GALLERIA DI RICORDI TRA RACCONTO E RIFLESSIONE
di Donato Salzarulo
Ripropongo questo testo del 2008 già comparso sul numero 4 cartaceo di Poliscritture (scaricabile qui).
Credo si chiamasse Michele. Aveva un anno o due più di me. Si era adolescenti.
Stavamo un giorno affacciati sul parapetto di piazza Convento, quella che, come la siepe leopardiana, apre allo sguardo l’ultimo orizzonte. Si stava lì a godersi il pomeriggio di sole appenninico, quasi in silenzio o raccontandosi, come spesso si faceva, donne e sogni. Un urlo ci colpì. E due secondi dopo vedemmo Michele crollare a terra e il suo corpo farsi elettrico, tremare, sbattere, sussultare. «Tenetegli la testa, tenetegli la testa» ingiunse una voce adulta proveniente dalla panchina sotto il tiglio della piazza. «Tenetegli la testa…Potrebbe farsi male». Ma noi si era paralizzati, terrorizzati. Una manciata di secondi ancora e quel corpo in preda a sé stesso, alla sua crisi si calmò. Il viso pallido, funereo. All’angolo delle labbra una striscia di bava. Restò per terra immobile diversi minuti con noi, intimoriti, a cercare di prestargli soccorso. Poi arrivò il padre e il fratello più grande.
In seguito seppi che si trattava di crisi epilettica. In seguito, andato via da più di un decennio dal paese, seppi della morte di Michele. Non so se per epilessia o per qualche sua complicazione. Oggi mi pare che per questa malattia non si muoia e che il “mal caduco”, come popolarmente si chiamava una volta, è tenuto abbastanza sotto controllo dai farmaci.
A Michele ho sempre ripensato, quando ho avuto in classe alunni epilettici, quando ho acquisito parenti dichiarati sofferenti di questo male, quando un po’ di anni fa ho letto L’idiota. Dostoevskij soffriva di epilessia e come lui il principe Myškin, eroe del romanzo.
La malattia irrompe nella quotidianità, è dentro. Da ragazzi si stava in bande. A scuola terminata, bel tempo o maltempo, si andava per le strade a sfidarci, a lanciarci sassi, a bussare alle porte, a rovesciare conche d’acqua piovana raccolta dai canali, a giocare al piattello, a figurine, a salta la cavallina. Tra di noi, ai margini, si aggirava un mio omonimo. Ben più grande, però. Sui vent’anni forse. Non frequentava quelli della sua età, ma non frequentava neanche noi (come avrebbe potuto?). Ciondolava silenzioso, guardando furtivamente, orecchiando. A volte si allungava sui sedili, su un parapetto di muro, sulle scale di una loggia. Inoperoso come un buono a nulla. Parlava spesso da solo. Qualche volta qualcuno lo mandava a riempir barili alla fontana. E lo si vedeva trascinare litri d’acqua sulle spalle. Non era cattivo, ma noi lo rendevamo tale. Quando lo vedevamo aggirarsi disadattato tra l’una e l’altra età, col cranio rasato a zero, cominciavamo a prenderlo in giro, a chiamarlo col suo nomignolo, a tirargli sassi. E lui ci rincorreva, ci minacciava, ce ne diceva di tutti i colori. Un po’ paura di lui ce l’avevamo, un po’ ce la procuravamo. Donato col suo pantalone di tela e la giacca scura e sdrucita faceva da spettro alla nostra fanciullezza. Un giorno non l’abbiamo visto più. «L’hanno portato ad Aversa, al manicomio» dicevano concordi le voci del paese.
Quando a Torino, tra il ’67 e il ’68, tra l’occupazione di Palazzo Campana e il primo esame di pedagogia generale, ho letto alcuni libri di Laing, mi sono chiesto di cosa soffrisse il mio omonimo. Io diviso? Psicosi? Schizofrenia? Boh. Donato non mi sembrava così pericoloso da dover essere rinchiuso. Cosa era successo? Cosa aveva fatto di tanto grave? Boh. Forse avevamo voluto semplicemente togliercelo dall’anima.
