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Birillo e la lucertola. Fiabe d’amore e di vita.

 

di Rita Simonitto

[Era l’agosto del 2020, quando, pur dubitandone, sembrava che la morsa delle restrizioni pandemiche si allentasse permettendo agli animi di aprirsi verso una maggiore riflessività dando valore alla socialità ritrovata. Oggi, dicembre 2021, reiterato l’inganno, si è squarciato il velo di Maya mostrando una umanità incattivita, organizzata per bande, incentrata sulla concretezza delle risposte più che sulla molteplicità delle domande e dei dubbi. E, tragedia nella tragedia, anche la parte sognante dell’infanzia ne viene coinvolta: piccoli Balilla obbedienti crescono… Così mi chiedo se anche la leggerezza delle fiabe (non scevre, comunque da insegnamenti) potrà trovare cittadinanza]. Continua la lettura di Birillo e la lucertola. Fiabe d’amore e di vita.

Temporale

 

da Prof Samizdat/Narratorio

di Ennio Abate

Solo una striscia di luce pallida e gialla illuminava ora il blocco dei palazzoni rossicci stagliati contro il cielo. Il resto era d’un azzurro sporco. Il temporale era imminente. Un’ombra, calata all’improvviso, incupiva anche il verde di un vasto campo che fiancheggiava i binari del tram. Attimo dopo attimo, in mezzo a folate sempre più forti di vento, quell’ombra, per effetto del sole che tramontava, si sollevava. Ora rodeva lentamente la facciata rossiccia dei palazzi.
Cosa faceva in quei momenti la gente nelle stanze ancora per un attimo soleggiate? Qualcuno di quelli che abitava ai piani più bassi, già investiti dall’ombra, s’era affacciato per vedere il dramma che il paesaggio della città mostrava? Prof Samizdat lo seguiva con un’ansia tenera.
Il terrorismo. In quegli anni lui era rimasto fissato  all’immagine pubblica, spettacolare che i giornali ne davano. in un corpo a corpo emozionale. Era diventato un osservatore meticoloso anche dei battiti più periferici di quelle azioni violente e sanguinose. A volte cercava di riscuotersi. Come si fa quando il sonno assale, ma non vuoi cedere. E scuoti la testa. Da mesi era in un volontario esilio dalle manifestazioni politiche. Non ci andava più. Le sue attività giornaliere non erano mutate quasi in nulla, rispetto al passato. Ma la stanza dove studiava era il laboratorio dove quella sua attenzione spasmodica si esercitava ripetutamente sui quotidiani, che accumulava in pile ordinate per mesi. Aveva alcuni libri in evidenza sul tavolo. Ascoltava i giornali radio. Sulla spinta che seguiva agli avvenimenti, progettava letture e approfondimenti. Ritagliava gli articoli con le opinioni che considerava più degne di riflessione. E aveva mantenuto i legami con alcuni che si occupavano dei detenuti politici finiti in carcere. Con uno di loro, PDG, si scriveva. Supponeva che molti altri, che come lui avevano partecipato alle lotte dell’ultimo decennio, facessero qualcosa di simile. Ma non ne era certo. E non voleva accertarsene. Non desiderava più occuparsi assieme ad altri di una politica andata in frantumi . Meglio ripensarla da eremita.

La maniera equivoca e festaiola del far politica in quegli anni che ora si disfacevano   furiosamente. I discorsi infuocati sulla rivoluzione non pranzo di gala. Fino alle bombe di Piazza Fontana, vogliamo tutto. Poi del tempo successivo di  sconfitta nuovi goliardi e nuovi giacobini si spartivano la gestione pubblica. All’inizio i potenti – un blocco per lui informe, mai  studiato, un concetto – erano stati sorpresi, ma  subito avevano  usato la loro potenza bruta. E quasi subito la fluida rete collettiva che dal ’68- ‘69 si era messa in moto quasi per incanto e sembrava estendersi gioiosa, giovanile, in piena autonomia, s’era irrigidita e slabbrata in più punti. Dalla calca euforica e dei simili (in apparenza) s’isolarono gruppi che insegnarono in fretta a fare scelte drastiche. E imposero discipline e riti partitici. Inevitabili? Non se n’era mai convinto, ma neppure che ci fosse una via diversa da quella che permise di intascare per un po’ il bottino d’intelligenza e passione di quei due anni esplosivi. Lo sistemarono in magazzini dalle dimensioni più  squadrate. Le solite. I più vecchi le conoscevano. Montaldi ne diffidava. Non si capì più quali spiragli erano riusciti ad aprire e quali erano rimasti  del tutto chiusi. Non si capirono neppure più  le involontarie deformazioni subite dalle parole collettive. Rotolavano immediate, grossolane, fra le folle che ancora si radunavano numerose, ma già stordite, dietro bandiere. E non si capiva più in cosa esse fossero abbastanza simili e dove inconciliabili.

