di Antonio Sagredo
languisce al fin chi da la vita parte
mercé grido piangendo
o tenebroso giorno
moro, lasso, al mio duolo
Gesualdo da Venosa
madrigale ve (le) noso
Il capezzale di una donna non amai fittizia alcova o reale
solo l’insana malattia di una melancholia carnale mi sedusse.
Liberai commosso i carnefici esiliati dai rastrelli della mente.
Il castello dei merli fu più di una malattia ascetica: una quinta!
La fuga generò una kermesse di cinque voci e semitoni,
una carezza della nemesi celebra ossessa atti indicibili,
il procardio vomitò esausto il cromo di straziate note:
vola -su –seno-doge … vola-su-seno-doge… vola-su…
Con gli occhi dei liuti ho cantato i carmi di un Orazio esterrefatto,
le mie labbra normanne gonfie come nere vele dal favonio,
pentagrammi di artigli e ombre assolate sul leggio infame.
La mia vita fu santa, sublimata dall’inchiostro, e dai delitti!
A.S.
Vermicino, 3 ottobre 2008