la ripetizione, bensì la differenza tra la parola e la cosa, tra l’intenzione e la riflessione.
Il romantico illuminismo di Freud ancora era in grado di indicare con una frase sola l’obbiettivo dell’autonomia dell’individuo e un principio speranza: Dove era l’Es, dovrà diventare l’Io, anche a costo di perdere qualche pezzo per strada. Ma la progressiva separazione del nome dall’oggetto, la scomparsa o almeno la quarantena a tempo indeterminato degli “universali”, era però già nascosta dietro le buone intenzioni di quell’imperativo; è bastato proclamare che la sostituzione era compiuta e, a scanso di equivoci, identificare Io e Volontà, affinché i nazionalsocialisti inverassero quel motto in un inferno.
La lingua del Terzo impero è oggi parlata da milioni di persone come lingua madre. La sostituibilità infinita del referente – così simile a quella della forza lavoro – è maturata in una confusione semantica dove tutte le vacche sono candide e degne di essere venerate per sacre, sino alla prova contraria degli indici di borsa.
“Tutto il potere ai Soviet!” identificava ancora un programma politico, “Sous le pavés, la plage”, immagine onirica perfetta della rivoluzione, non lo è già più. È stato però necessario togliere la pelle dal coniglio prima di poterlo cucinare, e cioè separare i concetti (questo è il nome che gli “universali” hanno nella filosofia moderna) dal processo che li aveva resi reali, dalla prassi che li aveva resi reali.
Non basta insomma dire che la vera libertà è ubbidire a un Führer qualunque per ottenere la sottomissione, è anche necessario svuotare preventivamente la storia sociale di una lingua prima di stravolgerla. La polisemia non è solo una caratteristica del linguaggio ma ancor più il risultato di una astrazione forzata dalla storia e dalla comunità dei parlanti. Questo significa però che nelle grammatiche e nei dizionari si trova anche una resistenza alla libera manipolazione del linguaggio, e la sua forza non può essere altro che l’esperienza.
Il pallido linguaggio odierno di partecipazione, inclusione, fantasia e sentimento, ha le sue radici nello smarrimento individuale, non in una esperienza collettiva, e le parole d’ordine non significano più nulla; tutti sono d’accordo, naturalmente, ma ognuno per sé. Per riconoscere un’ombra di verità in quelle frasi bisognerebbe indicare l’avversario e lo scontro, una prassi politica insomma, cosa che ci si guarda bene dal fare in nome di un universalismo che di comune ha solo il cattivo fantasma del quale bisogna liberarsi al più presto.
Il nominalismo ha reso astratto anche il nemico.
Nota a cura di E. A.
“Dal fiume al mare” sono le parole – vuote per l’autore – che usano i coloni in Giudea e Samaria e i palestinesi delle fazioni combattenti. Per approfondimenti cfr. https://www.ilpost.it/2023/11/16/dal-fiume-al-mare-palestina/
Questo testo farà parte di un lavoro ben più ampio in preparazione.
da Poliscritture su FB
di Ennio Abate
Purtroppo anche la sua, Adriano Sofri, è retorica. Perché copre una contraddizione ormai conclamata. Tra la sua convinzione/speranza che Israele sia ancora “fino a prova contraria, un paese democratico” e, perciò, “interlocutore dei pensieri e dei sentimenti della gente del mondo” e i fatti di queste settimane che dimostrano – lo scrive lei pure – che “Nethanyahu ha fatto e sta facendo di tutto, oltre ogni misura, per mostrare di non essere un interlocutore”. Continua la lettura di Purtroppo…
La tua preghiera è degna di molta loda…
Dante, Inferno, Canto XXVI
di Ezio Partesana
Molti sono frastornati dalle notizie torve che arrivano dalla Palestina; non tutti in verità ché numerosi sapevano e hanno scelto, ma qualcuno sì. E nella posizione servile di chi ascolta e non fa o non può fare nulla, si discute delle ragioni degli dèi nazionali e dei loro imperi o dei diavoli del capitale; si fanno le scarpe, insomma, ma anche i coperchi agli uni e agli altri.
È probabile che gli interessi materiali e diplomatici di alcune potenze regionali e mondiali rendano conto di certe benevolenze o odii, così come i sentimenti di giustizia e libertà animino le persone che sono scese, numerose, in piazza per chiedere la pace. Con qualche silenzio o timidezza da attori locali, Anp, Egitto e Giordania in primo luogo, che lasciano domande alle quali è difficile rispondere.
