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«Sconfitti» di Corrado Stajano. Dialogo con mia sorella

NOTE DI FINE ESTATE (7)

di Donato Salzarulo

«Siamo sconfitti. Siamo stati sconfitti. Siamo figli di padri sconfitti…» insisto, sconsolato, una mattina con mia sorella, tra un sorso e l’altro del caffè, che abitualmente mi offre. Caffè con un pezzetto di cioccolato fondente all’ottantacinque per cento.
Da oltre due anni è diventato un rito. Da quando il 17 febbraio del 2019 è morto Ledo, il marito. Una brutta caduta su uno scoglio. Il 26 gennaio dello stesso anno per una malattia rarissima era morto Peppino, nostro fratello. Assorbire due travi cadute in testa così, in meno di un mese, una dopo l’altra, non è facile. Così ci facciamo compagnia. Ogni mattina, verso le 11, vado a trovarla.

«Come siamo stati sconfitti?!…La nostra condizione materiale non è quella dei nostri genitori. Abbiamo case, pensioni…Certo, non siamo dei ricchi. Ma chi se ne frega dei ricchi…»
«Ma tu cosa volevi in gioventù?… Per cosa hai lottato e votato per tanti anni?… Volevi una società in cui un padrone un giorno può svegliarsi e licenziare centinaia di lavoratori con una email?… In cui un pluricondannato amico di mafiosi può diventare presidente della Repubblica?… Volevi un’Europa in cui dei poveracci trascorrono le notti all’addiaccio e dei bambini muoiono assiderati?….»
«Chiaro che no!…»
«E allora? Come dobbiamo vivere tutto ciò. Sono fatti che ci riguardano o no?…»
«Certo che ci riguardano…»
«Ma come?… Astrattamente o concretamente?…»
«Concretamente…»
«Si, però, non riusciamo a fare niente… Non facciamo niente noi e non riescono a fare niente neanche i nostri giovani, che, nel miglior dei casi, sono dei cattolici solidaristi senza andare in chiesa, nel peggiore seguono il programma renziano della “rottamazione” e ci considerano prigionieri di una gabbia novecentesca (comunista)…»
«Mica tutti i giovani!…»
«Ci mancherebbe!… Ci sono gli ambientalisti, i seguaci di Greta Thunberg e, per fortuna, c’è pure qualche gruppetto interessato alla storia del movimento operaio e della sinistra, ma la sensazione complessiva è d’impotenza…»
«È vero…C’è uno scollamento pazzesco, un’impotenza frustrante…È come se la dimensione collettiva non esistesse più…»

Parliamo e Tina fa avanti e indietro verso l’angolo cucina. Oggi c’è un profumo di minestrone. Altre volte di arrosto o di vitello tonnato. Anche se spesso a mezzogiorno pranza da sola, ha deciso che non deve arrangiarsi. Ogni giorno deve preparare qualcosa da mangiare. In verità cucina anche per Elisa, la sua unica figlia, e il marito Carlo. “I miei ragazzi”, lei dice.
«È questo l’assurdo…La NOSTRA dimensione collettiva non esiste più…Ma quella della destra sì…Ed è pure fastidiosa, onnipresente…Ad esempio, sostenere che “ogni persona deve pensare soltanto ai fatti suoi” è di destra; così come è di destra sostenere che “la politica fa schifo e i politici sono tutti disonesti”…Oppure è di destra ridurre la politica al rapporto tra il Capo – o leader, come si ama dire adesso – e la sua massa…Dal momento che questi comportamenti si diffondono e diventano “senso comune”, inevitabilmente la sinistra perde e si diffonde un clima collettivo di sfiducia reciproca, di menefreghismo, di delega al Capo… Come se una persona, fosse pure la più intelligente e virtuosa di questo mondo, potesse risolvere tutto…»
«Fratello mio, hai ragione. Da anni ci ripetiamo questi pensieri. Ma non riusciamo a prendere in mano il bandolo della matassa, lo “gliuommero”, come lo chiamavamo nel nostro dialetto e come lo chiamava pure Gadda, si è ingarbugliato e non so come se ne possa venire a capo…»
«Neanche io lo so, ma la situazione mi fa incazzare…Mi fanno incazzare soprattutto i Miei, quelli che dovrebbero essere dalla nostra parte…»
«A chi ti riferisci?…»
«Ovviamente a nessun uomo o donna del centrodestra che fanno il loro gioco politico…Neanche a Renzi… Come tu sai, non ho mai condiviso il suo pensiero e le sue proposte… Non l’avrei mai votato, probabilmente neppure sotto tortura. Non mi riferisco neanche ad Enrico Letta e ad altri cattolici democratici; così come non mi riferisco ai seguaci (non craxiani) del glorioso PSI o agli eredi di “Giustizia e Libertà”.  Mi riferisco a quella galassia di uomini e donne allevata nel PCI o cresciuta nell’area della “sinistra rivoluzionaria”. Capisco che molti sono diventati vecchietti come me, ma domando: “Non sentite i vostri padri e le vostre madri rivoltarsi nelle tombe?…Non vengono di notte a turbare i vostri sonni?”…Io, certe notti mi sveglio di soprassalto e vedo il fantasma di mio padre che mi interroga: “Chi fuor li maggior tui?”… »
«Non esagerare!…Nostro padre che ti fa la domanda che Farinata rivolge a Dante!.. Nostro padre non ha avuto la fortuna di studiare il X canto dell’Inferno… .»
«Lo so…Ma mio padre quella domanda l’avrebbe sicuramente fatta: Chi siiti? A chi appartiniiti?…Come si può pensare di riprendere in mano il bandolo della matassa senza dire chi sono i nostri padri e a quale “famiglia ideale” apparteniamo…»

