1- Qualche nota a partire dal dibattito Rovelli-Sofri
L’intervento di Rovelli sulla pagina FB di Sofri (qui) ha un tono molto pacato ed anche accorato, esprime concetti e riflessioni che potremmo dire di grande buonsenso e largamente condivisibili anche da chi ha sensibilità diverse.
D’altro tono la risposta di Sofri (qui), assai elaborata, studiata ad arte direi. Continua la lettura di Stretti Perigliosi→
Arrivano ‘sti gruppi davanti alla Fiat: Lotta Continua, Potere Operaio e l’Unione dei comunisti guidata da Aldo Brandirali. Dopo un po’ Adriano Sofri trasforma la sua assemblea di studenti e operai nel gruppo di Lotta Continua. Ricordo anche Mario [Dalmaviva]. Con altri entrano nelle assemblee per tentare di fare dei gruppi di operai. Insomma, c’era una continua battaglia tra i vari gruppi per diventare più grandi e ogni gruppo tentava come poteva di procurarsi studenti e operai. In realtà, molti erano gli studenti ma pochi gli operai reclutati. E Sofri si procura anche quell’operaio, Leonardo Marino, che dopo tanti anni lo denuncerà come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi.
Nel ’69 c’è l’ultimo grande scontro tra operai e polizia in corso Traiano. Il sindacato indice uno sciopero generale che inizia di pomeriggio, alle 14. Gli operai formano subito dei grandi blocchi davanti alle porte della Fiat. Davanti ad una c’è un commissario di polizia (non ricordo più il nome), un provocatore. Ci gridava: «Allora, figli di puttana, vi rompiamo il culo subito o aspettiamo?». Iniziano gli scontri con le pietrate. Tutto il quartiere è coinvolto. Le bisarche che trasportavano le macchine Fiat vengono assalite dai manifestanti. Io vengo colpito al piede da un lacrimogeno. Come un cretino pensavo di fermarlo col piede. Insomma, alla fine vengo catturato e mi becco un sacco di manganellate paurose. Viene catturato con me anche un operaio e cerchiamo di metterci d’accordo: io dico che tu eri con me e tu dici… Accordi ingenui o stupidi. Più tardi, quando arriviamo alla questura di Torino e lo vogliono perquisire, lui dice: «Ma perché mi perquisite? Secondo voi, se avevo un’arma, sarebbe stato così facile catturarmi?». Lì, dopo un certo numero di minuti, lo chiamano: «Vieni al bagno che ora è libero, così puoi andare». Quando torna, torna massacrato. Gli hanno rotto le ossa. E io, che pure avevo chiesto di andare al bagno, ci rinuncio, capendo che sarei finito massacrato. Dopo un po’ vengo interrogato. E mi pongono la condizione: dire che mi son fatto male stupidamente da solo. Io avevo una ferita alla schiena per le botte e anche quella al piede era paurosa. Ho scritto che me l’ero fatte da solo.
All’inizio, dopo l’arrivo dei gruppi davanti alla Fiat, io e altri che eravamo contro i partiti volemmo entrare nell’Unione dei comunisti di Brandirali. E io divenni funzionario dell’Unione. Purtroppo, facemmo quell’errore. In quel momento ci sembrava che quella fosse l’organizzazione più seria per costruire il partito dei comunisti. L’Unione dei comunisti collettivizzava le proprietà dei membri, organizzava anche i matrimoni tra compagni; e aveva presa su molti intellettuali allora famosi. Dario Fo era vicino all’Unione.E c’era anche il compagno di Eleonora Fiorani, Francesco Leonetti. Lui era quello che teneva i contatti con questi grossi big intellettuali.
