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Spiegarsi

di Ezio Partesana

Un motore a scoppio o un innesto di vite non posso spiegarsi, funzionano e questa è la loro ragione; non posseggono la scienza o la tecnica che li ha prodotti, non allo stesso modo dell’ingegnere o del contadino, e non ne hanno bisogno. Alla fine il vino sarà messo in bottiglia e finirà sopra la tavola di bevitori che non sanno nulla di quel che è accaduto e nemmeno ci pensano.

Spiegare, aprire i fogli dell’involucro per mostrare che cosa ci sia dentro, non è un atto naturale, ma la conseguenza di un dovere o di una scelta. È facile riconoscere nei ruoli di insegnante o madre l’obbligo a mostrare come funzionino le addizioni, per esempio, perché sia bene salutare con garbo e quando astenersi da un comportamento pericoloso. Sono istruzioni più che dimostrazioni e come il motore o la vite devono funzionare per avere senso, mostrare un risultato che chiamiamo “apprendimento”. Sono spiegazioni sì, ma sotto il condizionale del risultato pratico, del saper fare e comportarsi come prima non si era capaci.

La condizione indispensabile affinché un uomo possa spiegare qualcosa è che egli stesso capisca bene come è fatta, a quali princìpi risponda, che la tecnica sia efficace, e virtualmente riproducibile. Non necessariamente vera: ampolle d’acqua magica hanno ancora oggi un gran mercato e spiegazioni dettagliate sul loro funzionamento. Si possono dunque “spiegare” sia conoscenze utili che leggende basate sul nulla, la forma è la stessa e il contenuto non è discriminante. Un triangolo con quattro lati non può essere spiegato, la forma chimica di un cristallo di sale sì, eppure la chiarificazione va spesso persa allo stesso modo, perché anche la comprensione ha le sue regole e una spiegazione che nessuno capisca, per quanto esaustiva, non è un spiegazione.

Il medico che spiega cosa accada a un cuore che non funziona bene è impotente quanto il muscolo stesso a “spiegarsi” se chi ascolta non è in grado neanche di riconoscere le parole. Tra le condizioni di esistenza di una “spiegazione”, dunque, ci sono tanto il parlante quando il ricevente; non esiste spiegazione che possa fare a meno di un ascoltatore.

Nella nostra lingua esiste però un’accezione di “spiegarsi” che rasenta il “rendere ragione”, “dare una giustificazione”, per una scelta o un comportamento che appaiono insensati a chi li vede ma non a chi li compie; in questo caso sono conoscenze che mancavano a chi doveva comprendere l’atto e che vengono portate alla luce deliberatamente dal colpevole di condotta straordinaria al giudice che assolverà l’amico o il compagno d’armi. Sembrano sciocchezze ma sono il modello di ogni spiegazione.

Il fuoco e gli alberi non hanno bisogno di essere capiti, noi sì. Gli anziani vogliono che si perdoni loro quando si lasciano prendere dai ricordi, il fuoco non fa questione si tratti di un libro o di sterpaglie; il musicista si vergogna se sbaglia l’accordo, il pianoforte non se ne accorge; il debitore deve saldare il conto, un torrente non sa nulla dell’acqua che raccoglie. La differenza tra mondo naturale in sé e per sé e società umana appare essere uno dei fondamenti della necessità, o dovere, di spiegarsi.

La motivazione che fa comprendere è un atto di compassione, letteralmente toglie l’altro dall’ignoranza e gli apre una esperienza che, per quanto mediata dalle parole, dal particolare, persino dalla foga del sentimento, è pur sempre un materiale che può essere comune, l’opposto dell’ignoranza e della presunzione. Emerge però, persino contro ogni volontà esplicita, la differenza tra chi conosce e illustra e chi deve essere illuminato oppure, il che è lo stesso, tra chi ha il potere per esigere una spiegazione e il sottoposto che si giustifica.

La violenza insita nel sapere o nel non sapere ha il suo doppio nella pretesa di essere comunque ascoltati così come nell’indagine di polizia che verifica gli alibi dell’indiziato, la grazia del rendere ragione si rovescia nel pretendere o imporre una spiegazione. Se il mondo naturale non ha bisogno di spiegare se stesso, la società produce competenze culturali che non possono essere condivise. Non è solo questione di divisione del lavoro, del professore di chimica che non sa leggere una partitura per violino, ma di una vera e propria esclusione dal sapere sociale. E non bastano le buone intenzioni a far intendere a un analfabeta, poniamo, l’architettura barocca; la mancanza di quegli agi che un tempo si sarebbero chiamati intellettuali, e cioè tempo liberato, fanno diventare incomprensibile qualunque spiegazione superi i cinque minuti di un parlare comune.

Ragioniamo sopra quel che accade per rintracciare le cause, prevedere il futuro e, se possibile, condurre le danze. Le leggi di natura si mostrano in tutta la loro universalità solo quando un soggetto le mette in formula a favore di un altro soggetto, tra loro e loro sono oscure come un buco nel nero. Quel che non sappiamo, dunque, e quel che non possiamo, hanno in comune questa forma dell’impossibilità che non dipende da noi bensì dall’essere il sapere non raggiungibile.

La rivolta nasce dalla consapevolezza di essere stati esclusi, non dall’odio per i meccanismi di selezione. È così una opposizione a se stessi il rifiuto della propria condizione e la relata pretesa che ogni ragione venga spiegata senza distinzione di classe, censo e istruzione. Si suppone un imbroglio da qualche parte e per svelarlo si denuncia tutto quello che non dimostra di essere semplice. Il razionale sentore che aspira alla cancellazione delle diseguaglianze diventa la triviale affermazione secondo la quale se conosci davvero una materia allora sei in grado di spiegarla a chiunque, come se lo stato di minorità nel quale vivono milioni di persone fosse un complotto degli intellettuali e non una necessità del sistema di produzione attuale.

Anche gli stregoni però pretendono di sapere che solo chi è già avviato sulla via dell’illuminazione possa comprendere le loro parole e penetrare la verità profonda delle cose; non c’è corso, per quanto stravagante, che non rivendichi una coscienza superiore per i propri accoliti, coscienza dalla quale gli altri, gli scettici o i novizi, sono per definizione esclusi. “Spiegarsi” diventa così insegnare una verità nascosta, e il soggetto delle frasi si smarrisce nei meandri dei predicati.

Il confine tra “spiegare” e “giustificare” viene varcato quando nel discorso una qualunque cosa può stare al posto di una qualunque altra. Se in una spiegazione la congiunzione astrale può sostituire la storia sociale dell’individuo, allora gli elementi razionali diventano meri segnaposto di bisogni e necessità che vengono soddisfatti con un sorriso, ovvero un animale da compagnia con la collezione di pipe in radica.

Chi chiede di essere chiari e di spiegarsi dovrebbe sempre specificare cosa intende, se il motivo di un’azione compiuta o l’azzeramento di differenze nel sapere che non possono essere azzerate. Nel primo caso ha il diritto di essere soddisfatto, nel secondo, se protesta contro il mondo, gli si indichi la porta, giacché il primo motore immobile del quale dovrebbe chiedere ragione è proprio la necessità di ricevere da altri una spiegazione.

