[Era l’agosto del 2020, quando, pur dubitandone, sembrava che la morsa delle restrizioni pandemiche si allentasse permettendo agli animi di aprirsi verso una maggiore riflessività dando valore alla socialità ritrovata. Oggi, dicembre 2021, reiterato l’inganno, si è squarciato il velo di Maya mostrando una umanità incattivita, organizzata per bande, incentrata sulla concretezza delle risposte più che sulla molteplicità delle domande e dei dubbi. E, tragedia nella tragedia, anche la parte sognante dell’infanzia ne viene coinvolta: piccoli Balilla obbedienti crescono… Così mi chiedo se anche la leggerezza delle fiabe (non scevre, comunque da insegnamenti) potrà trovare cittadinanza]. Continua la lettura di Birillo e la lucertola. Fiabe d’amore e di vita.→
Solo una striscia di luce pallida e gialla illuminava ora il blocco dei palazzoni rossicci stagliati contro il cielo. Il resto era d’un azzurro sporco. Il temporale era imminente. Un’ombra, calata all’improvviso, incupiva anche il verde di un vasto campo che fiancheggiava i binari del tram. Attimo dopo attimo, in mezzo a folate sempre più forti di vento, quell’ombra, per effetto del sole che tramontava, si sollevava. Ora rodeva lentamente la facciata rossiccia dei palazzi.
Cosa faceva in quei momenti la gente nelle stanze ancora per un attimo soleggiate? Qualcuno di quelli che abitava ai piani più bassi, già investiti dall’ombra, s’era affacciato per vedere il dramma che il paesaggio della città mostrava? Prof Samizdat lo seguiva con un’ansia tenera.
Il terrorismo. In quegli anni lui era rimasto fissato all’immagine pubblica, spettacolare che i giornali ne davano. in un corpo a corpo emozionale. Era diventato un osservatore meticoloso anche dei battiti più periferici di quelle azioni violente e sanguinose. A volte cercava di riscuotersi. Come si fa quando il sonno assale, ma non vuoi cedere. E scuoti la testa. Da mesi era in un volontario esilio dalle manifestazioni politiche. Non ci andava più. Le sue attività giornaliere non erano mutate quasi in nulla, rispetto al passato. Ma la stanza dove studiava era il laboratorio dove quella sua attenzione spasmodica si esercitava ripetutamente sui quotidiani, che accumulava in pile ordinate per mesi. Aveva alcuni libri in evidenza sul tavolo. Ascoltava i giornali radio. Sulla spinta che seguiva agli avvenimenti, progettava letture e approfondimenti. Ritagliava gli articoli con le opinioni che considerava più degne di riflessione. E aveva mantenuto i legami con alcuni che si occupavano dei detenuti politici finiti in carcere. Con uno di loro, PDG, si scriveva. Supponeva che molti altri, che come lui avevano partecipato alle lotte dell’ultimo decennio, facessero qualcosa di simile. Ma non ne era certo. E non voleva accertarsene. Non desiderava più occuparsi assieme ad altri di una politica andata in frantumi . Meglio ripensarla da eremita.
La maniera equivoca e festaiola del far politica in quegli anni che ora si disfacevano furiosamente. I discorsi infuocati sulla rivoluzione non pranzo di gala. Fino alle bombe di Piazza Fontana, vogliamo tutto. Poi del tempo successivo di sconfitta nuovi goliardi e nuovi giacobini si spartivano la gestione pubblica. All’inizio i potenti – un blocco per lui informe, mai studiato, un concetto – erano stati sorpresi, ma subito avevano usato la loro potenza bruta. E quasi subito la fluida rete collettiva che dal ’68- ‘69 si era messa in moto quasi per incanto e sembrava estendersi gioiosa, giovanile, in piena autonomia, s’era irrigidita e slabbrata in più punti. Dalla calca euforica e dei simili (in apparenza) s’isolarono gruppi che insegnarono in fretta a fare scelte drastiche. E imposero discipline e riti partitici. Inevitabili? Non se n’era mai convinto, ma neppure che ci fosse una via diversa da quella che permise di intascare per un po’ il bottino d’intelligenza e passione di quei due anni esplosivi. Lo sistemarono in magazzini dalle dimensioni più squadrate. Le solite. I più vecchi le conoscevano. Montaldi ne diffidava. Non si capì più quali spiragli erano riusciti ad aprire e quali erano rimasti del tutto chiusi. Non si capirono neppure più le involontarie deformazioni subite dalle parole collettive. Rotolavano immediate, grossolane, fra le folle che ancora si radunavano numerose, ma già stordite, dietro bandiere. E non si capiva più in cosa esse fossero abbastanza simili e dove inconciliabili.