Al piano di sopra squilla il telefono fisso. Mia sorella non risponde. Non ha voglia di fare su e giù per le scale per poi scoprire, nove volte su dieci, che è pubblicità tim-vodafone-enigas…Sempre qualcuno che ti propone un nuovo contratto…

«Dai, Donato, quando te ne vieni fuori con questi argomenti mi sembri un credente. Le persone oggi pensano a loro stesse, ai loro bisogni, alla loro realizzazione…»
«Sì, hai ragione…Qualche settimana fa ho comprato per curiosità il libro di Francesca Rigotti, una filosofa. Il titolo è: “L’era del singolo”. Impressionante. Era, addirittura!…»
«Hai visto!… Ho ragione io. Tu stai ancora al “Vangelo comunista” e vorresti che le persone mettessero al primo posto l’ideale…Ma oggi l’unica religione circolante è il benessere dell’individuo…Stai bbuone Rocche e stai bbuone tutta la Rocca…»

Il dialetto di mia sorella è simpaticissimo. Anche il mio. Non lo parliamo più granché. Il più delle volte ci esprimiamo in quest’italiano semi-televisivo. Ma quando un po’ di dialetto sgorga sulle nostre labbra, siamo felicissimi. Diventiamo più complici. Sentiamo la nostra infanzia che ritorna. In effetti, il proverbio citato è azzeccatissimo: “Rocco sta bene e pensa che stia bene tutta la Rocca”. Il paese, la città, la polis, insomma…

«Se è per questo, è anche peggio…Aspetta che apro Google e ti leggo cosa c’è scritto sulla copertina del libro di Rigotti…»
«Dai, apri e leggi…»
«Ecco: “Essere individui non basta più. Ognuno è singolo e dunque originale e speciale, alla ricerca della felicità su misura, personalizzata e non personale. E allora ogni singolo realizza un’opera d’arte unica e irripetibile: la propria vita.”»
«Ahahahah…»
«Perché ridi?…»
«Perché questi libri tu non dovresti leggerli. Il solo fatto che li compri, e magari li leggi, contribuisce a far credere alla filosofa Rigotti che esistono persone al mondo che si possono permettere “una felicità su misura” o che possono fare della propria vita “un’opera d’arte”…»
«Certo che ci sono…Lei pensa alla nuova classe media, quella che ha in mente la propria autorealizzazione, la qualità della vita, la cura del corpo, la palestra, il cibo bio, i viaggi, l’istruzione personalizzata, ecc…Anche noi siamo un po’ così…»
«Sì, è vero. Però noi non dimentichiamo i due milioni e mezzo di famiglie in povertà assoluta. Non dimentichiamo i disoccupati, chi va a raccogliere la frutta o i pomodori per noi, i fattorini in bicicletta o motorino che continuano a portare pizze a domicilio, gli emigrati al freddo sui confini della Polonia…Non dimentichiamo gli ultimi. È da questi che bisogna ripartire, da tutti quelli che ci hanno permesso di sopravvivere durante i lockdown…»
«Però, tu non pensi che se si diffondesse il “diritto alla singolarità” e diventasse legge, anche il povero emigrato ne potrebbe usufruire…»
«No. Non lo penso. Io non riesco a tenere più il conto di quanti siano oggi i diritti… Ma quanti di questi sono realmente “esigibili”?….»

