1- il quadrato magico Continua la lettura di Sraffa, Marx e la primavera
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le grandezze economiche, le loro mutevoli definizioni e il gatto di Schrödinger che diventa marxiano
1- garbage in, garbage out
È un modo di dire informatico: se a un calcolatore dai in pasto spazzatura quello che otterrai sarà sempre spazzatura.
In economia questo significa che le nostre condizioni di partenza devono essere ineccepibili: le definizioni solide, non contradditorie, prive di presupposti nascosti, sufficienti a determinare tutti gli elementi successivi; le condizioni iniziali sensate e corrispondenti ad elementi empirici verificabili.
Iniziamo dai presupposti nascosti, e per chiarire cosa sono facciamo un esempio:
a) una storiella macabra: padre e figlio vanno in macchina, l’auto esce di strada; il padre muore, il figlio viene trasportato in ospedale. Portato in sala operatoria il chirurgo arriva, impallidisce e dice: non posso operarlo, è mio figlio. Come mai?
b) un problema geometrico: con 6 stecchini (o fiammiferi, o legnetti della stessa lunghezza) costruire 4 triangoli equilateri. Provate.
Questo e simili problemi sono stati posti a molte persone di tutti i livelli di cultura e intelligenza, e in tutti i casi hanno provocato notevoli turbamenti: qualcuno trovava la soluzione quasi immediatamente, per intuizione; qualcun altro si arrabbattava, cercava di cambiare i dati della questione per adattarli alla soluzione che aveva pensato; altri ancora dopo un poco ricorrevano alla forza bruta della logica:
nel primo caso la logica guarda la situazione partendo dal figlio, che ha padre e madre; se il padre muore il genitore che rimane è la madre; il presupposto fuorviante nasce dall’uso maschile di parole comuni come avvocato, sindaco, chirurgo…(anche se questo esempio è un pò datato…)
nel secondo caso la logica dice: un triangolo equilatero ha 3 lati uguali; quindi 4 triangoli hanno 12 lati; avendo sei stecchini ognuno di essi dovrà essere il lato di due triangoli; ma se li mettiamo sul piano il massimo che possiamo ottenere sono due triangoli combacianti; allora la soluzione non può essere sul piano; quindi è nello spazio: un tetraedro.
E in Economia? Qui i presupposti nascosti non mancano, e giocano a rimpiattino fra di loro: valore, costo, prezzo hanno tra di loro un rapporto ambiguo e a volte si fondano l’uno sull’altro in un’infinita catena ricorrente.
È come il gatto di Schrödinger: nella scatola è vivo e morto contemporaneamente..ma quando la apri è troppo tardi per salvarlo se è morto. Concetti come quello di equilibrio hanno in Economia lo stesso statuto, per non parlare della ‘mano invisibile’ che regola il mercato, di natura ancora più multipla della trinità celeste.
La terza puntata degli scritti di Sraffa qui di fianco si occupa di questo problema, mentre intanto andiamo a ritroso nel tempo per riuscire a vederne un significato non ambiguo ma scientificamente (in antropologia) fondato.
Nel frattempo vi lascio un altro problemino:
-perchè il PIL dovrebbe sempre crescere di anno in anno?
2- l’origine del denaro e del debito
Se ancora con David Graeber (‘Debt, the first 5000 years’) ripercorriamo la storia dell’umanità dalle origini, ancora una volta scopriamo che quello che viene dato per saggezza acquisita è in realtà una serie di fantasie e ipotesi ideologicamente motivate che poco hanno a che fare con la vita sociale dei nostri antenati.
Cominciamo dal debito, questo termine è architrave di tanta parte della nostra morale, della religione, del rapporto con lo stato: il debito che abbiamo coi nostri antenati, il debito alla natura o agli dei che ci hanno generati, il debito alla società che ci ha allevato e istruito e ci protegge….Ma tutti questi elementi sono parte dello stesso discorso che vede come carattere precipuo dell’uomo lo scambio e nella sua forma primitiva il baratto, quello stesso baratto che abbiamo visto essere solo elemento secondario e residuo dei rapporti sociali con stranieri.
