RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)
di Ennio Abate
Note
[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.
* Foto di E. A.
RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)
di Ennio Abate
[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.
* Foto di E. A.
Una riflessione a capitoletti
di Ennio Abate
Nel 1987, quando con alcuni amici facevamo la rivista autoprodotta «Laboratorio Samizdat»[i] preparammo un questionario. Lo intitolammo «Immagini dell’hinterland: Cologno Monzese» e noi stessi della redazione cominciammo a rispondere alle domande che avevamo preparato. Riassumo con parole d’oggi le mie risposte al questionario .
1. Consideri Cologno Monzese una città. Si, no, perché?
Per me non è ancora una città. Perché la storia recente e breve (quella dell’emigrazione interna degli anni ’50-‘70), trasformando e quasi cancellando le caratteristiche contadini del nucleo precedente (il borgo medievale, il paesino ottocentesco), ha prodotto un organismo sociale elementare, nuovo ma incoerente e poco unitario. Prenderei sul serio la definizione di Cologno Monzese come “citta dormitorio” per immigrati. Evidentemente un dormitorio non è una città. È un ibrido, un “mostro urbanistico”. Certo, gli immigrati, oltre a dormire, hanno fatto altro, ma in condizioni materiali e psichiche comunque squilibrate. Sono gli amministratori – più che gli abitanti di Cologno- ad avere la tentazione di sorvolare su questa storia pesante e complicata e a parlare senza troppo riflettere di città.
2. Secondo te, quali sono i tre aspetti più negativi di Cologno?
Uno. Il fatto di essere periferia (o di vivere in una condizione di perifericità). Intendo dire che la vita che possiamo condurre a Cologno Monzese avviene in uno spazio coatto e deprivato che, a differenza delle vere città, offre meno sotto ogni aspetto alla soddisfazione dei bisogni dei suoi abitanti.
Due. Gli immigrati si sono dovuti assuefare con molta sofferenza a vivere nello spazio coatto, deprivato e spesso brutto di Cologno Monzese. Che è stato progettato e costruito da altri. E imponendo i loro interessi economici ai bisogni di una vera vita sociale. Questo è avvenuto nel periodo (’55-’60) più selvaggio e sregolato della urbanizzazione di Cologno. Povertà culturale e bruttezza estetica hanno deturpato anche i linguaggi e i comportamenti dei suoi nuovi abitanti. Col tempo gli immigrati hanno cancellato i ricordi più dolorosi e non hanno pensato più a quel che hanno patito. O rinunciato perfino ad immaginare che questo territorio possa essere organizzato in maniera più rispettosa dei loro bisogni. Al massimo, hanno cercato la diversità altrove. Da turisti. O tornando, quando hanno potuto, ai paesi da cui emigrarono.
Tre. Una sensibilità passiva e intorpidita sia nei confronti dell’ambiente circostante che verso gli “altri”. Io l’ho chiamata colognosità, perché l’esperienza quotidiana a Cologno – e specie in campo politico – mi ha messo di fronte a numerosi esempi locali di doppiezze, di tortuosità, di antintellettualismi, di invidie. Ma ritengo che la colognosità abbia a che fare con concetti più generali, quali mentalità da servi (Nietzsche), alienazione (Hegel, Marx, Lukács), psicologia (e pedagogia) degli oppressi (Freire). Indubbiamente rende più difficile individuare i centri di potere reali che controllano la vita economica e sociale di questo territorio e impedisce una azione più precisa per contrastarne le scelte dannose per quanti qui vivono.
3. Quali sono, invece, gli aspetti positivi di Cologno Monzese?
Ci sono centinaia di città che offrono più merci e servizi di Cologno Monzese. Se ci si mette nell’ottica dei consumatori, Cologno ha ben poco di positivo da offrire. Eppure, negli anni ’70, noi compagni del Gruppo Operai e Studenti e poi di Avanguardia Operaia anche nel degrado della vita in periferia scovammo alcuni aspetti positivi. Capimmo che gli immigrati avevano bisogno di aumenti salariali, di case, di scuole decenti per i loro figli. E lottammo con loro per dare forma politica a questo ribollire di bisogni ancora elementari e insoddisfatti.