Il problema, politico quanto mai altri, è che la spiegazione deve essere vera. Poiché del nulla non si può dare ragione, giustificare l’oroscopo o la lunghezza d’onda delle radiazioni emesse da una barra di rame riscaldata opportunamente, sono esercizi privi di senso. È banale, ma può essere spiegato solo ciò che è vero e si conosce, per studio o per esperienza, il resto sono illustrazioni da rivista di dubbio gusto. Detto in altro modo: è sempre un soggetto che spiega, giustifica o ragiona di una cosa con un altro soggetto, e la condizione affinché questo accada è che in quel momento, e sopra quella data materia, i due soggetti non siano affatto uguali.

Ogni spiegazione, per quanto minima o personale essa sia, richiama dunque sempre una differenza reale di sapere, un io e un tu che non sono la stessa cosa, una dialettica tra signori e servi che non può, e forse nemmeno deve, essere compensata dalla buona educazione. Chi insegna può essere attento, gentile, rivoluzionario, ma non può fare finta di non conoscere quel che va spiegando a persone che non lo sanno, pena l’essere inutile a sé e sopra tutto agli altri.

La figura perfetta della “spiegazione” è quella dove i ruoli si invertono spesso, Socrate alle prese con i suoi pari, un meccanico di automobili e un insegnante di matematica. Ma perfino l’astratta formula della parità svela il rapporto di potere che è sotto inteso a ogni spiegazione; può essere momentaneo e ricreativo a sera a cena, non lo è affatto nel mondo reale dei contratti a tempo determinato e dei subaffitti. Certo che esiste anche una “sapienza operaia”, o contadina o qualunque altra cosa, ma i rapporti di forza in corso la relegano a fiaba della buona notte, mentre chi dovrebbe diffondere il sapere, spiegare appunto, capisce al volo da che parte tira il vento e cosa può vendersi in cambio di un riconoscimento monetario. Nessuna scelta politica verrà demandata alla sapienza contadina, nessuna decisione lavorativa alla conoscenza operaia, senza una lotta per ottenere la quantità di potere necessaria a esigere di sapere.

Esistono, si suppone, la madre che si sacrifica per il figlio, l’insegnante che ha una vocazione per il suo mestiere, il prete dei poveri e il correttore universale di tutte le bozze umane venute male. Sono nobili figure che non fanno parte della attuale struttura sociale e, cosa ancora più importante, non ne modificano il funzionamento. Pensare che la conoscenza sia per tutti è come credere che un violino alla fine non sia altro che un pezzo di legno sul quale devono passare delle dita, una bugia. Rivoluzione, ammesso che il termine abbia ancora un senso, significa identificare l’oppressione e eliminarla, non fare liste di irragionevoli speranze. Rendersene conto è il prossimo compito.

Oggi si vola

di Ezio Partesana

La trama apparente del romanzo è semplice: due uomini, uno scrittore e un fisico, fanno amicizia e condividono alcune esperienze, un prestigioso premio letterario e un esperimento cruciale andato a buon fine. L’ambientazione è tanto precisa quanto rarefatta – Ginevra, strade, campi di volo, abitazioni – e ospita altri uomini e donne che concorrono allo sviluppo della storia. Però non accade quasi nulla. Un amore ha poche immagini e un solo bacio; dell’esperimento si sa tutto tranne in cosa consista; lo scrittore ha smesso di scrivere e medita sopra un manuale a proprio uso e consumo:

Scriverò un Atlante della luce […] lo scriverò soltanto per me, un libretto da portarmi appresso, in tasca. Lo userò come gli ornitologi usano quelli per riconoscere e distinguere gli uccelli, o come i geografi usavano le carte.[1]

I manuali, le carte geografiche, gli atlanti, sono gli unici libri che, anche quando mentono, sono esentati dal dubbio dell’utilità; non c’è nulla da cercare in essi a parte le istruzioni contenute, a questo servono, a imparare. Tutte le altre scritture devono giustificarsi:

… forse alla fine imparerò una geografia diversa, in cui uno, sollevando gli occhi dalla carta che ha in mano, guarda e vede davanti a sé, attorno a sé, un’enorme carta a grandezza naturale, e nonostante questo è capace di mettere il dito in un qualsiasi punto e dire “qui” e dire “io”…[2]

Il termine Atlante non è un sinonimo di manuale, indica sostegno e reggimento, come nel mito greco del titano condannato a portare sulla schiena la terra, e dal XVI secolo i libri dove sono raccolte le informazioni geografiche, soprattutto in forma di disegni.

Il titolo del romanzo del 1985 è Atlante Occidentale, non un manuale dunque né una mappa grande quanto il territorio che vuole rappresentare nel minimo dettaglio, ma pur sempre un “romanzo di formazione”[3], secondo la descrizione che Ira Epstein, il secondo protagonista, ne fa quando spiega come ha imparato a fare questo e quello, perché:

… se posso dubitare dell’intenzione dei romanzi che ho scritto so per certo che il fine di un manuale è uno solo, accrescere la felicità del genere umano.[4]

Un incidente di volo sfiorato è il primo degli avvenimenti che Del Giudice mette in lista, nonché l’occasione di conoscenza tra Ira Epstein, lo scrittore, e Pietro Brahe, ricercatore del Cern. Il tempo della narrazione è il perfetto:

All’inizio del campo d’erba provò il timone; poi, dondolando le ali, cominciò a rullare,[5]

Ma già nella pagina seguente compaiono l’imperfetto narrativo e il presente indicativo, e lo schema si ripete lungo tutto il romanzo. Senza mai violare apertamente le norme della consecutio le proposizioni si mettono sovente in equilibrio opposto, tanto che a volte viene da rileggere il passo per esser certi non ci sia qualche errore:

A Ginevra fermò la macchina in uno dei viali lunghi, […] Cammina su marciapiedi poco affollati,[6]

Ma naturalmente nessun errore, che pure non c’è, potrebbe sospendere la moltiplicazione del narratore: una riga prima è un fedele cronista storico, quella dopo un osservatore casuale alla finestra; ciò che li unifica, in questo caso, sono i fatti – un’automobile si ferma e un uomo cammina – non il tempo della scrittura che appare, sì, ma per dichiarata opposizione: sono io, non sono io, non è questo il problema.

La trama interna del romanzo è molto più complessa: il fisico ha dei colleghi, lo scrittore un editore; un giardiniere compare e scompare come un vecchio saggio; le due donne, entrambe bellissime, sembrano punti cardinali più che motori; il lago, costantemente evocato, non serve a nulla; dello scrittore, che otterrà un prestigioso riconoscimento, apprendiamo un solo titolo, quello del libro che deve ancora scrivere, Atlante della luce.

Seguono descrizioni minuziose, se ne incontrano diverse: aeroplani nella rimessa; collisione di particelle; fuochi d’artificio; prospettive della città. Tutte appaiono rimandare a una necessità di precisione esaustiva, come un catalogo di componenti di ricambio o gli orari della corse da e per Recanati che Leopardi appuntava scrupolosamente nei suoi quaderni. Ma non c’è nessuno che le usi, sono, apparentemente, manuali senza utenti. Qualche spiegazione di questo paradosso, che orienta il contenuto del romanzo, è sparsa tra le pagine.