Così in Corso Regina Margherita aprimmo la sede dell’Unione. Oltre al primo piano, avevamo preso in affitto anche lo scantinato, dove organizzavamo le attività che riguardavano la produzione di manifesti. Costituimmo un gruppo che aveva imparato a produrre i manifesti mediante la serigrafia. Quello scantinato fu utilizzato anche per fare una mostra sulla Repubblica popolare del Congo. Nella piazza di Corso Regina Margherita c’era un grande mercato, dove avvenivano le baruffe con i fascisti. Qui conoscemmo R.D., operaio delle Carrozzerie Fiat, il quale era culturalmente zero ed era di un paese – Nocera inferiore o superiore – tra Napoli e Salerno. Pur essendo analfabeta, era uno dei più attivi. E, quando venivano organizzati i cortei interni degli operai, lui era subito pronto ad armarsi di un tondino di ferro. Con quello colpiva quante più macchine poteva sulla gru del montaggio in modo che, spaccandole, si fermava la produzione.
Conoscemmo anche F. Z., altro operaio della Fiat. Però, col pallino del giornalismo. Era un pugliese molto bravo nel descrivere gli scioperi degli operai, meno bravo nel farli. Mi ricordo che lì al mercato di Corso Regina conoscemmo anche Carlo. Aveva un bar dove la sera era pieno di prostitute. Tutti i nostri compagni andavano a cena lì. E tutti, al momento del conto, dicevano: «Paga Sciagura!». Avevano capito che Carlo aveva molta fiducia in me e dicendo così tutto era a posto. Io mi ritrovai un conto chilometrico, un debito di 300 – 400mila lire di allora. Lì avevamo una casa al sesto piano – sì, una Comune – e non chiudevamo mai la porta. Nel senso che era un posto sempre aperto, dove passavano spie della polizia a non finire. Ma a noi non ci fregava niente. Tra noi, l’unico che aveva un lavoro serio era L. Z. Faceva il professore supplente a Ivrea. Allora noi, generalmente, per fare il bollito compravamo patate e qualche pezzo di carne. Una volta, però. L. Z non ci volle dare i soldi. Ci incazzammo. E, quando tornò da scuola e chiese cosa c’era da mangiare, gli rispondemmo in malo modo.
Conobbi anche un nipote di Donat Cattin, un duro molto alla buona che ci combinò molti guai. E poi, non so perché, s’è suicidato. Aveva due figli e anche con il solo lavoro della moglie stavano abbastanza bene. Si chiamava Carlo come lo zio. Una volta ci aveva portato da lui ad Aosta, perché noi volevamo presentarci alle elezioni in tutto il Piemonte. Solo che lo zio disse: «Guardate, non mi frega niente, non vi do niente, ve ne potete andare». E ci cacciò di casa. Ad Aosta c’era una comunità abbastanza grande di intellettuali di sinistra. La cosa da ridere fu che, quando andammo a cercar voti nelle campagne, tutti quelli che vi lavoravano erano meridionali e ben pochi o nessuno della Val d’Aosta. E noi che pensavamo di sentir parlare il patois! Lì erano o calabresi o pugliesi. Erano donne che sposavano i pastori che facevano il formaggio. Sempre come funzionario dell’Unione poi da Torino mi mandano a Novara.
A NOVARA
Novara politicamente era una piazza difficile. Secondo me era un punto così piccolo e poco importante. No, no – mi dicevano – quando vogliamo costruire un partito, lo si fa in tutte le zone. Lì prepariamo due manifestazioni a cui partecipo. Sono manifestazioni un po’ sceme, però riescono bene. Tra parentesi, è l’unico posto dove partecipiamo alle elezioni politiche comunali; e per un solo voto non vengo eletto consigliere. A Novara poi c’era un famiglia, la famiglia dei calabresi. Molto dura. E successe che uno di questa famiglia, che era dei nostri, combinò un casino. In pratica doveva sparare sui fascisti. Invece, presa la pistola, se l’era messa nella cintola dei pantaloni e s’era sparato nei coglioni. Un cretino veramente pauroso. Ma io allora di quello che era veramente accaduto non sapevo niente. Facemmo una manifestazione in cui dicevamo che i fascisti avevano sparato sul nostro compagno. E solo tempo dopo, quando abitavo in una casa che affacciava in una piazzetta sopra una pizzeria e ti contendevi il cesso che c’era sul balcone con i gatti – c’erano gatti a non finire – ho saputo la verità. Da uno che abitava nello stesso cortile dove abitava il padre di questo nostro compagno. Che ci disse: «Non è un cazzo vero che i fascisti gli hanno sparato. Quel coglione nel prendere la pistola s’è sparato nelle palle».