Al mattino si svegliava al primo passaggio del metrò, verso le sei. Disinnescava il comando della radiosveglia. Accendeva la piccola pila arancione, aprendo lievemente le porte per non interrompere il sonno della moglie e dei figli, andava in cucina. Si preparava il caffè e poi si chiudeva in gabinetto. Milioni di movimenti simili ai suoi venivano fatti nelle altre abitazioni, nelle carceri, negli ospedali. E prof Samizdat pensava, ma dolorosamente, che anche in questi gesti semplici era stata impressa e si manteneva da secoli una sottile violenza ormai quasi inavvertita. E che i corpi vi convivevano faticosamente, come con una protesi… […]
Ma quella morte, no! I democristiani se ne erano lavati le mani. Altri ragionarono fino in fondo. Qualcuno notò che Moro non era poi così innocente da essere avvicinato a Cristo. Altri non giuravano più neppure sull’innocenza di quest’ultimo. Quanto si parlò di vittima sacrificale, di necessità storica! Ragion di stato e provvidenza divina tornarono a confondersi. E dopotutto – pensarono sempre altri – si è trattato soltanto di un omicidio politico…[…]
Chiuso nella griglia strettissima di quei giorni, prof Samizdat fece l’unica cosa che gli era possibile: rovistare fra gli echi che gli arrivavano. A distanza. Dov’era precipitata nel frattempo la sua anima interrogante? E il suo corpo era ancora giovanilmente smagrito? Echi ed echi di echi. Nella griglia strettissima anche dei giorni successivi. Fare i conti, fare i conti! Ma non era un ragioniere. Era solo. Non contava nulla. “Sono per le trattative” disse impetuosamente e ad alta voce, sbracciandosi nel buio pur essendo solo nella stanza. E si alzò dalla sedia, spense la radio. Asfalti bagnati. Per la pioggia il traffico delle auto arrivava fino alla sua finestra. Come se friggesse. Intermittente. L’ascoltò come un’argomentazione imprevista ai suoi pensieri. Quel rumore di pneumatici sull’asfalto bagnato gli muoveva delle obiezioni. Ma chi imponeva quella dichiarazione, se non contava nulla? Era sempre solo nella stanza. La nube delle voci radiofoniche, dei titoli di giornali, delle immagini televisive s’era ormai azzittita. Le mille faccende della vita quotidiana continuavano. Avvolgevano anche i più schivi, i distratti, i disperati per conto proprio, i camminatori a testa bassa. Come prima. Le grandi tragedie non interrompono quasi mai gli impegni banali o semplicemente avviati. Il rubinetto che cola una goccia dopo l’altra. Sogni e letture svagate, amoreggiamenti e invidie, affari e porcherie continuavano . In una cappa che li rendeva anzi più anonimi e riparati. Ma il deposito corrosivo dei comunicati e degli scioperi in corso continuava nella sua mente. “Sono spaventato, sono inquietato” – disse ancora, accendendosi una sigaretta. E, ad alta voce, quasi per dar più consistenza alle sue parole, quasi a convincersi di più: “Sono inorridito per questa esibizione di durezza e di ferocia”. urlò accostandosi alla finestra. “E non voglio rientrare. Non accetterò mai le ragioni di chi vincerà questo scontro”, aggiunse facendo un gesto netto con la mano. Ma gli oggetti non rispondevano. Il ticchettio della sveglia era percepibile solo se ci pensava. I segnali abbisognano di decifrazione. La stanza era ancora terribilmente silenziosa. Un segno della fine, di morte. Era teso. Come stesse rispondendo alle implacabili domande di un tribunale invisibile. Che annullava tutto il balletto umanistico in espansione solo sui giornali. Poi andò in metropolitana a Milano. In strada, all’uscita di Piazza Duomo, una ventenne intatta e sardonica – si scorgeva bene il rossetto sulle labbra – mimava fughe e approcci e poi colpiva, ma con un cuscino, un pachiderma che ballonzolava sui trampoli.
Anche questo articolo di Velio Abati era comparso sul vecchio sito (2010 – 2013) non più accessibile di Poliscritture. Fu pubblicato sul n. 10 cartaceo del dicembre 2013. [E. A.]
di Velio Abati
a Giulia, Ilaria e Stefania
Azione in sei scene
Personaggi
Una ragazza giovane Una donna, la madre Vittorio Il dirigente, un capo Vari giovani, uomini e donne Anna, che, con chissà quanti altri, meriterebbe di esserci
Scena prima
Interno, pomeriggio, ora indefinita. Un divano anonimo. Di lato, a sinistra, un frigorifero. Non c’è nessuno.
Alla quinta di destra si scorge una finestra. Entra una luce pallida, insieme con il rumore discreto e costante di pioggia. In sottofondo, gorgoglii di rigagnoli.
Per un tempo discretamente lungo, non accade alcunché.
Entra dal fondo una ragazza minuta, i capelli sciolti tenuti in parte da una pinza, in abbigliamento comodo. Cammina e si muove leggera, silenziosissima, sovrappensiero. Indugia, va poi al frigorifero.
Quando apre distratta lo sportello, giunge, registrata, la voce di lei. Legge con il tono di chi ripassa. Pronuncia meditando le parole.
Voce. «O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto».
Il tono, fino a qui sostenuto della declamazione, si abbassa, rallenta, fino a sillabare, a ripetere, come a provare e riprovare le sonorità.
V. «PIaccIaTI DI resTare In quesTo loco
Con diversa intonazione.