Al mattino si svegliava al primo passaggio del metrò, verso le sei. Disinnescava il comando della radiosveglia. Accendeva la piccola pila arancione, aprendo lievemente le porte per non interrompere il sonno della moglie e dei figli, andava in cucina. Si preparava il caffè e poi si chiudeva in gabinetto. Milioni di movimenti simili ai suoi venivano fatti nelle altre abitazioni, nelle carceri, negli ospedali. E prof Samizdat pensava, ma dolorosamente, che anche in questi gesti semplici era stata impressa e si manteneva da secoli una  sottile violenza ormai quasi inavvertita. E che i corpi vi convivevano faticosamente, come con una protesi… […]

Ma quella morte, no! I democristiani se ne erano lavati le mani. Altri ragionarono fino in fondo. Qualcuno notò che Moro non era poi così innocente da essere avvicinato a Cristo. Altri non giuravano più neppure sull’innocenza di quest’ultimo. Quanto si parlò di vittima sacrificale, di necessità storica! Ragion di stato e provvidenza divina tornarono a confondersi. E dopotutto – pensarono sempre altri – si è trattato soltanto di un omicidio politico…[…]

Chiuso nella griglia strettissima di quei giorni, prof Samizdat fece l’unica cosa che gli era possibile: rovistare fra gli echi che gli arrivavano. A distanza. Dov’era precipitata nel frattempo la sua anima interrogante? E il suo corpo era ancora giovanilmente smagrito? Echi ed echi di echi. Nella griglia strettissima anche dei giorni successivi. Fare i conti, fare i conti! Ma non era un ragioniere. Era solo. Non contava nulla. “Sono per le trattative” disse impetuosamente e ad alta voce, sbracciandosi nel buio pur essendo solo nella stanza. E si alzò dalla sedia, spense la radio. Asfalti bagnati. Per la pioggia il traffico delle auto arrivava fino alla sua finestra. Come se friggesse. Intermittente. L’ascoltò come un’argomentazione imprevista ai suoi pensieri. Quel rumore di pneumatici sull’asfalto bagnato gli muoveva delle obiezioni. Ma chi imponeva quella dichiarazione, se non contava nulla? Era sempre solo nella stanza. La nube delle voci radiofoniche, dei titoli di giornali, delle immagini televisive s’era ormai azzittita. Le mille faccende della vita quotidiana continuavano. Avvolgevano anche i più schivi, i distratti, i disperati per conto proprio, i camminatori a testa bassa. Come prima. Le grandi tragedie non interrompono quasi mai gli impegni banali o semplicemente  avviati. Il rubinetto che cola una goccia dopo l’altra. Sogni e letture svagate, amoreggiamenti e invidie, affari e porcherie continuavano . In una cappa che li rendeva anzi più anonimi e riparati.  Ma il deposito corrosivo dei comunicati e degli scioperi in corso continuava nella sua mente. “Sono spaventato, sono inquietato” – disse ancora, accendendosi una sigaretta. E, ad alta voce, quasi per dar più consistenza alle sue parole, quasi a convincersi di più: “Sono inorridito per questa esibizione di durezza e di ferocia”. urlò accostandosi alla finestra.  “E non voglio rientrare. Non accetterò mai le ragioni di chi vincerà questo scontro”, aggiunse facendo un gesto netto con la mano. Ma gli oggetti non rispondevano. Il ticchettio della sveglia era percepibile solo se ci pensava. I segnali abbisognano di decifrazione. La stanza era ancora terribilmente silenziosa. Un segno della fine, di morte. Era teso. Come stesse rispondendo alle implacabili domande di un tribunale invisibile. Che annullava tutto il balletto umanistico in espansione solo sui giornali. Poi andò in metropolitana a Milano. In strada, all’uscita di Piazza Duomo, una ventenne intatta e sardonica – si scorgeva bene il rossetto sulle labbra – mimava fughe e approcci e poi colpiva, ma con un cuscino, un pachiderma che ballonzolava sui trampoli.

Una sera di primavera

Anche questo articolo di Velio Abati era comparso sul vecchio sito (2010 – 2013) non più accessibile di Poliscritture. Fu pubblicato sul n. 10 cartaceo del  dicembre 2013. [E. A.]

di Velio Abati

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Il cane

 

di Rita Simonitto

“Tiresia si sentiva stanco e si sedette sul muretto.