Per vedere bisogna avere la forza di produrre ciò che si vuole vedere. Lei non crede?[7]

Chiede il premio Nobel Wang a Brahe, nel mezzo di una disputa per pochi centimetri di spazio, e questi risponde,

Sì, certo. Per vedere ci vuole una grande intenzione e una grande energia. Solo così si può produrre quello che si vuole vedere.[8]

Alla rivelazione dell’anziano scienziato, magistrale quanto lo può essere scrivere una frase che resta in equilibrio tra due materie, il protagonista Brahe risponde con una aggiunta di filosofia del Novecento: la tecnica è indispensabile, ma senza intenzione è vuota.

I due scienziati stanno discutendo sopra una qualche sorta di macchina – cosa sia, Del Giudice non lo dice – alla costruzione della quale partecipano entrambi, e ognuno vorrebbe un poco più di spazio per installare i propri elementi. Lo scarto che Del Giudice fa è semplice, eppure convincente: l’acceleratore di particelle e la teoria che sorregge l’esperimento diventano, con sottile maestria, i presupposti trascendentali di ogni vedere; anche dall’aereo, anche in un amore, devi avere la forza e l’intenzione per produrre quello che vuoi vedere, altrimenti non ci sarà nulla.

Eppure non è tutto, non sono solo le condizioni necessarie affinché un’esperienza si dia, o un ricordo, a reggere la scrittura, ma anche una sorta di residuo ultimo non più ulteriormente analizzabile:

Potrei dirle: una storia è fatta di avvenimenti, un avvenimento è fatto di frasi, una frase è fatta di parole, una parola è fatta di lettere? E la lettera è irriducibile? No, dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento…[9]

Al ricercatore che lavora per dividere la materia in particelle sempre più piccole, lo scrittore risponde descrivendo la reductio propria della letteratura, e così come in fisica l’oggetto che alla fine si trova non si sa se sia materia o energia, allo stesso modo nella scrittura si scopre un grado zero che “non è ancora forma, ma non è già più sentimento”. E l’analogia prosegue sino in fondo: la realtà fisica, quella che noi percepiamo, è composta da forze in bilico tra essere qualcosa e non essere quasi nulla, il linguaggio dà realtà – una realtà seconda senza la quale non ci sarebbe però neanche una realtà prima – al significato restando sospeso nel mezzo tra ragione e sentimento:

… ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile, dal pensiero che lo pensa istantaneamente, e capire il mistero per cui le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: “Lei mi piace”, e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa.[10]

Mistero o miracolo che sia, accade; e questo è uno degli argomenti, e delle domande, di Atlante Occidentale.

Si comprendono allora meglio le minuziose descrizioni presenti copiose: esperimenti cruciali, non sfoggio di tecnica, verifica e controllo, non estasi contemplativa. La descrizione dei fuochi d’artificio occupa cinque pagine, molte per un puro resoconto, e avviene per sfida, perché il fisico vuole sapere come e cosa veda lo scrittore. E poi si rivela lo scopo della richiesta:

Mentre resta solo, e la luce piano piano ridà spessore alle piante e alle forme del giardino, Brahe cerca di trattenere le forme che ha appena visto, o creduto di vedere; vorrebbe che gli restassero con la limpidezza con cui le ha percepite mentre ascoltava, vorrebbe che avessero la solidità di un punto esterno contro cui rimbalzare, vorrebbe isolarle una per una, disporle in un certo ordine, toccarle…[11]

La divisione temporale tra i fuochi d’artificio mentre si guardano e i fuochi d’artificio percepiti mentre si ascolta il loro racconto, ovvero la distanza tra la semplice esperienza irriflessiva e quella mediata dal linguaggio, l’astuzia narrativa di Del Giudice che separa il momento dello spettacolo pirotecnico dal racconto che lo scrittore ne fa, è il secondo contenuto al quale va incontro il lettore della fenomenologia dell’Atlante: la parola è una delle potenze necessarie a far esistere le cose.

Scarno di personaggi secondari, il romanzo ne mette in luce comunque diversi: Rüdiger, il collega e complice; Mark; Sarad, custode filosofo; il meccanico degli aeroplani; Eileen, la costruttrice di magneti; il collega e rivale asiatico; altri che neppure hanno un nome o un mestiere definito… e Gilda, il capitolo decimo è dedicato alla storia dell’amore tra Pietro Brahe e Gilda. L’intreccio è scandito lungo una sola giornata e si conclude con un bacio, in mezzo, a aprire le danze, il castello che non è un castello e il custode e erede, piccolo “agrimensore” senza il potere inquietante di Klamm, e senza un nome. La ragazza emerge con leggerezza e qualche luogo comune: lo sguardo, i movimenti, l’essere naturalmente parte del tutto. Nel “castello” ovviamente non c’è nulla, e solo il buio protegge le tracce di quel che c’era tempo e che poco alla volta è stato venduto. Il corteggiamento è tutto in mano alla ragazza, Brahe è ridotto a poche frasi, alla fine potrebbe anche non esserci e nulla cambierebbe, e la conclusione è banale:

Brahe si era preparato a sostenere gli occhi di Gilda, ma certe volte il loro movimento era così saldo, e il loro posarsi su di lui così rapido e adesivo che […] doveva cercare riparo… […] per il resto provava ciò che sempre aveva provato in queste circostanze, complicità e tenerezza, un certo senso di responsabilità ai margini del gioco, e soprattutto una fantasia scatenata.[12]

Negli esperimenti e rilevazioni di Del Giudice, una delle due parti che dovrebbe rivelare lo stato dell’esistenza prima che il linguaggio la porti alla luce – “non ancora forma, ma non […] già più sentimento”[13] – fallisce, e dicono che sia una prova scientifica anche questa. La “fantasia scatenata” si riduce a un bacio, la storia d’amore scompare dal romanzo, come Gilda e il castello – erede più di Davanti alla Legge che del romanzo del 1922 – e, andrebbe detto, anche il volo.

La narrazione riesce a descrivere con la forza e l’intenzione necessaria gli esperimenti compiuti, ma si arresta davanti al proprio, ovvero all’attimo della trasformazione dell’atto in potenza; non riesce, insomma, a risalire il tempo quando si tratti di spiegare come un sentimento diventi forma, letteraria in questo caso ma potrebbe anche essere musicale o pittorica, etc. È lo scrittore, Ira Epstein, a spiegarlo, in una lettera al proprio editore Ed, quella nella quale annuncia la decisione di non scrivere più:

Del passato mi interessa come è cambiato di libro in libro il mio rapporto tra etica e forma (non l’avresti detto, tu che hai parlato sempre del mio “cinico candore”). Eppure, dovendo ripensare, ripenserei quello, voglio ripensare a quello per capire che cosa ho fatto.[14]

Accostando questa riflessione con la seguente,

Dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile…[15]

Si nota uno spostamento: prima si parla di rapporto tra etica e forma, dopo dello stato nascente tra sentimento e forma, come se le due cose fossero simili, o potessero almeno mutarsi una nell’altra.

L’etica è già una forma, è una legge non trasgredibile (pena la colpa) che muta un’associazione caotica in una comunità, è una forma che dà forma. Il sentimento, o la tensione – che non si riesce a separare dalla “parola che lo rende visibile” – sono a un grado precedente l’etica ma, in entrambi i casi, si tratta di osservare, se mai possibile, l’attimo nel quale una cosa si rivela, come gli elementi minimi dell’esperimento scientifico all’acceleratore di Ginevra.