V. «piAcciAti di restAre in questO lOcO».
La ragazza scuote dubbiosa la testa. Toglie dal frigorifero una busta di latte. Chiude lo sportello e si erge, cerca intorno con la busta in mano. Alla fine si decide a bere un sorso direttamente dalla busta.
La declamazione riprende spedita.
V. «La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
alla quale forse fui troppo molesto.
Subitamente questo suono uscìo…».
S’interrompe come in un inciampo. La ragazza si avvia verso la finestra, sempre tenendo la busta del latte in mano.
Ragazza. Loquela (meditativa, si ferma) eloquio, eloquente (riprende a camminare) loquor, loqueris, locutus sum…
Arrivata alla finestra, si mette ad ascoltare il rumore della pioggia. Guarda fuori dai vetri, senza guardare.
Voce. «Loquela: modo di parlare, parlata ».
La ragazza controlla l’orologio al polso, come chi si accorge di un ritardo. È preoccupata.
Ragazza. S’infradicerà.
Rimane immobile a guardare attenta lo scroscio uguale della pioggia.
La registrazione riprende, come elencando.
V. «Uscìo… Uscìo, venìo, seguìo, patìo…»
La ragazza si avvicina alla quinta opposta, come in ascolto di qualche possibile passo. Poi va a riporre la busta nel frigorifero.
Torna alla finestra. Scruta in basso da una parte, poi dall’altra. Tira fuori dalla tasca un cellulare, inizia a comporre il numero. Interrompe, lo ripone in tasca.
Rag. Si arrabbierebbe, come sempre.
Scruta ancora. Si stizzisce.
Rag. Non sapere mai quando torna (si morde le labbra; il tono si vela di rammarico; si stringe le braccia come in un brivido) è tornato freddo.
La ragazza rimane immobile. Il rumore della pioggia sembra farsi più alto.
Scena seconda
Luce d’interno, piuttosto fioca. Non ci sono finestre. Un brano percussivo degli Stomp a tutto volume riempie la scena. Al centro, una scrivania. Dietro, seduto, un uomo maturo lavora nervoso a un portatile, sfoglia incartamenti, gesticola energico a un cellulare. Il brano percussivo impedisce di distinguere alcun altro rumore.
Dopo una manciata di secondi, entra da destra la ragazza. La musica tace di colpo. L’uomo, che ha smesso di telefonare, continua a lavorare al computer senza dar segno di accorgersi. La ragazza, vestita in modo sportivo, porta sulle spalle uno zaino. Attraversa l’intera scena e va a porsi, in piedi, al lato sinistro. Si toglie e depone in terra lo zaino. Rimane in attesa. La musica riprende identica. L’uomo seguita il suo lavoro.
A un certo punto, si affaccia dal fondo un uomo di mezza età, alto, nelle cui fattezze s’intravede una bellezza ora spenta. Entra incerto, con in mano un cappelletto, un po’ curvo in avanti. Si guarda intorno, fino a che avvista la scrivania. Forse saluta, ma le percussioni impediscono di udire.
Vittorio. Buon giorno.
Fa un cenno discreto con la testa. Ma non accade nulla. Ci riprova, con voce più forte.
Vitt. Buon giorno (alza questa volta la mano) buon giorno, signore.
Dalla scrivania sembra finalmente essersi accorto dell’arrivato. Le percussioni si abbassano di colpo, rimangono un suono di fondo, che malgrado tutto permette la conversazione.
Dirigente. Finalmente! (con aria di rimprovero).
L’uomo in piedi cerca di dire qualcosa, farfuglia, muove la mano con il cappelletto.
L’uomo dietro la scrivania si è già dimenticato di lui. Gesticola, mugugna al cellulare. Poi prende a scartabellare nei fogli. Parla fra sé.
Dir. Vediamo (controlla in un’agenda) sì, alle 11.
L’uomo in piedi, rimasto immobile in attesa, si agita, incerto ne tentativi di domandare e di ascoltare.
Dir. Dunque (prende una penna, sfoglia l’agenda da tavolo fino ad arrivare al giorno; scorre con il dito) alle 11. Colloquio (scrive, sillabando ad alta voce) con Anna e con la sua amica.
L’uomo con il cappelletto in mano è intimorito.
Dir. Guarderò anche queste. Parlerò chiaro. Ascolterò.
Vitt. Signor dirigente…(si trattiene) non volendo ho sentito… (riprende forza) non vorrà mica…
Dir. Vittorio! Mi hanno già detto tutto.
Vitt. Che le hanno detto?(Si agita) Non ho firmato.
Dir. Quindi avevi intenzione addirittura di firmare la richiesta?
Vitt. No! (Alza anche la testa) È una calunnia, un’offesa. (China di nuovo la testa) Lo sa, che oramai ho capito (le percussioni hanno un improvviso balzo di tono) non posso negare che qualcuno…
Ma il crescendo del brano si mangia le parole. La luce si fa livida. Lo si vede sforzarsi, tormenta il suo cappelletto. Cede, ci riprova.
