Eva Illouz
di Cristiana Fischer
Caro Ennio, mi hai chiesto cosa pensassi dell’articolo di Paola Giacomoni sul libro di Eva Illouz “La fine dell’amore. Sociologia delle relazioni negative”, uscito su Le parole e le cose il 13 settembre 2021 (qui). Di riflessioni me ne ha suscitate parecchie e le raccolgo in tre questioni che mi sono posta:
– hanno un senso particolare, oggi, queste “relazioni negative” o ci sono sempre state?
– da che punto di vista Illouz dà conto della diffusione di queste relazioni: solo sociologico, come dice il titolo? e qual è il punto di vista di Giacomoni?
– chi sono le donne che adottano quel comportamento?
Innanzitutto la definizione: “Le relazioni negative hanno scopi indistinti, nebulosi, indefiniti, non hanno regole schematizzate di ingaggio e di disingaggio, comportano pochissime, se non nessuna punizione per la loro distruzione. […] Le relazioni negative si manifestano nella decisione, conscia o inconscia da parte di molti uomini e molte donne, di non stabilire rapporti stabili e di non avere figli e nel fatto che, negli ultimi vent’anni, i nuclei familiari unipersonali hanno visto un notevole aumento» ( Illouz, pp. 31,32 ).
“Decisione conscia o inconscia”: si tratta quindi di un comportamento diffuso e quasi necessitato dalle condizioni di vita generali della modernità avanzata, o modernità contemporanea, o ipermodernità che, come scrive Paola Giacomoni, si relaziona con il “tema dell’evoluzione della «modernità emotiva» sullo sfondo delle trasformazioni del capitalismo dalla sua forma classica a quella monopolistica e di consumo che ha intriso delle sue regole il modo in cui viviamo l’amore e le relazioni intime”.
L’articolo di Paola Giacomoni fa parte infatti di una rubrica su LPLC a cura di Federica Gregoratto: l’amore ai tempi del neoliberalismo. Quindi sono andata a leggere “Poliamore e neoliberalismo”, l’articolo che Gregoratto ha pubblicato il 14 settembre 2020 (qui, quando la sua rubrica era appena stata aperta.
L’articolo riguarda “la possibilità, il piacere, e il diritto di amare e desiderare, essere amate e desiderate da più persone contemporaneamente”. Una concezione dell’amore che non è “quantità definita e quantificabile”, ma moltiplicabile, come in realtà è sempre avvenuto per l’amore verso i figli. (Qui si potrebbe rilevare come oggi la quantità di amore genitoriale si riduca, data la generale disposizione a generare un solo figlio, proprio mentre l’amore si moltiplica verso una pluralità di amanti.)
La conclusione cui mira “Poliamore e capitalismo” è però politica. Riferendosi a una canzone di Leonard Cohen che coinvolge un suo amore, una donna che ha intrecciato contemporaneamente un amore anche con un amico del cantante, Gregoratto conclude che “Cohen, Jane e l’amico non hanno del resto nemmeno l’intenzione di cambiare il mondo a partire dalla loro esperienza […] è forse proprio da questo sottrarsi alle responsabilità, alle bandiere, ai manifesti, che può riverberarsi un significato politico?”
Torno alle “relazioni negative” per chiedermi: con che distacco Illouz e Giacomoni guardano a quelle molte donne che entrano in relazioni “estranee a ogni progetto comune e a narrazioni sociali che conferiscano alla scelta un valore più ampio e una stabilità”? L’impostazione sociologica di Illouz disegna quasi un nuovo tipo umano femminile, donne che entrano nelle relazioni attraverso il sesso e non viceversa, “in un universo completamente sessualizzato, che corrisponde […] sostanzialmente al modello della sessualità al maschile.”
A questo punto Paola Giacomoni, che recensisce il libro, avanza alcune osservazioni. Innanzitutto si chiede “se davvero le donne di oggi hanno introiettato il modello sessuale maschile o se non hanno invece trovato che la separazione tra sesso ed emozioni non è poi così male”. Si chiede poi se sia il mercato a rendere possibile un consumismo sessuale diffuso ed endemico, o se non sarebbe da confrontare con il “libertinismo sessuale settecentesco, reinterpretando Casanova, che certo era un consumatore seriale, ma non provvisto del distacco nichilista di oggi”.
