Prontuario tascabile di letteratura francese (2)
di Elena Grammann
LETTERA R
Rousseau, Jean-Jacques
Le Confessioni di Rousseau sono un’opera di cui si può soltanto consigliare la lettura. Difficile immaginare qualcosa di più onesto nelle intenzioni, di più disonesto nella realizzazione e, come risultato di questi due vettori, di più “giusto” e affascinante[1]. Idealmente Le Confessioni, più ancora della Nuova Eloisa, spalancano le porte al romanticismo e all’età contemporanea; ma poiché sono scritte in francese da un autore di lingua francese, mantengono con l’empiria e con l’esposizione circonstanziata dei fatti un legame che l’autentico romanticismo certificato tedesco[2] non ha, non può e non vuole avere. Da un punto di vista didattico, inoltre, sono estremamente pratiche, perché in nemmeno venti righe dell’incipit condensano e esemplificano il passaggio d’epoca. Vediamo queste righe:
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Ho concepito un'impresa senza precedenti e la cui esecuzione non troverà imitatori. Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quest'uomo sarò io.
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Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo stampo nel quale mi ha formato, si potrà giudicare soltanto dopo avermi letto.
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Che la tromba del giudizio finale suoni quando vorrà: Mi presenterò al giudice supremo con questo libro fra le mani. Dirò fermamente: «Qui è ciò che ho fatto, ciò che ho pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene e il male con identica franchezza. Nulla ho taciuto di cattivo e nulla ho aggiunto di buono, e se mi è occorso di usare, qua e là, qualche trascurabile ornamento, l'ho fatto esclusivamente per colmare i vuoti della mia debole memoria; ho potuto supporre vero quanto sapevo che avrebbe potuto esserlo, mai ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile, quando lo sono stato, buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l'hai visto. Essere eterno, raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili; ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie. Scopra ciascuno di essi a sua volta, con la stessa sincerità, il suo cuore ai piedi del tuo trono; e poi che uno solo osi dirti: «Io fui migliore di quell'uomo.»”
Esaminiamo la testa e la coda: dapprima viene stabilita l’unicità di Jean-Jacques. Ma poiché l’intenzione di Rousseau non può essere di affermare che Jean-Jacques è un alieno, l’unicità deve essere, in linea di principio, prerogativa di tutti gli individui. Si dirà: che nessun individuo è uguale a un altro è cosa che si sapeva. Certo, ma prima di Rousseau (e del romanticismo) non si sottolineava l’unicità individuale, bensì l’appartenenza a un gruppo: dal più vasto – l’intera umanità contrapposta al suo Creatore – ad altri più ristretti, ad esempio una classe sociale con determinati obblighi, prerogative e funzioni. E parimenti dopo Rousseau, mentre il romanticismo diventa sempre più marginale e malvisto, anche l’individuo in quanto portatore di unicità scivola al margine: un originale appena tollerato, un artista, magari uno scrittore – mentre l’individuo provvisto di senso e significato è di nuovo quello inserito in un gruppo che si profila ormai come una classe in conflitto insanabile con un’altra – conflitto necessario e talmente insanabile che l’identità del singolo non è nemmeno pensabile come indipendente dalle o non totalmente compresa nelle coordinate della classe di appartenenza. La quale classe di appartenenza, qualora sia la classe dominante, fa in modo – viene detto – di plasmare lo Stato a propria immagine; sicché, dall’altra parte, l’unicità dell’individuo assume la forma obbligata, stereotipa e tutta uguale della resistenza allo Stato.
Già nella prima parte del testo Rousseau aveva chiarito che per Jean-Jacques essere unico non significa essere migliore degli altri, e in effetti si accenna poi al male eventualmente fatto, a miserie e indegnità[3]. Ma in chiusura assistiamo a un ribaltamento: l’ammissione (generica) di colpa, il riconoscimento di non essere migliore di un altro si capovolge nella sfida – rivolta a chiunque – ad affermare di essere migliore di lui. Se accostiamo il testo alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) noteremo che, benché non affermi apertamente una sua qualità “migliore”, nell’atteggiamento e nella postura Jean-Jacques assomiglia molto di più al fariseo che al pubblicano.
Ma il vero centro dell’argomentazione è il libro. Il libro che Rousseau si accinge a scrivere; e suoni quando vuole la tromba del Giudizio, egli non la teme poiché potrà presentarsi al sommo giudice munito di quel libro. Non come memoria difensiva, si badi, ma proprio in sostituzione dello sguardo giudicante (“ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l’hai visto”). Come titolo per questo articolo avevo pensato, infatti, a “Liber scriptus”; poi ho preferito l’altro perché va subito al punto. Ma è chiaro che, da tuba mirum spargens sonum a liber scriptus proferetur, la scena di giudizio evocata da Rousseau ne richiama un’altra, classica, e ne capovolge le prospettive.
Dicevo prima della fruibilità didattica del brano. Arrivata a questo punto, di solito andavo alla lavagna e scrivevo la strofetta seguente:
Liber scriptus proferetur,
In quo totum continetur,
Unde mundus iudicetur
(sollievo di scrivere qualcosa in latino, un terreno solido sotto i piedi) e facevo notare come, ormai, il libro fosse passato di mano: mentre nella visione classica chi “apre il libro” è Dio, nella scena prospettata da Rousseau, paradossalmente, è lo iudicandus stesso che presenta il libro, redatto da lui medesimo, in base al quale chiede/propone/impone di essere giudicato. Coerentemente scompare ogni futuro tremor relativamente al tempo quando judex est venturus, / cuncta stricte discussurus; cancellato ogni terrore e tremore, evaporato il timor di Dio. Come si dice: non c’è più religione. Io cancellavo la strofetta e ne scrivevo un’altra:
Quod sum miser tum dicturus,
Quem patronum rogaturus,
Cum vix iustus sit securus ?
e invitavo la classe, che una perplessa curiosità, o al più tardi il Dies irae di Verdi, aveva destato dallo stato comatoso, a paragonare il “miser” con Jean-Jacques: forse che quest’ultimo è in imbarazzo su cosa dire? per caso gli mancano le parole? ha bisogno di un difensore? No. Ma andiamo più in là: si confronta, idealmente, con un “iustus”? Nemmeno, poiché, per quanto egli non definisca se stesso “giusto”, nessuno è comunque più giusto di lui.
I ragazzi fissano la lavagna, copiano i versi sul quaderno degli appunti, chiedono delucidazioni sul gerundivo o sulla perifrastica attiva. Qualcosa intravedono. Ma dalla loro propria prassi autogiustificatoria scolastica sono troppo abituati alle balle spaziali che venti secondi dopo essere state proferite diventano verità incrollabili, per apprezzare appieno la portata del cambiamento. Rousseau ha lavorato bene.
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[1] Le radici (ben visibili nell’opera) del dissidio fra onestà dell’intenzione e inevitabile disonestà nella realizzazione non devono nemmeno essere cercate molto lontano. Si tratta del conflitto fra una radicale fedeltà a se stessi, e la pretesa che questa radicale fedeltà coincida naturalmente e senza sforzo alcuno (che sarebbe di per sé già un’infedeltà) con il tutto sommato tradizionale bonum. Da questo punto di vista Sade è più onesto; meno didattico però – e assai monotono.
[2] Peraltro il mio preferito.
[3] Ma termini come ‘miserie’ e ‘indegnità’ sembrano fare riferimento più all’aspetto della valutazione sociale che all’ambito propriamente morale.