Prontuario tascabile di letteratura francese (1)
di Elena Grammann
Inizio con questo una serie di articoli su temi di letteratura francese. Darò qualche informazione generale ma gli articoli verteranno piuttosto su particolari che mi abbiano colpito, senza pretese di novità o originalità. L’unica sistematicità – a posteriori – sarà di ordine alfabetico. Inizio con la lettera L.
LETTERA L
LABÉ, LOUISE
La poesia francese moderna nasce nel Cinquecento con un’esplosione di canzonieri di ispirazione petrarchesca – in onore di Olive, Marie, Cassandre, Délie, Francine, Hélène … –, i cui temi variano dall’esaltazione della belle inhumaine, al lamento sulla pena dolce-amara del desiderio inappagato, alla constatazione dell’irrinunciabilità del sentimento amoroso nonostante tutte le sofferenze. Porta di ingresso del petrarchismo in Francia è Lione. Città fiorente e tradizionalmente aperta, per situazione geografica e vocazione commerciale, alle influenze italiane, Lione è in questa prima metà del secolo la seconda capitale del regno e rivaleggia con Parigi per ricchezza, eleganza, cultura. Clément Marot, l’ultimo grande della tradizione tardo-gotica, la celebra, e la nuova poesia vi fiorisce con tale vivacità da indurre qualche critico a parlare, seppure impropriamente, di una “scuola lionese”. Dei tre maggiori poeti lionesi – Maurice Scève, Pernette du Guillet, Louise Labé – due sono donne. Scelgo Labé, e un suo unico sonetto – non voglio annoiare – per indagare come un paradigma poetico-amoroso in certo modo fisso si adatti a un ribaltamento dei ruoli: al caso in cui l’amante/desiderante sia donna e l’amato/desiderato uomo.
Di Louise Labé, detta la Belle Cordière, la Bella Cordaia, dal mestiere del padre e poi del marito (ma non si pensi a piccoli artigiani: Labé appartiene alla borghesia ricca di Lione), non si sa molto: nasce a Lione prima del 1524, nel 1555 pubblica le sue Oeuvres, di cui esce una seconda edizione l’anno seguente. Esse comprendono tre elegie, ventiquattro sonetti e una breve opera in prosa: la Disputa di Amore e Follia – il tutto preceduto da un’epistola dedicatoria all’amica letterata Clémence de Bourges che suona come un pacato ma deciso appello alla riscossa femminile per la conquista di uno spazio nella Repubblica delle Lettere. Dopo questo primo volume Louise non pubblica né, apparentemente, scrive più nulla fino alla morte sopravvenuta undici anni dopo. Di lei sappiamo quello che ci dice nelle Elegie: che sapeva magistralmente suonare il liuto e ricamare e che era esperta nell’uso delle armi. Louise ha dunque ricevuto un’educazione rinascimentale nel senso completo, rablesiano: un’educazione che cura ed apprezza in egual misura spirito e corpo. Questo suo maneggiar le armi poi – sicuramente inusuale per una donna, anche in un luogo e in un’epoca di particolare libertà come la Lione della prima metà del XVI secolo – indica un desiderio di superare, oltre all’opposizione medievale di spirito e corpo, anche quella, ben più antica e radicata, di ruolo maschile e ruolo femminile. Desiderio ribadito a chiare lettere nella citata dedica a Clémence de Bourges, in cui Labé rivendica per le donne la pratica della scrittura e la produzione di cultura. Perché, spiega Louise, “il piacere dei sentimenti si perde subito […] e, ancor più, le altre voluttà sono tali che, per quanto ne conserviamo il ricordo, esso non può rimetterci nello stato d’animo in cui eravamo […] ma quando avviene che mettiamo per iscritto le nostre esperienze, benché poi la mente corra attraverso un’infinità di questioni e continuamente sia in movimento, se tuttavia, anche molto tempo dopo, riprendiamo i nostri scritti, ci ritroveremo nello stesso punto e nella stessa disposizione d’animo in cui eravamo.”