A legge Basaglia approvata, col decreto di chiusura dei manicomi, tornando in vacanza al paese, ho spesso sperato di rincontrare il mio sfortunato omonimo. Nulla. Una voce un giorno mi disse che aveva dei parenti in Puglia. Forse stava lì. O forse era morto.
Non posso testimoniare. Non ho visto coi miei occhi. Il racconto, però, mi è stato fatto da gente fidata: mio fratello, mia sorella, mia madre, mio padre…Erano lì, erano in casa. C’erano anche zio Antonio e zia Maria. Lo facevano spesso, dopo cena. Si raccoglievano intorno al camino per chiacchierare, spettegolare, litigare. Io avevo altre esigenze ed ero a caccia di sguardi femminili nella piazza del paese. Tornando a notte fonda, ad occhi delusi e mani vuote, come quasi sempre accadeva, mia madre che riordinava: «Figlio mio, non puoi immaginare cosa è successo stasera!… Tua zia!…La sarta!…Due uomini non riuscivano a mantenerla. Urlava come una pazza contro di me. Rossa in faccia. Invasata. Completamente invasata. Coi capelli che ognuno se ne andava per i fatti suoi. Ha avuto una crisi.»
La zia sarta era una cugina di mia madre. Sposata a un calzolaio, non aveva potuto coronare il suo sogno di maternità. Ce l’aveva così con tutte le donne, soprattutto le parenti, che di figli ne avevano almeno tre e non erano certo più “intelligenti” di lei. Su questo punto la zia non transigeva. L’intelligenza ce l’aveva tutta lei e lei poteva fare ben altro che la sarta, se…Insomma, delirava un po’. E siccome sembra che torni a piovere dove già piove, la zia, oltre alla sfortuna di non avere figli, visse la tragedia di un unico fratello morto in Germania ancora giovane e in circostanze tutt’altro che chiare. Il corpo fu ritrovato in un lago e non si capì se ci finì coi suoi piedi accidentalmente o intenzionalmente. Si congetturò anche che qualcuno ce l’avesse spinto.
Con la sua morte lasciò una vedova e un figlio. Come si può immaginare il pargoletto venne risucchiato dalla zia.
Ecco, la malattia ha questa capacità di risucchiare. Per questo probabilmente la si teme. Quale fosse la diagnosi per la zia non so. Quasi certamente quella sera in casa nostra ebbe una crisi psicotica. Fu ricoverata in una clinica ad Avellino. In quelle camere tornò, mi pare, altre volte, quando la sofferenza e il dolore dell’esistenza l’avvolgevano in un vortice.
Finché abitava nella piazza del paese, sempre, nel periodo delle vacanze, andavo a salutarla. Di lei, dei suoi occhi guardinghi e stralunati, del suo passo felpato, della sua figura bassa e fragile, non ho mai avuto paura. L’ho guardata, invece, sempre con attenzione e affetto, curiosità e gentilezza. Soprattutto dopo l’ingestione di testi psicanalitici e di “anti-psichiatria” consumatasi a partire dal movimentato anno torinese.
La zia ora è morta. In famiglia ogni tanto ne parliamo. È quasi inevitabile quando vediamo il suo unico nipote, nostro parente, anche lui ormai cinquantenne e orfano ormai di tutti (padre, madre, zia), passeggiare sulla piazza del paese. Solo, non sposato e ovviamente senza figli.