Ma nelle aggregazioni sociali antiche anche urbane non c’è all’origine un’economia di scambio: i beni acquisiti attraverso l’attività di raccolta/caccia contribuiscono ad uno stato di parziale autosufficienza; laddove questa non è completa, sia per elementi di divisione del lavoro (a.e. la produzione di frecce) sia per motivi contingenti non c’è scambio ma dono: a chi manca qualcosa viene dato, senza promessa di restituzione; è un giro continuo, con tutte le sue irregolarità ed aleatoietà. Per mantenere un minimo di equilibrio la morale è costruita colle favole (come lo scroccone dei miti Lakota), ribadita nell’eloquenza dei capi; quando c’è un sovrappiù, vuoi per la stagione vuoi perchè c’è un allevamento-coltivazione estemporanea, il consiglio delle donne raccoglie e distribuisce. In tutte le origini, ma anche al livello base delle società più tarde troviamo questa forma di comunismo semplice.
Laddove dal dono si passa allo scambio fra equivalenti questo presuppone che anche i soggetti che scambiano siano degli uguali; il mercato è solo possibile a questa condizione. Col debito e poi col mercato nasce la misura, le equivalenze, l’unità: tradotta in metalli od oggetti preziosi prima, usata negli scambi con stranieri dopo, strumento dello stato per raccogliere le tasse e creare il mercato, mezzo di scambio universale solo qualche migliaio di anni più tardi. Le prime equivalenze nascono al di fuori dello scambio: sono i conti dettagliati di cosa si debba dare alla famiglia per l’uccisione di un uomo, la sua mutilazione, il suo onore. Rimangono fatto privato, non scambiabile. È solo coi mercanti che girano in terre straniere che i debiti diventano scambiabili: le lettere di credito dei Sumeri anticipano di 4000 anni quelle dei banchieri toscani, e la fiducia è parte essenziale del numerario. È solo in Cina che il metallo della moneta si scontra con l’uso simbolico, in una continua lotta tra il Confucianesimo di stato e le migliaia di templi buddisti che fondono il rame delle monete per costruire i tetti.
Ma è interessante ricordare le motivazioni per cui nell’Islam e nel Cristianesimo era vietato l’interesse (usura, nel suo termine classico): nel secondo perchè il tempo è di dio, e quindi il tempo del denaro (quello del prestito) non può essere appropriato dagli uomini (San Basilio il più intransigente); nel primo perchè la moneta di per sè non ha valore, e quindi di per sè non può dare frutti.
(In entrambi però si trova presto la scappatoia, con la ‘eccezione di Ambrogio’, che esclude da questa legge gli stranieri..aprendo la strada all’uso degli ebrei come usurai per conto altrui e poi anche proprio; e in Maometto-che mercante era nato- con la remunerazione del rischio).
3- i modelli economici
Un modello economico è fatto di tre strati:
la definizione delle grandezze materiali (beni di consumo, macchinari, tempo di lavoro..)
l’introduzione di grandezze astratte che implicano classificazioni e comparazioni (industrie, prezzi, valori, profitto..)
l’introduzione di relazioni tra tutte queste grandezze.
Ignoriamo per il momento il fatto che queste definizioni ed astrazioni sono spesso caricaturali, riducendo il lavoratore ad una macchietta con la casacca a righe e la palla al piede, o peggio false in quanto semplicistiche: come l’antropologia moderna ci insegna scambio e moneta sono momenti parziali dei rapporti sociali, che possono venire abbandonati per scelta in qualsiasi momento; la loro ossificazione esprime solo un rapporto di forza tra classi sociali e non una legge naturale.
Torniamo ai modelli; possiamo distinguerli in due grandi categorie: quelli intelligenti, che cercano risposta ad una domanda del tipo: cosa succede se varia una certa grandezza? Come e quanto si ripercuotono i suoi effetti?
Il che implica preliminarmente che le grandezze in gioco siano legate fra di loro con rapporti funzionali diretti o indiretti.
(Nel primo caso ad esempio abbiamo y=3x, che è rappresentato da una retta, quindi all’aumentare di x anche y aumenta linearmente; nel secondo abbiamo y+x=2, che possiamo però mettere in forma funzionale diretta: y=2-x /anch’esso una retta/, quindi all’aumentare di x vediamo y diminuire linearmente; e tutte le forme anche più complicate /esponenziali, iperboliche,…/ ma sempre logicamente ben determinate).