L’uomo dietro la scrivania si alza d’un tratto. Il tono delle percussioni torna accettabile.
Dir. Ricordatelo! (Troneggia dietro la scrivania) Io so sempre, immediatamente tutto (la voce si fa veemente) so che tre di voi hanno preso a incontrarsi. Ma non mi conoscono. Ehi, guardami, pezzo di merda! Non vi darò requie. Vi farò cacare addosso, altro che riunioni, altro che risatine. Guardami, non vi farò dormire la notte!
La ragazza, che era stata per tutto il tempo immobile, prende da terra il suo zaino. La musica cessa di colpo. I due rimangono immobili nella posizione assunta.
La ragazza avanza con lenta attenzione, guarda in faccia prima l’uomo dietro la scrivania poi l’altro. Si mette a una certa distanza dai due, per guardarli insieme. Riflette.
Quindi si porta di nuovo di fronte all’uomo con il cappelletto in mano.
La registrazione scandisce:
Voce. «Io avea già il mio viso nel suo fitto».
La luce, rimasta fioca e livida, diventa rapidamente chiara e intensa, illumina distintamente ogni angolo, fruga nei volti e nei corpi. La ragazza parla con suono alto e limpido. Lo sguardo diretto, il tono di chi non concede sotterfugi: pretende una risposta.
Rag. Com’io al piè della sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: – Chi fuor li maggior tui?
Scena terza
Scena uguale alla prima. Luce, rumore di pioggia e posizione della ragazza identici alla chiusura della scena prima. Dopo alcuni secondi d’immobilità, si sente alla quinta di sinistra uno schiaviccìo. La ragazza si scuote, accorre sollevata.
Rag. Finalmente!
Aiuta ad aprire; il rumore di pioggia si rafforza.
Entra una donna di mezza età, un po’ affannata. Ha i capelli bagnati, scrolla un ombrelletto troppo piccolo. È vestita in modo povero, ma non trasandato. Scuote scarpe e piedi, si spazzola con la mano i panni per sgrondare l’acqua.
Madre. Sei stata in pensiero? (sorride, con affetto).
Rag. Questo pomeriggio (premurosa, cerca di aiutarla; le prende l’ombrello, la borsa) ti hanno trattenuto più a lungo.
M. No, anzi, a mezzogiorno il lavoro era già finito (si strizza i capelli, la bacia, attenta a non bagnarla). Il fatto è che le vie erano bloccate.
Rag. L’acqua è alzata di nuovo?
Un lampo illividisce la stanza. Immediatamente dopo, i chiocchi secchi della grandine sbattono sui vetri. Il rumore assale dall’esterno.
Le due donne corrono alla finestra. Fissano fuori.
Ragazza e madre. Appena in tempo!
M. Non era ancora accaduto (deve alzare la voce) ormai è il terzo giorno.
Rimangono sospese alla finestra, impaurite. Dopo qualche folata, il rumore s’attenua di colpo. Riprende a piovere forte e regolare.
M. I sottopassaggi sono diventati laghi (scuote la testa) ho dovuto fermarmi. E per fortuna! Appena sono scesa, mi sono accorta che una macchina s’era incastrata, o fermata, non so. C’era una coppia di anziani. Ho fatto appena in tempo ad aprire la portiera, a trascinarli su.
La ragazza l’ascolta spaventata.
M. Stai tranquilla. Qui siamo al sicuro.
Si toglie il giaccone. La figlia glielo prende, con la borsa e l’ombrello. Li porta dietro la quinta di fondo.
Rimasta sola, si lascia andare sul divano. Per la prima volta, si sente stanca.
Nella stanza c’è solo il rumore della pioggia. Chiude gli occhi e chinando la nuca si raccoglie i capelli con un asciugamano trovato nel divano, ma non è sopraffatta. Appare solo svagata, trasognata.
Anche la ragazza rientra quasi allegra. Si butta a sedere, si accoccola accanto a lei.
Rag. Raccontami (le passa le mani dietro la testa, sorride), devo sapere tutto.
M. Oh (si schernisce, sorride), che vuoi che abbia di allegro o d’interessante una mamma che viene dal lavoro. Tu, piuttosto. Dimmi della scuola.
Rag. Ah, questa è una mossa scorrettissima (ride, di cuore; poi si ricompone in una serietà appena affettata). La solita noia, la solita fatica.
M. Ho capito.
Guarda anche lei da un’altra parte, come pensasse ad altro.
Bada solo ad asciugarsi i capelli. Poi riprende, quasi parlasse solo a sé.
M. Mario oggi non c’era?
Rag. Sono affari miei (asciutta).
M. Come siamo sospettosi (sbircia con la coda dell’occhio). Dicevo così, tanto per dire. (Si gira allegra, le dà un colpetto con la mano) Dai, che domani cambia tutto!
Rag. Sai (è pensierosa) stamattina un gatto nero mi è schizzato proprio davanti, così ho dovuto fare il giro più lungo…
La madre ride di cuore e se l’abbraccia.
Rag. Davvero! E poi, quando la mia amica di banco mi diceva brava, mi sono attaccata al ferro.
