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Nevio Gambula – Io sono Artaud

 

di Lorenzo Galbiati

Verona, venerdì 16 febbraio, ore 21. Teatro Modus. Sono seduto in ultima fila di fianco al mixer, dove è presente il tecnico del suono. Al momento c’è buio e silenzio. Tra poco andrà in scena Nevio Gambula in “Io sono Artaud – o dell’insurrezione di un corpo”. Testo di Gambula ispirato a scritti di Antonin Artaud e alla tragedia “Penthesilea” di Heinrich von Kleist. Regia e suoni di Gambula. Continua la lettura di Nevio Gambula – Io sono Artaud

Fra la terra e il cielo della lingua

Storie e meditazioni

di Andrea Nuti

Come si legge nella quarta di copertina, La memoria delle piante di Velio Abati [cfr. anche qui] è un romanzo che recupera e intreccia storie di un’umanità prevalentemente contadina, sfruttata e sconfitta ma mai rassegnata, sempre descritta nella inscindibile relazione con la terra e gli animali. L’autore racconta di questo mondo perché a questo mondo appartiene per ragioni biografiche e di questo mondo intende cogliere le relazioni fra le varie generazioni. Le storie dei personaggi del Podere del Diavolo, di Ruffilla, di Camara, di Lorediano, di Sapìo e Catalina, sono recuperate nella profondità di differenti epoche attraverso un lavoro di scavo insieme storico, antropologico e quasi archeologico. Lo scrittore le fa riemergere, vuole in ogni modo farle uscire dall’evanescenza del sogno per proporle al lettore nella loro concretezza simbolica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri corpi e lo fa attraverso la lingua, vera protagonista del romanzo.
La voce dell’io narrante utilizza registri linguistici molto differenti che vanno dalla dimensione popolare e terrigna, sempre altamente nobilitata e amata, fatta di arcaismi, dialettismi, fino a quella alta ed erudita con richiami letterari, momenti lirici e meditazioni. La mutevolezza e pluralità dei registri linguistici e l’intreccio delle varie storie fanno sì che la lettura non sia di immediata fruibilità e che anzi richieda di essere lettori attenti, desiderosi della relazione e della partecipazione all’avventura creativa. D’altra parte questo è un tratto stilistico di Abati che ritroviamo anche nelle sue opere precedenti, ma è anche il fascino maggiore del romanzo. Il sedimento linguistico e culturale che riemerge ha una profonda connotazione etica è come un mosaico o un dipinto riportati alla luce, che ci interrogano sul rapporto col passato e sul valore, la cura delle parole, soprattutto in una fase storica, la nostra, in cui la decadenza sembra esprimersi soprattutto nella povertà linguistica del presente, fatta di slogan, acronimi, inglesismi, cui si unisce la manipolazione e strumentalizzazione della storia schiacciata sul presente.
La partecipazione attiva del lettore è reclamata dallo scrittore anche dai particolari movimenti dell’io narrante. L’autore mette insieme in questo romanzo, caratterizzato come il precedente Domani da una forte e orgogliosa sperimentazione linguistica, un io narrante e la narrazione collettiva. L’io narrante cambia però frequentemente punto di osservazione; questo fa sì, come bene scrive Walter Lorenzoni che, “chi legge debba sempre sorvegliare l’atto della lettura e debba mutare costantemente il punto in cui collocarsi perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale” rispetto agli ultimi di cui si parla. D’altra parte proprio questa costante ridefinizione del punto di vista di chi legge sembra permettere, come suggerisce Mario Fraschetti, una nuova particolare possibilità, quella cioè di leggere il testo partendo da differenti punti e intrecciando le parti in modi di volta in volta differenti.
Col titolo La memoria delle piante non ci si riferisce dunque solo alla ormai effettiva consapevolezza scientifica della presenza di una memoria nelle piante, ma anche e soprattutto alla stretta dipendenza e corrispondenza fra uomo e natura, alla profondità e complessità delle radici delle piante che si intrecciano e in virtù di questo intreccio e di questa profondità restano vive. La memoria, nel romanzo, non è rievocazione, non è celebrazione, non è pathos emotivo ma radicamento storico intellettuale pensato, rielaborato, conosciuto e fatto riemergere attraverso la lingua. La memoria è la connessione delle generazioni unica possibile base di partenza per una nuova consapevolezza sociale. Come non cogliere la inscindibile relazione temporale fra il futuro di Domani e il passato di La memoria delle piante. In questo senso lo scrivere di Abati è sempre atto insieme etico e politico. La presenza delle radici diventa tanto più esplicita in considerazione di una forte presenza di positive figure paterne, tanto che la parola “babbo” è forse la più utilizzata di tutto il romanzo: “Quali facce, dico, qui con me, mute. O forse il nome sento. Celso?”
Se nel romanzo Domani si apprezzava soprattutto la straordinaria coralità, che, a fronte di un tempo frammentato, emergeva dalla trama linguistica dei suoni e delle voci dei contadini, si godeva di una struttura simbolica che riusciva ad anteporsi alla definizione degli stessi personaggi, diversamente, in questo la Memoria delle piante si impongono i momenti di riflessione e meditazione, come quando l’autore riflette sulla verità: “la verità non è docile […] la verità non è pietra, è un fuoco […] la verità ogni verità è storica […] la verità non è un dato è il prodotto della lotta […] Se prendiamo, non dico la storia umana ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione dei tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori del suo tempo”. Lo stesso registro lo si ritrova quando Velio si confronta col tema della libertà, della guerra, della memoria.
Alcune parti poi sono liriche di grande bellezza, soprattutto gli inizi e le conclusioni dei vari capitoli. “Invece il sole è signore del giorno. Asciuga la fronte, fruga i cretti della terra, assalta i sassi dei fossi. L’aria tremola i campi e sbianca le ombre, ma non una cicala, non un filo d’eco dai corpi degli olivi, dal folto dei grani. Nemmeno il mio grido esce di bocca”. L’autore intende provare che lirica, dialoghi, meditazione possono stare insieme, uniti dall’esperienza umana e intellettuale dello stesso scrittore. Le mani della zingara del Caravaggio in copertina sembrano proprio richiamare allo stesso tempo la grazia della scrittura quale lavoro intellettuale, ma anche la parte più concreta e pratica del lavoro della terra, richiamano la capacità di intuire il futuro attraverso le tracce e i solchi del passato; se le mani michelangiolesche della “Creazione di Adamo” non si toccano perché l’alto e il basso restano inesorabilmente separate, qui invece alto e basso si accarezzano e si sostengono.