È impossibile che la dirigenza di Hamas non avesse previsto la reazione di Israele. La quantità di vittime e il numero degli ostaggi non lasciavano spazio a alcuna mediazione che non fosse la resa (impensabile) o l’attacco violento. Questo significa che il progetto politico di Hamas (la sua “intentio recta” come la chiama Cacciari in una recente intervista, citando Tommaso d’Aquino) cercava o la guerra totale contro Israele, in alleanza con Libano e Iran, o lo scontro militare con le Forze di difesa israeliane. In entrambi i casi è un attacco suicida: non si spera di sopravvivere, solo di recare il maggior nocumento possibile al nemico e, sì, devo aggiungere, senza preoccuparsi troppo del popolo palestinese.
In un certo senso la mossa ha funzionato, e Israele è già stato sconfitto; il paese era sull’orlo di uno scontro civile chiaro forte, e adesso è disteso tra un’operazione militare crudelissima, oltre che costosa, e l’opinione del mondo. Ma anche Hamas non ha vie d’uscita (a parte i capi ultimi che sono, tutti, in esilio e ammesso che il Mossad non li raggiunga) che non sia morire là dove aveva regnato per un lungo tempo. Al momento non esiste alcun compromesso che potrebbe portare a una tregua, nemmeno ragioni di decenza umana.
È difficile comprendere la logica di un attentato suicida che è altra cosa dal sacrificio personale per salvare altri, non rivelare informazioni, proteggere la retroguardia, mantenere in funzione gli ospedali. Il male subìto e la disperazione sono giustificazioni psicologiche, non politiche, e se spiegano, ammesso che lo facciano, il movente, nulla dicono sul fine. A meno di avere una prospettiva storica secolare dove ogni sconfitta inferta al nemico (e questa, lo ripeto, è una sconfitta per Israele), non importa a quale prezzo, è un granello della sabbia della sua tomba.
Questa festa è senza invitati ma con molti camerieri.
TESTIMONIANZE PER FRANCO FORTINI dicembre 1996 COLOGNO MONZESE
Ieri ho messo in ordine nel mio PC la cartella ‘Nei dintorni di Franco Fortini’ datando in ordine cronologico appunti e interventi che ho accumulato dal 1978 ad oggi. Li rileggerò e ripenserò alle ragioni più o meno consapevoli di questa mia lunga fedeltà alla sua figura e alla sua opera, malgrado il mutamento che hanno subìto nella percezione pubblica in questo lungo tempo trascorso dalla sua morte nel 1994. Per ora ripubblico il contenuto di un libretto cartaceo di 73 pagine oggi introvabile. Lo costruii assieme ad amici dell’Associazione Culturale Ipsilon di Cologno Monzese e riuscimmo a pubblicarlo nel 1996. Può essere scaricato e spulciato con calma usando il pulsante ‘Dowload PDF’ ( a destra in alto). [E. A.] Continua la lettura di “Se tu vorrai sapere…”
di Ezio Partesana
Due ragazzi muoiono in un incidente stradale, è una “strage”; al torneo di tiro a segno il trionfo è stato ”epocale”; il vento soffia e le raffiche sono “devastanti”. Come cambiano le parole. Continua la lettura di Appendice
Questi sono i primi cinque interventi di una riflessione che speriamo corale su un episodio di cronaca che sembra, come altri consimili, paralizzare e azzerare le nostre già affaticate capacità di pensare e agire sugli sconvolgimenti in atto nella nostra vita sociale. Altri sono in arrivo e verranno pubblicati mano mano. [E. A.]
Continua la lettura di 2022. Notte di Capodanno in Piazza Duomo a Milano
di Ezio Partesana
Un motore a scoppio o un innesto di vite non posso spiegarsi, funzionano e questa è la loro ragione; non posseggono la scienza o la tecnica che li ha prodotti, non allo stesso modo dell’ingegnere o del contadino, e non ne hanno bisogno. Alla fine il vino sarà messo in bottiglia e finirà sopra la tavola di bevitori che non sanno nulla di quel che è accaduto e nemmeno ci pensano.
Spiegare, aprire i fogli dell’involucro per mostrare che cosa ci sia dentro, non è un atto naturale, ma la conseguenza di un dovere o di una scelta. È facile riconoscere nei ruoli di insegnante o madre l’obbligo a mostrare come funzionino le addizioni, per esempio, perché sia bene salutare con garbo e quando astenersi da un comportamento pericoloso. Sono istruzioni più che dimostrazioni e come il motore o la vite devono funzionare per avere senso, mostrare un risultato che chiamiamo “apprendimento”. Sono spiegazioni sì, ma sotto il condizionale del risultato pratico, del saper fare e comportarsi come prima non si era capaci.