Ridono.
M. Tranquilla, il colloquio è confermato.
La ragazza si alza, in uno slancio di gioia. Fa qualche passo di danza, batte le mani.
M. Saremo lì, alle undici esatte (sospira, alleggerita) questi due benedetti posti di lavoro.
Rag. Sono in pensiero per Anna (guarda verso la finestra) perché non è venuta prima, in mattinata?
M. I treni viaggiano regolari.
Guarda davanti a sé. È serena.
M. Mi sono informata bene, le notizie sono certe. Il posto è sicuro. Sono esigenti.
Rag. No, è proprio un aguzzino.
M. Oh (sorride) quale capo non lo è? Ma il nostro lavoro lo sappiamo fare. La fatica, gli orari non ci danno pensiero.
La ragazza corre a stringerla.
Poi si alza, di nuovo allegra.
Rag. In questi giorni penso spesso a quando sarò nella nuova città.
Il rumore della pioggia, subito dopo che la ragazza ha ripreso a parlare, ha cessato di colpo. Si muove leggera, davanti alla madre.
Rag. Penso alle compagne di camera, alle ore che staremo insieme. Io farò i dolcetti che mi hai insegnato. Chiacchiereremo fino a notte fonda, discuteremo di tutto, anche del mondo, anche delle stelle e degli oceani che nessuno ha ancora conosciuto.
La madre, che la guardava incantata, apre le braccia. La ragazza vi corre ridendo.
Scena quarta
Interno. Non ci sono finestre. Al centro, una scrivania, la stessa della scena seconda. La luce è però chiara, come di pieno giorno. Dietro, seduto, un uomo maturo: il medesimo, con gli stessi vestiti. Lavora nervoso, ha in mano una penna stilografica, sfoglia incartamenti, gesticola energico a un apparecchio telefonico anni Sessanta. Sul davanti, lo stesso uomo della scena seconda, ma giovane. Indossa uno spolverino grigio, capelli e barba neri, incolti. Ha in mano una scopa, da una tasca gli esce un cencio per spolverare, più di lato un secchio con lo spazzolone dentro. Lavora sodo, muovendo ritmicamente la testa e il corpo, come se stesse ascoltando musica rock.
Dirigente. Vittorio! (il tono è aggressivo, lo stesso della seconda scena).
L’uomo non sembra sentire.
Dir. Vittorio! (grida forte, assai irato).
Vittorio. Sì (alza la testa, risponde tranquillo, come se nulla fosse).
Dir. Per l’ultima volta: è vietato ascoltare musica, mentre lavori.
Vitt. Veramente…
Intanto che i due parlano, entra da destra la ragazza vestita in modo sportivo, porta sulle spalle lo zaino. Attraversa l’intera scena, passa tra i due come un fantasma e va a porsi, in piedi, al lato sinistro. Si toglie lo zaino, lo depone ai propri piedi. Rimane in attesa.
Dir. Mi pigli per il culo? Perdi tempo, ti dico.
L’uomo con lo spolverino rimane immobile.
Dir. La paga che incassi è moneta sonante!
Vitt. Io penso…
Dir. Tu non devi pensare! Devi lavorare, capito? Questo, devi fare.
L’uomo con lo spolverino prova a parlare.
Dir. Non interrompermi. Fammi parlare. C’è un altro problema. Il lavoro dev’essere finito (scandisce le sillabe) finito, quando arrivo.
Vitt. Il tempo è troppo poco, signore.
Dir. Ma quale poco, ma quale poco (si alza in piedi) tu sei incapace, sei scansafatiche (quasi urla) mangi le nostre ricchezze. Ma se guadagnarti il pane ti fa schifo, ce ne sono altri cento che …
L’uomo con lo spolverino fischia improvviso. Nella quinta di fondo, fino ad allora buia, appare una porta. Si spalanca. Entrano ridendo e urlando ragazzi e ragazze, vestiti con jeans, eskimo, barbe e capelli anni Settanta. Alcuni agitano cartelli in una lingua inesistente. Contemporaneamente s’è levata fragorosa una musica rock. Tutti festeggiano l’uomo, che getta via lo spolverino e la scopa, poi va a prendere il secchio con l’acqua e la scaglia verso la scrivania. Il dirigente rimane in piedi, immobile, come senza vita.
Dopo poco, da vari punti tra gli spettatori, salgono altri giovani.
Voci. È ora, è ora. Liberi tutti. La piazza. Le strade (con gesti e parole ci si rivolge in ogni direzione, alcuni sollecitano gli spettatori) prendiamoci la parola.
I gruppi cominciano a ballare. Brani musicali si accavallano, rock e tarantelle. Si distribuiscono volantini che volano sul palco, sugli spettatori. La scrivania e il dirigente, che è rimasto immobile, vengono completamente nascosti dai gruppi di giovani in scena. Coppie amoreggiano.