 

Per la gloria della lingua

NOTE DI FINE ESTATE (9)

di Donato Salzarulo

Tra il 2008 e il 2009 nel Laboratorio Moltinpoesia i partecipanti si assegnarono il compito di spiegare perché scrivessero poesie. Io ne facevo parte e composi il testo che si può leggere di seguito. Il suo intento didascalico è evidente.

Scrivo poesie perché
un giorno d’autunno del Sessanta tre
comprai un quadernone e
sul frontespizio scrissi “Canzoniere”
(sottotitolo: “storia di un’anima”).
Facile indovinare chi imitavo.
Il problema è che l’anima dovevo
inventarmela e quella che pensavo
di avere era tutta recitata e letteraria:
Omero, Quasimodo, Garcia Lorca,
Ungaretti, Baudelaire, Pavese…
Oh, quante voci dentro la mia voce!
In certi momenti ho avuto paura
di confezionarmi un destino da suicida
come Noschese, se non sbaglio, o altri
imitatori che soffrono
di non sapere chi sono.
 
Rileggendo ciò che andavo scrivendo,
capivo che sulla pagina si depositava
un altro Donato – per chi crede alle stelle
sono nato sotto il segno dei Gemelli -,
un Donato che manifestava una certa
inclinazione alla teatralità,
alla finzione, all’operetta: cantavo
giovanette che mi conquistavano,
m’infliggevo sofferenze amorose,
piangevo le morti improvvise
di uomini illustri del paese,
la disperazione di madri che si ritrovavano
figli spenti tra le braccia. Insomma, amore
e morte e caterve di sciagure.
“Gioire è cercare il dolore” recita un verso
paradossale del quadernone.
 
In ciò che andavo poetando c’era
qualcosa di vero e sincero. Ma tanti
esercizi, anche appassionati, somigliavano
molto ai giochi simbolici dei bimbi.
Ad una certa età la spalliera della sedia
può farsi davvero volante di una macchina
e il bastone diventare un cavallo
col quale attraversare praterie sconfinate
e combattere battaglie cruente.
Un po’ dunque mi scoprivo l’inclinazione
dell’attore, un po’ quella del bambino
che sogna ad occhi aperti.
Ma l’attore dispone di una grande
riserva di personaggi da rifare:
Achille, Romeo, Otello, Amleto…
Il mio personaggio, invece, dovevo
costruirmelo come Geppetto 
il suo burattino. Anche i miei sogni
ad occhi aperti non potevano
concludersi alla stregua di un bambino
che, di solito, si stanca e cambia gioco.
Dovevano produrre conquiste
reali, avanzamenti.
Dovevo sentire che le parole
davvero penetrassero nel cuore
di una donna e la inducessero
ad abbracciarmi,
a regalarmi un bacio.
Se amava la mia poesia,
se diceva che era bellissima,
un po’ non poteva non amare
anche il suo autore.
Come se, cantando gli occhi ridenti
e fuggitivi di una certa Silvia,
prima o poi la Silvia vivente
si facesse avanti a ringraziarmi
per l’omaggio e a propormi
suggestivi accoppiamenti.
 
