Una nota su “Ars Poetica” (1957) di Czesław Milosz
Continua la lettura di Lavorando a “Nei dintorni di Franco Fortini” (2)
di Ennio Abate
Su Disobbedienze
Sui futuristi
3. Essendo prevalsa con la Prima Guerra Modiae la faccia distruttrice e dominatrice del Capitale, quella esaltata dai futuristi italiani e marinettiani, e avendo visto che anche quella dei futuristi russi o di Gramsci fu proletaria e socialista solo nella Russia di Lenin del 1917 e davvero per poco tempo, si possono alimentare, a Novecento concluso, ancora speranze su una modernizzazione «buona» o «dal basso» (o pensare a dei futurismi buoni e dal basso), tipo quelle diffuse tra i primi gruppi operai torinesi raccolti attorno a «l’Ordine nuovo» di Gramsci?
Direi di no. Ed ecco perché tra un Sanguineti, che si attesta sul giovane Gramsci «movimentista» o sul Majakovskij antimperialista o sull’anarchismo Dada e un Fortini che tiene conto del Lukács de «La distruzione della ragione» mi pare più attuale e interessante il giudizio radicalmente negativo che Fortini dà non solo del futurismo italiano ma di tutte le avanguardie del primo Novecento (l’espressionismo, il futurismo russo, il surrealismo), perché indica il limite nichilista di fondo di tutti questi movimenti in cui almeno una parte della piccola borghesia intellettuale ,anche quando non fa la scelta bellicista e poi fascista dei futuristi italiani, con la sua esaltazione acritica e neutra del “nuovo” a tutti i costi si brucia o confluisce nella incessante “rivoluzione capitalistica”.
Fortini, infatti, coglie i gravi equivoci in cui incapparono sia l’avanguardia russa che i surrealisti, quando ebbero legami «molto complessi e talvolta tragici e sanguinosi» con anche con la rivoluzione socialista.
Majakovskij e l’avanguardia russa degli anni Venti, Brecht e una parte degli scrittori tedeschi dell’età di Weimar, i surrealisti francesi fra il 1925 e il 1935 e pure la neoavanguardia italiana degli anni ‘60 del Novecento «dimostrano che l’arte e la letteratura d’avanguardia esistono solo in quanto antagoniste di qualsiasi ordine» ma si ritrovano poi spiazzati o inerti quando o il fascismo o lo stalinismo o il neocapitalismo impongono loro il “ritorno all’ordine”.
di Ennio Abate
Voglio commentare questo passo della lettera di Attilio Mangano a Giuseppe Muraca del 1 ottobre 1992 traendola dal carteggio pubblicato qui:
«Potrei definirmi un fortiniano come te e Ennio, ho avuto anche io un culto particolare per la sua lezione, solo che – come forse ti ho spiegato, ho costruito degli anticorpi precisi: in primo luogo, anche se questo può presentare aspetti nevrotici e mitici da criticare, io ho separato il mio culto per il suo scritto dalla persona, mi sono attentamente rifiutato di conoscere il mio legame “segreto” e per il resto sapevo che il personaggio era così difficile e spigoloso, permaloso e impossibile, da preferire non incontrarlo e non incazzarmici. Certo, è come se uno avesse amato in segreto una donna senza mai dirglielo e capisco le obiezioni e le ironie legittime su tutto ciò. Ma in fin dei conti tutto ciò mi ha “salvato” da crisi e delusioni particolari perché ha consentito un doppio legame; di amore e di distanza critica. Io non ho mai accettato in toto il suo discorso, tanto meno il suo rapporto come dire lukacsiano sulla grande letteratura e la sua distanza dalle avanguardie, sono sempre stato schierato con gli avanguardismi, adoro il surrealismo e la sua storia cultural-politica, prediligo le minoranze. La mia critica della modernità, pur non condividendo l’impianto del pensiero debole e del post-moderno, recupera le culture pre-moderne eretiche e perdenti, il nomadismo delle culture disperse, sono dunque per una specie di koinè, per il melting pot delle culture, le differenze, gli zingari, gli ebrei, le streghe. E pertanto la classicità statuaria che Fortini costruisce e il fatto di cogliervi dentro e sotto un marxismo tutto speciale non mi sta bene, etc. etc. Da questo punto di vista vorrei dire senza cattiveria alcuna che la scoperta di Ennio del suo meridionalismo, marginalismo etc. era ora che venisse fuori, anche se certo tutto ciò è debole e contraddittorio e potrebbe essere facilmente stroncato dal super-padre. Il marxismo della triade Fortini-Asor Rosa-Luperini non mi convince più e non mi seduce in nessuna delle tre diverse varianti ma qui il discorso si complica perché la mia stessa evoluzione è in corso e non so definirla del tutto, sai comunque che questa scelta dell’immaginario comporta rotture con il marxismo e che in fin dei conti tutti e tre i citati con motivi diversi finiscono per escluderla o farla rientrare nel rivoluzionarismo piccolo-borghese, nel neo decadentismo o altro. A me sembra infine che pur essendo padri putativi della nuova sinistra i Fortini come anche i Luperini non si siano mai misurati con alcuni aspetti fondanti della “cultura del ‘68”, con l’intreccio di culture di massa, controculture, pratiche della soggettività che agiscono nell’immaginario del movimento; a suo tempo almeno Leonetti con “Che fare” apriva ai beats e all’antipsichiatria (ma anche Stalin.., non dimentichiamolo). Per me la differenza rimane questa: che tra “Alfabeta” e “Indice”, pur non condividendo nessuno dei due, trovavo il primo pieno di stimoli e di suggestioni e comunque disposto a traversare il post-moderno, il secondo noiosissimo e snob nel senso del gruppo torinese.»