Ogni tanto scherzo con mio fratello e mia sorella. «Stiamo attenti – dico – in famiglia abbiamo una bella riserva di folli, sia sulla linea materna che su quella paterna.» Infatti, oltre alla zia sarta, un’altra cugina di mia madre è ricorsa di tanto in tanto alle cure degli “psi”. Avevano lo stesso nome. Ma per il paese era “la rossa”. Inutile dire che penso al Verga di “rosso malpelo” e che lo stigma se lo portava già nel nomignolo. Poi abitava vicino al cimitero. Da bambini, quindi, doppia paura. Meno male che mia madre non era una grande frequentatrice di tombe e le capitava di portare un lumino sulla lapide di suo padre, morto relativamente giovane, soltanto in occasione della ricorrenza annuale. Allora ci teneva e dovevamo andare con lei. Impossibile non fermarsi a casa della zia. Nel quarto d’ora di conversazione ci tenevamo ben stretti alle sue ginocchia. Del resto era stata proprio lei a metterci in guardia sull’imprevedibilità dei comportamenti della cugina. Se devo dire quel che penso, mia madre esagerava. La zia era a mio parere innocua. Indubbiamente segnata. Nubile, forse senza amori. A disagio nella sua esistenza o nel suo stato sociale. Il paese poi sapeva essere istituzione totale. Per cui la zia, avendo avuto la madre fuori di sé per il figlio morto in Russia e altre tragedie, non poteva non essere anche lei un po’ fuori di sé. Tra le famiglie si facevano strani ragionamenti sulle eredità delle malattie. Se ti capitava di appartenere a una “famiglia di pazzi” eri messo piuttosto male. Il pregiudizio funziona sempre. Anche oggi la pressione contro la legge 180 e la richiesta di tanto in tanto sbandierata di riapertura dei manicomi si nutre più di pregiudizi che di argomenti razionalmente fondati. La follia non sta di casa soltanto tra i folli dichiarati tali. E ve ne sono di diverse specie. Quella delle zie era, tutto sommato, innocua. Quella di certi capi di stato, invece, andrebbe forse più denunciata, contenuta, bloccata.
Comunque, questa era la linea materna. Sulla paterna, c’è la storia di zio Cecco, la birba di famiglia.
Il giorno che doveva sposarsi mia nonna andò a ritirarlo in una cantina. Se ne era dimenticato. Il matrimonio, si dice, è la tomba dell’amore e forse mio zio non voleva cascarci. Peccato che non animasse solo sequenze di questo tipo che oggi potrebbero apparire, per certi versi, simpatiche. Nel suo corpo germogliavano aggressività varie, violenze, azioni nocive e insopportabili. Fu meno fortunato delle zie. Finì in manicomio. Ero ancora bambino quando la sua esistenza si concluse.
Ammetto: la follia piace ai romantici. C’è chi sostiene che vada a braccetto con la genialità. Può darsi. Ma quando una mattina del 1978, varcato il cancello della scuola in Viale Lombardia, mi vedo venire incontro il custode allertato: «Attento! – mi dice – in Direzione, c’è uno che pensa di essere il vero direttore», beh, in questi casi, un brivido percorre il tuo corpo e non pensi più agli aforismi, ai giudizi, a tesi più o meno fondate. Che faccio? La scuola è tutta in allarme. Dalle aule viene un mormorio, una finta indifferenza, un tramestio di maestre che provano a tener buoni i bambini e a continuare la lezione.
«Oh, buongiorno! – dico – come va?». L’uomo sulla quarantina, in giacca e cravatta, installato alla scrivania, neanche mi sente e continua a dare ordini all’applicato che gli sta di fronte. «Io sono il direttore!… Io!…Non quel coglione!. Quello è un usurpatore, in combutta col Provveditore…Questo posto è mio!… E tu stai zitto e obbedisci!..»
Come si fa a non obbedire? Così io e Nino, l’applicato, cerchiamo di conservare la calma, ingiungendoci con gli occhi il sangue freddo. Presidiamo intanto le porte; che non gli venga voglia di recarsi nelle aule; che si limiti a parlare con noi. Proviamo a capire. Ma c’è poco da capire. La canzone è sempre la stessa. Quel posto di direttore è suo e il titolare glielo avrebbe soffiato.