Quando scrivevo il Canzoniere
era questo il mio problema più urgente,
in preda sicuramente ad accumuli
straordinari di ormoni. Non sognavo
l’immortalità ma più modestamente
cercavo di mettere le mani addosso
a una fanciulla per inebriarmi del profumo
dei limoni. «Belli questi versi!...»
«Bellissimi!...» «Grazie…»”
Da qui, da questa calda ammirazione,
a venire a letto con me scorreva
un Rubicone tempestoso
e spesso non navigabile.
Nessun dado è tratto.
Avrei dovuto saperlo:
se con la poesia cerchi amore,
dieci volte su dieci, vai in bianco.
Ecco cosa dovetti capire
a mie spese. Sbagliavo, m’illudevo,
deducevo male.
 
Amore è potere. Sedurre l’altro,
soggiogarlo. Scrivevo per piantare
una quercia nei cuori. Forse perché,
avendomi interdetto prestissimo
il suo seno (era incinta di mio fratello),
mia madre mi costrinse a cercare
sostituti senza trovarne mai
di completamente soddisfacenti.
Scrivi poesie per un Edipo
mal risolto, direbbe uno psicanalista,
perché anche dopo un accoppiamento
nel corpo vola alta l’inquietudine,
la ricerca, la tensione.
Belli e reali i seni succhiati
ma sempre un po’ lontani
da quelli ideali sognati.
 
Amore è vivere come un rimbambito
appeso al moto delle ciglia
di uno sguardo. Fare festa alle visioni,
alle apparizioni dell’amata. Conservare
accuratamente la foto in qualche libro
o nel portafoglio, stare dietro al profumo
viola di una maglia, inseguire desideri
assurdi del tipo: ascoltare la stessa
musica, leggere lo stesso romanzo,
pensare gli stessi pensieri, gioire
delle stesse gioie, viaggiare
negli stessi luoghi, dormire
nello stesso letto e coire,
coire…È il “sogno d’amore”.
Le donne lo conoscono meglio
degli uomini e io, a mia volta,
scrivendo poesie, imparavo
a conoscere la parte affidatami.
So ancora ora mostrare
entusiasmo vero per chi mi punta
e mi tiene sulla linea di fuoco
dello sguardo. Ma è l’entusiasmo
di un attore, di una recita
così ben fatta da sembrare
naturale. Sono un egoista allora?
Uno che non sa amare?
No!... Semplicemente lo faccio
in modo obliquo, per interposte
parole. Come se tra me e le labbra
da baciare ci fosse in mezzo
un vetro immaginario.
Ho la coscienza dell’attore,
a differenza di chi bacia
e pensa di porgermi in diretta
le sue labbra, mentre sta solo
eseguendo uno spartito.
A fare l’amore si sa
nel letto si è spesso più di due.
 
Tutte queste complicazioni
ovviamente le capivo solo
scrivendo e soltanto scrivendo
continuavo a cercarmi
e a conquistarmi. Capivo, ad esempio,
che ognuno di noi finisce
per abitare i pensieri che formula,
anche quando spuntano come nuvole
provenienti non si sa da dove.
Difficile che i pensieri si sciolgano
come neve al sole. A maggior
ragione i versi. Così mi porto
dietro da decenni quel “gioire
è cercare il dolore” senza sapere
da quali zone del corpo è saltato fuori.
(In quel periodo leggevo Baudelaire).
Ecco perché scrivo poesie. Per continuare
a scoprirmi.
            Per questo tipo
di scrittura mi sono dato la regola
di andare fino in fondo. Anche se,
avendo scoperto che divento un po’
ciò che scrivo – è il noto “effetto Pigmalione” –
sto attento a profezie che accelerano
la morte già intenta a scavare
nel mio corpo. Sfuggire alla tragedia
è impossibile. Accelerarla, non mi pare
il caso. Per questo, quando scoprii
che scrivendo poesie sulle malattie
di mia madre, mi educavo alla sua assenza
e inconsapevolmente ne preparavo
la morte, smisi subito di verseggiare.
 
Poetai a lungo, invece, la condizione
di un’amica affetta da un male inesorabile
che di lì a poco l’avrebbe resa invisibile.
Volevo portare con me la sua voce,
il suo sguardo sul mondo. Volevo
che non si perdessero le sue parole,
che ne restasse memoria.
Ecco un'altra ragione del mio scrivere.
Inseguire persone, eventi,
mondi che si perdono e sprofondano
in abissi di silenzio. Non dimenticarne
colori, atmosfere, sapori, allegrie,
dolori. Non dimenticare me stesso,
combattere il morbo d’Alzheimer
che quotidianamente ci affligge.
 
Poesia e identità, poesia e amore,
poesia e profezia, poesia e memoria,
poesia e verità…Tutte coppie
per ottime occasioni seminariali,
tutti sentieri che mi pare
d’avere attraversato.
 
                   Ora, però,
scrivo poesie per altro. Oltre al già
detto, sempre attivo nei neuroni,
ora scrivo “per la gloria della lingua”,
come dicevano i padri. Successo
o non successo, la poesia non mi
eviterà la morte. La lingua, invece,
è la rosa di rossetto che rinnovo,
l’atmosfera, il palco su cui provo
e riprovo le parole. Ora le sento colorate
dai toni della mia voce, le frasi
raccontano la mia storia, i versi
non temono la prosa del mondo.
La lingua della poesia è la mia donna,
quella amata più a lungo,
la matria che mi sottrasse
il seno.
 
