alcune riflessioni su RING LARDNER
di Angelo Australi
L’autenticità di uno scrittore la intuisci dal bisogno di raccontare un mondo, piccolo o grande che sia. La sua originalità si avverte in una sorta di resistenza alla curiosità di trovare gli argomenti razzolando negli stereotipi di un chiacchiericcio di costume culturale imposto dai media. È una modestia di fondo, che va oltre il vestito da mettersi ogni giorno nel convivere con gli altri, e che si esalta nel ritmo, in un diverso punto di vista nel raccontare le storie. Non è mai facile trovarlo questo mondo, ma se ci si riesce allora tutto cambia, lì c’è il peso specifico dell’inchiostro sulla pagina, quel qualcosa in più che ne fa dei maestri. Non è importante che la trama abbia lo sviluppo del romanzo oppure del racconto, è il carattere della scrittura che colpisce, che risolve lo stile, determina la sua originalità.
Anche se Ring Lardner ha sempre dichiarato di ritenersi un giornalista, credo abbia queste qualità. Non ha mai scritto un romanzo, solo racconti, restando coerente al suo modo di scrivere per i giornali anche quando negli anni venti del Novecento con le sue short stories raggiunse il successo e critici come Edmund Wilson e Henry Louis Mencken lo collocavano tra i più grandi scrittori americani della sua generazione, al pari di Hemingway, Fitzgerald, Faulkner. Nonostante i riconoscimenti della critica e la stima di scrittori come Sherwood Anderson o Francis Scott Fitzgerald, in realtà Lardner non riusciva a gestire il disagio che questo ruolo gli creava intimamente. Era stato proprio Fitzgerald a segnalare il suo nome a Maxwell Perckins della Scribner’s (uno dei principali editors allora in circolazione), il suo interesse era quello di stimolarlo a tirar fuori un romanzo, cosa che Lardner si rifiuterà sempre di fare. Anche lui come Fitzgerald era un forte bevitore, strinsero un’amicizia al tempo in cui abitavano a Long Island, dove si era trasferito dal Connecticut; la leggenda vuole che la villa di Gatbsy somigliasse alla sua casa, e che fosse lui ad ispirargli nel romanzo Tenera è la notte il personaggio del musicista Abe North che, nonostante il raggiunto successo, non riesce ad incontrare la maturità della sua arte e nell’insoddisfazione si mette a viaggiare per l’Europa bevendo fiumi di whisky, per poi finire ammazzato a New York. Insomma, tutti si aspettavano da lui un ulteriore passo di maturazione con la scrittura di un romanzo, cosa che non stava affatto nelle sue corde. Quanto e come Ring Lardner fosse consapevole di questa scelta fino in fondo a guardarlo oggi è irrilevante, però ha resistito, non è stato al gioco, non ha accettato di mettersi in mano ad un editors per produrre una storia dal lungo respiro nella quale non si sarebbe riconosciuto. E i risultati ci sono comunque stati se Virginia Woolf e Dorothy Parker dichiaravano che lui fosse da mettere tra i giganti della letteratura statunitense, e ne Il giovane Holden (1951) J. D. Salinger fa sapere che nei gusti letterari del personaggio di Holden Caulfield, Lardner viene messo in cima alla sua personale classifica di scrittori in questi termini: “Il mio scrittore preferito è mio fratello D. B., e subito dopo viene Ring Lardner. Mio fratello per il mio compleanno mi ha regalato un libro di Ring Lardner, subito prima che io andassi a Pencey. C’erano queste storie pazze e divertenti, e c’era quella storia di quel poliziotto addetto al traffico che si innamora di una ragazza carina che corre sempre troppo in macchina. Solo che il poliziotto è sposato, così non può sposarla né niente. Alla fine la ragazza muore, perché corre troppo. Questa storia mi ha praticamente ucciso “. Quello a cui si riferisce Holden è il racconto There are smiles (Ci sono sorrisi), pubblicato in Italia da Passigli in una raccolta uscita nel 2013.