Non saprei se ero o sono stato fortiniano. Forse lo sono stato ma non in senso stretto: da discepolo che ha avuto il privilegio (e l’onere) di una frequentazione assidua e di un dialogo non occasionale con lui. Sono rimasto “nei dintorni di FF”, che è il titolo indicativo del libro che dovrei pubblicare. E per tante ragioni, su cui ora non mi soffermo. Ma la definizione che di lui ho spesso dato di “maestro a distanza” in parte si avvicina all’atteggiamento (edipico?) che qui Attilio dichiarava nei confronti di Fortini. Per cui sentiva il bisogno di costruirsi «degli anticorpi precisi» per tenere a bada gli «aspetti nevrotici e mitici» che la figura paterna e “resistenziale” di Fortini gli suscitava. Credo sia un atteggiamento “generazionale” di tanti altri, allora giovani.
A differenza di Attilio, però, pur avendo avuto notizie che «il personaggio «[fosse] così difficile e spigoloso, permaloso e impossibile», io lo avvicinai e lo frequentai nell’ultimo decennio della sua vita. Sia pur saltuariamente; e sempre subordinando il legame personale ad occasioni e ragioni di carattere politico-culturale. E gestendomi – come ho raccontato in «Un “filo” tra Milano e Cologno Monzese» (qui) – i momenti di cordialità e collaborazione e quelli di incomprensione o delusione.
Perché, invece, Attilio preferì non incontrarlo per non “incazzarsi” (o urtarsi) con lui e amarlo «in segreto senza mai dirglielo»? C’è davvero da credergli quando diceva che «in fin dei conti tutto ciò mi ha “salvato” da crisi e delusioni particolari perché ha consentito un doppio legame; di amore e di distanza critica»?
Non saprei rispondere con sicurezza a queste domande che riguardano i suoi sentimenti più intimi con la figura pubblica e l’immagine che aveva di Fortini.
Mi pare, però, che una ragione ben più evidente della sua “preferenza” la indicava lui stesso svelando il suo dissenso con il tipo di cultura marxista e comunista di Fortini («non ho mai accettato in toto il suo discorso, tanto meno il suo rapporto come dire lukacsiano sulla grande letteratura e la sua distanza dalle avanguardie, sono sempre stato schierato con gli avanguardismi, adoro il surrealismo e la sua storia cultural-politica, prediligo le minoranze») e il fascino che ebbero su di lui le culture pre-moderne,e perdenti, il nomadismo, il melting pot delle culture.
Si era nel 1992 e Attilio sapeva, anche se lo diceva in una lettera privata all’amico Muraca, che la scelta fatta agli inizi degli anni Ottanta assieme al suo maestro Stefano Merli di apertura e avvicinamento al PSI craxiano (qui) e l’indirizzo della sua ricerca andavano in altra direzione rispetto a quella di Fortini («questa scelta dell’immaginario comporta rotture con il marxismo»). E anche alle mie posizioni. Come avemmo modo di dirci nella nostra corrispondenza (qui) e nel confronto sugli avvenimenti, pur mantenendo un legame “fraterno”(in quegli anni insegnavamo nella stessa scuola e tentammo in vari modi di mantenere aperta una qualche collaborazione tra noi).
Non sapevo, invece, di questa opinione/interpretazione di Attilio sul mio legame con il Sud: «la scoperta di Ennio del suo meridionalismo, marginalismo etc. era ora che venisse fuori, anche se certo tutto ciò è debole e contraddittorio e potrebbe essere facilmente stroncato dal super-padre». Ma ancora mi colpisce quel suo timore di una possibile stroncatura dal super-padre.
Che dire oggi?
Concluderei con quanto ho di recente scritto ad un altro amico su queti stessi argomenti:
«Delusioni e ferite ne abbiamo tutti e si può soltanto rielaborarle nel tempo – pensandoci o scrivendone o parlandone – in una sorta di corpo a corpo emotivo-intellettuale con i nostri fantasmi (paterni, in questo caso). Ma in fondo, con e malgrado Fortini, il nostro percorso l’abbiamo fatto.
Aggiungerei un’altra cosa: accanto agli aspetti psicologici, che non ho mai sottovaluto (e ho ritrovato con particolare intensità nei rapporti di Fortini con Fachinelli e con Ranchetti, su cui mi sono più documentato), mi chiedo spesso quanto abbiano pesato – e non in modi meccanici – le differenze di status tra un intellettuale tutto sommato tradizionale come Fortini e degli intellettuali di massa come Mangano o te o me (vedi alcuni accenni in Il professor FF 3). E quanto ancora più il venir meno della prospettiva del comunismo, entro la quale era cresciuta la mia attenzione nei confronti di Fortini, Luperini, Cataldi, etc.».
Per un libro da scrivere
di Ennio Abate
Terza parte
1.