[1] Scrittura come mezzo per conservare l’identità personale: solo la scrittura, fra tutti gli “svaghi”, ha questo potere, poiché degli altri, osserva Louise, “quando se ne sarà preso quanto si vorrà non ci si potrà vantare d’altro che di aver passato il tempo”[2]. Lo “svago” della scrittura ha potere precisamente contro il tempo – e questo in senso strettamente biografico, esistenziale: come conservazione dell’io nelle sue successive manifestazioni. Aggiungiamo solo, a completamento delle informazioni biografiche, che a Louise toccò l’onore di essere definita da Giovanni Calvino, tuonante dalla repubblica teocratica di Ginevra, “plebeia meretrix”, dove non si capisce se l’insulto maggiore sia ‘plebeia’ o ‘meretrix’, ma che la dice lunga su come i germogli rinascimentali di libertà siano destinati a subire una durevole gelata in seguito alla riforma protestante da una parte e alla conseguente rimoralizzazione controriformistica del cattolicesimo dall’altra[3]. Ma andiamo al sonetto, il XIX del suo canzoniere[4]:
Diana, mentr’era in una spessa selva e molte belve già aveva atterrate, prendeva il fresco, e Ninfe avea d’attorno. Io andavo pensierosa e non badavo dove mi andassi, quando udii una voce che mi chiamava: O tu, Ninfa stordita, perché non volgi i passi verso Diana? E non vedendo arco né faretra: Che hai trovato, compagna, sulla via, che di arco e di frecce ti ha privata? Mi animai, risposi, ad un passante; contro lui le mie frecce invano volsi e l’arco appresso – ma ferite tante fece in me quello quando li raccolse. Diane étant en l’épaisseur d’un bois, Après avoir mainte bête assénée, Prenait le frais, de Nymphes couronnée. J’allais rêvant, comme fais mainte fois, Sans y penser, quand j’ouïs une voix Qui m’appela, disant : Nymphe étonnée, Que ne t’es-tu vers Diane tournée ? Et, me voyant sans arc et sans carquois : Qu’as-tu trouvé, ô compagne, en ta voie, Qui de ton arc et flèches ait fait proie ? Je m’animai, réponds-je, à un passant, Et lui jetai en vain toutes mes flèches Et l’arc après ; mais lui, les ramassant Et les tirant, me fit cent et cent brèches.
L’incontro dell’io lirico in carne ed ossa, se così si può dire, con una Ninfa del corteggio di Diana e in certo modo con Diana stessa, senza che nulla lo connoti come evento straordinario o stupefacente, ma al contrario come se esso facesse parte della comune fenomenologia dell’esistenza amorosa, pervade il sonetto di un’atmosfera particolare, sospesa fra reale e irreale, fra letterale e metaforico, di singolare fascino. La mitologia, qui, non è ornamento ma sostanza. Il componimento si apre sul quadretto, in sé per nulla originale, di Diana che riposa dalla caccia nella calura meridiana. Attorno a lei sono le ninfe armate di arco e frecce e il mucchio delle belve uccise – ma il participio passato assénées è molto più espressivo: asséner significa, come nota Du Bellay nella Défense et illustration, “colpire dove si mirava, e propriamente con un colpo della mano”. Diana e le sue ninfe rappresentano la femminilità trionfante in quanto indifferente o espressamente ostile all’interesse maschile. Come femminilità trionfante essa si appropria della principale prerogativa maschile: l’esercizio della violenza nella figura delle armi e della caccia. L’io innamorato che, solo e pensoso, va cercando i più deserti campi, irrompe senza accorgersene in questo quadretto silvano. Ed essendo questo io amoroso di sesso femminile, una ninfa di Diana la scambia del tutto naturalmente per una di loro. Qualcosa però la colpisce nell’aspetto di questa sua sorella: la ninfa sconosciuta ha l’aria stranamente sbigottita. Notiamo anche qui che il participio passato e aggettivo étonné mantiene per tutto il XVI secolo un significato assai più forte e più vicino al suo etimo di quello moderno: étonné significa ancora per Labé ‘folgorato’, ‘fulminato’, ‘instupidito’.