Nella scrittura Lardner non divaga mai in una descrizione che caratterizzi i suoi personaggi, quello che accade, i fatti possono tranquillamente restare sullo sfondo, non essere detti. Gli basta un dialogo per farci capire all’istante che tipo di persone siano e da quale strato sociale provengano. Con lui si entra di stonfo in una scena sospesa, ricca di chiacchiere, di battute, e si pensa solo ad andare avanti nella lettura senza seguire la trama, aspettando di vedere come potrà uscire dagli stereotipi di un parlato colloquiale e sgrammaticato nel quale si è volutamente cacciato. Per capire come Lardner stia ben piantato nel fertile terreno della tradizione americana basta rifarsi a Huckleberry Finn di Mark Twain, anche qui l’elemento grammaticale della scrittura viene stravolto in nome di una più veritiera espressività dei personaggi.
Ring Lardner era nato nel Michigan, a Niles, nel 1885 (morirà nel 1933 per un attacco di cuore), a 16 anni fugge di casa, cominciando giovanissimo a fare il cronista sportivo. Scriverà di baseball, ma anche di football, di pugilato e di golf. Sarà poi il baseball a renderlo celebre, visto che al colmo della carriera la sua rubrica sportiva appariva contemporaneamente su oltre 100 testate giornalistiche distribuite su tutto il territorio degli Stati Uniti. Prima di lavorare per l’Examiner e al Chicago Tribune, aveva iniziato a scrivere i suoi articoli nella piccola cittadina di South Bend, in Indiana, allora seguiva le squadre di baseball nei lunghi periodi che giocavano in trasferta, vivendo le sue giornate a contatto con giocatori ignoranti e semianalfabeti che gli chiedevano di scrivere delle lettere alla famiglia o alla fidanzata, e nello sforzo di tradurre in un corretto inglese scolastico lo slang con il quale si esprimevano questi giocatori ha incontrato una lingua straordinariamente plasmabile e adattabile, viva, capace di condensare in sé una naturale esplosione di battute ricche di sarcasmo.
Nella prima di queste sue raccolte di racconti, You Know me al, (1916) ci sono tutte storie narrate sotto forma di lettere che il giocatore di baseball semiprofessionista Jack Keefe scrive ad un suo amico del paese, al quale racconta le avventure sportive e sentimentali che sta vivendo nelle varie città in cui si ferma a giocare. Esperienza formativa e illuminante quindi, quella nata al seguito di questi scalcinati giocatori di baseball, che si apre su quell’inesauribile miniera di linguaggi prodotti dal basso in un vissuto quotidiano articolato in classi sociali di appartenenze. Il libro è come la bottega di un artigiano piena di attrezzi, perché qui alla fine si trova già una cospicua parte degli elementi linguistici e delle trovate tecniche che daranno origine ai molteplici stili adottati nella scrittura delle short stories. A proposito di grande artigianato, ecco quello che riporta Daniele Benati nella nota a Tagliando i capelli, pubblicato da Marcos Y Marcos nel 2006, riferendosi ad una sua dichiarazione fatta a Donald Elder e inserita nella biografia dedicata allo scrittore: Non mi preoccupo molto della trama – dice Lardner. Comincio a scrivere qualcosa riguardo a qualcuno di cui credo di sapere qualcosa. […] Gli altri personaggi sembrano poi entrare in scena abbastanza naturalmente. Di rado scrivo una storia che superi una dozzina di pagine –la mia testa sembra ingranare solo su questa lunghezza. Scrivo di niente per una decina di pagine – ardua cosa da fare. Poi arrivo a un punto in cui mi dico: Qua devo tirarci fuori una battuta. Mi fermo fino a che non ho trovato la battuta e poi me ne vado a gonfie vele fino alla fine.
L’anno successivo, il 1917, pubblica Gullible’s Travels (I viaggi Gullible, pubblicato in Italia da Elliot nel 2015). Si tratta del lungo viaggio di una tipica coppia piccolo borghese che sogna di superare i limiti del proprio status sociale. Seguono Treat ‘em rough del 1918, e The real dope del 1919, dove ricompare il giocatore di baseball Jack Keefe che questa volta racconta le sue esperienze vissute all’estero. Sempre nel 1919 esce Own your own home, e qui chi scrive le lettere al fratello è il poliziotto Fred Cross, grasso e grande bevitore di birra. La raccolta di racconti The young immigrunts del 1920 è invece basata sul viaggio fatto da Ring Lardner con la famiglia a New York dove aveva trovato lavoro, e le vicende sono narrate in prima persona dal piccolo figlio di 4 anni. The big Town, (La grande Mela) del 1921, dove a raccontarci queste storie è un uomo di nome Finch, che con moglie e cognata sta viaggiando verso New York nel tentativo di sbarazzarsi della sorella della moglie trovandole un ricco marito.