La condizione indispensabile affinché un uomo possa spiegare qualcosa è che egli stesso capisca bene come è fatta, a quali princìpi risponda, che la tecnica sia efficace, e virtualmente riproducibile. Non necessariamente vera: ampolle d’acqua magica hanno ancora oggi un gran mercato e spiegazioni dettagliate sul loro funzionamento. Si possono dunque “spiegare” sia conoscenze utili che leggende basate sul nulla, la forma è la stessa e il contenuto non è discriminante. Un triangolo con quattro lati non può essere spiegato, la forma chimica di un cristallo di sale sì, eppure la chiarificazione va spesso persa allo stesso modo, perché anche la comprensione ha le sue regole e una spiegazione che nessuno capisca, per quanto esaustiva, non è un spiegazione.
Il medico che spiega cosa accada a un cuore che non funziona bene è impotente quanto il muscolo stesso a “spiegarsi” se chi ascolta non è in grado neanche di riconoscere le parole. Tra le condizioni di esistenza di una “spiegazione”, dunque, ci sono tanto il parlante quando il ricevente; non esiste spiegazione che possa fare a meno di un ascoltatore.
Nella nostra lingua esiste però un’accezione di “spiegarsi” che rasenta il “rendere ragione”, “dare una giustificazione”, per una scelta o un comportamento che appaiono insensati a chi li vede ma non a chi li compie; in questo caso sono conoscenze che mancavano a chi doveva comprendere l’atto e che vengono portate alla luce deliberatamente dal colpevole di condotta straordinaria al giudice che assolverà l’amico o il compagno d’armi. Sembrano sciocchezze ma sono il modello di ogni spiegazione.
Il fuoco e gli alberi non hanno bisogno di essere capiti, noi sì. Gli anziani vogliono che si perdoni loro quando si lasciano prendere dai ricordi, il fuoco non fa questione si tratti di un libro o di sterpaglie; il musicista si vergogna se sbaglia l’accordo, il pianoforte non se ne accorge; il debitore deve saldare il conto, un torrente non sa nulla dell’acqua che raccoglie. La differenza tra mondo naturale in sé e per sé e società umana appare essere uno dei fondamenti della necessità, o dovere, di spiegarsi.
La motivazione che fa comprendere è un atto di compassione, letteralmente toglie l’altro dall’ignoranza e gli apre una esperienza che, per quanto mediata dalle parole, dal particolare, persino dalla foga del sentimento, è pur sempre un materiale che può essere comune, l’opposto dell’ignoranza e della presunzione. Emerge però, persino contro ogni volontà esplicita, la differenza tra chi conosce e illustra e chi deve essere illuminato oppure, il che è lo stesso, tra chi ha il potere per esigere una spiegazione e il sottoposto che si giustifica.
La violenza insita nel sapere o nel non sapere ha il suo doppio nella pretesa di essere comunque ascoltati così come nell’indagine di polizia che verifica gli alibi dell’indiziato, la grazia del rendere ragione si rovescia nel pretendere o imporre una spiegazione. Se il mondo naturale non ha bisogno di spiegare se stesso, la società produce competenze culturali che non possono essere condivise. Non è solo questione di divisione del lavoro, del professore di chimica che non sa leggere una partitura per violino, ma di una vera e propria esclusione dal sapere sociale. E non bastano le buone intenzioni a far intendere a un analfabeta, poniamo, l’architettura barocca; la mancanza di quegli agi che un tempo si sarebbero chiamati intellettuali, e cioè tempo liberato, fanno diventare incomprensibile qualunque spiegazione superi i cinque minuti di un parlare comune.
Ragioniamo sopra quel che accade per rintracciare le cause, prevedere il futuro e, se possibile, condurre le danze. Le leggi di natura si mostrano in tutta la loro universalità solo quando un soggetto le mette in formula a favore di un altro soggetto, tra loro e loro sono oscure come un buco nel nero. Quel che non sappiamo, dunque, e quel che non possiamo, hanno in comune questa forma dell’impossibilità che non dipende da noi bensì dall’essere il sapere non raggiungibile.