Si va avanti così per una decina di minuti. Poi arrivano due infermieri. Non appena li vede, li riconosce e si alza. Non fa resistenza. I due lo chiamano per nome, lo prendono sottobraccio e lo portano via. Successivamente veniamo a sapere che abitava nel palazzone di fronte alla scuola, che era un emigrato, che viveva solo.
Scherziamo col direttore (io allora facevo il vice): «Usurpatore di posti!…». Racconta di averlo incrociato, in provveditorato, una sola volta in vita sua. «Ah, quindi, un legame c’è!…»
Chissà quante volte quell’uomo s’era affacciato al balcone e aveva visto maestre e bambini entrare ed uscire. Chissà quante volte aveva immaginato di poter essere altro da quel che era, rimediando, magari, a qualche suo fallimento. Direttore per un quarto d’ora. Meglio che niente.
Sessione d’esame autunnale. Mattina presto. Viaggio in una carrozza per Torino. Me la sono scelta vuota. Ho con me il pacco di libri. Ci sono capitoli da ripassare, pagine da tornare a leggere, mappe da ripercorrere, concetti da fissare. Frenetico ruminare della memoria. Ho lavoro e famiglia, politica e passioni. Studio negli intervalli. Che nessuno mi disturbi in carrozza! A nessuno venga in mente di rivolgermi domande o di accendere frammenti di conversazione! Il mio capo calato sulle pagine aperte sarebbe di per sé un segno di chiusura, di barriera. Così rannicchiato sul sedile e concentrato, sento una voce altissima provenire dal corridoio: «Ooliooo cuooore!…Si beeevee con amoooree!».
La voce, mio Dio!, si avvicina. Entra, è finita!, nella carrozza.
Il compagno di viaggio è una persona alta e allampanata. Sedendosi, continua a ripetere quei versi di una pubblicità dell’epoca, se non sbaglio. Ha in testa un copricapo alla Napoleone e indossa un vestito sbrindellato. Da dove sbuca questo?!…Accidenti a lui! Certe volte si è egoisti non per partito preso. Semplicemente perché qualcuno ci fa saltare, con la sua sola presenza, il nostro piccolo o grande piano. «Ooliooo cuooore!…Si beeevee con amoooree!»
«Come è andata la battaglia?», gli domando, «Quanti soldati sono morti?»
Non risponde. Dopo pochi minuti di silenzio e di sguardo mio ben rivolto al suo, si alza e se ne va. Ci rimango male. Ormai m’ero distratto e incuriosito. Parlare un po’ con lui non mi sarebbe dispiaciuto. Avevo probabilmente commesso qualche errore. Forse lui poteva pensare di essere Napoleone, io dovevo considerarlo, invece, soltanto una persona.
Ascoltare e dialogare con chi sta male e soffre non è facile.
Altre figure potrei “sistemare” in questa galleria. Conosciute personalmente o raccontatemi da altri: dalla mia alunna, in prima media, affetta da autismo alla madre depressa di un collega, dall’amico che in una crisi psicotica andò in giro nudo vicino alla Croce alla maniaca che raccoglieva carte per le strade fino a rimanerne sommersa. I vigili dovettero svuotarle l’unica stanza in cui abitava, un sottano, per il rischio elevato d’incendio. Poteva restarne bruciata.