Nei suoi racconti la gente parla di se stessa, sembra non curarsi di chi le sta attorno, finendo così per creare una sorta di umorismo involontario…, come scrive Daniele Benati, sempre nella sua nota a Tagliando i capelli: … grazie anche ad un impasto linguistico piuttosto originale certamente antiletterario, ma al tempo stesso stilisticamente sofisticato, che si rende visibile in un efficace miscuglio di parole improprie, slang, concordanze sbagliate fra soggetti e forme verbali, errori ortografici e di pronuncia, ed effetti retorici che tradiscono l’estrazione sociale dei vari personaggi.
Tornando a quello “scrivere di niente” di cui parlava Lardner nella citata biografia di Donald Elder, si può prendere ad esempio proprio Haircut, uno dei suoi racconti più noti (esistono due traduzioni in italiano, come già accennato una di Daniele Benati, Marcos y Marcos 2006, l’altra di Alberto Schiavone, nella raccolta Piove a Cincinnati, Barbés Editore 2009), qui il personaggio principale è un barbiere che in un punto delle sue chiacchiere fatte al cliente a cui sta tagliando i capelli, dice che non lo disturba affatto fare la barba ai morti per prepararli al funerale, … solo che con i morti non si ha voglia di parlare, e ci si sente soli. Il racconto anche se stupendo di per sé non fa ridere, perché il barbiere parla di un certo Jim Kendall, un bullo che fa il rappresentante di scarpe, sornione e sempre in vena di battute, di scherzi, capace di sbarcare il lunario raggirando il mondo con mille imbrogli, che però finirà ucciso da un colpo di fucile. Il barbiere che tiene banco alle chiacchiere ci porta dentro un contesto naturale che sarà capitato a chissà quanti, cioè quello di star parlando di “niente” per riempire in qualche modo un vuoto. In questo banalissimo cortocircuito quotidiano c’è comunque il bisogno innato dell’uomo di sentirsi parte di qualcosa che assomigli ad un gruppo, ad una comunità, intanto che il niente racchiuso nel tempo dell’attesa scorra via e scompaia dallo sfondo di questo disagio la paura del nulla. È un po’ come cercare un valore nell’insignificante peso specifico dell’inchiostro che fa la qualità della scrittura, ma che quasi più nessuno è interessato a determinare.
BREVE NOTA
Lo stimolo a scrivere su Ring Lardner mi è stato dato dal fatto che in una delle nostre serate estive, dovendo discutere con il nostro gruppo lettura sul libro La grande mela di Ring Lardner, alcuni iscritti lo hanno richiesto in biblioteca e si sono sentiti rispondere che il circuito bibliotecario dell’area metropolitana della città di Firenze era sprovvisto del volume. Niente di strano se si fosse trattato di una biblioteca, ma l’area metropolitana Città di Firenze è composta da ben 41 comuni, e chissà da quante, … biblioteche. Ecco come va la vita, ormai parlare di letteratura non interessa più a nessuno. Comunque, che io sappia, di Ring Lardner tradotti nella nostra lingua ci sono ben 7 libri: Tagliando i Capelli, Marcos y Marcos 2006, nella traduzione di Daniele Benati; Piove a Cinccinnati, Barbés Editore, 2009, nella traduzione di Alberto Schiavone; Prima di sposarti ero molto più in forma, Mattioli 1885, uscito nel 2011con la traduzione di Cecilia Mutti; La grande mela, Mattioli 1885, uscito nel 2013 con la traduzione di Michele Vaccari; Armonia, Il Lama Editore 2013, con la traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi; I viaggi di Gullible, Elliot 2015, con la traduzione di Federica Alba; Ci sono Sorrisi, Passigli Editori, 2015, nella traduzione di Luca Merlini. Buona lettura A. A.