A ben vedere neanche il sentimento o l’intenzione, che lo scrittore, vorrebbe poter strappare dalla messa in forma che immediatamente subiscono, sono mera materia. Nell’Atlante Occidentale sono rari i momenti ingenui ma è sempre un soggetto, cioè qualcosa che ha forma, a produrli. C’è la citazione da Manzoni sopra la simmetria e la riflessione di Gilda sul Blues, la battuta un poco sciocca sul carattere femminile e il sipario di Einstein e Kafka che si incontrano a Praga[16]; ma per tutte può valere il finale del romanzo. Qui ha termine, almeno per chi legge, l’amicizia tra Brahe e Epstein, e il tono che adopera Del Giudice conferma che si tratta di un addio, pur senza che si sappia perché: nessuno sta morendo né parte per un mondo lontano, hanno avuto successo e possono, i due amici, rivedersi quando vogliono, eppure è un addio. Brahe corre a grande velocità e imbocca l’ingresso contromano per riuscire a fare in tempo a salutare l’amico che, nel frattempo, indugia in stazione. E mentre indugia riassume tutto quello che è accaduto a se stesso e a Brahe, con un’ultima vista, poco terrena, sul proprio editore, personaggio dello schermo se ce n’è uno:

… vede un editore che sale in macchina per Zurigo, ma al primo motel lungo la strada dice all’autista: “Fermiamoci qui”, e in camera si sfila la cravatta e si stende sul letto senza togliere la coperta e cerca di ricordare, ma proprio bene, ma proprio nei dettagli, il luogo e l’ora e la luce e com’era lui stesso quando un giovane spilungone con gli occhi grigi […] gli ha portato il suo primo manoscritto, e pensa che adesso non ce ne saranno più, e si chiede come mai…[17]

Questa è l’introduzione al congedo, la dimostrazione che la forma, a dispetto del contenuto, determina il sentimento. Tutto va bene, i due amici hanno avuto successo e avranno riconoscimenti, non s’è perso nessuno e, come si deve dire, il sole splenderà alto domani. Eppure qualcosa è finito, e è propria la forma, questa particolare forma di un racconto, che termina. E Gilda non giacerà più con Pietro, Ira non scriverà più, oggi non si vola.

E adesso?
Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.
E questa?
Questa è finita.
Finita finita?
Finita finita.[18]

Con qualche difficoltà leggendo ci si ricorda di attribuire le frasi al giusto personaggio, ma riflettendo non poteva che essere lo scrittore a decretare la fine.

Le tragedie sono sempre chiuse, non perché la vicenda, participio futuro dell’accadere, non possa avere un seguito, sia esaurito il materiale e non ci sia più nulla da dire, ma per la sfrontatezza originaria di voler scrivere, di voler dare forma a qualcosa che non ne ha bisogno e che solo nel pensiero “mi fingo” debba, per sopravvivere, averne una.

Se “esistenzialismo” significa vedere nella singola esperienza una traccia del tutto, Daniele Del Giudice scrive come un esistenzialista. Chi mai potrebbe essere triste perché un racconto, non una vita, è terminato, se non chi pensasse che narrare sia una parte della vita o almeno della sua vita? Atlante Occidentale potrebbe essere riassunto come la storia di un’amicizia, la storia di due teorici che diventano amici perché confrontano le rispettive ricerche e scoprono che hanno qualcosa d’altro in comune oltre alla passione per il volo. A un siffatto riassunto però resterebbe da spiegare non l’amicizia ma il qualcosa d’altro. È un riconoscimento, un comune sentire che va in scena, nella distanza apparentemente siderale tra fisica delle particelle e letteratura contemporanea.

Saresti forse un mio compagno a modo tuo? E ti vergogni perché tutto ti è andato male? Guarda, a me è accaduto lo stesso. Quando sono solo ne piango; vieni, in due è più dolce piangere.[19]

L’inquieto cane di Kafka assomiglia allo scrittore di Del Giudice come una donna al suo ritratto, è vero, ma nei quadri si può cogliere quel che sovente in un volto passa solo di sfuggita. È l’attimo del “sì, è proprio così”, rivelazione di identità e riconoscimento che può esserci solo nonostante la diversità; in geometria i quadrati sono tutti uguali e non parlano tra di loro.

Anche Ira Epstein mette alla prova Brahe, ben prima di mostrargli, con la descrizione dei fuochi d’artificio, cosa significhi vedere, come si debba vedere.

Adesso. Mi dica che cosa vede adesso, in questo istante. Chiuda un attimo gli occhi e li riapra. Se vuole li tenga chiusi finché il nero non le sembra perfetto, senza un’ombra di immagine. Si concentri sul nero fino a farlo diventare più nero che può. Poi apra gli occhi e mi dica cosa vede.[20]

Sembra un rito di iniziazione, con lo scrittore che dà istruzioni e il fisico che prende ordini; poco alla volta Brahe “impara”:

Brahe dice piano ciò che vede, senza voltarsi a controllare le reazioni di Epstein che del resto non lo guarda; non segue un ordine, guarda quello che vede, quello che c’è, passando da una cosa a un’altra…[21],

sino a che la prova di ammissione è superata ma con una riserva, ché il fisico non possiede, o almeno in questo gioco non ha posseduto, la forza necessaria per mettere insieme persone, oggetti e esperienza. Il passaggio è cruciale e Del Giudice non lo salta, anzi spiega nei minimi dettagli quale sia il riconoscimento possibile attraverso il guardare. Epstein è soddisfatto, è diventato amico di Brahe diciamo, ma attraverso quel che non si riesce quasi mai a fare, attraverso un dolore, non una gioia, come i cani pensanti di Kafka. Si parla di un interruttore e di tutto:

“Io l’ho pensato e costruito per te, soltanto per te. Non lo vedi? Non per una mano qualsiasi, ma per la tua mano; non per una storia qualsiasi ma per la tua storia che comincia in questo istante, nell’istante stesso in cui tu apprendi come è fatto”,[22]

E poche righe dopo si spiega come quel modo di vedere sia la vera causa dell’incontro tra i due protagonisti:

Si poteva non essere d’accordo, ma c’era una possibilità di amicizia. Ogni oggetto era comportamento trasformato in cosa, e poi ritrasformato in comportamento…[23]

Come a dire che si conosce l’altro mediante l’esperienza: se è fatta della stessa stoffa si può parlare, si può essere amici. Brahe non ottiene i pieni voti grazie alla sua vista, ma perché scatta fotografie ai “bambini” che corrono lungo l’acceleratore sotterraneo di Ginevra, nel tentativo di catturare la cosa e il comportamento allo stesso tempo. La domanda sul perché esista qualcosa si trasforma nel corrispettivo del come dire quello che esiste?, è in questo territorio che i due si incontrano e riconoscono come facenti parte della stessa specie di “guardanti”. È un esistenzialismo del soggetto e dell’oggetto, quello di Del Giudice, ma sopra tutto della loro reciproca possibilità di congiunzione, o del suo fallimento.