La seconda categoria è quella dei modelli stupidi (tecnicamente parlando): si mettono dentro tutti i dati e le relazioni empiriche di un certo momento e si cerca di farne un sistema completo. Un esempio è il modello econometrico dell’economia italiana M1B1 della Banca d’Italia degli anni ’60, pieno zeppo di coefficienti ad hoc nelle relazioni fra grandezze in modo da far tornare i conti. Un’operazione di questo tipo è stupida perchè non cerca di capire il funzionamento del sistema, quindi le relazioni principali tra i suoi elementi, ma descrive solo lo stato in un certo istante; senza nessuna idea di come e perchè questo possa variare nei tempi successivi. (È anche in parte il metodo di quella che con involontaria ironia si chiama intelligenza artificiale, in particolare i metodi basati sulle reti neurali: si danno in pasto a una popolazione di neuroni virtuali una serie di dati grezzi e si fa evolvere darwinianamente la popolazione finchè non dà immagini con un qualche senso.)
Un modello intelligente deve operare una selezione e individuare un nucleo fondamentale di relazioni.
Le tabelle di input-output di Leontief sono una buona rappresentazione della loro parte materiale: da un lato (input) c’è la tabella in cui ogni riga rappresenta un’industria coi suoi componenti e i prodotti che utilizza, dall’altro (output) la tabella coi prodotti relativi.
Su questa base incominciano le relazioni e le domande: una parte sono le condizioni efficienti di riproduzione (in modo da avere l’anno successivo un sistema completo e vitale) , l’altra parte sono i termini normalmente espressi in termini monetari: profitti, prezzi, di equilibrio o differenziati.
Le domande dell’economia classica sono essenzialmente tre:
– da dove viene la ricchezza/il profitto
– come si distribuisce la ricchezza
– se e come si può generare un equilibrio ottimale; nella sua forma più generale tale che tutti i fattori vengano retribuiti equamente (cioè in proporzione alla propria quota di partecipazione)
La nuova teoria marginalista lascia cadere la prima domanda, ed è poco interessata anche alla seconda; piuttosto, utilizzando metodi matematici un filo più avanzati come le derivate, cerca ottimi parziali, legati cioè a particolari fasi del processo produttivo. Il rovesciamento del punto di vista classico diventa completo quando alla ricerca del rapporto tra prezzi e lavoro incorporato si sostituiscono le preferenze dei consumatori nella determinazione dei prezzi. Gli ottimi Paretiani che compaiono al proposito fanno nominalmente omaggio alla complessità dei rapporti sociali che sottendono lo scambio capitalistico, ma di fatto ne coprono con un velo illusorio la sostanza. Quello scambio che nasce come rapporto tra uguali diventa scambio ineguale nel processo diretto e anche nel rapporto con l’esterno: i rapporti di forza e di classe vengono occultati nell’astrazione delle merci e delle ‘propensioni al consumo’.
Walras traduce in forma compiuta questo procedimento e formula un modello generale; rendendolo dinamico otteniamo un modello dinamico di equilibrio economico generale, in altri termini un modello di sviluppo.
La differenza coi modelli statici è che che le variabili (prezzi, quantità prodotte) sono funzioni del tempo attuale (t) e del tempo precedente (t-1). E non compaiono solo le quantità ma le loro derivate parziali, ovvero la variazione della quantità rispetto a una sua componente; che ne descrive la dipendenza istantanea. (Quelle che sono comunemente (e oscuramente) denominate quantità marginali: costo marginale significa che, supposto che il costo C sia funzione della quantità prodotta y -(C=C(y))- allora ∂C/∂y è la variazione del costo al variare della quantità prodotta-e viene chiamato costo marginale. Analogamente per produttività marginale e simili).
L’utilizzo dell’ipotesi della concorrenza perfetta permette anche di assumere come risolto il problema della riproducibilità fisica del sistema (che i beni prodotti siano uguali a quelli consumati). (v. nota 4)
Una soluzione a questo modello esiste (v Manara, nota 1) con una caratteristica precipua: per ottenere i prezzi di equilibrio è necessario fissare il tasso di interesse. Ovvero rimane indeterminato, con una variabile libera, e la soluzione è in realtà una serie di tassi di interesse cui corrisponde una serie di tabelle di prezzi. (v. nota 3)
Il modello generale da noi presentato in precedenza, che corrisponde allo schema rappresentato nel terzo volume del Capitale di Marx (v. nota 2) , diventava invece sovradeterminato se cercavamo contemporaneamente la corrispondenza tra prezzi e valori.
Una considerazione importante era però che questo corrispondeva alla natura contradditoria del processo produttivo, dove in realtà l’equilibrio è sempre un processo dinamico e mai soddisfatto, e dove la corrispondenza univoca valori-lavoro/prezzi era il riferimento ideale e insieme instabile. Tuttavia, nonostante in varie forme questa considerazione sia stata il motore della ricerca marxiana (dal carattere esterno dell’equilibrio di Rosa Luxemburg e alle sue varianti moderne terzomondiste in poi nelle teorie del consumo), rimane logicamente poco soddisfacente.