Allora in tanti andavano nella Val Grande [1] per allenarsi a sparare. La valle era piena di calabresi, i quali in quel periodo facevano i contrabbandieri. Portavano la roba (sigarette, cioccolato). Quando scendevano dall’alto in auto, erano bravi a guidare. Scendevano velocemente. Una volta noi avevano dei compagni dove c’è il bellissimo Lago Maggiore, dove si specchiano tre paesini che poi vennero uniti assieme; e io andai lassù con uno che si chiamava S. Durante il tragitto, però, manifestò tutti i segni della sua pazzia. Diceva che lui aveva visto una donna in bicicletta e le aveva detto: ti chiavo. E quella ci stava. Il guaio è che io non sapevo guidare la macchina. Con questo S. dovevamo arrivare in Val Grande a prendere un calabrese che guidava lui le macchine. Poi scendemmo giù a Novara: io, questo pazzodi S. e il calabrese. E la moglie di questo, quando ci vide, non volle assolutamente ospitarci. No, disse, siete matti! Vi tirate dietro uno che è impazzito.
S. era giovane e faceva il pastore. Quella era una zona dove tutti facevano i pastori. Solo che i fratelli più grandi e più in gamba di lui avevano cercato un altro lavoro. L’unico che era rimasto tagliato fuori era questo qua. Una volta andai a trovare lui e e i suoi fratelli con un mucchio di ragazzi e ragazzine di Milano. E il giorno dopo S. venne sotto casa mia a Novara. Voleva il numero di telefono di una ragazza che avevo portato lì. No, non te lo do. E feci bene. Seppi poi che s’era sposato con una bonazza del paese e che era divorziato dopo un anno. Adesso non so se è vivo o morto. A Novara conobbi anche D. Era il figlio di uno dei più grandi industriali della provincia di Novara. Ma diceva sempre che non aveva soldi. Perché così gli avevano insegnato a dire i suoi genitori. Attualmente non ne so più niente. Mi ha scritto dalla Polonia. Ho capito che fa lo chef in un grande ristorante all’italiana. E mi verrebbe da chiedere: ma tu in Italia avevi moglie e figlia. Che fine hanno fatto, visto che parli solo di un tuo figlio, che è uguale a te come conformazione fisica.
Quando eravamo a Novara, mi aveva fatto conoscere un certo Capellone. Capellone era uno di quei giovani di diciotto anni, che dammi una pistola e un obiettivo su cui sparare, non ci pensava su. Di nome faceva U. e dopo l’hanno trovato alcuni amici tra i fuoriusciti in Francia. E dicevano che con U. bisognava stare attenti. Perché, dato che suo fratello era stato al servizio della polizia francese, U. era più violento dei violenti. Per rifarsi sul fratello. O per staccarsi dal fratello. Quando ero a Torino ed ero appena tornato da militare, gli portava ogni settimana una bottiglia di Four roses bourbon, che gli dava la donna con cui stava. Tutti questi erano militanti dell’ Unione dei comunisti. in parte reclutati da me in parte trovati sul posto e trasferiti poi in altri punti d’Italia.
TRE ANNI A GENOVA
Sempre come funzionario dell’Unione dei comunisti fui mandato da Novara a Genova. La cosa che più ricordo è che nel porto di Genova avevamo la sede nello stesso locale dove Garibaldi organizzò la spedizione dei Mille. C’era una scalinata che andava su e c’era un grande stanzone. Genova è una grande città, più vicina come stile di vita a Torino. Anche se qui in fabbrica c’erano quelli che avevano fatto i partigiani e dicevano: «E tu trent’anni fa dov’eri?». E io gli rispondevo: «E dove sarai tu tra trent’anni? Sarai a concimare i vermi». A Genova ho partecipato a diverse iniziative. Tra parentesi eravamo un bel gruppo di 20- 30 persone. Qui conoscemmo anche dei giovani di Africo nuovo [2]. Erano dei delinquenti. Allora c’erano delinquenti di destra e di sinistra. Questi si consideravano di sinistra. Una volta mi ricordo che quattro o cinque di loro erano scomparsi per un po’ di tempo. E io chiedevo a uno di loro: ma dove siete andati? E quello, per tutta risposta, tirò fuori un coltello a serramanico e si pulì l’unghia. Un altro capì cosa voleva dire quel gesto. Voleva dire: «Statti zitto, non son cazzi tuoi». Allora gli dissi: « Ma tu sei scemo, tira via quel coltello». Più tardi, quando sempre come funzionario dell’Unione passai a Milano trovai un loro parente. Era stato in galera nel carcere di massima sicurezza di Opera. E gli chiesi: «Ma tu vieni da Opera o da Africo?». « Io vengo da Africo nuovo». Allora pensai che era meglio stargli lontano.