Nel clima agitato del ’68 era facile tagliare con l’accetta, non avendo il bisturi. A me, nei due scritti di Fachinelli e Fortini, fu difficile distinguere distanze, contrapposizioni o concordanze tra le loro posizioni. O capire a quali dimensioni sociali e politiche diverse – cosmopolite o internazionaliste? – si richiamavano.
Nei decenni successivi, smorzatosi prima il movimento e dispersasi poi, con la tragedia dell’uccisione di Aldo Moro nel 1978, anche la nuova sinistra, sono spesso tornato a riflettere su quelle loro parole.
A rileggerli, i due saggi mi sono parsi frontalmente opposti già nei titoli: quello che per Fachinelli era centrale (il desiderio), per Fortini era soltanto un «benefico fall-out» [ricaduta], un evangelico «sovrappiù».i
Forse vale ancora la pena di riassumere i punti di contrasto.
Per Fachinelli era riemersa anche in Italia una giovanile e inappagabile tensione, che avrebbe dovuto allenarsi al continuo rifiuto di ogni rappresentanza partitica – (i giovani avrebbero dovuto prendere le decisioni sempre in comune e accettare solo leader provvisori) – e opporre al nemico «un perenne NON BASTA», erodendone il potere repressivo delle Istituzioni con una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio, che si estende dal “sogno”, all’”astrattezza”, fino all’agire “folle” e “fuori delle regole».ii
Per Fortini un tale atteggiamento era romanticismo (negativo), niccianesimo, da respingere e non mescolare con Marx o Lenin, per non precipitare nella «volenterosa Negazione della Negazione» (Hegel) o subordinarsi ai «tenebrosi Geni della Distruzione e dell’Odio».
Fachinelli parlava di un recupero dell’infanziaiii contro il rischio di addomesticamento del movimento e vedeva i giovani «sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe».
Fortini, invece, chiedeva al movimento degli studenti di riallacciarsi al passato della storia socialista rivoluzionaria, che gli pareva potesse, a certe condizioni,iv rivivere. E, però, doveva riconoscere che nell’immediato erano «più vicini agli utopisti che a Lenin»;v e, di conseguenza, più alla sensibilità di Fachinelli che ai suoi ragionamenti da marxista.vi
Insomma, Fachinelli voleva avanzare senza caricarsi mai più sulle spalle il vecchio Anchise (di sinistra, marxista) e muoversi in compagnia di Nietzsche e Freud. Fortini si aspettava che fossero gli studenti – gli intellettuali di massa – a caricarsi sulle spalle l’Anchise cristiano-comunista, che egli ed altri s’era portati appresso durante la loro esperienza di militanti comunisti e socialisti del secondo dopoguerra.
La contrapposizione fra Fachinelli e Fortini non era occasionale. O limitata all’interpretazione del movimento giovanile/studentesco del ’68. Anche le loro letture della cultura del passato, in parte comune ad entrambi, perché si riferivano entrambi a Brecht, Benjamin o Adorno, erano diverse e in parte contrapposte. E, infatti, nel settembre 1976, la prima iniziativa della neonata casa editrice L’erba voglio diretta da Fachinelli fu la pubblicazione, con il titolo provocatorio di Minima imMoralia, degli aforismi mancanti nell’edizione italiana curata da Renato Solmi per Einaudi nel 1954 ei Minima Moralia (Cfr. https://www.poliscritture.it/2021/08/20/minima-immoralia/).
Ho pensato spesso di poter far risalire lo scontro tra i due a quello tra la corrente calda e la corrente fredda della storia del movimento operaio intravisto ai suoi tempi da Ernst Bloch.vii
Erano proprio due visioni contrapposte. Entrambe “militanti”. E una medesima speranza veniva forse declinata in quei modi diversi e contrapposti. Con delle inevitabili forzature in senso più indeterminato e libertario da parte di Fachinelli e in senso molto (o troppo?) determinato e leninista da parte di Fortini. Ma poi, intervenuta la sconfitta per entrambe le loro posizioni mi hanno sempre particolarmente colpito sia l’episodio del «diverbio» tra Fachinelli e Fortini, che nel 1986 il secondo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali»,viii e sia il suo successivo rammarico per le sue «inadempienze verso persone a cui s’è voluto bene e con le quali non si è stati abbastanza umani, abbastanza affettuosi, abbastanza pieni di amore» (Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, 2003, pag. 700) o l’elogio di Fachinelli al momento della morte.ix
2.
Quando partecipai al movimento studentesco del ’68, la mia infarinatura liceale di niccianesimo o romanticismo giovanile s’era esaurita a contatto con la realtà sociale di Milano e della periferia e la mia partecipazione all’occupazione della Statale non la ridestò né me la rese di nuovo attraente.
Avevo allora pochi rapporti con quel tipo di giovani o studenti che dirigevano assemblee e manifestazioni e viaggiavano o avevano amici e relazioni in altri paesi. E se il movimento era composito e fatto di vari pezzi, io non ero in quel pezzo più libertario che entusiasmòvforse Fachinelli. Alla vigilia dell’occupazione della Statale avevo intessuto legami soprattutto con quelli che facevano parte del pezzo che parlava di lotta di classe, di classe operaia e lavorava nelle fabbriche o guardava alle fabbriche. Forse Fachinelli quel mondo giovanile medio-alto borghese lo conosceva da vicino e ne coglieva meglio di Fortini la dimensione mondiale americanizzante.