Una risposta diversa è stata data da Sraffa prima (e altri come Gianfranco Pala su linee corrispondenti) dove si cercava di preservare il lavoro accumulato come motore e unità di misura, anche se in forma indiretta.
Ma l’elemento di indeterminazione della soluzione all’equilibrio dinamico generale ci permette anche un’altra strada, facendo rientrare dalla finestra quel valore-lavoro che era stato ignorato alla porta: il tasso di interesse (o il saggio del profitto, che sono equivalenti dal punto di vista logico nel modello matematico) non lo consideriamo arbitrario -cosa che non appare nè logica nè vera osservando la realtà- ma come determinato dal saggio di sfruttamento; cioè da quel rapporto tra lavoro pagato e lavoro non pagato che è alla base dell’analisi marxiana.
Potremmo anche utilizzare il grado di libertà che la soluzione contiene per reintrodurre direttamente il rapporto prezzi-valori, ma ci cacceremmo in un ginepraio difficilmente traducibile in termini concreti. Ci basta rimandare alla dimostrazione di Pala sulla riconducibilità in linea di massima dei prezzi a una somma storica di valori-lavoro.
Quindi l’indeterminatezza si trasforma per necessità in un sistema univoco, con gran dispetto di Schrødinger che non trova più il suo gatto e anche di tutta l’ideologia che si era fatta economia.
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1-Equazione Equilibrio generale Dinamico (Manara in 1, p 197 seg.)
Questa è una delle equazioni di sintesi del modello, che al di là della formulazione in un linguaggio tecnico esprime una cosa molto semplice: l’esistenza di una relazione tra tutti i beni di produzione e di consumo valutati coi loro prezzi attuali e precedenti.
Ha un carattere talmente generale da essere anche generico, e l’elemento importante in realtà è il fatto che pur con questa genericità esista una soluzione. Riprende sia il modello di Leontief che quelli di von Neumann e Walras.
2-Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come una progressiva espropriazione del proprio tempo, trasformato in tempo di lavoro collettivo controllato dal capitale.
Marx è l’ultimo economista che si occupa dell’origine del profitto (tema centrale dell’economia classica sino a Ricardo), e la sua analisi parte dalla giornata di lavoro, il cui tempo viene diviso in due parti: una in cui il lavoratore lavora per sé, l’altra per il padrone. Questa seconda dà origine al profitto.
Il capitalista investe del denaro D per ottenere dell’altro denaro D’, che includa un guadagno
D -> D’, D’–D=R (profitto), (R/D == saggio profitto)
come nasce R:
nel processo produttivo abbiamo:
–cc: capitale costante (macchinari, stabilimenti),
–cv: capitale variabile (gli operai);
–sv: il surplus prodotto solo da cv (quello prodotto nel tempo ‘del padrone’);
quindi:
il capitalista trasforma il denaro D in mezzi di produzione, cc e cv e ne ottiene un prodotto p (che contiene il pluslavoro sv) che trasforma sul mercato in nuovo denaro
D’: cc+cv+sv= p (prodotto) R=sv
e, chiamando r il saggio:
r= sv/(cc+cv)
introduciamo due grandezze: il saggio di sfruttamento e, cioé il rapporto sv/cv, che ci dice quanta parte della giornata lavorativa l’operaio lavora per se e quanta per il padrone e la composizione organica del capitale, o, il rapporto cc/cv, che dice quanto macchinario usa una fabbrica in proporzione agli operai; allora possiamo riscrivere, dividendo sopra e sotto per cv:
r= e/(o+1)
che ci dice che il saggio del profitto é direttamente proporzionale al saggio di sfruttamento e inversamente proporzionale alla composizione organica.
3– un sistema di equazioni è fatto di n equazioni e m variabili.