Anziché colpire, dunque, la donna è stata colpita e vaga attonita per la foresta, immemore perfino della sua appartenenza a Diana. La ninfa silvana nota a questo punto un fatto sconcertante, scandaloso: la sconosciuta non porta né arco né frecce, ha perduto le armi. Questo particolare, che in un paradigma maschile indicherebbe l’angoscia di castrazione, risulta altrettanto scioccante dal punto di vista della femminilità trionfante, che è quello di Diana e della sua corte. Non uomo e non donna armata, la sconosciuta è soltanto più una preda: vv. 9-10, lett. “Che hai trovato, compagna, sulla via, / che del tuo arco e frecce ha fatto preda?” La risposta della compagna “attonita”, che occupa gli ultimi quattro versi del sonetto, testimonia del ribaltamento dei ruoli e dello smarrimento che ne deriva: la donna ha sì, come da paradigma amoroso, scagliato i suoi dardi; ma questi non si sono infitti nel bersaglio, non lo hanno neppure scalfito; sicché ora lui, il destinatario, raccogliendoli intatti fa scempio della sfortunata cacciatrice. Il capovolgimento dello schema tradizionale è all’origine dello sbigottimento dell’io femminile che, perduta la collocazione propria al suo genere e trovandosi donna-poeta, trovandosi cioè a mettere in parole, secondo uno schema divenuto inadatto, la pena dell’amore inappagato, vaga in quell’assenza di punti di riferimento che è la selva.
Questo diventa ancora più evidente se al componimento di Labé si accosta il sonetto XXI da L’Olive di Du Bellay[5]:
Fronzute selve e molli erbose rive non ammiran la stessa Diana tanto, se il caldo, in mezzo al suo corteggio santo, lasciar le fa le belve fuggitive, quanto le tue bellezze, onde tu privi l’altre d’onori, e invidia accendi alquanto, poiché ogni luce spengi a te daccanto con il chiaror delle tue stelle vive. Dalle spesse foreste i semidei e le ninfe dei boschi, sbigottiti, a mirarti si affaccian di fra i tronchi, e le figlie di Loira, affinché a lei eternità procaccin, contro i lidi di riecheggiar tue lodi non son stanche. Les bois fueilleuz et les herbeuses rives N’admirent tant parmy sa troupe saincte Dyane, alors que le chault l’a contrainte De pardonner aux bestes fugitives, Que tes beautez, dont les autres tu prives De leurs honneurs, non sans envie mainte, Veu que tu rends toute lumiere etainte Par la clarté de deux etoiles vives. Les demydieux et les nymphes des bois Par l’epesseur des forestz chevelues Te regardant, s’etonnent maintesfois, Et pour à Loire eternité donner, Contre leurs bords ses filles impolues Font ton hault bruit sans cesse resonner.
Parrebbe a prima vista che i due sonetti non abbiano gran che in comune, a parte il luogo della selva, il quadretto di Diana che riposa nella frescura del bosco in mezzo alle sue ninfe, dimentica per un momento della caccia, e il verbo étonner, s’étonner: sbigottire, sbigottirsi.
Tuttavia essi sono, in un certo senso, speculari. Nel sonetto di Du Bellay la donna – nel ruolo poeticamente convenzionale di amata, oggetto del sentimento amoroso e della lirica – possiede a tal punto l’identità con la dea da essere più Diana di Diana stessa: sicché ora a sbigottire non è lei, bensì le ninfe e le altre divinità silvane di fronte a una che è più santa – più integra e intatta nella sua identità – di Diana. Nel sonetto di Labé al contrario la donna – nel ruolo non convenzionale di amante, soggetto del sentimento amoroso e della lirica – ha perso la sua appartenenza alla dea, il modello con cui identificarsi e quindi la propria identità e integrità: essa vaga, attonita, in una selva in cui non c’è luogo per lei.