Giorni fa ho chiesto ad un amico poeta se avesse un contributo da proporre per questo numero di POLISCRITTURE sul “disagio”. Mi ha risposto, mica tanto scherzando, che, se volevo, poteva mandarmi la sua foto. Ecco, nella galleria, potrei mettere, oltre alla sua, anche la mia. Non solo per l’album di famiglia al quale ho accennato. Ma perché tutti soffriamo di malinconia e stati momentaneamente depressivi. Come evitare la morte di un nostro caro o di una nostra cara? Come non pensare alla nostra? Tutti manifestiamo manie, ingorghi psichici, indifferenze, invidie, rancori, nevrosi, stati schizoidi, paranoici, psicotici. Vorrei non aver nulla a che fare con Olindo e Rosa, i due rei quasi confessi di Erba. Giuridicamente non ho nessuna responsabilità per quanto è successo. Non c’ero neanche! Se televisione e stampa non mi tempestassero con le loro immagini fredde e assenti, non saprei nulla della loro esistenza. E, tuttavia, posso credere che il “funzionamento mentale” (cognitivo, affettivo, emotivo, neuronale) di un folle e/o di un assassino sia così diverso dal mio? Se lo è, in cosa lo è? Dove, in quale punto, in quale momento, ogni storia si ramifica e singolarizza ed ognuno diventa un “caso” a sé? Perché Abele e perché Caino?…
Domande da milioni di dollari si dirà. Argomenti inesauribili, buoni ad impegnare decine e decine di esistenze. Centinaia, migliaia. Però, noi siamo fatti così. Cerchiamo il senso. Non ci basta essere presenti in questo mondo, respirare, percepire, nutrirsi, lavorare, riprodursi. Vogliamo chiarirci e spiegarci, afferrare e comprendere. Siamo affamati di significati. Vogliamo capire ciò che ci accomuna e ciò che ci divide, ciò che ci rende simili e ciò che ci differenzia.
In fondo, anche un assassino ha una testa (magari, non ben fatta come la vorrebbe Morin), un cuore e uno sguardo (magari, di ghiaccio), una doppia circolazione sanguigna, un funzionamento digestivo, metabolico e neuronale. Anche un assassino vede, sente, percepisce, parla, immagina, sogna, pensa. Vorremmo che fosse mostro, omuncolo o ciclope proveniente da un mondo totalmente altro. Belva, ad esempio, o marziano non di Marte. L’estraneità spaventa e, nello stesso tempo, rassicura. In fondo non siamo degli Hitler, non siamo impiegati anonimi e banali della fabbrica dello sterminio. Sì, forse sì. Per certi versi, sì. Non lo siamo. Non possiamo dimenticare, però, che folli, assassini, aguzzini, sterminatori sono impastati con la stessa farina degli Abeli, appartengono alla stessa specie di homo sapiens e/o insipiens. Questo, per la biologia almeno, per le neuroscienze. La biologia molecolare ci rende astrattamente uguali, la storia concretamente ci divide, differenzia, distingue. L’un contro l’altro armato.
Due anni fa, a fine marzo, visito il museo di Art Brut di Losanna. Il suo teorizzatore è Jean Dubuffet, artista e collezionista francese. Nell’anno torinese tra le mani mi era capitato un suo libretto, «Asfissiante cultura». Ma allora per me la cultura non era asfissiante e non ne ricavai granché. Ecco un altro pregiudizio: gli studenti del ’68 non erano contro la cultura. Erano contro l’autoritarismo e la cultura delle classi dominanti. Erano contro la maschera della “neutralità”.
A Losanna riscopro Jean Dubuffet e la sua voglia di libertà e sovversione dei valori filosofici ed estetici dominanti. La cultura si fa asfissiante quando paralizza l’immenso patrimonio di creatività e intelligenza presente in ognuno di noi, quando blocca la forza dell’esistenza, la sua irriducibile base istintuale e “selvatica”. Il bisogno di espressione è incomprimibile. E, quando viene compresso, la malattia può dilagare meglio. I tantissimi normali, per lo più, soffrono d’impotenza creativa.
Quante persone, dopo aver trascorso anni ed anni sui banchi di scuola, non prendono più in mano una penna, una matita, un libro? Quante persone si fanno prendere dal panico se devono scrivere un bigliettino d’auguri?