Era la mia stessa condizione di studente lavoratore proletarizzato che faceva da schermo respingente verso quel desiderio dissidente teorizzato con tanto entusiasmo da Fachinelli. Fu per questo che il suo discorso mi arrivò attutito. Poi, con la scelta di militanza in Avanguardia Operaia, gli scritti sia di Fachinelli che di Fortini come di altri autori dei Quaderni Piacentini o di altre rivist del tempo andarono in secondo piano. Rimasero per me letture personali, altra cosa dal discorso che m’impegnava coi compagni di Avanguardia Operaia, da tenere per me, sapendo quanto fossero sospettosi verso letteratura, psicanalisi e ogni interesse culturale non strettamente politico.
Nei quasi 10 anni successivi al 1968, gli scritti di Fachinelli li lessi con più distacco rispetto a quelli di Fortini, che leggevo su “il manifesto” e mi parevano confermassero o non si allontanassero troppo dalla mia esperienza di allora – di militante di Avanguardia Operaia, lavoratore studente, immigrato, vita in periferia e pochi soldi.
Entrambi mi tornarono a parlare, dai loro libri, anni dopo ma in periodi diversi. Fortini dopo la fine della mia esperienza politica in Avanguardia Operaia, verso la fine degli anni ’70 e in particolare dal 1977, dopo la lettura di Questioni di frontiera. Fachinelli, che non ho mai conosciuto di persona – l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988,alla Casa della Cultura di Milano tra il pubblico durante una conferenza di Sergio Bologna sui Verdi tedeschi – e di cui avevo poi sentito parlare spesso da Giancarlo Majorino, tornò nella mia riflessione molto più tardi, alla fine degli anni ’80, quando la mia crisi, da politica, tornò ad essere esistenziale e familiare. Fu allora che lessi Il bambino dalle uova d’oro e La mente estatica. A Milano nel 1998 seguii il convegno sulla sua figura e la sua opera(qui) e mi parve che l’aspetto politico-sociale,che più poteva averlo avvicinato e messo anche in urto con Fortini, venisse cancellato:«il Fachinelli dissidente, un Sansone della contestazione, è morto con tutti i “filistei” e i “padri” dell’Ideologia (marxista o psicanalitica) operanti in quegli anni; e resta un Fachinelli “New Age” o “fach/iro”, orientaleggiante, estaticamente contemplativo magari del futurismo Internet o delle Origini maternali».
3.
Ma Fachinelli – mi chiesi più tardi – era poi un ingenuo esaltatore di quella marea desiderante? Dal suo saggio del 1968 avrò avuto quell’impressione. Ma quando, sempre alla fine degli anni ’80 arrivai a leggere Cosa chiede Edipo alla Sfinge sul numero 40 (aprile 1970) dei Quaderni piacentini mi accorsi dell’errore di avergli attribuito un certo roussovismo.
Nelle mie successive riflessioni ho accantonato ogni velleità di trovare una risposta alla questione del rapporto fra marxismo e psicanalisi o sulla scientificità o meno della psicanalisi. E ho abbandonato anche il dilemma se si dovesse scegliere tra i due orientamenti o tra le posizioni di Fachinelli e quelle di Fortini.
Oggi poi che rileggo i loro scritti, sapendo che le ipotesi affacciatesi nelle loro menti in quell’anno di speranze sono orami sconfitte e svanite, quali domande potrei ancora farmi su entrambi?
Non mi pare che valga più la pena scervellarsi per stabilire chi tra i due avesse più ragione o fosse più proiettato nel futuro. E userei per entrambi la formula «Aveva torto e non avevo ragione» che usò Fortini nei confronti del suo fraterno antagonista Pasolini.
So che valgono poco le mie impressioni su l’uno o l’altro. O ricordare – a chi poi? e con quale scopo oggi? – che Fortini mi è potuto apparire “più concreto” di Fachinelli. Subito dopo mi dovrei correggere, pensando che lo fu anche Fachinelli, se aveva posto il problema di allargare il “pubblico della psicanalisi” agli esclusi, ai proletari; e se aveva partecipato attivamente all’esperienza dell’Erba voglio e dell’asilo autogestito di Corso Ticinese a Milano.
Meglio, perciò, continuare a leggerli. E difendere, e salvare sia la lezione di Fortini, alla quale mi sono sentito più vicino per le ragioni che detto, e sia quella di Fachinelli. E a non mollare l’antipatia per molti dei rispettivi apologeti o discepoli più accreditati che oggi ne gestiscono l’immagine pubblica (qui).
Nella riflessione di entrambi entrava, assieme al “carattere” e alle “ideologie” in conflitto, il reale e non la sua attuale versione amputata e caricaturale. Troveremmo perciò, in entrambi, una capacità oggi persa di nominare molto più da vicino le sofferenze individuali e collettive.
E allora? Concludo riproponendo quanto scrivevo in quel lontano 1998: «Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era più visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo».