La ragazza, che fino ad allora era rimasta a guardare, prende lo zaino per tornare indietro, verso la quinta di destra da dove era entrata. Verso il centro, è afferrata dalla festa. Getta via lo zaino, si toglie il giacchetto. Altri giovani la imitano, si levano panni. Delle ragazze si cambiano in scena, alcune s’indossano gonne lunghe a fiori, altre corte minigonne. Musica, balli e vocio continuano.
Un gruppo si separa e corre verso la quinta di fondo, che questa volta s’illumina completamente. La porta di prima mostra ora d’essere solo una cornice. Oltre, la vista si apre su palazzi, cielo e alberi. La luce è del pieno mezzogiorno.
Un gruppo di giovani si allontana dalla scrivania, che in questo modo diventa di nuovo visibile. È vuota. I giovani, ancora ballando e cantando, inalberano il dirigente. Ma è un pupazzo che ne ha gli abiti e le sembianze. Ridono, scherzano con quell’oggetto, leggero come una palla di gomma piuma. Qualcuno ci balla, altri lo lanciano in alto, sopra la testa, come si fa con i bambini.
Grande è la festa. Più musiche, rock anni sessanta e tarantelle, si mescolano, si rincorrono, s’accavallano, come i gruppi sulla scena. La ragazza, rossa di gioia, si scioglie e si unisce a tutti i gruppi.
Ad un certo punto, alcuni giovani si avvicinano alla scrivania, rimasta vuota e isolata. Nell’euforia cercano di spostarla, di rovesciarla. La ragazza se ne accorge e si avvicina. È di nuovo vestita come quando è entrata. Indossa lo zaino. Rimane in piedi, di lato e sul davanti, ben visibile, con le spalle agli spettatori. Osserva attenta l’azione.
I giovani si sforzano, provano varie manovre, si consigliano, ma la scrivania rimane inamovibile. Chiamano allora gli altri, con la voce che viene soffocata dal tripudio, con i gesti. Inutilmente. Riprovano allora da soli. Coordinano gli sforzi con la voce. La scrivania è come murata.
Intorno, la festa, la musica, gli amori, i balli continuano.
Scena quinta
Interno. Notte, luce fioca. Identico rumore di pioggia. Il medesimo frigorifero di lato. Sul divano, semisdraiata con un plaid sulle ginocchia, la madre. Alle spalle, più distante, sulla destra, è comparso un lettino. Sotto le coperte, la ragazza con un libro.
La madre è sveglia, ma quasi immobile. Sembra ascoltare il rumore uguale della pioggia. La ragazza è inquieta. Si gira, interrompe la lettura, ascolta la pioggia, tende l’orecchio, sospira. Riprende la lettura.
Nella stanza, un rumore affannoso di respiro soffocato sovrasta d’un tratto lo scroscio della pioggia, lo sciacquìo dei rigagnoli. La ragazza si alza di scatto, getta via libro e coperte. Corre al divano.
La madre, che era rimasta tranquilla, l’accoglie sorpresa.
Madre. Perché (sorride) ti sei alzata?
Ragazza. Niente (si passa una mano sulla fronte, per allontanare una ciocca di capelli biondi; prova, anche lei, a sorridere). Non è ancora arrivata? (si guarda intorno).
M. Stai tranquilla, trottolina.
La ragazza, scalza, sente freddo ai piedi. Si stringe addosso il pigiama. La madre se la tira sotto il plaid. L’abbraccia.
Il rumore della pioggia continua regolare, sembra tranquillo. Nient’altro si muove.
M. È solo un ritardo (sorride di nuovo) è normale, con questo tempo.
L’accarezza.
M. L’appuntamento è alle undici. Abbiamo tutto il tempo.
La ragazza continua a stringerla. La madre solleva un braccio in un gesto largo.
M. Ho voglia di cambiare (sorride) quando tu sarai andata a spassartela…
Rag. Mamma, sai che non è così (imbronciata; poi maliziosa) mica mi farai la gelosa, ora?
M. Quando sarai a spassartela, lontano dalla tua mamma, rimasta sola e abbandonata, voglio spendere tutti i soldini che mi guadagnerò con il nuovo lavoro, per far entrare qui dentro aria fresca.
Si alza, sospira sollevata, si guarda intorno. La figlia sorride.
M. Intanto, via quel cassone insopportabile (indica il frigorifero, poi corre alla finestra) qua (guarda la figlia con aria di sfida) – ora che sarai fuori dai piedi, non potrai impedirmelo – una magnifica tenda.
Va muovendo le mani come se ne sentisse la morbidezza.
M. La voglio leggerissima, morbida. A fiori. Sì, teneri fiori di mandorlo e di pesco.
Corre a sinistra.
M. Il portoncino, lo voglio rosso passione!
La figlia ride divertita, forse imbarazzata.
M. Ah, sì! E le pareti (riflette) una carta. Una carta da parati che metta allegria, con i colori della primavera.
S’interrompe. Si ferma.
Si guardano immobili, distanti.
La pioggia cade sempre uguale. Ora non ci sono né tuoni, né lampi. Nessun rumore di macchine, come se la stanza fosse sola al mondo.
La madre si avvicina premurosa alla figlia, che è rimasta silenziosa. L’abbraccia.