Se n=m allora il sistema ha una soluzione;
se n>m allora è sovradeterminato e non ha soluzioni;
se n<m allora è indeterminato, e si può risolvere solo rispetto a n variabili lasciando le altre ‘libere’
4-‘Was aber die Koncurrenz nicht zeigt, das ist die Wertbestimmung, die die Bewegung der Produktion beherrecht’ -Marx, op. cit, p. 219 (Quello che la concorrenza però non mostra è il contenuto di valore che regola l’andamento della produzione’
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Riferimenti bibliografici
C.F. Manara, P.C. Nicola, Elementi di Economia Matematica, Viscontea 1970
H.R. Varian ed, Economic and Financial Modelling with Mathematica, Springer 1993
J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behaviour, Princeton U.P. 1944
Marco Lippi, i prezzi di produzione, il Mulino,1979
Samir Amin-L’accumulation a l’échelle mondiale-Anthropos, 1970
Wassily Leontief, Il futuro dell’economia mondiale, Mondadori 1977
J. Gillman, Il saggio del profitto, Editori Riuniti, 1961
Michio Morishima, Theory of Economic Growth, Clarendon, 1969
Gianfranco Pala, L’ultima crisi, Franco Angeli, 1982
Karl Marx, Das Kapital, dritter band, Dietz 1965 (1894)
Paolo Di Marco, Modelli Economici, in Metodi matematici ed Economia, Clup 1983
Paul Baran, Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli 1962
David Graeber, Debito, gli ultimi 5000 anni, il Saggiatore, 2014
David Graeber, L’alba di tutto, Rizzoli 2022
Jon Tisdall, in Enciclopedia Essenziale dei Finali, ‘Alfiere contro Cavallo’ , Prisma 1999
la dolorosa nascita dell’economia
di Paolo Di MarcoNambikwara (Brasile) durante una festa di incontro tra gruppi (come lo dzamalag australiano)
1- l’invenzione di Adam Smith
‘Il fattore cruciale è la capacità del denaro di trasformare la moralità in una questione di impersonale aritmetica-e così facendo, di giustificare cose che altrimenti sembrerebbero scandalose od oscene’..:.e questa quantificazione è strettamente intrecciata alla violenza, quella stessa da cui originano stato e mercato.
Graeber, David. Debt (p.29). Melville House. Continua la lettura di la dolorosa nascita dell’economia
Sraffa e il valore
PIERO SRAFFA
Esergo
“Tutte le epoche in regresso e in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” W. Goethe nei colloqui con Eckermann
«La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana» (14). 14 Ont. II, p. 739. Lukacs
Sraffa dopo Graziani di Emiliano Brancaccio
L’interpretazione del sistema sraffiano suggerita da Augusto Graziani può essere intesa non come un’alternativa ma come un possibile complemento delle analisi tradizionali di tipo classico-keynesiano. La chiave di lettura grazianea sembra particolarmente adatta a descrivere la dura realtà del comando capitalistico contemporaneo e pare suggerire una interpretazione dello schema di Sraffa in chiave “rivoluzionaria”, critica verso le concrete possibilità del riformismo politico. Continua la lettura di Sraffa e il valore
La Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA)
Alla ricerca del Marx perduto (1)
a cura di Ennio Abate
1.
Uno degli esempi più significativi di questa riscoperta [di Marx] è costituito proprio dalla MEGA.[1] Questa impresa riveste grande importanza per la ricerca su Marx, se si considera che una parte dei manoscritti di Il capitale di Marx, delle lettere a lui indirizzate e della immensa mole di estratti e annotazioni, che egli era solito compilare dai testi che leggeva, è sta pubblicata dopo il 1998 o è tuttora inedita. Continua la lettura di La Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA)
l’invenzione dell’egoismo
di Paolo Di Marco
Ju/'Hoansi del nord Kalahari
1- le tribù dei raccoglitori-cacciatori
Nell’Aprile del 1966 la conferenza ‘Man, the Hunter’ (l’uomo, il cacciatore), convocata a Chicago dall’antropologo Richard Lee fu molto affollata; si era sparsa la voce che i risultati presentati sarebbero stati sorprendenti. Partecipavano i classici rappresentanti dell’antropologia accademica, compreso Levi Strauss, ma anche molti dei giovani antropologi che negli anni ’60, stanchi della pochezza dei dati forniti dagli studi archeologici avevano deciso di buttarsi nel campo a studiare i pochi sopravvisuti dei popoli di raccoglitori-cacciatori dell’antichità.
In quel periodo la saggezza convenzionale era che i popoli primitivi vivessero una vita di stenti, passando tutto il tempo a cercare uno scarso cibo che raramente li sfamava e morendo giovani sempre di stenti. E che quindi i pochi rimasti fossero un caso fortuito di nicchie di miserabile sopravvivenza.