Appendice. Altri sonetti dal canzoniere di Labé
II Begli occhi bruni, o sguardi allontanati, Caldi sospiri e lacrime versate, O nere notti vanamente attese, Giorni splendenti invano ritornati! O tristi pianti, o brame ostinate, Tempo perduto, pene sperperate, O mille morti in mille lacci tesi, Mali peggiori a me predestinati! O riso, chioma, braccia, mani e dita! Liuto piangente, viola, archetto e voce! Per ardere una femmina, che faci! Di te mi dolgo, che con tanti fuochi In tanta parte il cuore mio saggiando Non sia su te volata alcuna brace. Ô beaux yeux bruns, ô regards détournés, Ô chauds soupirs, ô larmes épandues, Ô noires nuits vainement attendues, Ô jours luisants vainement retournés ! Ô tristes plaints, ô désirs obstinés, Ô temps perdu, ô peines dépendues, Ô mille morts en mille rets tendues, Ô pires maux contre moi destinés ! Ô ris, ô front, cheveux, bras, mains et doigts ! Ô luth plaintif, viole, archet et voix ! Tant de flambeaux pour ardre une femelle ! De toi me plains, que tant de feu portant, En tant d’endroits d’iceux mon cœur tâtant, N’en est sur toi volé quelque étincelle. V Venere chiara che percorri i cieli, Ascolta la mia voce che si duole, Fintanto che il tuo volto in alto luce, Di sua lunga fatica e duro male. Il mio occhio che veglia più s’accora, Più lacrime vedendoti distilla, Meglio di pianto bagna il letto molle Se il mio affanno tu contempli ancora. Or dunque son gli spirti dei mortali Presi di sonno e di dolce riposo. Io soffro male fin che il sole splende: E quando sono ormai tutta spezzata, E nel letto mi metto consumata, Tutta la notte grido il mio gran male. Claire Vénus, qui erres par les Cieux, Entends ma voix qui en plaints chantera, Tant que ta face en haut du Ciel luira, Son long travail et souci ennuyeux. Mon œil veillant s’attendrira bien mieux, Et plus de pleurs te voyant jettera, Mieux mon lit mol de larmes baignera, De ses travaux voyant témoins tes yeux. Donc des humains sont les lassés esprits De doux repos et de sommeils épris. J’endure mal tant que le soleil luit ; Et quand je suis quasi toute cassée, Et que me suis mise en mon lit lassée, Crier me faut mon mal toute la nuit.
IX Non appena incomincio a prendere Dentro il letto il riposo a cui anelo, L’anima triste fuor di me esiliata Incontinente verso te si muove. Mi pare allor che dentro al petto tenga Il bene al quale ho tanto aspirato, Per cui alti sospiri mi hanno franta E lacerata quasi di singhiozzi. O dolce sonno, o notte a me propizia! Tranquillità in cui bagna il mio riposo! Continuate ogni notte questo sogno: E se la pover’anima amorosa Giammai non deve avere bene vero, Fate almeno che l’abbia menzognero. Tout aussitôt que je commence a prendre Dans le mol lit le repos désiré, Mon triste esprit, hors de moi retiré, S’en va vers toi incontinent se rendre. Lors m’est avis que dedans mon sein tendre Je tiens le bien où j’ai tant aspiré, Et pour lequel j’ai si haut soupiré Que de sanglots ai souvent cuidé fendre. Ô doux sommeil, ô nuit à moi heureuse ! Plaisant repos , plein de tranquillité, Continuez toutes les nuits mon songe ; Et si jamais ma pauvre âme amoureuse Ne doit avoir de bien en vérité, Faites au moins qu’elle en ait en mensonge.
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[1] Louise Labé, Oeuvres poétiques. Edition de F. Charpentier, Gallimard 1983, p. 94 s. Il sonetto citato segue questa edizione; la traduzione, come pure quella degli altri sonetti di Labé in appendice e di quello di Du Bellay, è mia. L’edizione italiana più recente del Canzoniere di Labé è quella presentata dagli Oscar Mondatori nel 2000.
[2] Ibid.
[3] Pare che a far infuriare Calvino fosse proprio l’esercizio sportivo delle arti marziali da parte di Labé e la conseguente pratica di vestire abiti maschili (quest’ultima pratica fra i capi d’accusa che nel secolo precedente portarono al rogo Giovanna D’Arco). Non sfugge l’analogia con i talebani attuali e si impone l’osservazione che l’integralismo cristiano non differisce in nulla dall’integralismo islamico.
[4] Labé utilizza ancora il tradizionale decasillabo, mentre Du Bellay, dal cui canzoniere L’Olive è tratto il sonetto seguente, è già passato all’alessandrino.
[5] J. Du Bellay, L’Olive. Texte établi par E. Caldarini, Genève : Droz 1974, p.76