A Losanna vado con un gruppo di studentesse e alcuni docenti dell’Accademia di Brera. Accompagno Lucia, la seconda figlia. Ha finalmente deciso l’argomento della sua tesi. Si concentrerà sulla vita e sulle opere di un artista “irregolare”, uno di quelli che Dubuffet amava: Aloïse Corbaz. Ha visto alcune sue tavole nel catalogo «Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa» e ne è rimasta affascinata. È anche intenerita dalla storia d’amore di questa donna. Nata a Losanna nel 1886, a 27 anni, dopo essere stata costretta dalla sorella primogenita a rompere la sua relazione con un prete spretato, si trasferisce come istitutrice in Germania, nel castello di Potsdam. Qui investe affettivamente, come si direbbe oggi, niente meno che sul principe Guglielmo II. Sogno d’amore fiabesco, ardente e impossibile.
Quando per lo scoppio della prima guerra mondiale, torna a Losanna e vede il suo sogno crollare, comincia a dare segni di squilibrio, ad assumere comportamenti strani, a fare dichiarazioni visionarie e deliranti. Sostiene, ad esempio, di essere stata messa incinta da Cristo; va gridando per le strade che le stanno rubando il fidanzato. In breve, finisce in manicomio a trentadue anni e vi rimane fino alla morte. Tra quelle mura lotta per esprimersi. Comincia a disegnare, raccogliendo furtivamente carte tra le immondizie da scarabocchiare nel gabinetto, scrive pagine di una sua cosmogonia e attraverso un processo di proiezione permanente, sostituisce il mondo antico di un tempo che la nega con il suo universo immaginario, molto complesso e strutturato. Da vittima si trasforma in creatrice.
Nel 1941, la dottoressa Jacqueline Porret-Forel va ad incontrarla nella saletta di stiratura del manicomio, diventata suo feudo. Ne rimane affascinata. Comincia a portarle regolarmente carta e matite colorate. L’ascolta, comprende la sua attività, raccoglie i frammenti della sua storia, ne parla e scrive.
Per compilare la sua tesi, Lucia non può non studiare gli scritti di questa dottoressa. Uno per tutti, la monografia «Aloïse et le théâtre de l’univers» pubblicata dall’Edizione d’Arte Skira di Ginevra.
Ma la figlia non conosce il francese. Dovrò tradurre per lei. Ecco, tra l’altro, perché sono a Losanna.
«Dai, papà, perché non dici che questi argomenti piacciono anche a te!…». Edipismi? Probabile.
Fatto sta che da oltre due anni finisco col leggere storie di matti diventati artisti e storie di artisti diventati matti.
Buon ultimo, Adolf Wölfli.
Pochi mesi fa è stato tradotto in italiano il libro di Walter Morgenthaler del 1921 centrato sulla opera di questo artista che non sapeva di esser tale. Acquistandolo (titolo: «Arte e follia in Adolf Wölfli», ALET, 2007), guardo a lungo, nel retro di copertina, la sua foto. La mano destra è alzata, con l’indice rivolto verso un suo quadro. Ha in testa un basco nero, i pantaloni tenuti su con le bretelle, rigirati fino al ginocchio. Una camicia senza colletto, bianca, a mezze maniche e dei calzettoni da contadino, di lana ruvida, ripiegati sulla caviglia. È ritratto nella cella in cui si trovava nel 1920. In primo piano, nell’angolo a sinistra dell’osservatore, la pila dei suoi quaderni. Totale: 25.000 pagine scritte fittamente, contenenti la sua autobiografia. Sulla colonna di fascicoli, in inchiostro rosso granato, il grafico ha sovrapposto un giudizio di André Breton: “L’opera di Wölfli è una delle tre o quattro più importanti del Novecento.” È possibile farsene un’idea guardando le 25 tavole poste al centro del libro.