(Fine)
Note
i "Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù" (Mt. 6;33) ii Quando Fachinelli scriveva:« il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio” » aveva una forte spinta utopistica ad individuare nel movimento per lui dei giovani una apertura, un possibile..ma non si poneva affatto il problema di riuscire a condensarla politicamente. Anzi vedeva proprio questo come un rischio di chiusura… di burocratizzazione… Più che limitarsi, puntava tutto sulla dissidenza, sulla contestazione, sulla possibilità che il movimento mettesse «in causa i modi tradizionali di concepire e fare politica» o mirava verso bersagli più lontani delle vecchie figure di autorità (gli uomini che si dicono di ferro, che parlano più forte, che minacciano la morte nucleare)». Bisognava che il movimento fosse antiautoritario sempre, che mai si “sporcasse” con il problema dell’autorità (o del partito) iiiFachinelli sottolineava quanto sia importante il ricordo: «La vera misura della vita è il ricordo»,... al contrario di Proust Benjamin non fugge il futuro, ma lo ritrova in quelle esperienze infantili dove esso germinava, per essere poi sepolto nel presente»Fachinelli parla di «sensibilità acuta e delicata su cui si è retto, io credo, il rapporto con lui [Benjamin] dei “sessantottini”» Fachinelli...L’infanzia vi appariva come un’estasi: «Straordinaria capacità [...] di demolire in un attimo ogni fissità funzionale degli oggetti e delle situazioni. Tutto è preso, cambiato, lasciato in una rapida corsa”. L’analista non dovrebbe imparare dall’estasi dell’infanzia? Non dovrebbe “recuperare e praticare il gesto infantile del gioco”? L’infanzia non è più solo una tappa della nostra vita destinata a essere superata dalla sua maturazione stadiale, bensì una risorsa costantemente presente. Essa non coincide con quella perversa-polimorfa del bambino freudiano, né con quella infernale – schizoparanoica – del bambino kleiniano, né, infine, con il “corpo in frammenti” del bambino lacaniano. L’infanzia gli appare piuttosto come un luogo benjaminiano, una fonte inesauribile di possibilità, una promessa del futuro: È il segreto che abita l’ottimismo di chi corre incontro alla vita senza riserve e senza paura. Si tratta per Fachinelli di un “modello totale di felicità” (Cfr. https://www.poliscritture.it/2022/06/22/su-fachinelli-appunti-di-lettura/#_ednref4) Su questa tematica andrebbe ricordato anche un articolo di Paolo Virno, “Il linguaggio in mezzo al guado” sul numero 2, Gennaio 1991 di Luogo comune. (Cfr. https://archivioautonomia.it/fondo-deriveapprodi/la-rivista-luogo-comune/) iv Non vedo troppa differenza tra un Fortini, che nel suo saggio non esitava ad abbandonarsi ad un ipotetico e speranzoso “se…”: «Se la richiesta etica si fosse misurata alla realtà dei rapporti di classe, gioia, integrità e autenticità sarebbero facilmente apparse, come sono, beni non individuali che si realizzano solo nell’azione comune per una meta», e un Fachinelli, che vedeva il movimento « sgusciare verso qualcosa di nuovo, qualcosa che è per forza ancora informe» ma appunto questo informe non poteva dire in cosa consistesse e d era ipotetico…. Fortini era come se dicesse da pedante o da saggio più consapevole della storia e della forza di resistenza del potere: se questi giovani avessero studiato la storia, che i partiti non sono stati in grado di passargli, capirebbero quanto è vano o errata l’interpretazione del movimento data da Fachinelli,che sostiene che esso: «sembra sgusciare verso qualcosa di nuovo», «qualcosa che è per forza ancora informe». Fachinelli difendeva quell’ informe senza poter dire in cosa consistesse. Ma non dovette poi accorgersi di quanto fosse impraticabile quell’antiautoritarismo perenne? Ed, infatti, già nell’articolo«Gruppo chiuso o gruppo aperto?» in "Quaderni piacentini", n.36, novembre 1968 (https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/11/ennio-abate-riflessione-di-un.html) capisce l’autodistruttività di certe spinte “libertarie”. v Un’eco di questo schema interpretativo lo ritroviamo più tardi nel 1977 quando parlò dell’Autonomia. Anche in quel caso Fortini sottolineerà che l’”Autonomia”, vedendo l’organizzazione come «una trappola» ( un po’ come Fachinelli nel 1968) e rifiutando «un programma, un comitato, una sede», volendo «coincidere col «movimento», pronunciava ancora una volta la verità, ma «con le parole dell’errore». (Cfr,https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/) vi Ha scritto poi un’amica femminista: «Fortini si richiamava a un rapporto tra insurrezione e partito che non esisterà … che non si realizzerà e si potrebbe dire che viveva in un pensiero dell’autorità che non poteva più affermarsi » (Fischer) vii «Bloch parla di speranza concreta o di utopia concreta volendo dire due cose: da un lato che l'utopia, la speranza, l'attesa di un mondo migliore, non possono essere affidate soltanto alla "corrente fredda", cioè all'idea che la razionalità si faccia spazio da sola. Non basta, infatti, enunciare una cosa vera perché questa cosa vera penetri nella testa degli uomini. D'altro lato Bloch cerca di temperare questa "corrente fredda" con una "corrente calda", cioè non basta mobilitare gli uomini per raggiungere certi effetti, per credere che questa mobilitazione vada in una direzione accettabile. 