15 gennaio 2009
 
 

Frammenti di un discorso geografico

di Elena Grammann

Dopo i temporali cammina col cane lungo la collina oblunga tenendosi un centinaio di metri sulla destra. Su tutta la collina il bosco è marezzato dal vento; sopra, il cielo ha un colore marcato come per un residuo di burrasca. Fino a qualche tempo fa questo la riguardava. Perché non trasferirsi su Marte si dice ora.

***

Esamina i pneumatici. Mentre venivo su ho trovato un ramo in mezzo alla strada. Dopo un tornante, in una zona d’ombra. L’ho visto all’ultimo e ho sterzato ma l’ho preso, ha fatto un gran fracasso. Non era grosso; comunque un ramo. Circa così. Arrotonda pollice e indice per mostrare il diametro e lo rivede nell’ombra della curva, spoglio, bianco-calce con delle screziature nere. Le era sembrato che avesse un’esistenza e una consistenza tutte particolari, pronunciate, come non ce ne sono più. Appunta la cosa su un foglietto poi lo butta. Ogni tanto arrotonda pollice e indice, circa il diametro. Le sembra che qualcosa dell’esistenza di quel ramo le passi nel cervello.

***

Ogni volta si stupisce di quanto sono in alto; vorrebbe chiederlo, poi non ci pensa più. Però capisce che si sentano qualcosa a parte. Orgogliosi di resistere.

Orgogliosi di resistere, d’accordo; ma intanto l’esistere scricchiola. La vecchia è morta, la qualità del ristorante è scaduta, un maschio adulto è stato sostituito, una femmina giovane si è autosabotata. Nulla rimane uguale. E meno male che Salvini offre ancora una sponda; anche a Gianni, il pilastro; che oggi però non c’è; e l’Emma non si fa vedere. Ma come, se proprio l’Emma aveva detto che ci sarebbero stati tutti?

Al tavolo di famiglia fa quattro chiacchiere con la zia, nessun problema. Non la disturba neanche che la zia l’abbia correttamente scannerizzata e classificata. Mica stupida la zia. In ogni caso non ha nessun problema a mettersi fra parentesi e fare quattro chiacchiere con la zia; e nemmeno con l’altro mai visto, una new entry ma solo per lei, qui si conoscono tutti e si vogliono tutti bene. Non è che sono più felici però; a occhio tanto come in pianura. Comunque la new entry è stagionato e un po’ legnoso, leggerissimamente imbarazzato dalla sua presenza. Le piace il vino dolce? dice la zia. L’ha fatto lui. Solo due dita, grazie. Porta il bicchiere al naso: si sente il nostro vino!

Questo è sicuro.

Il vinificatore sembra preoccupato che la zia possa arrivare in ritardo al funerale del primo pomeriggio. Un paio di volte le fa notare l’ora. Quando la zia si alza balza in piedi anche lei, si sa mai che. L’altro cerca di trattenerla col fiasco, gliene versa nel bicchiere ma lei è già alla porta. Non disponibile a risolvere problemi altrui. Per di più irrisolvibili. Almeno in questo mondo.

Le vivande ingurgitate, più le due dita di vino, ruotano nello stomaco come panni sporchi in una lavatrice. Ogni vivanda sfiotta il suo tono, scalato nel registro del compostabile. Si fa strada un senso di intossicazione.

***

È piuttosto orgogliosa di riuscire a parlare – con l’Emma, con l’Amedea, persino con il vinificatore. Fino a qualche tempo fa non ne era capace – o soltanto a prezzo di sforzi visibilissimi. Ha capito l’errore: tentava di comunicarsi. Senza riflettere che comunicarsi ci si comunica soltanto in chiesa – quelli che ci credono naturalmente; per il resto si tratta di automatismi verbali. Con un minimo di allenamento si producono da sé, con un dispendio irrilevante di energia. Funziona che uno dice una frase, generalmente una frase qualsiasi, magari una delle quattro o cinque richieste dalla circostanza. A questo punto non bisogna commettere l’errore di cercare dentro di sé qualcosa di vero o di autentico – qualcosa di extralinguistico – esistenziale magari, o metafisico, da tradurre a fatica, incompiutamente, nella lingua della comunicazione. Neanche ne andasse della verità. Da questo bisogna astenersi. Che presunzione sarebbe, e che maleducazione, uscirsene fuori con l’autentico – pretendere che il prossimo si occupi di te. Astenersi! astenersi! – e la frase corretta verrà da sé: rilassata, opportuna. Lasciarsi prendere in carico dalla lingua.

Al massimo, negli individui predisposti, può indurre fenomeni di sdoppiamento che tendono a regredire spontaneamente nelle ventiquattro ore.