Mia sorella è brava. Sa frenare le mie scorribande mentali. Non che lei non abbia gli occhi pieni di fantasie e di sogni. Ma è lì ogni giorno a fare i conti di quanto spende per questo e di quanto spende per quello. In tavola non deve mancare niente. Gli sprechi, però, non sono ammessi. Certe volte mi fa venire in mente mia madre coi suoi quaderni o i suoi fogli su cui scriveva cosa spendeva e come. Persone che conoscono quasi istintivamente la partita doppia.

«Hai ragione. Quindi, torniamo al discorso iniziale che siamo sconfitti…Il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute… si realizzano se c’è una forza organizzata che li pretende e li rende esigibili, come dici tu.»
«Certo che è così. È l’ABC. Ricordi la frase di “Lettera ad una professoressa”?…
”Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”»
«Soprattutto perché ci sono dei problemi che si possono risolvere solo collettivamente. L’esempio ce l’abbiamo sotto gli occhi in questi giorni: come si fa a combattere un’epidemia se ogni persona rivendica la libertà di fare come crede?…»
«No!…Non ne parliamo!…Qui siamo all’assurdo. L’art. 32 della Costituzione è chiarissimo:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.”
Non capisco perché Governo e Parlamento non si assumono la responsabilità di fare una legge sulla vaccinazione obbligatoria.»

Mia sorella ha fatto la maestra per oltre quarant’anni. È laureata, ma la scuola elementare è stato il laboratorio della sua vita. Conosce benissimo la Costituzione e con le sue colleghe ha realizzato un sacco di progetti sui diritti dell’infanzia, delle donne, del cittadino…

«Ma perché hanno paura di apparire dittatori…Perché non vogliono assumersi la responsabilità delle loro azioni…Perché preferiscono “persuadere” piuttosto che “obbligare” o preferiscono obbligare dove “l’interesse della collettività” è evidente…Perché, pur essendo un governo di quasi tutti i partiti, i ceti dirigenti non sono più capaci di perseguire obiettivi collettivi  (meno che meno “nazionali”) se non strumentalizzando i problemi…Insomma, siamo al marasma, alla débâcle…Il mio timore è che, se alle prossime elezioni vince il centrodestra, la Meloni e il Salvini possano chiedere davvero i “pieni poteri”…Un po’ come ha fatto il loro amico Orbán. E immagina se diventa Presidente della Repubblica lo “statista” di Arcore!… Sorella mia, ho gli incubi!…»
«Dai, non esagerare! Coltiva un po’ più di fiducia nel popolo italiano…»
«Ma io ho fiducia…Il problema è che ho letto “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” di Freud e “Studi sull’autorità e la famiglia” di Horkheimer e altri…»
«Troppi libri!…»
«Dai, non fare anche tu l’anti-intellettuale!… Non ti si addice. Poi anche tu leggi tanto…In questi giorni sei tutta immersa nelle cronache di Ilda Boccassini…Comunque, gli incubi non ce li ho soltanto io. Ce li ha, ad esempio, anche Corrado Stajano, uno scrittore e giornalista democratico. Non mi risulta, infatti, che volesse costruire il partito rivoluzionario come noi. Tuttavia, alla veneranda età di 91 anni, ha sentito il dovere di scrivere un libro intitolato, guarda caso, “Sconfitti”.  L’ha pubblicato a settembre con il Saggiatore. Ce l’ho qui con me. Volevo fartelo vedere. Proprio su questo punto scrive:
“Gli italiani hanno sempre bisogno di piazze e di Cesari vestiti in ogni foggia da applaudire festanti, vogliosi di essere rassicurati e possibilmente esauditi nei propri desideri. Con un duce che pensa a tutto e a tutti ed è in grado di risolvere anche i problemi di ognuno togliendogli il fastidio di pensare e di fare” (pag. 91)