Insieme a Lee che era stato nel Kalahari tra i Ju/‘Hoansi c’erano antropologi che avevano seguito lo stesso percorso nell’Artico, in Australia, in Asia sudorientale. E furono tutti concordi nel rovesciare il paradigma: nonostante la siccità che nello stesso periodo aveva costretto le popolazioni agricole della zona a sopravvivere di aiuti paracadutati, gli Ju/‘Hoansi avevano mantenuto un livello ottimale di alimentazione di 2104 calorie al giorno (il 10% in più di quanto oggi si raccomanda per persone della loro statura).
E questo con uno sforzo modesto: procurando il cibo 17 ore la settimana (esclusi anziani e bambini) e facendo altre attività (dal cucinare al riparare gli utensili) per 20 ore. Una media pari alla metà di un adulto americano.
E nonostante Lee avesse i conti più dettagliati la sostanza della sua analisi era condivisa da tutti gli altri antropologi sul campo.
Per inciso, come già rimarcato ne ‘Il giardino dell’Eden’, la vità della tribù era improntata ad una prassi rigorosamente comunitaria, senza proprietà privata né gerarchie di alcun tipo.
Per 300000 anni questo tipo di vita continuò con successo; i reperti archeologici mostrano che le comunità erano durevoli e mantenevano le stesse dimensioni, senza quindi carestie nè eccessi.
E non venivano neppure create riserve: ogni giorno si raccoglieva/cacciava solo ciò che serviva nell’immediato. Ed era una scelta precisa.
Per comprenderla occorre guardare all’ambiente come parte integrante ed attiva della comunità. Mentre Conrad nel suo Cuore di Tenebra, in preda alle allucinazioni della malaria e della dissenteria, descriveva la foresta intorno a lui come incubo vivente, popolato di bruti e di istinti dimenticati (ma nel mezzo del più brutale e vigliacco saccheggio che i bianchi abbiano mai perpetrato, grazie al re Leopoldo), i BaMbuti, che questa stessa foresta abitavano, la descrivevano come madre amorevole e protettrice.
In un rapporto di scambio reciproco ed equilibrio che il sovrasfruttamento o la sovrappopolazione avrebbero spezzato, minando la sopravvivenza stessa del popolo.
BaMbuti del Congo
2- le tribù degli economisti
In quel convegno erano presenti anche gli antropologi sociali che si occupavano di economia, divisi nelle due tribù dei formalisti e dei sostanzialisti.
Per i primi le economie primitive come quella dei Ju/‘Hoansi erano versioni elementari delle economie capitalistiche, basate sugli stessi impulsi e desideri primitivi, e alla base l’elemento universale che le accomunava erano la scarsità e la concorrenza. La definizione di economia come allocazione di risorse scarse diventa fatto naturale. La concorrenza e la volontà di ciascuno di perseguire il proprio interesse innanzitutto diventano anch’essi istinti e tendenze naturali. (Per gli economisti marginalisti).
I sostanzialisti, il cui rappresentante più interessante è Karl Polanyi vedono piuttosto come universale l’hybris dei sostenitori dei mercati e la razionalità della concorrenza come un sottoprodotto culturale dell’economia di mercato.
Al convegno era presente Marshall Sahlins, con qualche esperienza sul campo ma ferrato nelle questioni di economia, e la sintesi che ricava è sostanzialista: gli Ju/‘Hoansi erano la vera ‘società del benessere’.
E in effetti è stata l’economia di maggior successo della storia umana: per 300000 anni gli uomini sono stati bene, hanno lavorato poco, si sono spartiti equamente i prodotti del lavoro, sono stati in equilibrio fra di loro e con l’ambiente.
3- libertà vo cercando..
Mentre questo avrà sviluppi importanti per la teoria economica val la pena soffermarsi su come l’ideologia abbia falsato la nostra immagine del mondo e dell’uomo stesso, dando come elementi costitutivi della natura umana elementi che erano invece culturalmente indotti o semplicemente ipostatizzati.
Ed è ancora strettamente legata all’economia, reale e definita, l’idea di libertà che viene declinata in tutte le forme e accenti.
Mi resi conto di quale groviglio di elementi comprendesse quando tantissimi anni fa, supplente in un Istituto Tecnico in un periodo di agitazioni e occupazioni, diedi ai miei studenti un tema sul potere apparentemente semplice: ‘elenca tutte le persone che hanno potere su di te’. Ne venne di fuori di tutto: dai genitori al bidello agli insegnanti al bigliettaio del tram al prorietario della casa dei genitori al poliziotto ai vigile al finanziere che speculava sui terreni vicino a casa al prete al segretario della sezione giovanile a…..