***

La lingua d’uso non è mai in imbarazzo di nomi. Ha un nome per ogni cosa e ogni cosa ha il suo nome. Bisogna stare attenti alle deviazioni: non imbroccare il binario verso la Lingua Maior e i nomi sconosciuti.

***

Nella zona ci sono molti castelli. Quindi molte rievocazioni storiche. Le rievocazioni sono il romanzo storico dei poveri.

I castelli migliori sono parallelepipedi squadrati. Angoli affilati, muri a piombo. Poiché nella zona non c’è quasi turismo, visti da lontano si comportano come se fossero depositari di qualcosa.

***

Il suo passato continua ad apparirle favoloso. Non ha accesso al suo passato se non nel modo favoloso. Quindi: ha o non ha accesso?

Il grande romanzo favoloso dell’io.

Il grande romanzo psicologico dell’io.

E pensare che c’è gente che si occupa d’altro.

***

Mentre il Paese sprofonda nell’insignificanza, c’è gente che si occupa dei paesi. Piccoli. Dei piccoli paesi. Conservazione delle tradizioni, arti e mestieri, presepi viventi. Associazioni di sbandieratori.

Parole straniere. Quattro sonetti di Ann Cotten

di Elena Grammann

Ann Cotten è una poetessa e prosatrice di lingua tedesca, nata nel 1982 a Ames, Iowa, e trasferitasi all’età di cinque anni a Vienna con la famiglia. Attualmente vive fra Vienna e Berlino. Benché il tedesco sia la lingua base della sua produzione, il bilinguismo la porta verso più marcate commistioni, che si allargano anche al giapponese sia per un interesse per la cultura nipponica che per le caratteristiche semiotiche di questa lingua.

Nel 2007 pubblica la sua prima raccolta poetica: Fremdwörterbuchsonette [letteralmente: Sonetti del dizionario delle parole di origine straniera] con Suhrkamp, una delle più importanti e titolate case editrici tedesche. Qualche chiarimento su titolo e struttura della raccolta:

Fremdwort. Un Fremdwort è una parola entrata nella lingua e normalmente germanizzata, ma di origine straniera: greca, latina, più di recente inglese. Ci sono Fremdwörter di uso comune, ad esempio ‘Plastik‘, ma perlopiù essi appartengono al registro colto e/o a linguaggi scientifici, specialistici, tecnici (es. loxodrom, Kontingenz).

Sonetti. Quando mi è arrivata la raccolta e l’ho aperta ci sono rimasta male perché mi aspettavo dei sonetti e non ne vedevo nemmeno uno. In realtà non si tratta veramente di sonetti ma di quelle che Cotten chiama, con una certa libertà mi pare, “sonettesse”, cioè, da definizione, sonetti caudati la cui “coda” si ripete. Ma mentre nel sonetto caudato la coda, ripetibile ad libitum, è una strofetta composta da un settenario più due endecasillabi, le sonettesse di Cotten sono di fatto dei doppi sonetti: cioè a una prima struttura 4-4-6 ne segue un’altra identica (quindi: 4-4-6-4-4-6), o speculare (4-4-6-6-4-4). (Quasi) tutti i settantotto componimenti della raccolta sono doppi, talvolta tripli sonetti.

Struttura. Se si dà un’occhiata all’indice, si vedrà che non riporta i numeri delle pagine (che in effetti non sono numerate) ma i numeri dei sonetti, raggruppati a due a due sulla base del Fremdwort da cui prendono spunto. L’indice, cioè, è costituito da un elenco di Fremdwörter ai quali sono associate coppie di sonetti simmetricamente distribuite attorno a un centro ideale costituito dai sonetti contigui  39-40. I sonetti 33 e 46, sotto, sono una di queste coppie.

Complicato – e costruito. Costruzione e complicazione sembrano presiedere anche alla composizione dei singoli testi – come viene rilevato con un misto di riconoscimento per la versatilità tecnica e rampogna per presunta latitanza dei contenuti. Ma di questo dirò dopo i sonetti.

69        An Induktion To The Blues
 
 
It’a a very attractive little device that combines a frequency follower with a device that puts out harmony notes to what you’re playing … Its main drawback is that the tone that comes out of it is somewhat like a Farfisa organ.
 
Frank Zappa on the Electro Wagnerian Emancipator
 
 
Se ne stava coi gomiti piantati vicino al piatto dello stereo
e io mi sentivo tremendamente analoga,
così in balìa e inerme come un cilindro fonografico,
impressivamente riavvolgendomi. Naufragando on the dancefloor,
 
coliambica nelle percussioni alcaiche. Alcaiche?!
Non ero preparata, qui, a dei bassi così sottili!
E ancora non avevo buttato un occhio alla console,
sobbalzando poi al broncio anacreontico.
 
Mi percorse le vene furiosa la sua vista.
Tese l’orecchio il battito cardiaco e non si peritò
di stendermi come un corto travolta sulla pista.
Il vinile si scioglieva come liquirizia. Rigata ancora di spavento
mi trascinai al bordo di quel solco.
Rimasi a portata di suono. La mia volontà batteva piano.
 