In appendice, la cartella clinica: «Ospedale psichiatrico di Waldau. Numero di ricovero: 4224 D 3. NOME: Wölfli Adolf. Data di nascita: 29.02.64 [1864, ovviamente]. Stato civile: celibe. Professione: contadino. Paese di origine: Schangnau. Residenza: Berna. Domicilio: Carcere giudiziario, Bühlstr. 27, Berna. Indirizzo dei familiari: Ufficio del Giudice istruttore II, Berna Marzo 1922. Nipote: Rudolf Wölfli, fochista, Bellevue Palace, Berna. DIAGNOSI PROVVISORIA: Caso in fase di analisi. DIAGNOSI DEFINITIVA: Dementia paranoides. Ricovero: 3 giugno 1895. Dimissione: 6 novembre 1930», giorno della sua morte.
Oltre alle 25.000 pagine dell’autobiografia, l’opera ciclopica di Sant’Adolf, come ad un certo punto comincia a firmarsi, comprende qualcosa come 1500 illustrazioni e 1560 collage.
Racconto ad un’amica di Wölfli finito in manicomio, in totale isolamento, anche per alcuni suoi tentativi, non riusciti, di pedofilia: «Non parlarne – mi fa – non parlarne.»
Il conformismo sociale è una cappa di piombo che avvolge ognuno di noi, è lo smog delle nostre anime. Quante volte, girando per le classi, inibisco manifestazioni d’affetto nei confronti dei bambini per paura che possano essere equivocate o male interpretate?
Sono, come dubitarne?, dalla parte delle vittime non dei pedofili, delle stuprate non degli stupratori, degli oppressi non di chi opprime, degli assassinati non degli assassini. E, tuttavia, perché non abituarsi a valutazioni differenziate, a giudizi articolati? In fondo una persona non si esaurisce in un atto, in una scelta, buona o cattiva che sia. Una volta con termine forte, teologico, si diceva “redenzione”. In giurisprudenza mi pare si dica “ravvedimento”. L’importante è non schiacciare noi stessi e i nostri simili in un’identità-prigione, in una modalità di presenza che ci sottrae qualsiasi altra possibilità. Spesso ci imprigioniamo da soli e gli altri non fanno che rafforzare le sbarre invisibili edificate col nostro stesso contributo. Nella lista dei tuoi nemici, metti il tuo nome, recita, all’incirca, un verso di Fortini.
Ogni tanto mi capita sotto gli occhi la cartella clinica di mia madre. Era una cardiopatica. Avevo quattro anni quando ebbe il primo scompenso. Lei ne aveva trenta. Mi ricordo bambino confuso e scombussolato dall’andirivieni di parenti e vicini di casa che si affollavano al suo capezzale. Mi tenevo stretto all’inferriata di un balcone con dei vasi di piante grasse pungenti, piangevo spaventato e chiedevo: «Cosa avete fatto a mamma mia!… Cosa avete fatto!…».Un medico le praticò un salasso, per fortuna superò la crisi, e il ricordo sbiadì.
Avevo, però, ventitré anni quando ebbe il secondo scompenso. Ricoverata d’urgenza, fu ripresa per un soffio. In una pausa, con gli occhi appena aperti e temendo forse di doversi congedare per sempre, chiese: «Ho fatto tutto quello che dovevo fare?… Mi sono comportata bene con voi?…Sono stata una brava madre?…». La rassicurammo. «Sei stata e sei bravissima!… Devi stare ancora qui con noi. ». Riconoscimento. Bisogno d’amore. Emozioni, affetti, pensieri che s’accendono quasi certamente con neuroni e sinapsi ma che hanno senso e significano qualcosa soltanto “tra”: nelle relazioni “tra” madre, padre e figli, “tra” amici e amiche, “tra” persone. In un luogo e in un tempo, in una comunità, in una società. In breve, in un mondo.