4. Fa’ un confronto fra Cologno Monzese e qualsiasi altra città o paese da te conosciuti. Cosa ha di più o di meno Cologno Monzese?
Il confronto io posso farlo con Salerno, da cui provengo. Dalla formazione in quella città provinciale del Sud, che nel dopoguerra e fino agli anni ’50 conservò una cultura cattolica – un misto di attaccamento rispettoso al mondo contadino e a quello piccolo borghese ancora non sfiorati dal consumismo -, avevo ricevuto una spinta ad una visione elitaria ed individualista. Mio padre mi ripeteva il motto ricevuto dai suoi antenati:«miettete cu chille ca stanne meglie e te, nun cu chi sta peggio e te». (In sostanza: stai con i più istruiti e i più ricchi, non con i poveracci). Al contrario la Cologno Monzese degli anni ’60-’70 – quella che ho vissuto più attivamente e intensamente – mi ha spinto proprio ad andare verso il basso, a conoscere molti operai di piccole fabbriche o studenti delle superiori o insegnanti delle elementari, medie e superiori e ad organizzarmi con loro proprio contro chille ca stevene meglie e nui. In quei tempi Cologno Monzese stava passando dalla condizione più passiva e povera della immigrazione esistenzialista (quella registrata in «Milano, Corea» di Alasia e Montaldi) ad una di proletarizzazione e politicizzazione attiva e innovativa. Sembrava che il “dormitorio” potesse fare un salto verso una città proletaria, che confusamente cercammo di delineare nei nostri discorsi.
5. La tua attenzione a Cologno Monzese è aumentata o diminuita negli ultimi 10-15 anni? Perché?
È, contro la mia volontà, diminuita. Perché tutti i legami affettivi, sociali e politici, che come compagni del GOS (Gruppo Operai e Studenti) e di AO (Avanguardia Operaia) avevamo costruito con Cologno e la gente che vi abitava, si sfilacciarono. E quel progetto ancora in fasce di città proletaria, a cui lavoravamo da appena dieci anni, si perse. Molti compagni entrarono nel PCI. Altri continuarono in DP. E poi ci fu, con la fine sia del PSI che del PCI, la scomparsa di qualsiasi sinistra.
6. Da quali quartieri e zone di Cologno Monzese, che hai frequentato di più, ti sei costruita la tua immagine (o idea) di Cologno?
Riferendomi sempre agli anni ’60-’70 posso dire che ho frequentato sotto la spinta delle lotte politiche particolarmente il Quartiere Stella (qui), diverse piccole fabbriche di allora (Bravetti, Panigalli, Trapani Rosa, Siae Microelettronica, ecc), le scuole elementari e medie; e le case dei compagni sparse per Cologno. L’immagine di Cologno che mi stavo costruendo era, come ho detto, quella della città proletaria.
7. Quali sono i quartieri o le zone di Cologno Monzese che più ignori? A chi ti rivolgeresti per fartene un’idea?
Come ho detto, qui a Cologno negli anni di mia militanza politica ho frequentato soprattutto famiglie di operai, di studenti, di insegnanti e i luoghi della politica (sedi di partito o dei sindacati, il Consiglio Comunale). Ignoro o conosco poco, dunque, le zone (non certo soltanto di Cologno) in cui abitano imprenditori e politici. Ed ho avuto meno rapporti e conoscenza anche delle zone in cui operano i più emarginati. Al momento non saprei, come rivista, a chi potremmo rivolgerci per capire di più.
8. Quali sono state negli ultimi 10-15 anni le trasformazioni per te più evidenti di Cologno Monzese? Come le giudichi?
Lo sprofondamento nei discorsi pubblici e politici dei ceti operai e dei loro bisogni. Con la deindustrializzazione, l’informatizzazione e le nuove forme dei consumi sono emerse le generazioni cetomediste, ipnotizzate dalla competizione imitativa coi “nuovi ricchi”. A Cologno il cambiamento ha premiato soprattutto un ceto di acculturati, magari provenienti anche da famiglie operaie e di immigrati, ma sempre più grossolani e pacchiani e ostili alle tradizioni di famiglia.