Al piatto, stentava a tener gli occhi aperti
e per due volte per poco non cadde lui o rovesciò la birra,
e quando passava da un brano all’altro
suonava come un dormiveglia a cui si cerca di resistere.
 
(Probabile che lavorasse durante la giornata
a un Numero Verde e udisse voci
sussurrargli odi attraverso le linee,
che il cranio sbattesse contro le istanze dei clienti.)
 
E dopo un altro paio di ore toste,
l’aria nel locale è già densa per le odi           
il mio genio stremato mette su l’ultimo disco
e si siede di fianco a me. Cortesemente la sua testa cerca un dialogo,
tutto il mio scritto è imbrattato dal suo ciuffo,
si mette a parlare in sogno,                ma dialetto.
63        Vertiginosi indizi
 
 
Informazioni sbagliate. Scivola il cappello dalla testa
senza sonoro. Con quello avrei dovuto assomigliare,
senza assomiglio come una scema a Pete Doherty,
barcollo per sale cinematografiche come un clone
 
del cinema. Ciò che vidi è da tempo sci-
volato via, e per i titoli di coda ero di nuovo lì;
a destra e a manca parlano di cliché e roba del genere,
io mi attacco alla birra del buffet, quella è gratis.     Ah!
 
Ora che ci penso, ho dimenticato il tampax.
Finisco di leggere l’articolo e vado al cesso
e appoggio la birra vicino allo specchio. È un po’
che non mi aspetto miglioramenti dalle memorie.
La memoria è la morte della sorpresa. E io
non mi riconosco. Oh, un effetto della moda.
 
Ci son passata da un pezzo, non mi fa
né caldo né freddo affondarmi bevendo,
e scrivendo, la faccia. Son poi sempre io
e mi avvito storta, alla desperado, nella filettatura
 
dello squagliarsi. Del non essere all’altezza. Motti di spirito da me
d’ora in poi li avrà soltanto chi ne fa
richiesta scritta. Esco poco, mi frammento parlando
con me stessa, divido il letto solo più
 
coi libri. Con i gilet di maglia ostento
disprezzo per i cineasti,
spruzzo contraddittoriamente marcature
in forma di commento da birra. Si meraviglino pure.
Al cinema ci van sempre gli stessi,
escon fuori e han tutti le nappine.

33        Estensione, Estasi
 
 
Clic. Esso dove cominciò a ruotare
indicò così lungo le rive
il fiume. Anorganicamente luminescente,
infuriare soltanto in superficie dove
 
infuriava e irraggiungibilmente stridulo
ruotava e la luce si polverizzò,
schizzò, e perciò – e adesso voglio ridere –
refrigerio offrì alle rive, amorevole e chiara.
 
E così iniziando dagli occhi,
bocca, ah, capisce niente, in essa
si trovano capelli e lottano
con lingue per l’attenzione degli sguardi,
iniziando, ricercando sguardi? Niente di tutto ciò. Se
il punto è: per mezzo di estensione ottenere estasi,
 
deve stare ogni frase e contemplare,
espandersi orizzonte e divenire suolo
per selvaggi pensieri di espansione
a piccole avviticchiati pietre per esempio bianche.
Trova poi l’occhio da ruminare nel rispecchiamento,
in riflessi di luce che su superfici si scatenano
 
e dicono ciò che mai lingue muoveranno
a ripetere. Allora, polmoni, immobilizzatevi
e guardate, come le conseguenze
vanno alla testa del vostro, be’, cliente. Come
 
ansimano le cellule grigie dietro alle
corrispondenze che visitano qui le vostre rime
e cercano stimoli. Ehi, volete fare qualcosa?
E allora, polmoni, respirate acqua lucente!

46        Estensione, Possesso
 
 
Il tuo nome si allarga e pensare che un tempo era
Cioè cosa? Ancora l’altro giorno eri per me parola
straniera. Ora quasi parola non vedo senza che tu stia
per tutto ciò che mi manca, e nessun riso
 
si spegne che non mi tenda tu un agguato al fondo;
la rima evapora, la misura del verso non torna ed eccoti lì,
inghirlandato di foglie e sonetti spazzatura,
e, bizzarro volatile, fa una riverenza il tuo concetto e fugge.
 
Di te resta l’immagine dello scomparire
da cantarmi in versi dietro la tua schiena,
forse la cosa tua più bella in assoluto, o
piuttosto l’unica che mi resta da celebrare
giacché, scomparso tu, il nome tuo p.t.
nient’affatto oltre le labbra – per iscritto? Mai!
 
Eppure: nei lemmi stranieri cerco soltanto il tuo parlare,
la tua schiena, che sarebbe indennizzo a ogni parola.
Ma invece del silenzio mi tocca un blaterare torbido,
abbandonare la speranza, tentare versi mediocri,
 
questo sommesso costante soppesare singole parole,
la cosa più prossima, per me, al tuo silenzio.
E mi fa da modello la tua schiena p.t.
per tutto ciò che balugina come costrutto ideale.
 