3. Può spiegare la differenza tra la "corrente calda" e la "corrente fredda", anche in relazione al marxismo? L'esempio che fa è quello del nazionalsocialismo, che Bloch definisce un "giacobinismo del mito". È importante un aneddoto che Bloch racconta: nel 1933, poco prima dell'avvento del nazionalsocialismo, ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino tra un rappresentante del partito comunista tedesco e un rappresentante nazista. Il comunista entra e comincia a spiegare la caduta tendenziale del saggio di profitto secondo Marx, la gente non capisce niente, e queste verità non fanno presa. Arriva invece il nazista che comincia a parlare in termini mitici della pugnalata alle spalle che gli ebrei e i demoplutocrati hanno dato al popolo tedesco, fa dei discorsi che hanno una grande presa emotiva, usa termini come patria, casa, quelle forme cioè di richiamo all'identità delle persone ed esce tra le ovazioni di tutti. Ora, per Bloch il punto, e forse anche per noi, è quello di capire che non si può staccare la razionalità dagli affetti, ma che non si può avere una pura razionalità, un socratismo, per cui basti enunciare il vero perché il vero si raggiunga, né si può avere, come nel caso del nazionalsocialismo, una pura mobilitazione basata su problematiche irrazionali.» (da Remo Bodei, Bloch e il principio speranza, https://www.sitocomunista.it/marxismo/altri/bloch.html viii A pag. 229 di “Non solo oggi” (Editori Riuniti 1991):«Rammento che nel maggio 1968 ebbi una discussione anzi un diverbio con Elvio Fachinelli a proposito della interpretazione di quanto nelle università e per le vie in quel momento accadeva. In un saggio che avrebbe allora pubblicato, Fachinelli poneva in evidenza, o almeno mi parve, che quei gruppi di adolescenti vivevano sé medesimi come secessionisti dalla società adulta e come chi rifiuta la successione, in violenta difesa della propria purezza. Non senza ovvie risonanze omosessuali, essi consumavano quel momento come liberazione nella fraternità e rifiuto inorridito del compromesso e della mediazione. Insieme a considerazioni di opportunità politica, gli opponevo quel che allora venivo svolgendo in un mio scritto, intitolato e non a caso, Il dissenso e l’autorità: che cioè si sarebbe dovuto guardare ai caratteri di classe del fenomeno e tentare una lettura sociologico-storica prima che psicologica o psicanalitica; e non considerare quindi soltanto i figli di un ceto economicamente e culturalmente dirigente ma le condizioni affatto diverse di chi da poco tempo era approdato alle università da istituti professionali o magistrali o tecnici (che conoscevo bene), carne di cannone sul campo di battaglia della esistenza. Dieci anni più tardi avrei potuto constatare come tutti e due avessimo avuto torto: la purezza omicida e suicida si sarebbe coniugata con l’accettazione della mitologia neoliberista, scientista, efficientista; la rivolta dei figli degli oppressi e degli sfruttati sarebbe stata calpestata nella recessione (falsa o vera), nella disoccupazione e nelle fantasmagorie della spazzatura culturale di massa». ixPag 557 di Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994 (Bollati Boringhieri 2003): «Ma di Elvio Fachinelli ricordo anche lo straordinario lavoro fatto con “L’erba voglio”, ricordo un bellissimo saggio, pubblicato sulla rivista “Il corpo”, che faceva con Giancarlo Majorino, sulla denegazione. Ho in mente anche,la straordinaria qualità della sua scrittura. Sapeva scrivere, sì. Sapeva anche tacere, sapeva come e perché tacere. Elvio Fachinelli appartiene a quel novero di persone senza le quali non è pensabile una storia degli anni ‘67-77.»
APPENDICE
Da Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri 2003 pagg. 556-557
Per un buon uso della ricerca di Lorenzo Tommasini su Fortini insegnante
di Velio Abati Continua la lettura di Su Fortini docente
Gli esercizi di lettura e gli altri interventi qui raccolti sono stati realizzati in un lungo arco di tempo che va dal febbraio1995 al gennaio 2024. Essi rappresentano la testimonianza di un intenso colloquio con l’opera di un poeta e saggista fra i più importanti del secondo Novecento letterario italiano.