Tina questo discorso lo conosce. Ha fatto anche degli esami all’Università. Sa che questa svalutazione, se non distruzione dei “corpi intermedi” (sindacati, partiti, associazioni, sezioni, circoli, ecc.) è pericolosissima per la democrazia…Sa che la democrazia non può essere ridotta soltanto a una procedura di voto…
«Sì, ma cosa c’entra questo con gli incubi?… Questo tratto della psicologia di massa degli italiani l’avevi già detto anche prima. Mi sembra che tu volessi, invece, dire che Stajano fa dei brutti sogni…»
«Sì, è vero…Il suo libro comincia proprio col sogno di una donna sconosciuta, che tira un carretto di legno vuoto…È alta, secca, con indosso una tunica nera e il viso bianco come il gesso o la calce… »
«Beh, che dice ‘sta donna?…»
«Non dice nulla. È un tragico mimo, un fantasma.»
«Ma significherà pure qualcosa!…»
«Non lo so…È materia per analisti. Io ho un quadro, una scena davanti agli occhi e penso al “materno” di Stajano, alla sua Signora Morte che trascina un carro vuoto…Come se durante la sua vita non fosse riuscito a produrre ciò che avrebbe voluto produrre. Si sente uno sconfitto. Così come dovrebbero sentirsi sconfitti tutti coloro che hanno desiderato una società più giusta, un’Italia migliore e si sono dati da fare o hanno lottato in vari modi per realizzarla…I nostri giovani dovrebbero partire da questa consapevolezza. Perché, cavolo!, la sconfitta pesa anche su di loro…»
«In che senso?…»
«Ma come in che senso?!…I giovani disoccupati in Italia sono quasi al 30 per cento contro una media europea del 17, 6 per cento…Sono circa 350.000 i giovani che negli ultimi dieci anni sono emigrati all’estero. E si tratta per lo più di laureati e di persone qualificate…Non sono vaccari come nostro padre o operai e manovali…Non ti sembra una sconfitta questa? Che Paese è il nostro?… Spendiamo soldi per istruire e laureare migliaia di persone e le “regaliamo” poi all’Inghilterra, alla Germania o alla Francia?… Che ceti dirigenti abbiamo? E non mi riferisco solo a chi ci governa o sta in Parlamento…Ti sembra che la Confindustria pensi ai nostri giovani?… La nostra élite è composta per lo più di gente corrotta. Mentalmente corrotta. Come sostiene Stajano in una dei suoi capitoletti, noi siamo “il Paese dei corrotti”… Lu pesce puzza ra la capa…»
«Vero…L’abbiamo visto anche durante l’epidemia: soldi a tutti, contributi, aiuti, sussidi senza nessuna eccezione, compresi gli evasori senza ritegno…»
«Non parliamo poi della Lombardia…»
«Mamma mia!…A cominciare dalla vicenda dei camici di Fontana e famiglia…»
«Ecco cosa scrive Stajano:
“Grandi e piccoli industriali, commercianti all’ingrosso e al minuto, albergatori, ristoratori, tassisti, antiquari, professionisti, venditori di automobili, agricoltori, artigiani, organizzatori di crociere, viaggi, vacanze, chef più noti dei premi Nobel si son sentiti tutti in credito. Dovevano essere tutti risarciti, di getto. I questuanti, anche di solida ricchezza, già dimentichi di quel che era accaduto nei primi tempi del contagio, in marzo, quando numerose fabbriche, medie e piccole erano state lasciate aperte, chiedevano, premevano, volevano” (pag. 32)»
«Un quadro sociale perfetto…»
«Sì, è davvero un bel libro, ben scritto e ben costruito.»
«In sintesi?…»

Mi fa ridere mia sorella quando vorrebbe che riducessi più di duecento pagine a un discorsetto di pochi minuti. Anch’io tante volte faccio così. Facevo così anche con mio padre o mia madre. Ma’ stringi!…Forse tutti, più o meno consapevolmente, portiamo dentro di noi i “tempi televisivi”, le dichiarazioni di trenta secondi, di un minuto o, al massimo, di due…
«Dai!… L’unica sintesi possibile è quella dell’Indice…»
«Allora, leggimi quest’Indice…»
«Nella prima parte si parla dell’oggi, dell’epidemia in corso; nella terza si ritorna a questa fossa dei serpenti con la bottiglia della speranza finale.
Nella seconda parte è ricapitolata la storia del Novecento, quella che per quasi tutta la seconda metà del secolo abbiamo vissuto anche noi.
È il corpo centrale del libro ed è organizzato in nove stazioni della nostra via crucis storica:

1.-“Pacem in terris”. Che succede dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943? Domenico Nesi, attendente del generale Stajano, siciliano di Noto e padre di Corrado, ha fortuna e riesce a tornare a casa dalla campagna di Russia; ma molti, compreso il padre dell’autore, finiscono nei lager nazisti: «Più di mezzo milione di uomini, esclusi gli ufficiali, furono messi a lavorare, operai senza pane, schiavi nell’industria pesante…» (pag. 55).
Poi c’è la “serena letizia” della Liberazione. Ma dura poco.
“Non nacque, come si sperava la nuova società ispirata ai principi di libertà e giustizia. La rovina provocata dal fascismo, il Paese ridotto in frantumi, il sangue ancora rappreso di migliaia e migliaia di uomini caduti nelle guerre del regime presto dimenticati
Sono tornati da remote caligini
i fantasmi della vergogna
scrisse anni dopo in una sua famosa epigrafe pubblicata sul Ponte Piero Calamandrei.” (pag. 58)

2.- “Nuto” (Revelli: “il grande scrittore di vite perdute, il cantore dei vinti della ritirata di Russia, il valoroso comandante partigiano”), Nella biografia di quest’uomo e nei libri che ha scritto c’è una buona parte della storia da scolpire nella propria mente. Quando i liberali nostrani sparano addosso alla Resistenza sanno cosa fu l’8 settembre in questo nostro sciagurato Paese? Eccolo, nelle parole di Nuto Revelli, sottotenente degli alpini, uscito dall’Accademia militare di Modena e partito per la campagna di Russia il 21 luglio 1942:
“La delusione più grossa della mia vita è che dopo la guerra partigiana, soprattutto, le cose non siano cambiate molto, che viviamo in una società sbagliata, che le lezioni tremende subite in quegli anni siano servite a poco e niente. Mi sconvolge di rabbia il pensiero che chi ci amministra ricordi a malapena che abbiamo avuto un 8 settembre 1943. A parlarne ti dicono che sei un disfattista e non capiscono che dovremmo commemorarla nelle scuole, la data dell’armistizio. Io ce li ho sempre negli occhi, quei giorni, lo Stato che va a ramengo, i fili del telefono rotti, le caserme abbandonate, gli ordini da mentecatti, tutto che si disfaceva, mentre pochi tedeschi conquistavano intere città. Ero ufficiale di carriera, allora: ho visto un’armata sfasciarsi, colonnelli e generali che si mettevano in borghese, scappavano, ho visto tutti quelli che avevano un posto di responsabilità nascondersi, finire nelle tane, gente che fino al giorno prima era inavvicinabile, mostri sacri. Ho visto un colonnello requisire un camion, il 10 settembre, per salvare novanta vasetti dei suoi fiori. Ho visto crollare un mondo, insomma. In fondo al pozzo, in fondo al pozzo eravamo finiti. E chi ne ha tenuto conto in questi trent’anni?” (pag. 66-67)
Chi si riempie la bocca di “patria”, dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che la Resistenza ha salvato l’onore degli italiani…»