Lei forse pensa che un visionario sia qualcuno che vede mostri, che vede un ponte tendersi ad arco e scoppiare, non uno che sente la porosità del suo cemento senza toccarlo: io sono un visionario di ciò che esiste, un visionario di quello che c’è, e tale visione, per precisione e densità, non è meno sconcertante.[24]

Lo straniamento – fosse tedesco sarebbe Unheimlich – di Del Giudice si inerpica sino alle scelte stilistiche. La grammatica è essenziale, quasi povera, soventi sono i “ciò” e i “cui” al posto del più ricercato pronome dimostrativo “quello”, così come la scelta dell’indicativo dove un congiuntivo sarebbe più elegante. Il lessico segue la grammatica; nonostante gli argomenti trattati, non si trova alcun termine che un lettore scolarizzato non possa comprendere, a meno di non voler considerare “anemometro”, “giroscopio” o “orizzonte artificiale”[25], parole che non appartengono a un gergo ma semplicemente descrivono alcuni strumenti del volo. La imitazione delle cose, l’intenzione a loro rivolta, non implica una selezione di parole, non è questa la strada.

I dialoghi non sono copie della realtà, ma estratti di una osservazione, collegano un gesto al successivo e raramente fanno storia a sé. Rivelano a volte quel che è accaduto ma con un pudore particolare. Brahe sta informando il suo amico Rüdiger che l’esperimento ha rilevato qualcosa di interessante; sono nell’anfiteatro delle conferenze e una ragazza sta suonando un pianoforte:

(Brahe) È sceso in punta di piedi fino alla fila dietro Rüdiger; si è seduto senza fare il minimo rumore. […] Poi si è chinato sulla sua spalla, gli ha detto piano all’orecchio: Noi avevamo un appuntamento, o no?”
Rüdiger ha fatto un sobbalzo. Ha sorriso: “Sì. Ma è bellissima”.
“Sembra anche a me”, ha detto Brahe, osservando con intenzione la ragazza.
“La musica, volevo dire”.
[…]
“Ci pensi a come doveva essere tutto più facile in quell’epoca? Ha detto Rüdiger sottovoce, tirando indietro la testa.“
Per chi?”
“Per tutti”.
“Non credo, - ha detto Brahe. - Ognuno sente che il posto dove bisogna essere è qui, e il tempo è questo”.
“E perché?”
Brahe si è avvicinato ancora di più all’orecchio di Rüdiger: “Se non altro, perché ci sono almeno tre candidati. Molto, molto seri”.[26]

Lo spostamento dalla musica – barocca o ottocentesca che sia – alla fisica è tutta nella frase sul tempo, nell’asserzione secondo la quale “il tempo è questo”, una frase che difficilmente si potrebbe ascoltare in una conversazione registrata sul campo, ma che svolge alla perfezione la funzione di rispondere alla bellezza – della ragazza e della musica – e al tempo stesso introduce la comunicazione cruciale: l’esperimento sta avendo successo. La scena è perfetta; sembra concepita affinché nessuno se ne accorga, la ragazza, il pianoforte e la musica dànno aspettative d’altro genere, ma d’improvviso lo straniero si toglie il mantello e mostra quel che davvero è venuto a fare, e il resto scompare.

Dunque il dialogo, così ben distillato, era un inganno e noi ci siamo caduti. Non è stata la verosimiglianza a sedurci, nonostante l’ironico fraintendimento sulla bellezza, né una progressione drammatica, ma la forma di un incontro apparentemente fortuito dentro il quale si nasconde un avvenimento. Nascosto dentro lo stile apparentemente semplice di Del Giudice si trova la decisione autorale sul quando e come far apparire le cose, un’amicizia, una villa, un laboratorio. Nessuna si offre da sé pronta a essere esperienza ma ognuna deve prima essere ricercata con forza e intenzione – come una frase, come una particella – e solo dopo si lascia vedere. È un romanzo di formazione Atlante Occidentale, dove si apprende quale sia il percorso affinché un oggetto diventi oggetto di esperienza, e dunque si possa finalmente percepire.

Le particelle subatomiche e i fuochi d’artificio hanno bisogno della medesima disposizione da parte del soggetto che vuole osservarli. E per leggere il romanzo si deve seguire la stessa procedura:

“Come mai oggi non lavora?”
“Chi le dice che io abbia un lavoro?” disse Brahe sorridendo.
“Italiano a Ginevra, con una macchina di servizio. Lei non lavora alla giostra?”
Brahe spostò gli occhi dal retrovisore interno a quello esterno, iniziò il sorpasso, disse: “Sì, lavoro alla «giostra»”.
“E cosa fa esattamente?”
“Guardo i bambini, li controllo. Quando passano faccio delle fotografie per dimostrare che sono passati veramente”…[27]

guardare quel che accade e fotografarlo, per essere sicuri sia accaduto veramente. I soggetti, il fisico, lo scrittore, devono volere quel che accade per potere essere certi che sia successo veramente. I bambini si lasciano spiare facilmente, insomma, purché sia importante farlo.

Se esistesse ancora il verismo, Del Giudice, probabilmente, sarebbe stato un verista: la trama è il contenuto del romanzo, la forma la sua coscienza. Chi volesse potrebbe controllare ogni singolo passaggio: come un incontro reagisca di fronte a un dialogo o l’effetto che una battuta scherzosa ha sopra il ritmo della narrazione, e anche questo sarebbe, a suo modo, un esperimento, una “fotografia” del bambino che scrive.

Se il tutto è falso[28], Atlante Occidentale ne fa a meno. Costruito il grande specchio che riflette – in entrambi i significati, duplicare e pensare con intenzione – la realtà, intorno ci sono cose che non si vedono o non si possono vedere allo stesso modo.

Dopo lo sfiorato incidente sul campo di volo, Brahe torna a casa e trova Eileen, “la ragazza inglese che costruiva magneti” e Sarad, l’indiano delle onde gravitazionali[29]. Racconta dell’incontro con l’altro volatore, Epstein, e lo identificano nello “scrittore”; Eileen lo ricorda, Sarad credeva fosse morto. E poi segue una frase che non ha senso:

Sembra che i colpi e le punture tornino a fare male la stessa ora del giorno successivo. Parecchi metri sotto terra, il giorno dopo, mentre spiegava ad altri la traccia di una collisione ad altissime energie, Brahe sentì una fitta all’insellatura delle spalle, un dolore tenue subito riassorbito in pizzicore, col quale il corpo celebrava una sua personale ricorrenza.[30]

Quale sia questa ricorrenza non è dato sapere: lo spavento per la mancata collisione, forse, o il dubbio che lo scrittore appena conosciuto fosse morto. Di questa sorta di sospensioni della ricerca ce ne sono diverse nel romanzo, non proprio divagazioni, piuttosto ricordi involontari, colazioni di prima mattina. Sono passaggi nei quali il rigore dell’«esperimento» sembra venire meno e qualcosa fa irruzione senza che sia cercato e osservato. La spiegazione, poco convincente in verità, è nella righe finali:

“Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”.
“E questa?”
“Questa è finita”.
“Finita finita?”
“Finita finita”.
“La scriverà qualcuno?”
“Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.[31]

Due cose paiono sfuggire alla legge: l’amicizia e l’amore. Non c’è nessun motivo per il quale Epstein e Brahe diventino così intimi né, a parte la bellezza della ragazza, esiste ragione dell’amore tra quest’ultimo e Gilda. A queste adesso, alla fine della scrittura, se ne aggiunge una terza: non era importante scrivere la storia quanto avere un sentimento verso di essa, il minuscolo passaggio che già Epstein aveva ricordato[32] e che Del Giudice pone in calce al suo racconto. E con questo siamo riportati in un mondo due volte interiore: imparare a vedere per poter provare un sentimento mentre si guarda. La realtà è una forma che consente di vivere, un insieme di forme che, una volta apprese, consentono la vita.