(dalla PREFAZIONE di Donato Salzarulo a IL GATTO DI FORTINI, prima edizione agosto 2024)
Continua la lettura di Donato Salzarulo
di Ennio Abate
Questo quarto capitolo tiene conto di due accurate ricerche pubblicate di recente: quella di Lorenzo Tommasini, “Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università” (qui): e quella di Chiara Trebaiocchi, “Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini” (qui). In esse ho trovato notizie importanti e da me finora ignorate sul periodo in cui Fortini è stato insegnante. La lettura delle due tesi mi ha offerto spunti per ragionare su alcune contraddizioni che a me pare di cogliere nel rapporto di Fortini con gli intellettuali. Ne approfondirò le implicazioni nel prossimo capitolo 5 e – spero – nel libro “Nei dintorni di Franco Fortini” a cui sto lavorando. Continua la lettura di Il professor Franco Fortini (4)
di Ennio Abate Continua la lettura di Il professor Franco Fortini (3)
di Ennio Abate
Tra le testimonianze interessanti di “Allora comincerò…” ci sono quelle – di Franco Romanò, che già conoscevo, di Paolo Lacchini o di Paolo Massari – che, oltre a riportare i ricordi personali, fanno capire il ripensamento nel tempo da parte degli autori del loro incontro con Fortini. Altre sembrano genericamente elogiative: è il caso di “Un ricordo” di Angelo Branduardi. Mentre vanno lette con attenzione quelle di Broccaioli, Caporali, D’Angelo, Piombini, Schliksup (e, ancora, di Romanò). In esse si nota un certo distanziamento o persino una ostilità più o meno dichiarata verso Fortini. Pur ripetendo vecchi cliché, a volte contengono elementi di verità di solito taciuti o poco indagati da quanti studiano la biografia e l’opera di Fortini. E, perciò, se esaminate e approfondite criticamente e non trattate come pettegolezzi, potrebbero contribuire a delineare un’immagine di Fortini non monumentalizzata, non accademicamente imbalsamata o scostante ma viva, magari anche più contraddittoria ma più vicina a noi che oggi viviamo bruttissimi tempi di crisi.
Vorrei qui, In particolare, accennare almeno a due problemi che mi ha posto la lettura della testimonianza di Ezia Pozzini, la studentessa che ricevette una “famosa” Lettera di Fortini del 20 maggio 1969 oggi ripubblicata in “Allora comincerò…” e l’interpretazione della medesima che ne ha dato Donatello Santarone nella postfazione al libretto.
Ho trovato sconcertante e inspiegabile che Ezia Pozzini, pur accennando ai suoi “molti ripensamenti” su quella Lettera, abbia deciso di non commentarla. O che si sia trincerata dietro una eccessiva modestia (“non è importante quello che posso dire io di Fortini insegnante. E’ importante “la lettera””, 51) e appellata all’immaginazione dei lettori ( “Lascio a ognuno immaginare che cosa abbia rappresentato per me ricevere quella lettera”).
Non conosco Ezia Pozzini né il suo percorso di vita e sono pronto a correggere le impressioni che sto per scrivere, ma, se provo io ad immaginare cosa abbia rappresentato per lei quella Lettera, credo di non sbagliare troppo affermando che non ebbe su di lei un effetto positivo. Temo, anzi, che dovette essere una mazzata, da cui ancora non si è ripresa. Per cui ipotizzo imbarazzi o reticenze di lunga data.
Nella interpretazione della Lettera data da Donatello Santarone nella postfazione, invece, vedo una mitizzazione del Fortini insegnante ed educatore. Santarone considera la Lettera “un esempio eloquente della concezione educativa di Fortini” (119). Sarà, ma a me pare di vedere un passo falso di Fortini, una forzatura e una prova della “insensibilità psicologica” a cui ogni forma di militanza – anche quella “necessaria” – ci costringe. [i]
Rileggendola, trovo che vi prevalga una difesa dottrinaria del rapporto gerarchico fra insegnante e studente e che Fortini enfatizzi troppo la funzione di guida dell’insegnante, mortificando o sottovalutando quella dello studente (in questo caso, della studentessa Ezia Pozzini). Mi pare anche che non colse il valore politico della domanda che lei gli pose in quel tema. (Domanda che di lì a poco divenne collettiva e fu sviluppata in modi potenti anche se discutibili dal femminismo allora in gestazione). Dubito, dunque, dell’attualità e bontà di quella concezione educativa di Fortini. [ii] E ritengo che non riuscì a trovare la mediazione necessaria tra teoria educativa e caso educativo concreto che allora si trovò di fronte. [iii]
(continua)
Note
[i] E' quasi d’obbligo, trattandosi di Fortini, richiamarsi al Brecht di “A coloro che verranno”: “Eppure lo sappiamo:/ anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso./ Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/ noi non si poté essere gentili." [ii] Ecco schematicamente le obiezioni che farei a Fortini se fosse vivo e potessi discutere davanti a lui di quella Lettera: 1. Fortini spostava su un piano politico e storico, e quasi senza mediazione, il problema “esistenziale” posto nella sua immediatezza dalla studentessa. E rimandava la soluzione a un futuro indefinito. Non le offriva, al momento, che una predica e la censura di quel bisogno. Sulla scia - si potrebbe dire - del Freud de il “Disagio della civiltà”. 2. In base a una somiglianza se non dubbia da precisare, assimilava quasi del tutto il rapporto “fra insegnante e scolaro” ad altri tipi di rapporti della nostra società capitalistica: quello “in una squadra di lavoro, in un esercito, in un gruppo politico”. 