Se mi frantumi il mondo in cui io vivo,
mi rimane il tuo nome in ogni caso e amo
il suono, che, forestierante, da qualche dove giunge, e ride
in faccia ai tentativi. Una paroletta straniera basta
a richiamarti nei miei versi, ed è pur vero
che la tua non spiega nulla, ma promette molto. *
 
 
*p.t. = praemisso titulo. Formula usata soprattutto in Austria davanti a nomi specialmente collettivi di persone (es. 'pubblico') delle quali non si è in grado di specificare il titolo. L'uso qui è chiaramente ironico.

Poiché in tedesco gli aggettivi in posizione predicativa non si accordano, non è dato sapere il genere della persona a cui si rivolge questo sonetto.  Ho seguito la consuetudine e ho optato per il maschile. Ma non è detto.

Qui, cliccando su ‘Übersetzungen: englisch’ una versione inglese – molto libera, di fatto una riscrittura – fornita dall’autrice stessa. Si può anche sentire la lettura del testo originale dalla voce di Ann Cotten. (NdT)

Da un esame sommario del materiale, non abbondantissimo, che si può trovare in rete su Ann Cotten e in particolare sui Fremdwörterbuchsonette, emerge una divisione abbastanza netta fra le valutazioni tiepide o benevolmente paternalistiche da parte della stampa ufficiale (FAZ, Die Zeit) e l’entusiasmo dei giovani intellettuali e soprattutto della scena dei poetry slam. Ciò che l’ufficialità eccepisce o comunque sottolinea è una mancanza di serietà. Dei Sonetti viene rilevato il carattere di gioco – gioco con le costrizioni della forma fissa, gioco delle libere associazioni a partire dalla trovata stravagante delle parole straniere. I più benevoli avanzano paragoni poetici: la tenda del circo, gli acrobati, la danza su un puro ritmo. Una venticinquenne Ann Cotten, un po’ impacciata ancorché si subodori il carattere deciso (qui una breve conversazione, con lettura dei sonetti 63 e 69), non nega e anzi rincara: a proposito del progetto complessivo – dunque non solo la forma fissa del sonetto, ma l’intera costruzione della raccolta – parla di Denkmaschine: macchina per pensare, come se da un pensiero spontaneo, diciamo libero, non ci si potesse più aspettare gran che (libero e spontaneo – specifichiamo a scanso di equivoci – nel senso di ‘naturale’; ma l’artificio, il “corsetto del sonetto” o di altro dispositivo, è del tutto estraneo a supposti interessi collettivi). Viene svelato anche l’arcano dei Fremdwōrter, delle parole straniere – bizzarra fonte di ispirazione dalla connotazione iperculturale e vagamente pedante. Il motivo, viene spiegato nella breve conversazione, è che le parole straniere sono un po’ come corpi estranei nella lingua, non sono cariche di associazioni come le altre, le quali altre proprio per questo appaiono usurate e inservibili. Le parole straniere sono precisamente una sfida a cercare associazioni impensate – impensate perché a nessuno verrebbe in mente di cercarne, ad esempio, a ‘lossodromico’ (che è il primo lemma della raccolta), e in generale a termini, come si diceva nell’introduzione, sostanzialmente scientifici o tecnici. Una sfida a trovare associazioni e approdare così a sentieri imbattuti della lingua-mente. Dove mi porta salpare da una parola, il cui significato devo spesso cercare o controllare sul dizionario? Da quali nuove angolature mi mostra le cose? Cosa mi dice, eventualmente, di me e dell’altro? È chiaro che questo tipo di approccio presuppone la subordinazione del soggetto immaginante a una rete di immaginari che esiste e si sviluppa in modo indipendente dall’individuo; la stessa subordinazione o, se si vuole, cambio di prospettiva, che nei sonetti di Cotten sposta il focus della visione dal soggetto e dal fatto a circostanze concomitanti, a derive, tipiche Cotten, in cui la parola (es. il solco del disco in An Induktion To The Blues) prende corpo e ingigantisce la sua essenza metaforica fino a inglobare la realtà del soggetto: “Rigata ancora di spavento / mi trascinai al bordo di quel solco”; o Estensione, Estasi, dove ai polmoni viene chiesto, per corrispondere alla richiesta di estasi, di respirare acqua lucente. L’immaginario di Ann Cotten è la metaforicità della lingua, presa sul serio e indagata in spazi non ancora logorati dall’uso. È questo che i recensenti ufficiali chiamano ‘gioco’, magari sotto la tenda poetica del circo, e che scatena invece l’entusiasmo del pubblico dei poetry slam. Sicuramente una parte di gioco c’è, ma è un gioco serio perché individua la potenza del linguaggio e del suo immaginario, e il dominio che esso esercita su soggetti che l’abbaglio di una certa tradizione vorrebbe continuare a rappresentarci come istanze di giudizio indipendente.

La Ann Cotten dei Sonetti è una poetessa venticinquenne: molto giovane benché provvista di rimarchevole autocoscienza. Nei prossimi post vorrei seguire il suo sviluppo.