La rivolta nasce dalla consapevolezza di essere stati esclusi, non dall’odio per i meccanismi di selezione. È così una opposizione a se stessi il rifiuto della propria condizione e la relata pretesa che ogni ragione venga spiegata senza distinzione di classe, censo e istruzione. Si suppone un imbroglio da qualche parte e per svelarlo si denuncia tutto quello che non dimostra di essere semplice. Il razionale sentore che aspira alla cancellazione delle diseguaglianze diventa la triviale affermazione secondo la quale se conosci davvero una materia allora sei in grado di spiegarla a chiunque, come se lo stato di minorità nel quale vivono milioni di persone fosse un complotto degli intellettuali e non una necessità del sistema di produzione attuale.
Anche gli stregoni però pretendono di sapere che solo chi è già avviato sulla via dell’illuminazione possa comprendere le loro parole e penetrare la verità profonda delle cose; non c’è corso, per quanto stravagante, che non rivendichi una coscienza superiore per i propri accoliti, coscienza dalla quale gli altri, gli scettici o i novizi, sono per definizione esclusi. “Spiegarsi” diventa così insegnare una verità nascosta, e il soggetto delle frasi si smarrisce nei meandri dei predicati.
Il confine tra “spiegare” e “giustificare” viene varcato quando nel discorso una qualunque cosa può stare al posto di una qualunque altra. Se in una spiegazione la congiunzione astrale può sostituire la storia sociale dell’individuo, allora gli elementi razionali diventano meri segnaposto di bisogni e necessità che vengono soddisfatti con un sorriso, ovvero un animale da compagnia con la collezione di pipe in radica.
Chi chiede di essere chiari e di spiegarsi dovrebbe sempre specificare cosa intende, se il motivo di un’azione compiuta o l’azzeramento di differenze nel sapere che non possono essere azzerate. Nel primo caso ha il diritto di essere soddisfatto, nel secondo, se protesta contro il mondo, gli si indichi la porta, giacché il primo motore immobile del quale dovrebbe chiedere ragione è proprio la necessità di ricevere da altri una spiegazione.
Il problema, politico quanto mai altri, è che la spiegazione deve essere vera. Poiché del nulla non si può dare ragione, giustificare l’oroscopo o la lunghezza d’onda delle radiazioni emesse da una barra di rame riscaldata opportunamente, sono esercizi privi di senso. È banale, ma può essere spiegato solo ciò che è vero e si conosce, per studio o per esperienza, il resto sono illustrazioni da rivista di dubbio gusto. Detto in altro modo: è sempre un soggetto che spiega, giustifica o ragiona di una cosa con un altro soggetto, e la condizione affinché questo accada è che in quel momento, e sopra quella data materia, i due soggetti non siano affatto uguali.
Ogni spiegazione, per quanto minima o personale essa sia, richiama dunque sempre una differenza reale di sapere, un io e un tu che non sono la stessa cosa, una dialettica tra signori e servi che non può, e forse nemmeno deve, essere compensata dalla buona educazione. Chi insegna può essere attento, gentile, rivoluzionario, ma non può fare finta di non conoscere quel che va spiegando a persone che non lo sanno, pena l’essere inutile a sé e sopra tutto agli altri.
La figura perfetta della “spiegazione” è quella dove i ruoli si invertono spesso, Socrate alle prese con i suoi pari, un meccanico di automobili e un insegnante di matematica. Ma perfino l’astratta formula della parità svela il rapporto di potere che è sotto inteso a ogni spiegazione; può essere momentaneo e ricreativo a sera a cena, non lo è affatto nel mondo reale dei contratti a tempo determinato e dei subaffitti. Certo che esiste anche una “sapienza operaia”, o contadina o qualunque altra cosa, ma i rapporti di forza in corso la relegano a fiaba della buona notte, mentre chi dovrebbe diffondere il sapere, spiegare appunto, capisce al volo da che parte tira il vento e cosa può vendersi in cambio di un riconoscimento monetario. Nessuna scelta politica verrà demandata alla sapienza contadina, nessuna decisione lavorativa alla conoscenza operaia, senza una lotta per ottenere la quantità di potere necessaria a esigere di sapere.
Esistono, si suppone, la madre che si sacrifica per il figlio, l’insegnante che ha una vocazione per il suo mestiere, il prete dei poveri e il correttore universale di tutte le bozze umane venute male. Sono nobili figure che non fanno parte della attuale struttura sociale e, cosa ancora più importante, non ne modificano il funzionamento. Pensare che la conoscenza sia per tutti è come credere che un violino alla fine non sia altro che un pezzo di legno sul quale devono passare delle dita, una bugia. Rivoluzione, ammesso che il termine abbia ancora un senso, significa identificare l’oppressione e eliminarla, non fare liste di irragionevoli speranze. Rendersene conto è il prossimo compito.