Personaggi abitanti livelli diversi, con ruoli diversi, con cui però le sue possibilità di scelta si incontravano/scontravano. A volte direttamente, altre solo da lontano.
Ma se vogliamo portare avanti un discorso che non veda la libertà come pulsione interiore o ideale ma come fatto concreto dobbiamo iniziare a misurarla con le scelte possibili, un po’ come fa la definizione di informazione. E quindi rapportarla a tutti i cammini e i bivi di questi su ognuno dei piani che compongono la nostra vita.
Sembra complicato, e questo è però anche il nocciolo del discorso: viviamo in una società complessa, il cui funzionamento è legato all’interazione tra tutti i suoi elementi. Immaginare che ci sia una definizione semplice è illusorio. Immaginare che esista ‘la libertà’ è illusorio.
Se riguardiamo l’insieme dei cammini su piani diversi di cui è composta la nostra vita, e di tutte le scelte che su ognuno di essi possiamo fare, quand’anche dessimo massimo peso a un piano o un altro non possiamo che immaginare la libertà come una tabella di valori che bene o male vorremmo massimizzare. Senza ancora tener conto del peso di queste scelte sugli altri, di quanto siano accettabili per loro e anche per noi.
Dato che bene o male sopravviviamo ci siamo costruiti fin dall’infanzia una serie di meccanismi automatici, di abitudini, o altri le hanno scelte per noi e sono diventate parte di noi. Come per il multiverso le molte scelte possibili può darsi che si semplifichino, riconducano a pochi elementi, ma assai difficili da valutare.
Pensiamo nella storia degli Stati Uniti a due tipi di anarchici: quelli ‘di destra’ del Texas, alla Clint Eastwood, cresciuti fieri della propria indipendenza, convinti di essere autosufficienti senza bisogno né di altri né di autorità né dello Stato. Chiudendo gli occhi al fatto che la luce, le strade, le ferrovie, le automobili, i fucili glieli forniscono altri, che la loro autosufficienza è più uno stato dell’animo che un fatto reale. E che la terra su cui galoppano è stata rubata ai messicani e agli indiani.
E i wobblies, gli anarcosindacalisti rivoluzionari dell’IWW (l’erede della Prima Internazionale), convinti che la propria libertà è solo il frutto di una storia e una lotta collettiva, che nelle miniere e nelle fabbriche lottano per la libertà di sindacato e per una paga e una vita non ancora libera ma degna di essere vissuta.
Nei due casi condizioni materiali ed economiche diverse creano le basi per due idee di libertà antinomiche, al di là delle pulsioni individuali.
Ma il convegno di Chicago ci ha insegnato una cosa: non fidarsi mai quando ci dicono che qualcosa è innato, che fa parte della nostra natura. La gran parte dei nostri ‘istinti’ sono prodotti culturali: non siamo né lupi per gli altri uomini né pusilli atavici: possiamo cooperare o possiamo scannarci, non siamo costretti dalla nostra natura a scegliere nessuna delle due vie.
E così la ‘libertà’ è spesso vessillo per tutt’altro, dimenticando ogni volta nel modo più conveniente tutti gli strati di scelte da cui è composta. E riducendone dimensioni e scelte in modo tale da renderla una (minuscola) caricatura (come nel caso del bollino verde).
È anche stato di voga per qualche tempo parlare del ‘carattere’ degli italiani (come del resto di altri popoli), volta a volta poetico o codardo od opportunista: facile modo di eludere un’analisi delle condizioni materiali delle scelte e delle forze in gioco. Ma involontariamente forse rafforzando i pregiudizi ottocenteschi, dal positivismo lombrosiano alle superiorità razziali..fino alla naturalità del capitalismo e del suo mercato dai denti affilati.
La difficoltà di conciliare egualitarismo e libertà individuale nei raccoglitori-cacciatori è stata risolta riducendo al minimo la complessità: l’orizzonte temporale è ridotto al solo giorno della raccolta/caccia; non ci sono pianificazioni né le gerarchie che ne conseguono, non ci sono provviste colle funzioni aggiuntive che implicano. E la libertà dell’individuo di muoversi come meglio gli aggrada viene compensata dal sistema della ‘condivisione su domanda’ (demand sharing): quando qualcuno ha oggetti che interessano ad altri, e questi glieli chiedono, la norma sociale (la ‘buona educazione’) richiede di accontentarlo. Cosicché l’egualitarismo è assicurato.