M. Ora torna a letto, topino. È davvero tardi.
La ragazza sbadiglia, ma resiste. Poi la madre riesce a farla camminare. Piano, piano l’accompagna di nuovo verso il letto. La ragazza le si appoggia al fianco.
M. Rimango io ad aspettarla. Vedrai, Anna ormai sarà qui tra poco. Dormi tranquilla, che hai bisogno. Domani (sorride, la bacia) sarà per tutte una giornata importante.
Scena sesta
Interno precedente. Luce minima, a indicare il sonno. La ragazza è nel letto, la madre sul divano. Dormono. Il rumore della pioggia è cessato. Il silenzio è completo.
La poca luce artificiale lascia lentamente il posto a quella, più chiara e più alta, che penetra dalla finestra. La ragazza si risveglia. Ha un’aria sonnacchiosa, ma serena. Gode l’albore.
Guarda soddisfatta il soffitto e la luce. Sente con la mano il libro che ha dimenticato sotto le coperte. Lo guarda come chi rammenti.
Rag. È oggi l’appuntamento.
Si alza lieta dal letto. Avanza fino alla finestra nella quinta di destra. La apre. La luce ambrata dell’alba entra più intensa. La ragazza allarga le braccia, sorride.
Rag. Ha smesso.
Respira l’odore dell’alba. Contempla.
Si volta verso l’interno, con la voglia di mangiare. La madre è ancora immobile sul divano. La ragazza scuote la testa con affetto.
Rag. Come i bambini (si rammenta). E Anna?
Si avvicina.
Rag. Anna non è arrivata? (la chiama sottovoce) mamma (la tocca delicata sulla spalla) ti sarai presa freddo. Mamma.
La scuote. Una mano, inerte, scivola giù, distante dal corpo.
Rag. Nooo! (grida piegandosi in ginocchio sul corpo della madre) nooo!
Il grido lungo, acuto della ragazza lacera disperato.
La quinta di fondo scompare. Al suo posto i palazzi, il cielo e gli alberi già visti. La luce è tenue, verde e rosa del primo mattino. L’aria è tersa. La ragazza rimane nella stessa posizione, inginocchiata, immobile. Profondo è il silenzio.
Non accade nulla.
Nell’aria si leva un singhiozzo sommesso. Come una preghiera, lenisce l’immobilità.
A poco, a poco al posto della finestra, appare una splendida, candidissima chioma di mandorlo in fiore.
La ragazza si scuote. Si alza lentamente. Il singhiozzo sfinito continua sommesso.
Si avvicina stupita. Il richiamo dell’usignolo inizia tenue gli avvii lenti e lunghi. Guarda ammirata.
Quasi senza avvertirlo, il singhiozzo si smorza. Il canto si fa più alto, più ricco, nei languori e poi nelle impennate, nei gorgheggi. Il singhiozzo è scomparso. La ragazza ascolta. Riesce a piangere, in silenzio. Mentre si asciuga pacata gli occhi, sorride.
La luce, nella stanza e all’orizzonte, è ora quasi chiara.
Nota al testo
C’è qui la sofferenza per lo sperpero della devastazione di energie e di vite umane consumata intorno a noi, ad opera di altri uomini. C’è anche amarezza per la mia generazione, che tante colpe porta. C’è lo sbigottimento per le scelte di volta in volta da noi insegnanti compiute, quanto incredibilmente ipocrite, meschine e distanti dalle necessità, dalla funzione alta e insostituibile che la società, anche a nostra e sua insaputa, ci assegna.
Vista da questa parte, dal verso del foglio, la poesia, la letteratura ha una misteriosa necessità e insieme una non meno imprevedibile casualità: tutto è determinato, nulla lo è. Si tratta di un tratto per cui essa somiglia davvero, sfrondate le tentazioni imbonitorie del decadentismo, alla vita. Che cosa c’è infatti di più terribilmente ingovernabile della vita, almeno nelle nostre società? Ingovernabile perché imprevedibile; ma ingovernabile anche perché sovradeterminata rispetto alla nostra capacità di scegliere, tanto che più d’uno ha detto alienata la nostra condizione. Per questo, malgrado tutto, resta insopprimibile l’impulso a conseguire una società, un sistema di relazioni di sé con gli altri, con la natura, una vita quotidiana, ove ciascuno possa davvero comprendere e decidere il destino comune, almeno quel tanto umanamente possibile.