Così, se si dovesse scrivere un manuale per il manuale di Atlante Occidentale si dovrebbe cominciare dal volo, attività umana che non si può eseguire senza avere molto studiato ma che, in fin dei conti, si compie per provare un sentimento, non per imparare a essere un uccello.

 

 Note   

[1] Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino, 2019, pag. 147.
[2] Ibidem.
[3] Daniele Del Giudice, Op. cit., pag 64.
[4] Ibidem.
[5] Op. cit, pag 3.
[6] Op. cit., pag. 84.
[7] Op. cit., pag. 42.
[8] Ibidem.
[9] Op. cit., pag. 137.
[10] Op. cit., pagg. 137-38. Corsivi miei.
[11] Op. cit., pagg. 143-44. Corsivi miei.
[12] Op. cit., pag 123. Corsivi miei.
[13] Op. cit., pag. 137.
[14] Op. cit, pag. 31. Corsivo mio.
[15] Op. Cit., pag. 137.
[16] Op. cit., rispettivamente alle pagine 136, 125, 94 e 69-70.
[17] Op. cit., pag. 160.
[18] Op. cit., pag. 161.
[19] Franz Kafka, Indagini di un cane, in Racconti, Mondadori, Milano 1978.
[20] Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino, 2019, pag. 58.
[21] Op. cit., pag. 59.
[22] Op. cit., pag. 63.
[23] Ibidem.
[24] Op. cit., pagg. 63-64.
[25] Cfr. Op. cit., pag. 106.
[26] Op. cit., pag. 151.
[27] Op. cit., pagg. 16-17.
[28]Das Ganze ist das Unwahre”. Cfr. Th. W. Adorno, Minima Moralia, Suhrkamp, Frankfurt, 1987, pag. 57.
[29] Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino 2019, pag. 18.
[30] Op. cit., pag. 19.
[31] Op. cit., pag. 161.
[32] Cfr. Op. cit., pag. 137: “E la lettera è irriducibile? È l’«ultimo»? No, dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile”.

