NOTE DI FINE ESTATE (9)
di Donato Salzarulo
Tra il 2008 e il 2009 nel Laboratorio Moltinpoesia i partecipanti si assegnarono il compito di spiegare perché scrivessero poesie. Io ne facevo parte e composi il testo che si può leggere di seguito. Il suo intento didascalico è evidente.
Scrivo poesie perché un giorno d’autunno del Sessanta tre comprai un quadernone e sul frontespizio scrissi “Canzoniere” (sottotitolo: “storia di un’anima”). Facile indovinare chi imitavo. Il problema è che l’anima dovevo inventarmela e quella che pensavo di avere era tutta recitata e letteraria: Omero, Quasimodo, Garcia Lorca, Ungaretti, Baudelaire, Pavese… Oh, quante voci dentro la mia voce! In certi momenti ho avuto paura di confezionarmi un destino da suicida come Noschese, se non sbaglio, o altri imitatori che soffrono di non sapere chi sono. Rileggendo ciò che andavo scrivendo, capivo che sulla pagina si depositava un altro Donato – per chi crede alle stelle sono nato sotto il segno dei Gemelli -, un Donato che manifestava una certa inclinazione alla teatralità, alla finzione, all’operetta: cantavo giovanette che mi conquistavano, m’infliggevo sofferenze amorose, piangevo le morti improvvise di uomini illustri del paese, la disperazione di madri che si ritrovavano figli spenti tra le braccia. Insomma, amore e morte e caterve di sciagure. “Gioire è cercare il dolore” recita un verso paradossale del quadernone. In ciò che andavo poetando c’era qualcosa di vero e sincero. Ma tanti esercizi, anche appassionati, somigliavano molto ai giochi simbolici dei bimbi. Ad una certa età la spalliera della sedia può farsi davvero volante di una macchina e il bastone diventare un cavallo col quale attraversare praterie sconfinate e combattere battaglie cruente. Un po’ dunque mi scoprivo l’inclinazione dell’attore, un po’ quella del bambino che sogna ad occhi aperti. Ma l’attore dispone di una grande riserva di personaggi da rifare: Achille, Romeo, Otello, Amleto… Il mio personaggio, invece, dovevo costruirmelo come Geppetto il suo burattino. Anche i miei sogni ad occhi aperti non potevano concludersi alla stregua di un bambino che, di solito, si stanca e cambia gioco. Dovevano produrre conquiste reali, avanzamenti. Dovevo sentire che le parole davvero penetrassero nel cuore di una donna e la inducessero ad abbracciarmi, a regalarmi un bacio. Se amava la mia poesia, se diceva che era bellissima, un po’ non poteva non amare anche il suo autore. Come se, cantando gli occhi ridenti e fuggitivi di una certa Silvia, prima o poi la Silvia vivente si facesse avanti a ringraziarmi per l’omaggio e a propormi suggestivi accoppiamenti. Quando scrivevo il Canzoniere era questo il mio problema più urgente, in preda sicuramente ad accumuli straordinari di ormoni. Non sognavo l’immortalità ma più modestamente cercavo di mettere le mani addosso a una fanciulla per inebriarmi del profumo dei limoni. «Belli questi versi!...» «Bellissimi!...» «Grazie…»” Da qui, da questa calda ammirazione, a venire a letto con me scorreva un Rubicone tempestoso e spesso non navigabile. Nessun dado è tratto. Avrei dovuto saperlo: se con la poesia cerchi amore, dieci volte su dieci, vai in bianco. Ecco cosa dovetti capire a mie spese. Sbagliavo, m’illudevo, deducevo male. Amore è potere. Sedurre l’altro, soggiogarlo. Scrivevo per piantare una quercia nei cuori. Forse perché, avendomi interdetto prestissimo il suo seno (era incinta di mio fratello), mia madre mi costrinse a cercare sostituti senza trovarne mai di completamente soddisfacenti. Scrivi poesie per un Edipo mal risolto, direbbe uno psicanalista, perché anche dopo un accoppiamento nel corpo vola alta