Ann Cotten, Fremdwörterbuchsonette, Suhrkamp 2007

Su dialetto/lingua

https://www.raiplayradio.it/audio/2019/09/quotLa-parola-che-vienequot—-Incontro-con-Giorgio-Agamben–63345dbc-9e1c-4a10-93aa-9a5cc1d38596.html?fbclid=IwAR1Il_wMGWfVq-AvpdOYYlS0tcWFI7PA6krmU5G6vUZsKpsoEfIxvnO7w6g

di Ennio Abate

Mi sono imbattuto per caso in questa intervista del 2019 di Cimatti ad Agamben su un tema – quello del rapporto tra dialetto e lingua (italiana) – che ha complesse implicazioni psichiche ma anche storiche e politiche. Il discorso di Agamben

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Da “Appunti precolombiani”

di Guido Galdini

 per giorni e giorni d’assedio la città
 era vissuta immersa nel frastuono,
 tamburi, strepiti, trombe di conchiglie,
 urla e lamenti di chi, per combattere,
 non aveva altre armi oltre alla voce 
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Il Tonto e la NNL (ovvero Nuova Norma Linguistica)

 

Dialogando con il Tonto (20)

 

di Giulio Toffoli

“Pensavo di essere una specie di cavia utile per la ricerca scientifica – mi dice il Tonto, seduto al solito posto al bar in piazza con davanti l’eterna Fanta – e invece alla fine mi hanno detto che ero sano come un pesce e che forse mi conveniva mettermi a scrivere, visto che ormai lo fanno tutti, e non occupare un posto che poteva servire per aiutare chi davvero aveva un seria sofferenza di mente …”.
“Insomma la permanenza alla Poliambulanza ti è servita. Hai scoperto di essere sano e di essere semplicemente un vulcano di fantasie più o meno vaneggianti …”. Continua la lettura di Il Tonto e la NNL (ovvero Nuova Norma Linguistica)

Allegria

ammoniti

 

di Franci La Media



Né io né nessuno sa niente dello sfondo in cui colloco queste poesie. Congiungere il pieno della vita col vuoto della morte (qualcuno dice invece: scambiare l’apparenza del pieno con la sostanza del vuoto) non è niente di individuabile, sono incursioni in ciò che non esiste. E’ un discorso sterminato, e un giardino chiuso. Dal bordo slabbrato dell’esistenza sporgersi in niente che la sostiene.
Ennio Abate mi ha gentilmente fatto sapere che per alcuni queste poesie sono risultate di difficile lettura, forse persino intenzionale. Forse è soprattutto un discorso superfluo. Per renderlo più accettabile ho posto dei titoli ai testi, e scrivo questa breve introduzione a un discorso forse impossibile.
Siamo un riflesso nel vivo contrasto di una corrente tra senso e fine, portati come specchietti di luce cangiante, e ne conosciamo l’incanto. Parlare, stringi stringi, è lodare, e corpo e vita sono parole che la lingua ha raccolto e collocato in un discorso più ampio, che dice anche “dio” e “speranza”. Uso parole che tutti conoscono, senza interrompere i legami che le collegano da millenni.
E’ un discorso del precipizio, sul confine di quello che sempre svanisce, ed è un discorso che cerca un modo per fermare ciò che sfugge e si trasforma. Per fissare il movimento nel suo più piccolo articolarsi, un quasi nulla, la sostanza del passaggio, e il suo definitivo ri-comparire. Dentro questo naturale confine la lingua ricama veri fantasmi.[FLM] Continua la lettura di Allegria

Celan e la poesia in tempi di lotta politica bloccata

          paul-celanbrecht-a

di Ennio Abate
La questione del rapporto tra poesia e realtà (o storia, o politica) riaffiora in modi più o meno carsici nelle nostre discussioni: in quella della redazione di “Poliscritture” che ha riguardato alcune poesie sulla guerra per il n. 12 della rivista (e che appena possibile pubblicheremo), nel mio saggio su La Poesia secondo Gianmario Lucini, in miei precedenti ( e numerosi, fin troppo per alcuni) commenti e post dai tempi del «Laboratorio Moltinpoesia»; e più indirettamente anche in alcuni commenti di Luciano Aguzzi.
Per approfondirla, faccio riferimento al post “Su Paul Celan” di Salzarulo  e ai successivi commenti e rileggo più attentamente il saggio di Zanzotto su Celan da me segnalato qui. Lo faccio – lo dico subito – mettendomi dal punto di vista  di un ipotetico io/noi politico.

«Perché quella di Celan è una via probabilmente impercorribile e inimitabile» ma di questi tempi ancora abbastanza affascinante? [1] Risponderei: perché la storia ci ha trascinato, sì, “altrove” rispetto ai tempi del nazismo che Celan dovette affrontare, ma questo nostro “altrove”, che stentiamo a comprendere, sembra avere una continuità (ma molto più complessa) con quei tempi. Continua la lettura di Celan e la poesia in tempi di lotta politica bloccata