Propone infine una domanda cui il libro di Illouz non risponde: che funzione può svolgere oggi l’amore romantico, che negli anni ’60 ha rappresentato la “scelta sentimentale autentica dei contraenti”? E quindi: “se la massima espressione della libertà porta alla propria autodissoluzione, quali indizi possiamo individuare nel modello prevalente che consentano di immaginare almeno brandelli di schemi costruttivi che non siano il ritorno al passato patriarcale? A questa domanda in un testo tanto ricco non troviamo però alcuna
risposta”.
Al centro della mia/nostra esperienza femminista era “il senso libero della differenza sessuale”. Cos’è la libertà femminile? E’ la mia libertà. Il senso libero della mia differenza femminile lo esprimo in prima persona.
Voglio dire che ogni donna è una donna è una donna è una donna… in quanto sa di esserlo.
Quindi la farfallona (la Casanova), la sposa devota, l’amante lesbica e la suora di clausura, l’attrice femminista e la professionista ambiziosa, la madre la figlia sorella nipote cugina suocera e, e, e… Non sarò io a dire a un’altra donna in che modo dovrà essere una donna. Ma se vuole si confronterà in una relazione con me.
Come si offrono a me la ricerca sociologica di Illouz e le osservazioni di Giacomoni? Mi informano e mi propongono delle scelte, di cui vedono anche le mancanze, ma si attengono a criteri euristici basati sulla generalizzazione, esterni alle donne di cui parlano. Di esse io niente so, quindi anch’io guardo da fuori queste “relazioni negative” mentre, per capire davvero, aspetterei che una o più donne si raccontassero nel vivere a quel modo sessualità e emozioni. Ma questo è un lavoro che fanno le narratrici, sarebbe letteratura.
Qualche tempo prima, il 19 marzo 2019, Federica Gregoratto aveva pubblicato “La riproduzione della vita sociale e i suoi problemi. Qualche riflessione sullo sciopero femminista e il Manifesto per il 99%” (qui). Questo articolo, che non appartiene alla rubrica che Gregoratto allora non aveva ancora aperto, parla di sua madre che “è quasi sempre stata una casalinga e una mamma a tempo pieno. Questo è sempre stato il suo lavoro, prendersi cura di me, mio fratello, mio padre, della nostra casa, ma anche di un sacco di gente e di cose intorno a lei”.
Il “lavoro della riproduzione della vita sociale” unifica tutte le donne e rinchiude già in sé altri tipi di lavoro, lavoro d’amore e di cura, altri aspetti di lavoro immateriale, ed è manipolazione, appropriazione e trasformazione della natura.
Gregoratto guarda al movimento di quegli anni, transnazionale e non solo femminista ma anti-razzista, ecologista e anti-imperialista, come ha scritto per esempio la femminista socialista Judith Butler. Ma io rifiuto la affermazione di Gregoratto, che il lavoro di riproduzione della vita sociale sia “l’unica cosa che hanno in comune donne appartenenti a classi e gruppi sociali diversi, migranti o autoctone, coloro che rinunciano a un salario indipendente, coloro che hanno una carriera prestigiosa ma poi si ritrovano con un ‘secondo turno’ a casa, e coloro che si destreggiano tra le varie gigs di una cosiddetta gig economy che precarizza e indebita al di là delle capacità emotive, psicologiche e fisiche di sopportazione”. Anche questa idea si basa su un procedimento di generalizzazione: attraverso il lavoro d’amore è vero che quasi tutte ci occupiamo di riprodurre la vita sociale, curando la famiglia, e poi nei lavori “femminili”, come insegnare, medicare, giudicare.
Questo lavoro di cura è anche spesso un doppio legame e non una scelta. Però è anche una scelta: quella di continuare a far esistere elementi di civiltà e riconoscimento nei rapporti sociali. E’ questa, se mai, “l’unica cosa che hanno in comune donne appartenenti a classi e gruppi sociali diversi, migranti o autoctone”.
Sottostante a questo lavoro di riproduzione della vita sociale, in fondo, c’è amore per la libertà e non solo mia.