9. Quali sono i tuoi sentimenti verso Cologno Monzese?
Li ho raccontati in «Samizdat Colognom», un libretto di “poeterie” pubblicato con la Libreria CELES di Cologno nel 1982. (Ne parlerò in un altro capitoletto). I miei sono sentimenti di contrapposizione e di critica ragionata soprattutto verso il mondo politico colognese, spesso con rappresentanti davvero meschini. Di impazienza e delusione verso gente che vive in condizioni quasi simile alla mia ma che briga nel sottobosco politico, economico e culturale. Di insofferenza verso gli stili della vita individualistici e falsamene libertari.
10. Quali sono le tre esperienze più significative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
Forse ho già risposto al punto 6. Ma meglio ripetere. Le lotte che ho condotte con molti compagni e compagne fra il ’68 e il ’76. Quella per la scuola materna al Quartiere Stella. Quelle con gli operai della Bravetti, della Panigalli, della Trapani Rosa, della Siae Microelettronica e tante altre. Quella dell’occupazione delle case di Via Papa Giovanni. (Son di sicuro più di tre).
11. Quali sono le esperienze più negative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
La scissione di Avanguardia Operaia e il successivo “riflusso” con compagni finiti nella droga, nel “privato” o che scelsero di entrare nel PCI. L’impotenza e l’isolamento rispetto ai fenomeni di disgregazione anche fisica che coinvolsero molti giovani di allora. Il disfacimento morale, politico e culturale della sinistra.
12. Ritieni possibile costruire una nuova immagine di Cologno Monzese? Se sì, in quale direzione (politica, culturale, economica, ecologica) impiegheresti le tue energie?
Un’immagine culturale nuova di Cologno, che non può più essere la città proletaria a cui avevamo pensato, resta indispensabile per ritessere rapporti sociali non subordinati o di semplice colonizzazione rispetto ai centri di potere (che per Cologno stanno a Milano ma non solo lì).
13. Pensi che a questa nuova immagine di Cologno Monzese possano contribuire di più i viaggiatori (quanti lavorano fuori Cologno o hanno di frequente rapporti con altri luoghi o Paesi anche stranieri) o i sedentari? Perché?
Verrà fuori, credo, dal confronto scontro tra le immagini di città degli uni e quella degli altri.
Nota 1 [i] «Laboratorio Samizdat» è stata una rivista ispirata al pensiero comunista (marxismo critico) della Nuova Sinistra, che a Cologno era stato rappresentato negli anni Settanta prima dal «Gruppo operai e Studenti» e poi dalla sezione di «Avanguardia operaia». Fu preparata - in una prima fase “in casa” (fotocopiata) e solo negli ultimi numeri stampata - a Cologno Monzese e diffusa a mano. Fra il 1986 e il 1990 uscirono, oltre al numero zero di prova, 8 numeri. In redazione: Ennio Abate, Roberto Fabbri, Erica Golo, Eugenio Grandinetti, Roberto Grossi, Marcello Guerra, Roberto Mapelli, Donatella Zazzi.
Nota 2 Questo stesso articolo pubblicato su POLISCRITTURE COLOGNOM su Facebook, su segnalazione di non so chi, è incorso nella censura di FB. Non ho capito se per il contenuto o per l'immagine che l'accompagnava (sotto).
di Ennio Abate
Che rapporto c’è fra l’io e il noi? Quali interferenze? Quando e perché si distanziano o si avvicinano? Cosa alimenta gli estremi a cui tendono: il solipsismo o la fusione/confusione (mistica, gregaria) nel noi (massa o élite)? Invece di un saggio, provo a offrire spunti per rispondere a tali domande selezionando alcuni appunti dalla mia ‘stanza da sbratto’ (= che riceve tutti gli oggetti ingombranti o di cui ci si serve di rado). [E.A.]
di Ennio Abate
(6)
24 novembre 1998
Mangano presenta alla Libreria Tikkun di Milano il mio «Congedo di prof Samizdat dall’ITIS Molinari» in occasione del mio pensionamento.
Tutto abbastanza scontato. Pochissimi quelli che sono venuti. C’erano – ma per un incontro successivo – Romanò e Majorino e si sono fermati ad ascoltare. Attilio ha fatto una presentazione attenta e persino affettuosa. Continua la lettura di Attilio Mangano nel mio diario (6 – 11)