In un sistema complesso questo equilibrio non funziona più: tribù più grandi (come quelle del Nord America ricco di salmoni) hanno introdotto la conservazione del cibo e le gerarchie. C’è quindi un ultimo elemento che va detto sulla libertà oggi: se è composta di molte scelte il suo esercizio comporta molte conoscenze. E c’è quindi un’asimmetria inevitabile tra sapienti ed ignoranti.
Varrà questo sempre, anche in un altro tipo di società? Probabilmente no, perché nel caso che il nostro mondo sopravviva e nell’improbabile eventualità di un’uscita dal capitalismo cesserebbe quello che Marx chiamava il ‘regno della necessità’ e con esso la gran parte delle interdipendenze che ci legano. Il numero di piani e di cammini sarebbe cioè drasticamente ridotto, e molte delle scelte possibili sarebbero a somma positiva (io guadagno, tu guadagni) invece che a somma zero (io guadagno, tu perdi). Tornando ad una situazione analoga ai JU/’Hoansi. Si potrebbe allora parlare di libertà vedendola anche.
Altrimenti qualcuno potrebbe accontentarsi di quell’uscita dalla necessità che è l’uscita dal samsara, dal ciclo delle reincarnazioni o dalla ruota del tempo…ma lo vedo come un percorso molto privato.
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Tutti i dati di quest’articolo provengono dal libro :
James Suzman, Work, PenguinPress 2021
Il giardino dell’Eden
uscire dal tempo, 2
di Paolo Di Marco
1 il plusvalore
Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come una progressiva espropriazione del proprio tempo, trasformato in tempo di lavoro collettivo controllato dal capitale.
Marx è l’ultimo economista che si occupa dell’origine del profitto (tema centrale dell’economia classica sino a Ricardo), e la sua analisi parte dalla giornata di lavoro, il cui tempo viene diviso in due parti:
una in cui il lavoratore lavora per sé, l’altra per il padrone. Questa seconda dà origine al profitto. Continua la lettura di Il giardino dell’Eden
Ancora in ricordo di Remo Bodei
di Giorgio Riolo
Ogni morte d’uomo ci diminuisce, lo diceva il poeta e lo ripetiamo a ogni pie’ sospinto. Aggiungendo: di ogni essere umano in generale, e quindi anche di donna.
Remo Bodei era grande filosofo e grande intellettuale in senso lato, ma anche persona di grande valore. Le due cose insieme nel soggetto scomparso ci diminuiscono, ci rendono più poveri. Chiunque l’abbia conosciuto personalmente non può che confermare ciò.
Più poveri, ancor più nel panorama, per più versi desolante, del nostro mondo intellettuale. E allora vorrei solo ricordare il ruolo importante che Bodei ha svolto nella sua prima fase di attività. Molti di noi hanno avuto il suo aiuto nel percorrere certe strade culturali invece di altre. In più, essendo impegnati politicamente e socialmente.
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di Giorgio Riolo
Questo breve scritto riprende una nota a suo tempo redatta come introduzione all’opera di Edward H. Carr. Come si cerca di argomentare, la storia non è solo disciplina, materia, ambito del sapere e della conoscenza. Essa è fondamento della cultura critica, dello spirito critico, tanto più necessario nella nostra realtà contemporanea, della educazione civile e della formazione della persona attiva. È fondamento e sostanza della politica.
Continua la lettura di A proposito di Sei lezioni sulla storia di Edward H. CarrPeripezie di una lettura
Con una Risposta di Angelo Australi
di Ennio Abate
Caro Angelo [Australi],
il ritratto che ci hai dato di Davide Lazzaretti (qui) recensendo il romanzo di Simone Cristicchi, “Il secondo figlio di Dio” e i commenti al seguito hanno suscitato in me dubbi, inquietudini e una certa stizza per l’apprezzamento speranzoso verso i movimenti dal basso legati a precisi luoghi che tu, Aguzzi e Locatelli avete espresso. Non sono certo che, a partire dalla figura di Lazzaretti, tu abbia voluto delineare una proposta culturale e politica per l’oggi. Alcune tue affermazioni[1] e un successivo commento[2] me l’hanno fatto pensare. Ma, così non fosse, sento una proposta del genere aleggia nell’aria di questo nostro tempo. Ed allora ho voluto approfondire, riprendendo in mano vecchi libri, per chiarire innanzitutto a me stesso le ragioni della mia reazione. Che avevo del resto già anticipato in una replica ad Aguzzi (qui) dichiarando al contempo simpatia e riserve. Ora, con questo riepilogo delle mie peripezie di lettore le preciserò analiticamente.
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