Dopodiché mi arriva l’avviso da Torino che debbo assolutamente andare al militare. Dico: «Ma voi non mi avete avvertito!». Io ho sempre sgamato il militare, ma stavolta mi dissero: «Qui non siamo riusciti a trovarti, quindi devi andarci per forza». Allora ci andai. Era il periodo in cui era forte il movimento dei soldati in divisa di Lotta Continua. E noi anche dell’Unione eravamo forti con i vari scioperi che conducevamo. Il militare lo feci a Udine. Fu nel 1976, l’anno del terremoto. Tant’ vero che noi veniamo impiegato per sgombrare le macerie.
ANCORA A TORINO
Finito il militare, tornai ad abitare a Torino. In una viuzza vicina alla Mole [Antonelliana]. Abitavo con due tipi. La moglie era una brigatista. Lui no, era un operaio bravo. Io a lui dicevo: «Tua moglie mi sembra un po’ strana». Perché andava nei supermercati e rubava. «No», MI diceva lui, «noi potremmo anche vivere con ciò che guadagniamo ma, rubando, se la beccano, non finisce in galera come brigatista. Mi ricordo anche una sera in cui lei mi mostrava la sua arma di guerra: un pugnale. Le dissi: «Che cazzo, sei scema? Quando uno vuol fare la guerra, la fa seriamente». Allora pianti dirotti da parte sua. A me sembrava di aver detto una cosa giusta. E, infatti, i fascisti se ne fregavano del suo pugnaletto.
A MILANO
Sempre dopo il militare un gruppo di noi, che stavamo a Torino ed eravamo i più bravi, fummo chiamati a Milano da Francesco Leonetti che, dopo l’espulsione di Brandirali dall’Unione dei comunisti, voleva fare il grande partito mettendosi con quelli di Potere Operaio. A Milano ho frequentato per diverso tempo Eleonora Fiorani, la donna con cui Leonetti viveva, che è morta da poco e che aveva tutti i suoi libri pubblicati da Lupetti. Poi i rapporti con Leonetti si guastarono. E lui ci espulse tutti dal PC (ml) perché eravamo di destra. Cioè, eravamo contrari a fare azioni in comune con quelli di Potere Operaio che volevano fare la lotta armata. Dopo essere stati espulsi da Leonetti, alcuni di noi hanno proseguito. Eravamo uno sparuto gruppettino di dieci, dodici operai e lavoratori vari con varie persone. Cerchiamo di organizzare gli operai e i lavoratori nelle fabbriche fondando «Operai Contro», che è andato avanti per più di vent’anni senza riuscire ad allargarsi.
Qui a Milano ricordo che una volta vengo fermato dai carabinieri in via Moscova. Si trattava della brigatista di Torino, che nel frattempo era finita in galera. Mi dissero: «Vogliamo sapere da lei come la pensa». Io dissi: «Voi volete sapere da me come la penso, ma io non ho voglia di discutere con voi. Che cazzo volete?». «Guarda, se non discuti con noi, minimo minimo un mese di galera glielo facciamo fare». «E allora, vabbè», gli dissi, «Guardate che io ho abitato con loro ma non sapevo chi fossero. Ho abitato con loro perché non avevo casa e mi facevo ospitare».