Per me – ma forse anche per altri, meglio: forse per l’arte dell’epoca moderna – la scrittura nasce da una impotenza. È un grido di dolore, di rabbia, di speranza malgrado tutto, certo di piacere; e anche di colpa, perché non mi scordo che il tesoro, con cui posso pensare e scrivere queste stesse parole, si regge sull’afasia di moltissimi altri. L’accumulo di cultura non è affatto diverso da quello della ricchezza (non si chiamano entrambi patrimonio?): chi possiede tanto capitale, lo ha solo per averlo sottratto a chi ne è privo. La produzione di ricchezza e di cultura è sempre più collettiva, la loro appropriazione rimane invece privata. So bene che negli ultimi trent’anni è stato fatto di tutto per nascondere l’uno e l’altro punto, come se tutti, più o meno, si fosse ricchi, tutti, più o meno, si fosse colti. Ma vedo che la crisi mondiale in cui il trentennio triste si decompone porta di nuovo a nudo quello strazio, ineliminabile in ogni società classista. Lo fa anzi con tale violenza rinnovata, con siffatta insistenza da fa dire ai più attenti di essere a un passaggio d’epoca. Gli eventi ci chiariranno se e come l’umanità (il 99%, dice Occupy Wall Street) intenderà affrontarlo, diversamente dal secolo scorso. Per me scrivere, nel modo assai ambiguo precipuo dell’arte, è sempre un gesto di condivisione, di denuncia – io non ci sto! -, d’investimento libidico, di scommessa per il futuro.
“Tiresia si sentiva stanco e si sedette sul muretto.
Aveva fatto quella camminata sul monte Cillene, più facendosi trascinare dai profumi che dai colori della primavera che su quel monte comunque procedeva stitica. Ma tant’è. Senza saperlo, oppure lo sapeva, perché cieco sì ma stupido no, era come se fosse tornato sul luogo del misfatto. Succede. Sempre succede quando qualche cosa non è stata ancora chiarita del tutto. Si sedette dunque in attesa che qualche vaticinio, anche se proveniente da lui, lo smuovesse da quel turbamento. Ma nessun alito di chiarezza gli arrivò anche se percepì un muoversi leggero d’aria davanti a lui. Leggero, perché la ninfa Liriope aveva il passo danzante e quasi non poggiava al suolo. Non la vedeva ma ne conosceva a filo le sembianze, la sua dolce bellezza piegata dalla brutalità del Dio Cefiso.
La mattina, al liceo Torquato Tasso di Salerno, suonava la campanella e i professori sfilavano solerti per i corridoi lucidati. Avevano un pacco in una mano e il registro nell’altra. Quelli del ginnasio portavano pacchi piccoli. I grossi li portavano i professori della terza liceo.
Pubblico la prima di otto poesie che costituiscono la parte quinta dell’antologia di Glen Sorestad, Dancing Birches, in via di edizione . Si tratta di una sequenza dedicata a Ernest Hemingway. Mano mano seguiranno le altre. [E. A.]
HEMINGWAY & HAVANA
Every man’s life ends the same way. It is only the details of how he lived and how he died that distinguish one man from another. Ernest Hemingway
La sorella stava ferma davanti allo specchio della camera si girava con calma ammirava la ruota della gonna colorata la gonna dell’abito della gran festa, intanto si accarezzava il corpetto. Chiese alla sorellina se era bello se le stava bene. Rispose sì soltanto sì e si voltò nel suo letto per aiutare il sonno a prenderla e portarla con sé.
Immaginate una larga cornice rettangolare, come lo schermo di un cinema. Immaginate che sia una finestra spalancata, da cui entrano la luce e l’aria. Non si può chiuderla, altrimenti si morirebbe soffocati, nelle tenebre più fitte, anzi, non si nascerebbe nemmeno. D’altra parte è collocata troppo in alto. Ma a voi che cosa importa? È sempre stata così, a nessuno è mai venuto in mente di arrampicarsi fin lassù per vedere oltre. Tanto non è veramente una finestra. Capita perfino che vi dimentichiate della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa. Un giorno commettete un errore. Non un errore qualsiasi, però. Tutti sbagliamo, a questo mondo, e sappiamo che alcuni dei nostri sbagli comportano determinate conseguenze. Ebbene, l’errore che avete appena commesso vi costa un castigo oltremodo bizzarro: in qualche maniera vi portano all’altezza di quella cornice rettangolare, vi incatenano, e vi costringono ad affacciarvi e a guardare per bene al di là della finestra. E lì, sotto i vostri occhi, dispiegata come un’immensa carta geografica, vi appare la vostra mente, il vostro cervello, con tutti i suoi più segreti recessi illuminati senza pietà da un faretto di scena. Immaginate una cosa simile. Non avreste paura di precipitare? Non precipitereste dentro voi stessi? Continua la lettura di Il terzo film→
Mary Ann. Che splendido nome!
Quando ti ho vista, prima volta,
non ho saputo che pensare. Il tuo
caschetto! Nero me lo ricordo, Continua la lettura di Mary Ann→
Da molto tempo ormai Frisco era alla finestra osservando il cielo terso, stellato, senza Luna che disturbasse con il suo ambiguo chiarore la vista di quella silenziosa fissità. Frisco in effetti pensò che una Luna piena fa intravedere, con molte ombre e inganni, il paesaggio terrestre rendendolo più accattivante e dolce nel suo parziale e fluido nascondersi; la sua luminosità incerta cela invece gran parte di quel poco che l’occhio umano è in grado di scorgere quando si alza verso il cielo. Dopo questa non proprio profonda riflessione, Frisco si accinse a chiudere la finestra per ridarsi ai triti riti della sera in una casa come tante altre. Continua la lettura di Il pensiero di Frisco→