Sereni Impostori

di Ezio Partesana

Un complotto è un inganno ordito ai danni di chi non ne sa nulla, una cosa sotterranea che solo alcuni conoscono ma potrà avere grandi effetti, a patto che nessuno lo scopra; condizione indispensabile è che la vittima, una persona o molte, sia ignara. Non posso complottare contro me stesso, per esempio, né contro un lago o un albero di passo. All’intrigo è necessario ci siano due coscienze, una delle quali sa cosa sta progettando e l’altra lo ignora; l’ignorante è la vittima, il sapiente l’esecutore.
Un complotto può essere buono o cattivo, può essere teso a eliminare un uomo sanguinario che è al potere come a imporre un ordine conveniente là dove non ce n’è alcun bisogno. L’etimologia è incerta ma in ogni caso si tratta di una cosa segreta fatta da alcuni alle spalle di altri.
Alcuni tentativi, nella storia, sono andati a buon fine, altri no. Il primo punto è che la fiducia in una cospirazione prevede la convinzione che le azioni di alcuni uomini possano modificare il corso degli eventi, è una storia di individui quella di una trama ordita per ottenere questo o quest’altro. Su altro non si pensa: la forza di gravità non è un complotto come non lo sono le terzine di Dante. Non è un’aporia: un complotto deve sempre, in una qualche misura, essere politico perché abbia senso; può essere la politica minuscola di una lite in famiglia o quella enorme di uno sterminio, ma sempre di politica si tratta.
Il secondo, implicito, comandamento per un complotto è che sia difficile da scoprire e che dunque si debba agire contro di esso sulla base di indizi, supposizioni, induzioni. Si immagina ci sia qualche volontà tesa a farci del male – per suo personale guadagno o mera cattiveria, non importa – e che, come investigatori, si possa scoprirla solo seguendo le tracce del suo operare nascosto. Bisogna essere molto intelligenti per svelare la macchinazione, non c’è dubbio; un plotone di esecuzione non ha bisogno di cogliere di sorpresa il nemico, un colpo di stato sì.
L’assunzione, in tutti i casi, è che ci sia qualcosa che comanda la vita, e l’assunzione è corretta: un terremoto, una malattia, non è in nostro potere fermarli; si possono ridurre gli effetti, forse, non fare scomparire le cause. Letteralmente rispetto al mondo noi siamo il capro che devasta le vigne. Anche altre forme di dolore, però, sono tragedie che rendono la stessa misura di impotenza, ma hanno origine all’interno della sfera sociale: il censo, l’educazione, il lavoro, per esempio, o la geografia e le credenze.
Hanno tutte le caratteristiche di un complotto ai nostri danni le differenze di impiego, salario, conoscenze, e fuori da casa di etnia, acqua o cura, e vengono ovviamente percepite allo stesso modo, si cerca il colpevole, nascosto da qualche parte, in agguato. Poiché non sono stato io a scegliere di essere quello che sono e che non mi piace e mi fa soffrire, allora deve essere stato qualcun altro, che ha interesse a tenermi in questa condizione.
Quale condizione? È questa la domanda che dovrebbe venire per prima: Qual è la mia condizione. Per rispondere, però, sono necessarie molte cose; in primo luogo tempo per riflettere, poi informazioni sugli altri che sembrano essere come me, quindi accesso al sapere collettivo, capacità di ragionamento e via di seguito. Ma se la mia condizione è proprio quella di chi non può fare nessuna di queste cose, quale mai potrà essere la via d’uscita?
Rinnegare è una delle condizioni umane: fare finta di non essere poveri; spergiurare, tremando, di non avere paura; fingere di aver già saputo quel che in realtà ci ha colto di sorpresa. Di fronte a esami finali, tuttavia, la costruzione crolla e nel castello non si può più entrare; sono gli squarci dove si vede la trama del romanzo, la recitazione forzata degli attori o, semplicemente, il dominio della struttura sociale. Nessuna donna è un uomo, nessun uomo è un’isola, nessuna isola è in pace.
L’esperienza immediata è quella di uomini che agiscono contro altri come loro: il licenziamento è arrivato dal capo del personale, è lui il colpevole; gli anni di studio non hanno portato a nulla per l’invidia dei colleghi; perché non mi hanno accolto quando avrebbero potuto farlo? Qualcuno (non so chi) dovrà un giorno renderne conto. L’esperienza diretta è solo di individui, “storici” perché le loro azioni cambiano la nostra condizione, ma anche potenti per grazia ricevuta. Si intuisce, in una qualche forma confusa, che questi funzionari occupano un posto all’interno di una struttura, ma si immagina che siano essi a determinare quella e non viceversa.
Più la situazione è disperata e dolorosa, maggiori sono le spinte a cercare una soluzione veloce che, se solo fosse possibile praticare con risolutezza, rimetterebbe le cose a posto. È l’idea dell’assassino: un colpo ben assestato e tutti i miei problemi saranno risolti – la disperazione è parte della contraddizione, non una mera conseguenza. Ma se nonostante tutto questo nulla cambia allora deve esserci un complotto in atto, perché non è possibile che le condizioni di vita siano davvero come sembrano.
La distanza tra desideri e quotidiana vita è misurabile solo per quelli che possono disinteressarsi, o quasi, del quotidiano. Per gli altri, che non vedono ragione per la quale debbano essere gli ultimi a sapere e a poter fare, la lontananza è incolmabile, e è esattamente in quello spazio che si inserisce l’anima cattiva che ha la colpa di quel che accade.
Se gli uomini potessero vedere tutto d’un colpo, se fosse trasparente l’involucro che custodisce i motori e le catene della storia, allora il politico autoritario o il funzionario meschino sarebbero solo una curiosità che bisogna sì eliminare ma come si tolgono gli infestanti da un campo seminato a grano. Dacché siamo ciechi invece, si scruta il prossimo, il vicino, con una lente che lo restituisce cento volte più grande e seduto proprio là dove dovremmo essere noi, e dove certamente saremo una volta scoperto l’inganno. Poco importa che il diavolo sia da solo o si dedichi, piuttosto, a tirare le fila di schiere che obbediscono volenterose, svanisse la sua malvagità il mondo sarebbe più giusto e ognuno vedrebbe riconosciuti i diritti che ritiene di avere.
È l’illusione di una autonomia – ormai ridotta a scelte di consumo – che sprona gli individui a credere al complotto; vittime che di individuale non hanno quasi nulla compensano l’impotenza con una immaginaria potenza altrui, con una cattiva volontà che sovrasta persino la storia della scienza, l’organizzazione sociale e la conoscenza. Sono, letteralmente, seduti in una caverna e quel che vedono passare sono fantasmi, piccoli riflessi del lavoro che si sta svolgendo altrove e sopra il quale non hanno nulla da dire.
Una vendetta è necessaria. In primo luogo verso gli ubbidienti, i rassegnati che accettano supinamente quel che viene loro raccontato, e già questa è la riprova che noi non siamo come loro, non siamo il gregge; l’antico gesto dell’ostracismo diventa una forma di identità: si intuisce che così non può essere e dunque si è altrimenti, a qualunque costo. Non essere tra gli ultimi perché più svegli, più attenti, meglio informati, è un balsamo per l’Io disperso tra impegni e doveri, nonché la riprova che debba esserci qualche trama nascosta che mi fa assomigliare così tanto alla pletora dei sottoposti.
In primo luogo una scissione, dunque, che genera un Soggetto che è tale proprio perché possiede una facoltà di discernimento che gli altri, i generici altri soggetti, non hanno. La divisione però richiede il riconoscimento di un destino comune: prendere le distanze dal tetto della casa di fronte non ha alcun senso, dal mio vicino di casa sì, perché egli si trova nella mia stessa situazione ma non lo sa. In fondo chi crede ai complotti è un ottimista, smascherati quelli tutti nel mondo godrebbero di una vita piena e soddisfacente.
Dimostrare a se stessi di “non essere come gli altri” è un’impresa non facile perché la somiglianza è forte. Un tempo era il successo economico a fare da banco di prova o le famiglie di origine, anche un titolo di studio poteva andare bene, medico, avvocato, ingegnere, qualche cosa che non fosse accessibile a tutti insomma, un tratto distintivo notabile al volo, e sovente l’una qualità era legata all’altra: i nobili erano colti, gli avvocati ricchi e i medici possedevano un sapere indispensabile. Ma oggi nessuno si sente al sicuro dall’anonimato per il fatto di possedere beni costosi o avere conseguito una laurea. Così si è inventata dal nulla una nuova categoria: Non farsi ingannare. Chi non si fa ingannare dalla propaganda di regime – è tutta la conoscenza è regime – ha qualcosa in più degli altri che non può essere confuso con i soldi, la fama o il potere politico. È un dono che dipende solo da noi, nessuno studio è necessario, basta averne voglia. La cultura e il faticoso emergere di competenze diventano un segno di pigrizia intellettuale, un privilegio che non ha più motivo di essere da quando il mondo è governato da élite nascoste ai più e intente a portare a termine con ogni mezzo il proprio progetto. Peggio, chi scova i complotti è convinto che il primo sia proprio quello di far credere che per capire sia necessario sapere; il ceto intellettuale è una macchinazione della loggia segreta del potere.
L’idea che quel che non si vede non possa fare male è moderna e come tale sopravvive. Anche se oggi sappiamo che esistono oggetti e forze che non sono percepibili dai cinque sensi, e accettiamo serenamente di servircene nella vita quotidiana, esiste pur sempre un limite oltre il quale la nostra credenza non può andare ed è stabilito dalla tecnologia: quel che funziona esiste, anche se la maggioranza degli uomini non sa come o perché, il resto è un’invenzione diffusa a arte per renderci inermi, dunque non solo non serve ma è anzi dannosa. Secoli fa gli uomini professavano di temere gli dèi, oggi gli inganni del potere hanno avuto il loro Olimpo e a loro si fanno sacrifici per scampare la sorte.
Le diseguaglianze sono dolorose soprattutto per chi è sul piatto minore della bilancia. Per compensare è necessario aggiungere qualcosa dalla propria parte, ma poiché disparità sono reali e evidenti bisogna rendere altrettanto pesanti le convinzioni che spiegano la disparità come frutto di un complotto e contemporaneamente alleggerire il valore di quel che fa pendere la bilancia dalla parte opposta. Il primordiale meccanismo del disprezzo per quel che non si può raggiungere si salda con la certezza di aver trovato ben altro di cui andare fieri. L’arma che l’oppresso potrebbe impugnare contro il controllo viene felicemente gettata via per la paura che possa esplodere di colpo, e rivelare il trucco.
La vita amministrata procede per disillusioni; confessa, con il passare del tempo, la sempre crescente sfera dell’esistenza sulla quale è impossibile avere controllo. Il capitale si muove e replica se stesso senza il nostro consenso; la tecnica avanza e ci rende idioti speranzosi che tutto vada come previsto; il pianeta è esausto e non sarà certo un avanzo gettato nel cassonetto corretto a salvare l’esistenza; lo sfruttamento e la povertà concordano sul da farsi, qualunque sia il giudizio sul mercato multinazionale; l’età spaventa come allora, anche se è la nostra adesso.
Il complotto è la forma contemporanea dell’impotenza, è una fuga in equazioni a portata di mano, semplificazione che si sogna e infine spostamento della totalità e condensazione in un’unica parte, indifferente e inutile. Chi complotta è chi svela sono la stessa persona, uguali nella fiducia smisurata in un Sé che non esiste, e solidali nel riconoscersi l’un l’altro come i veri artefici di quel che accade. All’apparenza concreta e radicata, come ogni “qui e ora”, la lotta contro gli intrighi universali che dominerebbero il mondo si rivela così astratta che neanche l’esperienza individuale può scalfirla. È un riassunto, per così dire, che mette insieme tutto quel che non va e poi lo distribuisce non in base a ragione ma sopra indefiniti gruppi di potere che sono tutto e niente.
Lo spostamento è evidente: ci si accontenta di colpevoli verosimili e astratti – immigrati, multinazionali, ebrei, poco cambia – buoni sino a che non hanno nulla a che fare con noi; chi immagina raggiri non pensa mai di essere un collaborazionista ma solo una potenziale vittima che ha scoperto l’inganno. “Non siamo stati noi” è il motto che sventola sopra ogni bandiera nei cortei degli indignati a vita in marcia verso la liberazione. Fatto questo l’assoluzione è duplice: il singolo non ha colpe ma neanche il modo sociale di riproduzione è responsabile del disastro che pure è sotto gli occhi di tutti.
La gratificazione di essere dalla parte dei buoni nonostante l’infame servizio dei giornali, servi del potere, e del sapere confiscato dai pochi per proprio tornaconto, è sufficiente a arrestare qualunque ulteriore sviluppo. Le espressioni diventano stereotipe: la “storia ufficiale”, i “dogmi della scienza”, il “coraggio di pochi”, le “voci fuori dal coro”, e l’odio si riversa su coloro che esprimono perplessità sopra quel miracoloso risveglio. A chi ricordasse loro che il costo del lavoro è il risultato di una lotta politica, non il trucco di un disonesto, i seguaci delle cospirazioni toglierebbero volentieri la parola sostenendo che anche l’economia è una bugia raccontata per farci star buoni.
Una volta consegnato il mondo a poche menti perverse, lo spazio per altro si riduce sino quasi a scomparire. Se politica, cultura, organizzazione e studio non sono altro che un inganno, sul campo schierate in formazione restano solo la rabbia e il compiacimento. Si accusa quel che manca di essere la causa della miseria e ci si libera del poco che pure sarebbe rimasto, a favore di un risorgimento tutto personale, esibendo pace interiore e compiaciuti ritornelli di circostanza. Con queste maniera si fugge, è vero, la condizione umana del presente storico, ma si abbandona anche ogni principio di speranza: se non sono gli uomini a fare la storia, chi mai potrà salvarsi?
La teoria del complotto è la versione facile della coscienza politica, senza classi, senza mezzi di produzione e senza strategia. Garantisce un illimitato credito verso se stessi, con una parvenza di soggettività, e protegge, a un tempo, dalla inquietante scoperta di far parte – né più né meno di altri – delle procedure autonome di alienazione. Due secoli fa si scriveva che gli uomini assegnavano a Dio tutto quel che di bene ancora non c’era in terra e poi credevano a quel che avevano proiettato perché il bene, in qualche forma, volevano. Oggi si aliena il male al Diavolo e si combatte un fantasma, nella convinzione che comunque tutto sia perduto. La disperazione dei complotti è tutta qui, nel gesto con il quale si irride la conoscenza e si ingrassa un vitello che non è più nemmeno fatto d’oro.