«Fratello, calmati!…Cosa hai? Ti sei acceso?…»
«Ma no!…È che ha ragione Revelli. Se, invece, di celebrare il 25 aprile, avessimo commemorato nelle scuole l’8 settembre, avremmo fatto meglio. Avremmo ricordato annualmente ai nostri giovani in che mani erano finiti i nostri padri. Gentaglia incuranti di ogni morale politica e professionale. Trasformisti incalliti…»
«Erano finiti?… O siamo finiti?…»
«Siamo finiti…Hai ragione…Il trasformismo e il cinismo sono una costante delle “classi superiori d’Italia”, come le chiamava Leopardi. Stajano cita il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani…»
«È una tara?…»
«Non so se sia una tara. So che a tanti non appare spregevole il detto “O Franza o Spagna purché se magna”…»
«Riprendiamo Stajano…Come va avanti?…»
«Con la stazione tre: “La chitarra della memoria”. Si tratta di un pezzo di storia patria attraverso le canzoni politiche che tante volte abbiamo cantato: “Per i morti di Reggio Emilia”, e quella famosa di Paolo Pietrangeli scomparso in questi giorni…»
«Contessa?..»
«Sì, esattamente Contessa»
«Compaaagni dai caaampi e daallee officiiine…»
«Andiamo avanti…La quarta stazione è “l’Italia dei preti”, con gli “arditi della fede” e le nostre “tonache nere”…
”Sono differenti le piazze del dopoguerra. Più casalinghe, più vereconde. Come una messa cantata. Sono differenti anche i Maharajah, i capibastone, i centurioni. Nel vestire soprattutto. Indossavano la camicia nera, ora indossano la tonaca nera lunga fino ai piedi. L’Italia dei preti, l’Italia di Pio XII, dei comitati civici, dei Cristi sanguinanti, delle Madonne pellegrine piangenti, del “Mondo migliore”, di padre Lombardi – il “microfono di Dio”- , dei baschi verdi, i ragazzi dell’Azione Cattolica, le truppe. I fascisti impugnavano i pugnali, i nuovi leader – ma non si chiamavano ancora così – il crocifisso, il breviario.”  (pag. 92).

La quinta stazione è dedicata al “boom che, dal 1958 al 1963, “ringalluzzì l’Italia marcando la rottura con un tragico passato”.  Simboli: il mosquito (“Una bicicletta con un minuscolo motorino dietro la sella, sopra la ruota posteriore”) che fu il piccolo padre della Vespa (“la regina panciuta”) e poi la Lambretta (“dal nome del fiumiciattolo milanese”), ma fu la Seicento a esaudire i sogni degli italiani, poi il jukebox, la lavatrice, il frigorifero, la tv…la Mina, l’addio all’Albero degli zoccoli (“Gli occupati in agricoltura sono più di 8 milioni, ancora nel 1954, meno di 5 milioni dieci anni dopo”), i padroncini…Ma “il boom ha una vita breve, non esplode come può far pensare il suo nome. Evapora”. Il miracolo va in frantumi.»
«Questa è l’Italia della nostra infanzia e fanciullezza. Al massimo della nostra adolescenza…Ma in casa nostra la tv e gli elettrodomestici arrivano anni dopo, quando emigriamo…»
«Certo, le ultime stazioni, però, le abbiamo vissute da giovani, partecipi coscienti e politicamente alfabetizzati. Sono in ordine:” Piazza Fontana”,  la “Morte di un generale” (Carlo Alberto dalla Chiesa), “Falcone”, e, infine, “Lo statista”, il signore che vuole diventare il nostro Presidente della Repubblica…»
«Ma sei ossessionato da questa possibilità…»
«Per me è scandaloso il solo fatto di averlo pensato…Leggi le pagine 184 e 185 di questo libro e dimmi se una persona condannata a quattro anni di reclusione per falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita; una condanna passata in giudicato e scontata mediante l’affidamento ai servizi sociali in un ricovero per anziani di Cesano Boscone; dimmi se una persona che è protagonista di una lunga catena di processi conclusasi con la prescrizione che, come dovrebbero sapere tutti, estingue il reato, ma non assolve; dimmi se può diventare Presidente della Repubblica…»
«Hai ragione, ma…»
«Ho ragione un fico secco. Non vorrei aver ragione. Vorrei aver torto. Ma è possibile che uno scrittore e giornalista come Stajano debba arrivare alla sua ragguardevole età e scrivere un libro amaro come questo? È possibile che, fatta un po’ eccezione per Il fatto quotidiano e Il Manifesto, non vi siano più giornali in Italia capaci di dire vero al vero?…»
«Purtroppo anche su questo hai ragione. I mass-media oggi vivono soltanto di pubblicità e marketing…Sono diventati strumenti del commercio sottoculturale…»
«Questa verità o qualcosa di simile l’ho sentita dire anche a Papa Francesco…»
«Capisci perché molti alla fine si affidano a Sua Santità?…»
«Certo! Meglio Sua Eminenza che Sua Emittenza…»