BILANCIO
Dopodiché pian piano vengono fuori i fallimenti dei vari gruppi. Viene fuori il fallimento di Lotta Continua con Sofri che poi molto tempo dopo sarà denunciato da Marino. Poi Brandirali, di cui noi dell’Unione dei comunisti pretendevamo di diffondere il verbo in Italia, entra in Comunione e Liberazione. Altri non so che fine fanno. Brandirali l’ho conosciuto di persona più tardi qui a Milano. Lo conosceva un operaio della Breda, che era stato assunto da lui in una impresa di costruzione elettrica e si formò come perito elettrotecnico aiutato da me. Una sera questo operaio invitò me e Brandirali a cena. E ricordo che Brandirali mi disse: «E che vuoi, Sciagura, io quando parlavo del matrimonio comunista e delle altre questioni di sinistra, dicevo roba dei preti. Solo che non l’avevo capito. Dopo l’ho capito bene. E allora son passato direttamente con loro».
Cosa pensavano i miei parenti o mio padre quando seppero che facevo il funzionario dell’Unione? Che ero un coglione. Mio padre disse: tutti gli studi che hai fatto per prendere novanta mila lire al mese. E io a spiegargli: ma voi non capite…
Note
[1] Il parco nazionale della Val Grande è un’area naturale protetta, interamente compresa nei confini della provincia del Verbano-Cusio-Ossola, in Piemonte, istituita nel 1992 per preservare la zona selvaggia più estesa delle Alpi e d’Italia. [2] Su Africo aveva scritto un libro Corrado Stajano: https://www.ilsaggiatore.com/libro/africo/
*La PRIMA PARTE di La mia vita a capitoletti si leggequi
Con l’anteprima di un capitolo segnalo volentieri l’ultimo romanzo di Marisa Salabelle, che è da tempo presente con vari articoli qui su Poliscritture. [E. A.]Continua la lettura di Il ferro da calza→
Walter osservò come ciondolava stancamente, sullo schienale della sedia a dondolo di una tarlata Thonet, lo sparato bianco che la sera prima s’era accomodato in fretta per andare al ballo dei parenti insieme ad Elisa.
Era
stato organizzato in loro onore dalle zie materne più anziane.
L’anno
prima, fu lei che glielo regalò. Lo aveva comprato a Praga in via
Parigi quel tessuto voille bianco in piquette nido d’ape che poi si
fece confezionare e applicare.
–
Con bottoni di madreperla senza fori e col collo guru! – le
raccomandò, Walter.
da SAMIZDATCOLOGNOM foglio semiclandestino per l’esodo Numero 3 aprile-settembre 2001
di Ennio Abate
Genova 18 anni dopo. Ripubblico quanto scrissi – isolato allora come oggi – su una rivistina fotocopiata che distribuivo a mano agli amici. I problemi qui accennati sono gli stessi che ho appena ridiscusso in questi giorni qui e qui. [E. A.]
1.
Cosa
sentivo e pensavo prima dei fatti di Genova?
Prima:
ero curioso e attento alla galassia “antiglobalizzazione”,
ma ne sono rimasto distante per varie ragioni. Non condivido la sua
enfasi ottimistica sui diritti umani. Ero scettico verso la scelta
del “dialogo alla pari” continuamente cercato con i
rappresentanti del governo. Mi sento estraneo alla sua ideologia: un
pacifismo così assolutizzato, profondamente dominato
dall’impostazione della Chiesa cattolica – un nuovo Super-ego
“non-militante”, molto oratoriale (Rete Lilliput) o
neopopulista (la rivista Carta), ben espresso nelle sbrigative tesi
di Marco Revelli nel suo Oltre
il Novecento.
Questo è un capitolo di un romanzo di formazione inedito, a cui sta lavorando Franco Tagliafierro. E’ una narrazione epica – per me bellissima, calibrata e sapientemente ironica – dello scontro avvenuto in Piazza S. Paolo a Roma il 6 luglio 1960 tra manifestanti antifascisti e polizia. Il punto di vista è quello di un giovane “piccolo borghese” che fa il suo primo passo politico immergendosi in una folla organizzata e decisa di lavoratori («gruppi più o meno numerosi a seconda dei cantieri di provenienza, si formano macchie di berretti di carta di giornale nella marea di teste nude»). (E. A.)