Aveva fatto quella camminata sul monte Cillene, più facendosi trascinare dai profumi che dai colori della primavera che su quel monte comunque procedeva stitica. Ma tant’è. Senza saperlo, oppure lo sapeva, perché cieco sì ma stupido no, era come se fosse tornato sul luogo del misfatto. Succede. Sempre succede quando qualche cosa non è stata ancora chiarita del tutto. Si sedette dunque in attesa che qualche vaticinio, anche se proveniente da lui, lo smuovesse da quel turbamento. Ma nessun alito di chiarezza gli arrivò anche se percepì un muoversi leggero d’aria davanti a lui. Leggero, perché la ninfa Liriope aveva il passo danzante e quasi non poggiava al suolo. Non la vedeva ma ne conosceva a filo le sembianze, la sua dolce bellezza piegata dalla brutalità del Dio Cefiso.

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In morte del liceo classico

di Ennio Abate

I

(da Salierne, Frammenti, 1981 circa)

La mattina, al liceo Torquato Tasso di Salerno, suonava la campanella e i professori sfilavano solerti per i corridoi lucidati. Avevano un pacco in una mano e il registro nell’altra. Quelli del ginnasio portavano pacchi piccoli. I grossi li portavano i professori della terza liceo.

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“Dancing Birches. Part 5” (1) di Glen Sorestad

traduzione di Angela D’Ambra

Pubblico la prima di otto poesie che costituiscono la parte quinta dell’antologia di Glen Sorestad, Dancing Birches, in via di edizione . Si tratta di una sequenza dedicata a Ernest Hemingway. Mano mano seguiranno le altre. [E. A.]


HEMINGWAY & HAVANA
 

 
Every man’s life ends the same way. It is only the details of how he lived and how he died that distinguish one man from another.
Ernest Hemingway
 

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Il corpetto e i genitori

 
di    Arnaldo Éderle
  
 La sorella stava ferma davanti
 allo specchio della camera si girava
 con calma ammirava la ruota della
 gonna colorata la gonna dell’abito
 della gran festa,
 intanto si accarezzava il corpetto.
 Chiese alla sorellina se era bello se
 le stava bene. Rispose sì soltanto sì
 e si voltò nel suo letto per aiutare
 il sonno a prenderla e portarla con sé.
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Il terzo film

di Alessandra Pavani

 

 

       Immaginate una larga cornice rettangolare, come lo schermo di un cinema. Immaginate che sia una finestra spalancata, da cui entrano la luce e l’aria. Non si può chiuderla, altrimenti si morirebbe soffocati, nelle tenebre più fitte, anzi, non si nascerebbe nemmeno. D’altra parte è collocata troppo in alto. Ma a voi che cosa importa? È sempre stata così, a nessuno è mai venuto in mente di arrampicarsi fin lassù per vedere oltre. Tanto non è veramente una finestra. Capita perfino che vi dimentichiate della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa. Un giorno commettete un errore. Non un errore qualsiasi, però. Tutti sbagliamo, a questo mondo, e sappiamo che alcuni dei nostri sbagli comportano determinate conseguenze. Ebbene, l’errore che avete appena commesso vi costa un castigo oltremodo bizzarro: in qualche maniera vi portano all’altezza di quella cornice rettangolare, vi incatenano, e vi costringono ad affacciarvi e a guardare per bene al di là della finestra. E lì, sotto i vostri occhi, dispiegata come un’immensa carta geografica, vi appare la vostra mente, il vostro cervello, con tutti i suoi più segreti recessi illuminati senza pietà da un faretto di scena. Immaginate una cosa simile. Non avreste paura di precipitare? Non precipitereste dentro voi stessi? Continua la lettura di Il terzo film

Mary Ann

caschetto 2

di Arnaldo Ederle

 

Mary Ann

Mary Ann. Che splendido nome!
Quando ti ho vista, prima volta,
non ho saputo che pensare. Il tuo
caschetto! Nero me lo ricordo, Continua la lettura di Mary Ann

Il pensiero di Frisco

frisco 2

di Franco Nova

Da molto tempo ormai Frisco era alla finestra osservando il cielo terso, stellato, senza Luna che disturbasse con il suo ambiguo chiarore la vista di quella silenziosa fissità. Frisco in effetti pensò che una Luna piena fa intravedere, con molte ombre e inganni, il paesaggio terrestre rendendolo più accattivante e dolce nel suo parziale e fluido nascondersi; la sua luminosità incerta cela invece gran parte di quel poco che l’occhio umano è in grado di scorgere quando si alza verso il cielo. Dopo questa non proprio profonda riflessione, Frisco si accinse a chiudere la finestra per ridarsi ai triti riti della sera in una casa come tante altre. Continua la lettura di Il pensiero di Frisco