Sulla parete di fronte è attaccato al muro l’orologio costruito da Ledo con le punte delle forchette piegate o slargate. Ricavò l’idea da Munari. Ma quasi tutti gli arredi di questa cucina sono stati costruiti da lui: dal tavolo al divanetto, dalla mensola al mobiletto porta-televisore. Non era un falegname. Era un meccanico con l’hobby del fai da te…
“È una casa piena di ricordi” dice mia sorella. E la capisco.
Anche la Storia, quella con la maiuscola, è un po’ così. Stajano lo sa. E vorrebbe che i ricordi del sanguinante Novecento diventino vivi; si trasformino in sangue, sguardo, gesto; aiutino ad approfondire fatti e sentimenti, a confrontare passato e presente…
Ci riesce? Io penso di sì. Ma io non faccio testo. Farebbero testo migliaia di giovani e meno giovani se lo leggessero, se lo regalassero o lo ricevessero in regalo per Natale, se inviassero all’illustre scrittore e giornalista questo semplice messaggio: «Grazie, ho ricevuto la sua bottiglia della speranza.»

 

 

 

Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

Oggi su Facebook , capitato per caso sulla pagina di Lea Melandri, ho letto questo suo articolo del  30 aprile 2019 che mi era sfuggito e riproposto oggi (qui). Lo  riporto su Poliscritture assieme ad un commento dello stesso anno di Stefano Ciccone. Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni. Indirettamente e chissà  quando, credo possa aiutare a spiegare, se non a sciogliere, anche certi nodi più o meno stretti o ingarbugliati che inceppano spesso le discussioni fra uomini e donne quando parlano d’altro. [E. A.]

Continua la lettura di Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

25 poesie da “Disamorarsi d’essere”

di Eugenio Grandinetti

 Eugenio Grandinetti ha pubblicato, raccolte in quattro sezioni (Equilibri di penombre, Zooteca, Storie,  Et cetera),  un altro  libro di sue poesie. Ne propongo qui, facendo una scelta del tutto personale, alcune che meglio dicono  alcuni tratti tipici della sua ricerca: uno sguardo minuzioso ma interiormente partecipe sugli animali, esseri in preda a sentimenti (fossero di paura, come nell’immagine della lucertola, o di aggressività feroce, come in quella del falco) che indirettamente sono stati o sono anche suoi; una tendenza ad immobilizzare  in una “statica interiore” non solo il movimento delle cose (si veda «Mulinelli»), ma della memoria («Degli altri è bene /si perda ogni memoria, che non resti/ cattiva maestra al mondo della storia /di cui fummo pure parte»)  e, dunque, della storia dimostratasi inesorabilmente insensata e senza più scopo («Gli eventi/ che potevano esserci non furono»; « storia/ continua, senza capitoli e senza epilogo») ; una a-modernità baudelairiana  ma  più secca e quasi scorbutica della sua visione della città metropolitana, ridotta a «muro davanti ad altri muri», a vita monotona,  a «un ripetersi», a «ingranaggio», nel quale   il singolo – guardato o non guardato dagli altri – resta bloccato in una irrimediabile incomunicabilità; un esistenzialismo  che ora,  di fronte alla sua e all’altrui vecchiaia (si veda in particolare «Senescenza», «Un vecchio» ma anche «La mela marcia»),  si è fatto spietato e nulla abbellisce.  E tuttavia  questi versi – pacati, disincantati, dal tono mai muscolare ma sempre basso e riflessivo, che parrebbero monotoni ma sono dolcissimi – «sono tarli che scavano, che lasciano / vuoti profondi». Perché alludono ad una assenza incolmabile. Come nella bellissima evocazione  delle figure del nonno e del padre ne «L’asino di Pietrantonio», tanto più imponenti e leggendarie, malgrado le  minime  «orme» ( o ombre?) che hanno potuto lasciare sulla terra e  nel suo animo.  [E. A.] Continua la lettura di 25 poesie da “Disamorarsi d’essere”

Con la sua voce potente

 

di Arnaldo Éderle

 

Schiava piano la porta d’entrata,
poi entra, ancora silenzio, ma
entra in cucina, appena si sente
lo strusciare dei sandali sul pavimento
del corridoio, poi la sua voce potente:
Ciao Arnaldo (e la mia: Ciao Anastasia).
Il suo calibro è un grosso calibro,
si direbbe un peso massimo della sua categoria
ma ben arrotondato, gradevole quasi dolce,
e poi quella voce rotonda e pura
nel suo italiano-moldavo, un chiasmo
ma quasi sempre italiano. Continua la lettura di Con la sua voce potente