l’inquietudine, la ricerca, la tensione. Belli e reali i seni succhiati ma sempre un po’ lontani da quelli ideali sognati. Amore è vivere come un rimbambito appeso al moto delle ciglia di uno sguardo. Fare festa alle visioni, alle apparizioni dell’amata. Conservare accuratamente la foto in qualche libro o nel portafoglio, stare dietro al profumo viola di una maglia, inseguire desideri assurdi del tipo: ascoltare la stessa musica, leggere lo stesso romanzo, pensare gli stessi pensieri, gioire delle stesse gioie, viaggiare negli stessi luoghi, dormire nello stesso letto e coire, coire…È il “sogno d’amore”. Le donne lo conoscono meglio degli uomini e io, a mia volta, scrivendo poesie, imparavo a conoscere la parte affidatami. So ancora ora mostrare entusiasmo vero per chi mi punta e mi tiene sulla linea di fuoco dello sguardo. Ma è l’entusiasmo di un attore, di una recita così ben fatta da sembrare naturale. Sono un egoista allora? Uno che non sa amare? No!... Semplicemente lo faccio in modo obliquo, per interposte parole. Come se tra me e le labbra da baciare ci fosse in mezzo un vetro immaginario. Ho la coscienza dell’attore, a differenza di chi bacia e pensa di porgermi in diretta le sue labbra, mentre sta solo eseguendo uno spartito. A fare l’amore si sa nel letto si è spesso più di due. Tutte queste complicazioni ovviamente le capivo solo scrivendo e soltanto scrivendo continuavo a cercarmi e a conquistarmi. Capivo, ad esempio, che ognuno di noi finisce per abitare i pensieri che formula, anche quando spuntano come nuvole provenienti non si sa da dove. Difficile che i pensieri si sciolgano come neve al sole. A maggior ragione i versi. Così mi porto dietro da decenni quel “gioire è cercare il dolore” senza sapere da quali zone del corpo è saltato fuori. (In quel periodo leggevo Baudelaire). Ecco perché scrivo poesie. Per continuare a scoprirmi. Per questo tipo di scrittura mi sono dato la regola di andare fino in fondo. Anche se, avendo scoperto che divento un po’ ciò che scrivo – è il noto “effetto Pigmalione” – sto attento a profezie che accelerano la morte già intenta a scavare nel mio corpo. Sfuggire alla tragedia è impossibile. Accelerarla, non mi pare il caso. Per questo, quando scoprii che scrivendo poesie sulle malattie di mia madre, mi educavo alla sua assenza e inconsapevolmente ne preparavo la morte, smisi subito di verseggiare. Poetai a lungo, invece, la condizione di un’amica affetta da un male inesorabile che di lì a poco l’avrebbe resa invisibile. Volevo portare con me la sua voce, il suo sguardo sul mondo. Volevo che non si perdessero le sue parole, che ne restasse memoria. Ecco un'altra ragione del mio scrivere. Inseguire persone, eventi, mondi che si perdono e sprofondano in abissi di silenzio. Non dimenticarne colori, atmosfere, sapori, allegrie, dolori. Non dimenticare me stesso, combattere il morbo d’Alzheimer che quotidianamente ci affligge. Poesia e identità, poesia e amore, poesia e profezia, poesia e memoria, poesia e verità…Tutte coppie per ottime occasioni seminariali, tutti sentieri che mi pare d’avere attraversato. Ora, però, scrivo poesie per altro. Oltre al già detto, sempre attivo nei neuroni, ora scrivo “per la gloria della lingua”, come dicevano i padri. Successo o non successo, la poesia non mi eviterà la morte. La lingua, invece, è la rosa di rossetto che rinnovo, l’atmosfera, il palco su cui provo e riprovo le parole. Ora le sento colorate dai toni della mia voce, le frasi raccontano la mia storia, i versi non temono la prosa del mondo. La lingua della poesia è la mia donna, quella amata più a lungo, la matria che mi sottrasse il seno. 15 gennaio 2009