“Tra” è anche tra sé e sé, tra lo spazio interiore, una sorta di teatro che giorno dopo giorno ci cresce dentro-fuori, e il campo di relazioni fuori-dentro che manteniamo aperte, facciamo stagnare o chiudiamo. Chissà poi se chiudiamo davvero! Quante relazioni ci rimangono dentro in una specie di vita fantasmatica, spettrale. Relazioni fatte d’incontri visibili, con persone in carne e ossa (e non solo con esse), nutrite di parole, pensieri, fantasie, emozioni, immaginazioni, progetti più o meno realizzabili. Storie di vite interiori e di esistenze sociali. Probabilmente essere presenti a sé stesso non significa nient’altro che porsi il proprio sé davanti e chiedersi quali possibilità si hanno. Questo vuol dire forse trascendersi, oltrepassarsi. Ci sono momenti, situazioni, eventi che possono mettere in crisi questa presenza di noi a noi stessi. Quando non si vede via d’uscita, quando ci si sente in trappola, quando ci crescono dentro vortici, spirali incontrollati, voci invadenti che non si riescono a tenere a bada.
Uscire fuori di sé è necessario. Se ho capito qualcosa, sono le modalità di uscita che possono diventare incontrollabili. O forse bisognerebbe dichiarare il proprio scacco fin dall’inizio. Il re è nudo, l’Io è nudo. Non è padrone in casa propria. Abbandonarsi con la propria zattera corporea agli eventi – che rappresentano il modo ora lieto ora minaccioso, ora prevedibile ora imprevedibile, attraverso cui il mondo si apre a ciascuno di noi – e guidare – lasciarsi guidare tra derive momentanee e momentanei approdi. Tenere tra le mani il filo della propria esistenza è un lavorio quotidiano. “Mestiere di vivere” diceva Pavese.
Era proverbiale. Se una donna, giovane o vecchia, mostrava un comportamento un po’ strambo: «E che sei diventata Maria la pazza?!…», si sentiva apostrofare.
Abitava in una via per la Valle. La porta sempre aperta. Dovendo passare vicino, in quel punto, si diventava silenziosi e guardinghi, si buttava sospettosi l’occhio dentro, si valutava il pericolo.
Maria vestiva, dicevano le voci, da zingara: gonne larghe e vivacemente colorate, camicie bianche e sbuffanti, grembiali frasche e foglie, fazzoletto in testa smeraldo, annodato sulla nuca. Questo, in un paese in cui prevaleva il nero delle vedove o il blu carbonella delle donne con mariti e figli. Se non era blu, era grigio o avana. In certe occasioni verde scuro. «Dove te ne vai così sfarzosa?!…». Lo sfarzo che le donne si rimproveravano poteva essere rappresentato da un vestito turchese o verde chiaro. Saranno pure stati anni di boom economico, ma i colori del nostro mondo erano freddi, scuri. Senza dire dei tanti papà, a volte con intere famiglie, costretti ad emigrare.
Maria la pazza era imprevedibile, vociante, sbalestrata. Se la si vedeva arrivare alla fontana, col suo barile da riempire in perfetto equilibrio sul capo, le donne preferivano darle la precedenza. Per quanto possibile, la scansavano. La temevano persino gli uomini. Con qualcuno venne alle mani e portò per giorni il volto pieno di graffi.
Aveva figli, e noi non si voleva essere nei loro panni; marito, e questo ci importava di meno. Anche se, ogni tanto, lo si immaginava, poveretto!, costretto a tacere e sopportare. Lui che andava quasi quotidianamente in campagna.
Non ricordo se la situazione precipitò con la luce o col buio. Le voci dissero che minacciò con l’accetta marito e figli. O non minacciò soltanto. Addirittura provò ad affondarla nel corpo dei malcapitati.
Raccontarono pure che se la portarono i carabinieri, a fatica. Finì dove in quegli anni finivano tutti gli strambi, i disadattati, i fuori di giro, i violenti.
Di Maria non ho saputo più niente. Nessuno ha raccolto la sua storia.
10 MARZO 2008
* L'immagine è di Aloïse (Aloïse Corbaz, dite) La Couronne Impériale de la terre royale. Cahier Pâques 1943