Lo sposo sinistro

di  Alessandra Pavani 

Non finivano mai quelle scale? E quando si sarebbe concluso quell’incubo che forse non aveva mai avuto un inizio, ma che tuttavia esibiva ai suoi piedi un tappeto per meglio guidarla verso il suo abisso? Quanto più saliva, tanto più vi sprofondava, stregata soltanto da quel braccio teso che sporgeva a darle il benvenuto e che già si rigava di lacrime; e intanto queste scivolavano dolenti lungo la ringhiera, scrostandola, e attraverso il suo guanto Dimitra le sentì urlare in silenzio. Continua la lettura di Lo sposo sinistro

Sul concetto di storia e la libertà di pensiero

di Alessandro Scuro

Senza confinare le proprie ricerche ad un ambito preciso né attribuirsi alcun titolo o specializzazione, Fourier non si considerava né un filosofo né un inventore o uno scienziato; non si riteneva niente di più di un esploratore della natura umana capace di cogliere e comprendere quel che gli altri non volevano o non riuscivano a vedere, pur possedendo, al suo pari, identici mezzi. Continua la lettura di Sul concetto di storia e la libertà di pensiero

Oltre la civiltà. Fourier e il dubbio assoluto.

di Alessandro Scuro

Pecca forse di ingenuità l’interrogativo che risiede alla base del progetto utopico di Charles Fourier; ciò non toglie che essa tormenti, una volta posta, chiunque si disponga ad acco-glierla senza scetticismo, con la dovuta gravità. Se questa supposta e tanto decantata civiltà rappresenta davvero il frutto di un processo che, dallo stato selvaggio, attraverso la barbarie, ha condotto l’umanità allo stato attuale dell’evoluzione, come si può credere che ad essa non succederanno nuovi stadi, forme e modi di vita inusitati, al confronto dei quali l’odierna civiltà apparirà incredibile e spaventosa come incubo, lontana e indefinita come una catastrofe del passato? Insomma, davvero le conoscenze acquisite dall’uomo durante millenni di storia non gli permettono l’accesso a nuovi e sorprendenti gradi dell’evoluzione? È questo, sul serio, il migliore dei mondi possibili? Continua la lettura di Oltre la civiltà. Fourier e il dubbio assoluto.

Sulla felicità come tranquillità interiore

tranquillità 1

di Donato Salzarulo

  1. – Daniele Palmieri si è recentemente laureato in filosofia all’Università Statale di Milano. È un giovane di 22 anni ed ha un blog personale. Si chiama “nero d’inchiostro”. Dentro si possono trovare poesie, racconti, recensioni di libri, riassunti. Daniele è filosofo e scrittore. Ha già pubblicato due raccolte di racconti, un romanzo e una breve silloge poetica. Nel mese di marzo di quest’anno è uscito il suo primo saggio filosofico. Altri ne ha in preparazione. Giovane prolifico, operoso. Se penso che alla sua età avevo scritto poche decine di pagine, non posso non ammirarlo. «Bravo!…», mi dico, «Farà sicuramente strada…»

Continua la lettura di Sulla felicità come tranquillità interiore

3 Pezzi Berlinisti

berlino

di Lorenzomonfreg

Colpisce in questi versi di un giovane poeta – tre flash su una Berlino amatodiata,  vista da straniero che vi si aggira in veste di anonimo rimbaudiano fantasma – soprattutto il lessico convulso, rabbioso e a volte quasi sgraziato.  Esso assorbe immagini e termini della vita consumistica di una grande metropoli e copre l’amarezza impotente di una memoria  antagonista sconfitta. Che non trova pace né nel sesso né nel dileggio dei simboli del mercato e dei dominatori né nell’antico sogno anarchico di una città “liberata all’alba dai serpenti”. (E. A.]

Berlin nr.1

Il pezzo questo pezzaccio strano
Scioglie le colle postindustriali
Dalle nostre guance infedeli
Chiediamo agli sciamani violacei
Di curare le tue dita spezzate
Le tue spezzate dita berlinesi Continua la lettura di 3 Pezzi Berlinisti