Dialettica dell’imperativo

di Ezio Partesana

Noi tutti pensiamo che il bene sia comune e che il vero non possa che essere la stessa cosa, come il bello index sui, ma così non è.

Immaginate un omicidio: il reo è confesso, il movente abbietto, i testimoni certi; non c’è molto da discutere ma si seguiranno le leggi, dal processo alla sentenza e da questa alla pena da scontare, lieve per alcuni, troppo severa per altri. Se non ci saranno errori la soluzione finale soddisferà il legittimo rancore e la necessaria difesa: il pagamento in anni e un risarcimento, forse, il pentimento e alla fine il perdono. Continua la lettura di Dialettica dell’imperativo

Sconsolata ragione

di Ezio Partesana

La retorica dei sentimenti è ristretta: chi ha cominciato, i morti, la dismisura; la retorica della ragione non ha chi possa essere convinto; il conflitto è una propaganda.

Gli attori, studiata la parte, protestano uguali e pretendono dal pubblico maggiore attenzione e applausi più forti a conferma che hanno dato tutto e non c’è altro da fare, anche se sono contenti di essere entrati in scena. Continua la lettura di Sconsolata ragione

Molti passi alla volta

La dialettica agli operai

di Ezio Partesana

                                   A mia sorella Enrica, per la sua tenacia.

Una premessa.

Questo scritto è la risposta al rimprovero che gli amici mi hanno spesso fatto durante gli anni e che suonava più o meno così: Possibile che non si riesca a spiegare che cosa sia la Dialettica Negativa senza usare termini astrusi e scrivere un libro di seicento pagine?

Ci ho provato, il risultato è quello che trovate scritto qui sotto. Fare in modo che il testo fosse leggibile da chiunque conosca la lingua italiana ha comportato alcune rinunce e imprecisioni, delle quali però il responsabile sono solo io; la peggiore, credo di poter dire, è che non troverete una definizione della Dialettica Negativa, ma solo un esempio di come proceda. L’invito sarebbe a prendere una cosa qualsiasi della vostra vita e a rifare lo stesso percorso.

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La distruzione del sapere

di Ezio Partesana con una nota di Ennio Abate

Riprendo da Etica e politica questo saggio di Ezio Partesana e aggiungo alcune mie considerazione in appendice. [E. A.]

Si può odiare con tutto il cuore una verità anche quando non c’è nulla da fare. La sentenza di una grave malattia, le distruzioni causate da un terremoto o la somma degli anni vissuti quando si arriva alla fine, non hanno un nemico contro il quale ci si possa scagliare; si bestemmia contro il fato o la vita, ma è un modo di fare, non una risposta. Quel che è accaduto non è colpa di nessuno, non c’è rimedio e si muore comunque.
Qualche volta usciamo da noi stessi e il male subìto si trasforma, si vorrebbe trasformato, in buona azione: In nome del padre o della figlia ci diamo da fare affinché la stessa sorte non tocchi a altri o almeno ci si prepari a renderla più lieve. Non c’è motivo di sorridere di questo conforto, anche la rivolta contro l’inevitabile è un principio di speranza: sotto i terremoti ci sono le case e gli anni non sono tutti uguali, ma non basta.

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Insulti e offese

di Ezio Partesana

Segnalo il blog di Ezio Partesana, che ha anche collaborato in passato con Poliscritture, pubblicando questo suo recente testo filosofico. L’ho letto attentamente. Mi ha colpito la sottile distinzione che Ezio fa tra i due concetti e l’importanza che attribuisce ai meccanismi psichici ben più complessi dell’offesa rispetto al “semplice” insulto. Scrive: “l’offesa ammette il riconoscimento di uno stato comune, la pietà e il perdono”, perché in essa non solo affiora (forse si potrebbe dire: si costruisce…) un legame tra offensore e vittima (“qualcosa nella volontà dell’altro ci ha sorpreso e a quello siamo appesi come al cordone ombelicale la prima volta che fummo lasciati soli”) ma pure un legame col passato (e quindi con una storia): “tutte le offese vengono dal passato e sono state apparecchiate prima che fossimo in grado di sopportarle, e in fondo non sono dirette a noi, ma a quello che eravamo prima”. Abituato come sono a rendermi conto dei concetti solo quando riesco ad associarli a personaggi o fatti storici, ho pensato almeno a Primo Levi e a Toni Morrison, che nelle loro opere hanno appunto meditato sulle “offese” della Shoah e della schiavitù degli afroamericani. Non so se riesco a seguire Ezio quando dal piano dei rapporti tra gli umani sembra passare al piano del rapporto umano/divino (“Si può, insomma, insultare Dio perché ha fatto degli errori o bestemmiare che sarebbe stato meglio non fosse mai esistito nulla”) ma altri – spero – lo faranno e io cercherò di capire di più. [E. A.]

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La disgrazia dell’espressionismo

Intervista di Ezio Partesana a Tiziano Marasco sopra il romanzo di Vladislav Vančura Campi di grano e campi di battaglia

Pubblico questa bella intervista che rafforza l’attenzione verso un autore importante e dimenticato sul cui nome, grazie ad Antonio Sagredo, anche Poliscritture ha cominciato (qui) a togliere la polvere. [E. A.]

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