3. Dava valore esclusivamente all’”oggettività” (anch’essa, se non dubbia, molto problematica da fissare: in generale, ma di sicuro in un rapporto educativo): “Il terreno della comprensione e dell’affetto fra insegnante e scolaro è quello dell’oggettività”. (Dubito che comprensione e affetto, come Fortini sosteneva, “se nascono, nascono a causa dell’oggetto, in sua occasione. Non in sé..”. Non sempre accade questo). 4. Accantonava il possibile senso politico (per brevità diciamo pure utopistico) della richiesta di Ezia Pozzini. La vedeva come richiesta “privata” da subordinare all’oggettività. (O al “noi” della scuola o della politica). In quel 1969 un tale atteggiamento poteva essere giustificato. Forti erano ancora le attese di mutamento. Per cui ottimisticamente poteva pensare - come scrive nella Lettera - che “la parola “vita”, i pronomi “tuo” o “suo” e la nozione di “bene” stessero cambiando e fosse in costruzione la “fraternità del gruppo” che avrebbe riassorbiti quei “motivi privati”. 5. Non mi pare, però, che la richiesta della studentessa provenisse interamente “dall’anima” (come insiste a dire anche Santarone). Da quel che riporta Fortini all'inzio della Lettera, Ezia Pozzini chiedeva che almeno a scuola si creassero le condizioni per capirsi( “se non si riesce a capirsi a scuola..”, 53). Era, cioè, per un capirsi - intendo io - più ampio, più gerneroso di quello a cui l'Istituzione obbligava (ed obbliga). E questa fu una delle istanze più vigorose del movimento degli studenti di allora, che soltanto gli autoritari per vocazione classista (e non certo Fortini) si rifiutavano di riconoscere. Quindi, a me pare che reclamasse un’attenzione “quasi” già politica al “privato” (come faranno – ripeto - di lì a poco le femministe). 6. Fortini parlava da scrittore politico di lunga esperienza a una giovane e a dei ragazzi che probabilmente di politica non sapevano nulla o ben poco o non volevano saperne. E ipotizzo che Ezia Pozzini non poteva incuriosirsene o entusiasmarsene perché era aggrovigliata in oscuri ma per lei reali e impellenti desideri o paure. E tentava di chiarirsi i primi e di sfuggire alle seconde con l’aiuto di altri, sfruttando anche l’occasione che gli venne offerta dal tema.(Non so se si trattasse di un tema-inchiesta che Fortini proponeva in classe per capire meglio le esigenze dei suoi studenti). 7. La visione realistica di alcune affermazioni di Fortini (“un insegnante non è un padre, anche se lo somiglia; non è un innamorato, anche se dovrebbe averne il fervore e […] soprattutto non è un direttore di coscienza”, 53) è indubbia. Con grande convinzione e bruschezza egli richiamava, però, soltanto i dati “oggettivi”; e accettava di ridurre o limitare l’espansione dei “sentimenti” esclusivamente a quelli “che debbono sorgere […] dall’oggetto, ossia da quel che si vuol sapere o imparare, non “dall’anima”” (55). Si dirà: giusto, inevitabile. Ma quando o se un insegnante, un educatore, si trova di fronte ad un’anima di studente o studentessa forte e "selvaggia"? E se l’"oggetto" non corrisponde affatto alla condizione ideale a cui Fortini faceva riferimento (“è necessario che quanto s’impari c’importi”; “ se lo scambio della comprensione e dell’affetto è avvenuto, fra insegnante e studenti, al livello giusto (quello dell'opera comune e della reciproca responsabilità) non c’è più bisogno di un particolare interessamento o segno di affetto, perché si partecipa di un affetto e di un bene socializzati” (55)? 8. Di Fortini si può capire fino ad un certo punto la passione politico-pedagogica e quella implicita accettazione obtorto collo della “violenza” - mascherata o addolcita - insita in ogni rapporto educativo. Non deve sfuggire, però, che l’accettazione realistica del “disagio della civiltà” induce troppo spesso ad una mera sopportazione o adeguamento all’esistente (e, cioè, alla violenza più organizzata e prepotente degli altri). Specie quando un progetto politico più valido, nel quale “si partecipa di un affetto e di un bene socializzati” (55), non riesce a sorgere e si può avere soltanto la semplice e spesso sterile o distruttiva espressione anarchica del desiderio. 9. La Lettera è - a me pare - a senso unico. Il flusso comunicativo dall’insegnante (Fortini) alla studentessa (Pozzini) pare strabordante. E dopo la prima frase di lei, che Fortini cita all’inizio della sua Lettera, il flusso comunicativo di lei dov’è? Cosa disse o scrisse Ezia Pozzini dopo quella Lettera? Parlò ancora con Fortini o non parlò più di quelle sue “cose” e si assoggettò ai suoi richiami all”oggettività”? 10. Come valuterebbe oggi Fortini la decisione di Ezia Pozzini di non parlare – ancora adesso, a cinquantanni di distanza! - e di dare ancora la parola solo alla sua Lettera, e dunque a lui, al professore? Si tratta di un buon risultato pedagogico? O di un segno di sottomissione? 11. Non capisco come Fortini, che pur nel 1967 era stato così pronto a scrivere una “Difesa del cretino” (Cfr. Quaderni Piacentini, Anno VI - n. 29, gennaio 1967), non s’accorgesse che in questo caso, invece di aiutare Pozzini a chiarirsi almeno un po’ (per quel che era possibile!) i suoi irrisolti ma veri “problemi esistenziali”, li annegava o seppelliva con un rimando astratto a un futuro, che a lui – adulto e militante – poteva apparire chiaro e certo, ma che a lei probabilmente restò indeterminato. [iii] Caso che, però, non conosco nei dettagli. Quali erano, ad esempio, le condizioni di vita a cui si richiamava allora Ezia Pozzini? Perché non si sentiva voluta bene? (E solo dagli insegnanti?).